Fine della pacchia

di Paolo Repetto, 23 agosto 2025

E tuttavia …. Devo tornare su Berselli e sulle “giovani promesse”. In Doppiozero trovo una recensione al suo libro appena riedito, scritta da Alessandro Banda. S’intitola Venerati stronzi. La leggo, mi piace, vado a cercare altri pezzi dello stesso autore. Una rivelazione.

Comincio da Il mio mercatino di Natale, sui mercati natalizi di recentissima e tutta inventata “tradizione”, come le sagre paesane estive. In questo caso si parla del mercatino meranese, frequentato anche da alcuni miei conoscenti quando non hanno la voglia o la benzina per arrivare fino a Salisburgo o addirittura a Danzica. Banda non ha bisogno di insaporire l’evento, è già abbastanza sapido di per sé: “Baracche, baracchette e baraccone lignee si disponevano ai due lati del Corso suddetto in una teoria pressoché infinita. Ognuna di queste baracche e baracchette e baraccone vendeva determinati prodotti, natalizi e affini. Per esempio candele al profumo di speck, stecche d’incenso automatico (si accendevano da sé non appena faceva buio), alberelli di Natale in vetroresina con lucine psichedeliche intermittenti incorporate, palle di Natale fluorescenti levigatissime, angeli di marzapane e angeli di panpepato, nonché angeli di biscotto e cannella. Poi, prodotto particolarmente fortunato, simpatici colbacchi in pelo di pony avelignese, guanti foderati di pelo di pony avelignese, pantofole di feltro, rivestite di pelo di pony avelignese, nonché sciarpe e scialli in pelo di pony (avelignese).

Erano tutti prodotti tipici meridianesi, che, come tutti i prodotti tipici di tutti i posti del mondo (tranne Hong Kong e Taiwan) venivano direttamente da Hong Kong e Taiwan. (A Hong Kong e Taiwan non perdono tempo con i loro propri prodotti tipici, occupati come sono a produrre quelli degli altri)”.

In effetti la ratio dei mercati di Natale (se di una ratio si può parlare) è esattamente all’opposto di quella che spinge a frequentare i mercatini dell’usato. Non è la speranza di imbattersi in qualcosa che avvii una personalissima “recherche”, o di rinvenire un oggetto (nel mio caso, naturalmente, un libro) del quale magari si ignorava l’esistenza o che si considerava ormai irreperibile, e che improvvisamente ci accorgiamo di aver sempre desiderato: è piuttosto l’adempimento dell’ennesimo rituale consumistico che si è sovrapposto ai vecchi rituali religiosi, una pratica che dà punteggio nella graduatoria “main stream”, e tanto più quanto più esotico. È insomma la voglia di poter dire: “ci sono stato anch’io”.

Trovo poi la segnalazione di un libro che parla dei trecento del battaglione sacro di Tebe (Eran trecento giovani e forti). Non solo mi era sfuggito il libro, ma avevo anche dimenticato il battaglione. Non lo avevo inserito nella rassegna di Trecento che ho postato pochi mesi fa. Il battaglione tebano era una formazione militare particolare, centocinquanta coppie di amanti (naturalmente omo, ma siamo nella Grecia classica, parliamo di rapporti di una natura completamente diversa).

Banda qui cita Plutarco: “Nessun amante tollererebbe di mostrarsi codardo di fronte al proprio amato, ed è esattamente per questo che un battaglione, composto da uomini reciprocamente legati da vincoli di passione, diventa invincibile e incrollabile”. Potrebbe essere un’idea per il nuovo esercito europeo. Tra l’altro, il lungimirante Epaminonda spostò il peso dell’attacco di quella formazione dalla tradizionale ala destra a quella sinistra, e questo gli consentì di confondere gli spartani a Mantinea e di sconfiggerli. Una sinistra combattente. Altro che battaglione Azov!

Sempre più piacevolmente incuriosito risalgo un po’ indietro, e leggo in successione un bel pezzo su Lucrezio (Lucrezio apocalittico), uno su Nicola Chiaromonte, uno su Saviane (Sergio Saviane e l’invenzione del mezzobusto). Le consonanze si moltiplicano.

Ma il bello deve ancora venire. Alessandro Banda ha in cantiere un libretto sull’arte di camminare in città, che dovrebbe titolarsi Il camminante malinconico e raccogliere una serie di considerazioni postate con cadenza settimanale. “Io non ho intenzione di occuparmi di camminate e camminatori in luoghi paradisiaci. No, per niente. A rigore non mi occuperò nemmeno di camminatori. È del camminante che parlerò… io intendo il camminante come uno che cammina in situazioni reali. Consuete. Quotidiane. Cittadine.

E qui si entra direttamente nel nostro campo.

Da dove inizia Banda? Alla grande: va dritto al problema, al rapporto tra il camminante e le merde dei cani (La schiavitù canina), cui succede quello tra il camminante e i padroni dei cani (La celeberrima passeggiata Tappeiner); per poi tornare indietro a Rousseau e a Walser (Il patrono dei camminanti) e rimbalzare nell’oggi con L’invasione degli ultraveicoli, la Metafisica del Suv e Crisi e biciclette.

Trovo tutti questi quadretti pienamente condivisibili, e penso dovrebbero esserlo anche da parte dei più sedentari. In realtà, immagino che con essi Banda si sia fatto un sacco di nemici, che lo tempesteranno di tweet indignati: un po’ perché l’ironia non abita più i nostri lidi, un po’ perché la verità è costretta da sempre a navigare controcorrente; ma soprattutto perché nella “swipe era”, o sfera dei social media, a provare irrefrenabile l’imperativo di esprimersi sono gli imbecilli. Comunque, mi scuso subito: ho usato la locuzione “padroni dei cani”, che non è più considerata corretta. Avrei dovuto sostituirla con pet mate, compagni dei cani, a sottolineare il rapporto di amicizia e rispetto tra umani e animali. Questo tra l’altro spiega perché gli ex-padroni tendano a declinare, contestualmente alla proprietà, anche la responsabilità di rimuovere le deiezioni dei loro compagni. Speriamo non arrivino a volerne condividere anche l’interpretazione fecale della libertà.

Ragazzi, quanto bisogno avremmo non di uno, ma di mille Berselli!

Nel corso di questa divertente scorribanda, che viaggia tutta fuori dagli schemi del “politicamente corretto”, mi imbatto infine in interventi sparsi lungo una decina d’anni, che mi aggiornano sullo stato della scuola da quando l’ho lasciata. Avevo deciso di non tornare su questo argomento, non mi ci riconosco più: può sembrare strano per uno che per la scuola e nella scuola ha vissuto sessant’anni, ma la vedo ormai da una distanza siderale. Eppure, appena vi si fa cenno, e non per la solita manfrina celebrativa dell’inizio e della fine dell’anno scolastico, con tanto di interviste alle madri appena scese dal suv, qualcosa continua a scattare. E allora, qualche riflessione non guasta.

Su moltissime delle cose di cui Banda parla, prima tra tutte l’insensatezza dell’esame di maturità, concordo perfettamente.

Scrive: “La prima maturità classica fu superata dal cinquantanove per cento dei candidati. Il governo fascista corse allora ai ripari. Negli anni a seguire l’esame fu, more italico, annacquato e edulcorato. […] È da molti anni che i promossi superano il 99 per cento. Io sono contento di questi dati. Non sono un insegnante che boccia. Non ho la bava alla bocca quando metto un’ insufficienza. Non ne metto quasi mai. Ma, se un esame non opera un minimo di selezione, che senso ha? […]

La maturità no. Passano regolarmente tutti. Da anni. Da decenni. In trent’anni che insegno ho visto un solo respinto. Che poi ha fatto ricorso e l’ha vinto. Quindi nessuno in trent’anni”. (Maturità: persino Franz Kafka barò all’esame, 2020)

Quest’anno a ravvivare un po’ la scena è arrivata anche la sceneggiata del “gran rifiuto” (del voto, non della promozione), a denunciare l’assenza di “empatia” da parte degli insegnanti (quella ormai la mostrano solo i cani): rifiuto che è valso agli eroici nuovi martiri di Belfiore decine di migliaia di followers, viatico per entrare nel mondo dorato degli influencer.

La penso esattamente come Banda anche riguardo le riforme che si succedono ad ogni cambio di ministro, perché tutti vogliono lasciare la loro impronta. “Di riforme autentiche, nella scuola italiana post-unitaria, ce ne sono state unicamente due: quella del 1923 e quella del 1962. La cosiddetta riforma Gentile e la riforma che introduceva la scuola media unica.

Una presentata come fascistissima, ma in realtà, come riconobbe lo stesso Gentile in parlamento, d’impianto liberale, l’altra ispirata alla stagione riformista del centro-sinistra. Queste due riforme possono piacere o non piacere. Però nessuno può negare che nascessero da idee”.

Da allora: “Le riforme della scuola non sono riforme. Sono ritocchi parziali, spesso scoordinati e raffazzonati, tendenti ad un unico fine, triplicemente modulato: tagliare, tagliare, tagliare. Ore, posti di lavoro, siano cattedre o segreterie e dirigenze”.

Altre cose invece mi lasciano perplesso: ad esempio il fatto che Banda approvasse l’introduzione dello smartphone nelle aule (il pezzo in cui ne parla risale ad otto anni fa. Ma la cosa è coerente con la sua convinzione di fondo che ogni resistenza al nuovo nella scuola non abbia senso): “Non so i colleghi (anzi lo so, ma faccio finta di non saperlo, perché a scuola si procede così), ma io lo smartphone sono almeno sette anni che lo faccio usare. Se dico una cosa e gli alunni non mi credono, aggiungo: controllate in rete. Verificate le mie affermazioni in tempo reale, secondo l’abusata espressione”. (Lo smartphone a scuola, 2017)

Sette più otto quindici. Quindici anni fa eravamo in era pre-covid, ancora non era arrivata a compimento la pervasione totalizzante dei social, ma quale sarebbe stato l’uso futuro dello smartphone era già ben chiaro (chissà cosa pensa Banda della loro proibizione, in vigore dal prossimo anno. Al di là del fatto che rimarrà lettera morta). Non credo che oggi i suoi allievi si informino su Wikipedia: è più probabile che si affidino a qualche piattaforma di AI sfacciatamente condizionata e orientata. Ma soprattutto, non impareranno mai che la cultura non consiste in ciò che sai, ma nello sforzo che fai per arrivare a saperlo.

Non condivido affatto, poi, un atteggiamento generale che definirei “rinunciatario” nei confronti del ruolo della scuola, anche se ad avallarlo viene chiamato un “venerato maestro” (e riferimento costante di Banda): “Non vedo errore certo, irreparabile, se non nell’acconsentire ad avere un primo giorno di scuola. Da quel momento incomincia la sistematica vessazione”. (citazione da Giorgio Manganelli, ne Il primo giorno di scuola, 2017)

Mi spiace che Manganelli l’abbia vissuta come una vessazione sistematica. Forse la vivono così le menti davvero geniali, quelle che non sopportano i ritmi lenti imposti dal gruppo, o, al contrario, le menti meno sveglie, che non reggono nemmeno quei ritmi. Ma la gran parte dei ragazzi, magari per ragioni completamente diverse e con atteggiamenti ed esiti i più disparati, credo non l’abbiano vissuta così. Almeno fino a ieri, fino a quando la scuola la frequentavo, sul versante cattedra, anch’io.

Per questo mi suonano troppo liquidatorie queste affermazioni: “Perché lamentarsi che la scuola soffochi il genio? È esattamente quello il suo compito. Perché lamentarsi degli insegnanti impreparati, o ingiusti, o dai nervi labili? Sono come devono essere. Perché lamentarsi dello scadimento degli studi? Gli studi scadono da sempre, e sono scaduti da sempre, se è vero, com’è vero, che già Tacito e Petronio la stigmatizzano, quest’eterna decadenza degli studi […]. Sono sicuro che la lagna scolastica proseguirà. Con gli stessi argomenti. Con le stesse parole. Con le stesse identiche frasi, che si ripetono da duemila anni e che si ripeteranno per altri tremila.” (Il lamento dell’insegnante, 2015)

Non credo affatto che siamo di fronte alla “solita lagna”. Per chi ha vissuto nella scuola gli ultimi sessant’anni lo scadimento è quanto mai palpabile e reale, e corre a una velocità mai conosciuta prima. Non riguarda solo la realtà scolastica, naturalmente, ma la scuola ne è il primo e più evidente sensore. Può darsi si tratti di un normale adeguamento, della transizione ad una realtà culturale e sociale del tutto inedita, a modi completamente nuovi di trasmissione del sapere. Ma nessuno può negare che al momento ci si trovi davanti ad una istituzione allo sfacelo. Perché non è stato sempre così.

Sul muro della terrazza sovrastante la palestra, nell’istituto in cui ho insegnato per un quarto di secolo, campeggiava una scritta in caratteri cubitali: “La pacchia è finita, arrivano le vacanze”. Era l’unico luogo in cui all’epoca ci fosse concesso fumare, frequentatissimo dai tabagisti ma nella bella stagione anche dai non fumatori. Una piccola agorà dove, molto più che nell’aula magna, trovava espressione il libero pensiero. Faticai molto a convincere il preside a non fare cancellare la scritta, ma alla fine la spuntai. Non so che fine abbia fatto dopo il mio trasferimento.

Trovavo quelle parole estremamente significative. Al di là dell’intenzione beffarda, inconsciamente situazionista, esprimeva a mio giudizio una profonda verità: gli allievi a scuola in fondo si divertivano, e la pacchia non consisteva nella possibilità di fare una mazza, perché ancora non erano state inventati i Disturbi Specifici dell’Apprendimento, i Bisogni Educativi speciali e tutte le altre immaginifiche sindromi attestate da psicologi compiacenti, cui non par vero coltivare nuovi orticelli (o meglio, i disturbi dell’apprendimento c’erano, e quelli tra noi più coscienziosi se ne accorgevano benissimo, e li tenevano nel debito conto, ma non era ancora partito lo squallido mercato delle certificazioni volute dai genitori per rifiutare ogni responsabilità educativa).

Posso affermarlo con cognizione di causa perché tutti gli allievi coi quali sono rimasto in contatto, e sono molti, me lo confermano: ma lo sapevo già all’epoca, altrimenti non sarebbe stato spiegabile perché cinque neo-maturi, all’indomani dell’orale conclusivo, chiedessero di potermi raggiungere nel luogo dove quell’anno facevo la maturità da commissario, in quel caso in Toscana. Erano disposti a dormire nei sacchi a pelo in un vecchio seminario abbandonato e a seguire il mattino le sessioni d’esame dei loro colleghi (soprattutto colleghe) toscani. Alla domanda: ma non avete niente di meglio da fare? la risposta fu: sentiamo già la nostalgia della scuola. E il bello è che erano sinceri. Ora, va precisato che quei cinque non erano affatto dei secchioni, viravano anzi parecchio sul lavativo: ma quando uno di loro, il re dei lavativi, una tarda sera, di ritorno dal mare dove avevamo trascorso tutto il pomeriggio e di fronte al paesaggio che ci su spalancava davanti, le colline di Volterra inondate dalla luce lunare, ruppe il nostro silenzio estatico citando Foscolo: “Lieta dell’aer tuo veste la Luna/ di luce limpidissima i tuoi colli”; ebbene, allora compresi che persino lui a scuola si era divertito e ne aveva tratto ciò che può rendere più ricca e piacevole la vita. Altro che soffocare il genio. Fino a ieri era così: io mi divertivo, loro anche. Diversamente, avrei cambiato subito mestiere. Non so se oggi questo è ancora possibile. Per tutti i motivi che Banda cita: perché è diverso il mondo, perché sono diversi i ragazzi, perché cercano altrove quello che un tempo trovavano nella scuola, perché quest’ultima, che era rimasta l’ultimo baluardo contro l’ingresso dei “Barbari” tanto auspicata do Baricco, è stata ridotta in pochi anni a parcheggio per una fascia d’umanità altrimenti ingestibile.

Penso che comunque in cuor suo queste cose Banda le sappia. Altrimenti non avrebbe descritto così il protagonista di un libro recensito in un altro intervento (Scuola di felicità, 2016): “È un insegnante vero, non un impiegato, non uno di quelli che viene per fare le ore, scrivere programmi, registri … Un insegnante che insegna qualcosa in più rispetto alla sua insignificante materia”.

E che senz’altro si diverte quanto i suoi allievi.

Straniero in una scuola straniera

di Paolo Repetto, 2009

Se non vuoi affrontare un problema la soluzione più spiccia (e la più diffusa nel nostro costume nazionale) è negare che il problema esista. Ma si può anche andare oltre, arrivare ipocritamente a sostenere che anziché di un problema si tratta di una risorsa.

È esattamente ciò che accade oggi nella scuola quando ci si confronta con la presenza degli allievi stranieri. Le fette di political correct con le quali ci copriamo gli occhi sono diventate così spesse da consentirci di definire “risorsa” ogni situazione problematica, il che riesce doppiamente offensivo, perché in fondo maschera dietro la prospettiva di uno sfruttamento positivo il fatto che i ragazzi non sono “risorse”, ma individui (e quelli stranieri sono individui che vivono singolarmente una particolare condizione di disagio), e perché non rispetta, negando il riconoscimento di una problematicità, coloro che ne sono portatori.

Con queste premesse è evidente che tratterò il rapporto tra la scuola e gli allievi stranieri come problematico. Che poi da una criticità si possa anche ricavare qualcosa di buono, nel mentre la si affronta e soprattutto se e quando la si supera, mi sembra ovvio. Si impara qualcosa anche battendo la testa contro uno stipite, la prossima volta ci si abbasserà: ma la situazione attuale mi sembra più paragonabile ad una emicrania che ad una zuccata, e dalle emicranie si impara molto poco. C’è un disagio che cresce lentamente ma inesorabilmente, non un trauma violento che tra qualche tempo sarà assorbito e dimenticato.

La verità è che ci siamo trastullati per un sacco di tempo a fingere (quegli apparati che avrebbero dovuto normare l’afflusso) e ad idealizzare (gli operatori, o almeno quelli un po’ più motivati, che non hanno subito liquidato il fenomeno con un “ci mancavano anche questi!”), a inventare belle enunciazioni di principi e buone pratiche. Ma oggi ci rendiamo conto che la situazione è quasi ingestibile su un piano logistico e soprattutto che è diventata ingovernabile sotto il profilo della chiarezza dei rapporti. Cercherò di riassumerla in poche righe e di sintetizzare le diverse tipologie di reazione che ha suscitato.

In Italia ci sono attualmente 6 milioni di stranieri, cioè di persone non nate nel nostro paese o figlie di persone non nate nel nostro paese. Sono rappresentate una cinquantina di etnie diverse, provenienti dai quattro angoli del mondo: Asia, Africa, America Latina, Europa orientale. Queste persone sono portatrici di tradizioni, di costumi e di religioni diversissimi, spesso in aperta contrapposizione, e a differenza di quanto avveniva sino a due decenni fa non sono affatto disponibili ad abdicare al loro passato per assimilarsi ai costumi e alla cultura occidentale (non sto dicendo che dovrebbero esserlo, sto constatando che per vari motivi, che non possiamo approfondire in questa sede, un tempo lo erano e ora non più). Alcune di queste etnie, magrebini, latinoamericani, romeni, cinesi, ecc… hanno raggiunto una consistenza numerica tale da costituire vere e proprie comunità autonome, all’interno delle quali si perpetuano regole, lingua, costumi, stile di rapporti sociali e familiari del paese d’origine, con una certa tendenza, tipica dell’atteggiamento di autodifesa delle comunità di minoranza, ad una professione identitaria “integralista”.

Una fetta consistente di questi 6 milioni, circa un quinto, sono bambini, adolescenti e giovani in obbligo scolastico o in età comunque scolare. Una parte sono nati in Italia, e in teoria non dovrebbero incontrare grossi problemi linguistici o culturali: in realtà non è così, perché a casa o nel quartiere, in seno alla loro comunità, questi ragazzi parlano normalmente la lingua nativa familiare, l’italiano è per loro una seconda lingua, vivono un certo tipo di cultura dei rapporti e da questa sono influenzati e condizionati (soprattutto ne sono condizionate, molto controvoglia, le ragazze). Per coloro che in Italia sono arrivati già in età scolare i problemi sono naturalmente ben maggiori. Oltre alle difficoltà linguistiche vivono infatti anche il trauma dello sradicamento. Per gli uni e per gli altri, marcatamente più per i secondi, c’è di norma alle spalle una situazione economica precaria, molto spesso un nucleo familiare inesistente o quasi. Le famiglie stesse mostrano nei confronti della scuola, a seconda delle etnie, una differente disposizione, che va dalla quasi assenza dei latino-americani alla presenza quasi ossessiva dei mussulmani, ad una aspettativa forte di integrazione e di riscatto sociale da parte degli immigrati dell’est europeo, fino ad una sorta di invisibilità da parte degli estasiatici.

Queste condizioni oggettive e questi diversi atteggiamenti si scaricano sulla scuola, ed è indubbio che pesino sulla possibilità e sulla velocità dell’integrazione. Ma il fattore determinante di criticità non è costituito in realtà dalla lingua, e neppure dal disagio economico. Questi sono problemi che, allo stato attuale delle cose, possiamo considerare comuni: fatte le debite proporzioni, la precarietà economica e familiare interessa tutti o quasi i nostri studenti, così come la scarsa dimestichezza con la lingua. La scuola in qualche modo li ha sempre affrontati, fino a quando si sono mantenuti al di sotto di una certa soglia quantitativa.

Il vero scoglio è un altro. Sta nel fatto che il superamento della soglia critica non è stato solo quantitativo. Hegel diceva che se perdi due o tre capelli sei uno che perde capelli, se li perdi tutti sei un calvo: a significare che i fenomeni quantitativi, al di là di un certo limite, diventano qualitativi. Nel nostro caso la criticità qualitativa è stata determinata dal costituirsi di comunità etniche o culturali abbastanza forti da raccogliere, controllare e isolare il più possibile nei confronti dell’esterno i singoli individui. Quello che era all’inizio un compattamento spontaneo di autodifesa ha assunto in breve tempo le caratteristiche di un padrinaggio, che si esprime in forme diverse, dalla protezione forzosa all’integralismo religioso, ma sortisce comunque lo stesso esito: quello di rendere sempre più improbabile l’ipotesi di una pacifica coesistenza “multiculturale”. Alla pressione crescente all’interno delle diverse comunità corrisponde infatti la rivendicazione più o meno esplicita verso l’esterno di “statuti speciali”, contrabbandata sotto le insegne del rispetto delle diverse tradizioni e culture, ma in realtà mirante ad alzare tra le stesse delle barriere in ingresso e in uscita.

La richiesta di uno statuto speciale può essere avanzata quando si ha una forza contrattuale strategicamente acquisita (il controllo di interi quartieri, ad esempio), ma solo se si ha di fronte un interlocutore disposto quanto meno ad ascoltarla. Nel nostro caso abbiamo uno stato, una società civile, una cultura che hanno elaborato nell’ultimo mezzo secolo un atteggiamento passivamente “tollerante”, figlio a dire il vero più del pensiero debole che di una reale consapevolezza, e che sconta un più o meno sincero senso di colpa per il passato (e il presente) coloniale. È una situazione in linea teorica positiva, perché prevede l’accettazione su un piano di pari dignità delle ragioni altrui, ma all’atto pratico estremamente complessa, perché la pari dignità deve appunto poggiare su un piano, e rispetto a quest’ultimo c’è un sacco di confusione.

Vorrei ribadire che in queste considerazioni non c’è alcun giudizio di valore. Non parto dal presupposto che la cultura ospitante sia superiore a quella degli ospitati, ritengo legittime dal punto di vista di questi ultimi le loro rivendicazioni, probabilmente le farei mie se fossi dall’altra parte. Ma deve anche essere chiaro che se si conosce un po’ la storia e se ne sono capiti i meccanismi non si ragiona sulla base dei sensi di colpa, perché questo gioco, andando all’indietro, ci riporterebbe sino ad Adamo ed Eva, o addirittura a un Dio che ci ha malignamente fregati con la tentazione; e che un atteggiamento aperto e tollerante non deve per forza implicare un relativismo rinunciatario o possibilista rispetto all’affermazione dei valori essenziali della vita, della libertà e della dignità.

Andiamo ora a considerare come questa situazione si rifletta sulla scuola, e a valutare se rispetto agli allievi stranieri esistano strategie di inclusione non dico risolutive, ma almeno parzialmente applicabili ed efficaci. Partiamo dagli atteggiamenti che la scuola ha sperimentato sino ad oggi, in assenza di reali indirizzi dall’alto che non fossero banalissime “indicazioni per l’accoglienza”, all’interno delle quali per un certo periodo era vietato persino l’uso del termine “integrazione”, considerato politicamente scorretto, mentre oggi è stato riabilitato e va per la maggiore.

  1. la prima fase è stata quella della sorpresa. Arrivano in tanti, tutti assieme, di colpo, e non siamo attrezzati a riceverli. Trionfa l’arte di arrangiarsi, si parcheggiano albanesi e magrebini nelle classi iniziali dei vari cicli aspettando che si sveglino e imparino un po’ di italiano. Li si traghetta bene o male fino alla terza media, poi fuori. Tutto sommato ha funzionato, soprattutto con gli albanesi.

  2. la seconda fase è stata quella della ideologizzazione. È lì che è nata la palla delle “risorse”. Lo straniero va accolto ed accudito, stando attenti a non “integrarlo”, che è una brutta cosa. Sotto sotto c’è una forma micidiale di razzismo, subdolo perché “di sinistra”, in base alla quale non c’è bisogno di forzare perché sarà poi il “barbaro” a capire qual è il sistema migliore, e a sceglierlo, o addirittura a scegliere gli aspetti migliori del sistema. Si normalizzerà, insomma.

C’è anche la versione più spinta, quella dell’antioccidentalismo degli occidentali: finalmente arriva qualcuno a portarci modelli di vita più genuini, costumi più sobri, maggiore equità e solidarietà sociale. Un sacco di gente, e non solo terzomondisti laici o religiosi e new agers di complemento, ma anche operatori scolastici seri, preparati e motivati, ha cavalcato questa onda.

  1. La terza fase, quella attuale, è dominata da una “de-ideologizzazione” altrettanto razzista, anche se apparentemente meno stupida. Il modello è: accogliamoli cercando di far meno danni possibile (quote per classe), applichiamo criteri valutativi diversificati che consentano di non doverli tenere a scuola sino a trent’anni e offriamo loro la possibilità di coltivare la loro lingua e la loro cultura (tradotto: lasciamoli cuocere nel loro brodo).

A parte l’evidente assurdità di proposte come quella di coltivare le diverse lingue native a scuola (cosa si fa, si istituiscono corsi di 10 lingue per ogni classe? Si formano classi monoetniche?) che è paragonabile solo all’altrettanto idiota proposta dell’introduzione dell’insegnamento del dialetto, si consente in questo modo alla comunità esterna di mettere il becco anche all’interno di quello che dovrebbe essere l’unico santuario contro i condizionamenti e le costrizioni nei confronti dei singoli. Il “coinvolgimento attivo” delle diverse comunità, alla luce della situazione reale e alla faccia dei buoni propositi e delle feste etniche, non può che produrre ulteriori problemi.

Il primo è di carattere logistico: come la mettiamo ad esempio col rispetto delle festività varie (il sabato ebraico, il ramadan musulmano, ecc…), della diversa percezione degli orari, dei cibi tabù da evitarsi nelle mense scolastiche per non offendere la sensibilità, dei simboli di ogni sorta che possono essere considerati offensivi, delle diverse tradizioni nell’abbigliamento, ecc.? È evidente che i ritmi attuali della scuola, come del resto quelli di tutte le altre attività, economiche, politiche, culturali, sportive, ecc… sono ancora scanditi da festività, ricorrenze, anniversari tutti riferibili alla cultura cristiana e alla storia del nostro paese o dell’occidente in genere, dal Natale al Primo Maggio. Ma intanto la gran parte di queste ricorrenze affonda le sue radici in epoche antecedenti la liturgia cattolica o la storia sociale recente, nelle quali le scansioni erano dettate dal succedersi delle stagioni e delle attività connesse: e quindi si potrebbe dire che hanno una base naturale, un’origine “laica” legata alla natura particolare dei luoghi, del clima e dei modi di produzione, e come tale universalmente condivisibile. Inoltre è già in atto, a partire dalle attività economiche, una “laicizzazione” dei ritmi che non guarda in faccia a nessuna tradizione culturale, e crea semmai il problema opposto, perché sacrifica alla ragione economica ogni altra considerazione. Mentre noi ci poniamo il dilemma del se e del come dare spazio alle tradizioni altrui, quelle indigene sono tranquillamente buttate o stravolte, e non all’interno di un illuministico processo di razionalizzazione, ma all’insegna di una semplice e brutale profanazione.

Il secondo punto è che in questo modo vengono come al solito addossati alla scuola problemi e attribuiti ruoli e significati che in realtà non sono di sua competenza, o sono di sua competenza solo nella misura in cui li può gestire in piena autonomia, senza condizionamenti esterni.

E questo ci porta finalmente al nocciolo. La questione non concerne in realtà gli stranieri, ma investe la scuola nel suo complesso, o meglio la definizione della sua identità, della sua funzione e dei presupposti minimi per un suo corretto funzionamento. Va chiarito in sostanza quali aspettative famiglie ed allievi debbano nutrire nei suoi confronti e quali la scuola deve avere nei confronti di chi la frequenta. Occorre farlo perché nell’attuale confusione ci sta tutto e il contrario di tutto, mentre a volerlo il discorso sarebbe molto semplice, soprattutto se tornassimo ad usare i termini nel loro significato più quotidiano e immediato, anziché in quelli virgolettati del tecnicismo pedagogico, docimologico e ministeriale.

Mi spiego: la scuola deve proporre a chi la frequenta (e non “fornire agli utenti”; agli “utenti” si forniscono gas, acqua o energia elettrica) strumenti per sviluppare competenze. Questi strumenti sono costituiti essenzialmente dalle conoscenze, ma anche da esperienze di rapporti, da una crescente responsabilizzazione, da stimoli al confronto, da tutto ciò insomma che induce un arricchimento spirituale e un consolidamento del carattere. Le competenze sviluppate possono poi essere giocate su vari fronti, da quello professionale a quello dei rapporti civici o privati, ma devono essere accomunate in queste declinazioni da un’unica finalità, quella di una consapevolezza sempre più alta della propria dignità, e conseguentemente di quella altrui. Ciò significa imparare a distinguere quello che è giusto fare da quello che non lo è, sulla base dell’elementare precetto del non fare agli altri quello che non si vorrebbe fosse fatto a noi, e di dare agli altri quello che vorremmo ci fosse dato; imparare che il valore di quello che facciamo sta nel modo in cui lo facciamo, e che quindi lo determiniamo noi, con la nostra coscienza e la nostra volontà; arrivare in definitiva a compiere scelte davvero autonome, ed accettarne la conseguente responsabilità.

Per imparare tutto ciò non sono necessari né la fede religiosa né i convincimenti politici, non sono determinanti i ruoli sociali o i livelli economici, non c’entrano le tradizioni, ecc… La dignità viene prima di ogni determinazione, anzi, ne prescinde. Per accedervi, o meglio ancora per riconquistarla, visto che una embrionale coscienza di ciò che ritengono per se stessi accettabile e dignitoso è comune a tutti gli umani, è paradossalmente più necessario sottrarre che sommare. Piuttosto che rivendicare un’eguale rilevanza per tutte le culture parrebbe oggi importante affermare l’eguale irrilevanza di tutte le sovrastrutture culturali rispetto a quella coscienza.

Ciò di cui sto parlando si chiama semplicemente laicità. Si tratta di quel principio di autonomia per il quale qualsiasi attività legittima, che non ostacoli o renda impossibili le altre, deve potersi svolgere secondo regole proprie, senza imposizioni o condizionamenti dall’esterno. L’educazione alla dignità è un’attività non solo legittima, ma doverosa, e non possono essere invocate contro di essa le eccezioni del relativismo, per cui ogni cultura ne dà una sua diversa interpretazione. Se correttamente intesa, la dignità può costituire il minimo comune denominatore per l’incontro tra le culture, e diventare al tempo stesso il massimo patrimonio condiviso: ma può, naturalmente, quando e solo se la sua affermazione sia libera da ogni condizionamento. Quando cioè sia garantita all’origine da una reale condizione paritaria, che consenta a ciascuno di sentirsi a livello di tutti gli altri e lo induca a considerare gli altri al proprio.

Credo fermamente che questa condizione, ovvero un rapporto tra soggetti che godono di pari opportunità di crescita, possa essere offerta oggi soltanto dalla scuola. Ma essere sullo stesso piano significa, oltre che avere gli stessi diritti, riconoscere ed accettare la necessità di uguali doveri, ovvero delle stesse regole: che hanno da essere poche, semplici, chiare, ma debbono esserci, così come in qualsiasi forma di interrelazione umana. Le attività sportive si prestano benissimo ad esemplificare ciò che voglio dire: il divertimento e la gratificazione che ne derivano sono infatti totalmente legate al rispetto delle regole di gioco. Non sto parlando di risultati o di punteggi, che attengono ad un’altra dimensione. Sto dicendo che dietro qualche centinaio di tennisti professionisti che giocano sui campi di Wimblendon ci sono centinaia di milioni di appassionati che lo fanno tutti i giorni senza alcuna speranza di entrare nel racing mondiale, e la metà di coloro che giocano sono sconfitti, senza che questo li induca immediatamente a smettere: perché in realtà ciò che interessa loro è giocare, confrontarsi con se stessi oltre che con l’altro, e l’antagonista lo rispettano, che vinca o che perda, purché lo faccia secondo le regole.

Le regole non concernono direttamente la qualità del gioco (nel caso della scuola, la sostanza delle conoscenze trasmesse); sono la formalizzazione dell’accordo che rende possibile giocare (nel nostro caso, trasmettere dei saperi). Ora, persino all’interno della metafora sportiva sappiamo che tutto questo è vero solo in teoria, e più che mai è tale nella scuola: se stendo un binario o traccio una strada, pur non condizionando totalmente la velocità, o la scelta della fermata, o quella del mezzo stesso, impongo pur sempre una certa direzione. Allo stesso modo le regole di una istituzione educativa saranno necessariamente il frutto, il distillato di quella particolare cultura che dell’istituzione si serve per perpetuarsi e per accrescersi. E se anche di volta in volta dovranno adeguarsi alle nuove condizioni create dal confronto con altre culture, non possono scendere sotto una certa soglia di rigidità, pena la dissoluzione totale.

È rispetto a questa soglia dunque che occorre avere idee un po’ più chiare, e applicare quella laicità alla quale mi appellavo sopra. Le regole, pur essendo come si diceva il frutto di una certa cultura, non devono discendere da alcun particolare credo o convincimento: devono attenere alla funzionalità e alla correttezza. Non può essere una regola, almeno nella scuola di stato, quella della preghiera da recitarsi all’inizio delle lezioni, mentre lo è quella di arrivare in orario, di frequentare con continuità, di non disturbare le lezioni, di non danneggiare strutture o arredi, di non molestare o insolentire compagni, di usare un abbigliamento decente. E fin qui, sembrerebbe di rimanere nell’ambito dell’ovvio. Ma la nuova situazione le rende un po’ meno ovvie. Prendiamo ad esempio l’abbigliamento. È da consentirsi l’uso del burka, in omaggio al rispetto per una cultura altra? E se lo è, perché allora non dovrebbe essere accettabile indossare minigonne o top miniaturizzati, in omaggio all’uso corrente tra i giovani nella nostra? O ancora: è consentito tenere copricapo di varia foggia? E se no, come la mettiamo con i turbanti dei Sikh? E perché questi ultimi dovrebbero rinunciare ai loro pugnali? Sembra che stia parlando solo di bazzecole, ma ancora una volta la somma delle bazzecole ci parla di una concezione totalmente diversa dei rapporti, dei ruoli, della socialità.

Non voglio proseguire oltre con le esemplificazioni, perché non è questione di normare ogni singolo comportamento o aspetto della vita e dell’interrelazione scolastica: si finirebbe per scadere nell’assurdo, cosa peraltro che sta già accadendo, che accade anzi ogni volta che viene posto un nuovo problema rispetto a usi, comportamenti, sensibilità da non offendere, ecc… C’è un solo modo per evitarlo, ed è la riconduzione di tutto ad una serie di regole della casa uguali per tutti, basate su un buon senso minimo, che facciano della scuola davvero quell’oasi autonoma all’interno della quale il confronto e il gioco delle culture diventi possibile. Delle “culture”, però, ovvero dell’essenza davvero caratterizzante, e condivisibile, di ogni forma di civilizzazione: e non di tutte quelle derive ideologiche o integralistiche o politiche o opportunistiche che ogni cultura purtroppo si trascina appresso. Tutto questo dalla scuola deve rimanere fuori: dentro i vangeli, fuori le chiese. Solo sui primi è possibile il confronto, e non tanto sulle risposte che offrono, quanto sulle domande che pongono. La scuola è il luogo dove si dovrebbe imparare a porsi correttamente le domande, il che già risolverebbe il problema delle convivenze e delle compatibilità, perché consentirebbe di poggiare i piedi sull’originario terreno comune, quello degli identici bisogni, delle identiche paure, speranze ed esigenze di senso dalle quali in ogni tempo e luogo ha mosso e continua a muovere l’umanità. Dovrebbe fornire anche soccorso nella ricerca delle risposte: ma non è tenuta a fornire risposte di alcun tipo. Chi desidera trovare queste ultime già confezionate non ha che da scegliere, fuori. L’offerta è immensa. A chi intende invece farsi il suo percorso in autonomia, educare in sé la capacità di valutare e scegliere e la forza di assumersi delle responsabilità, la scuola deve dare modo di farlo in un ambiente non neutro ed asettico, ma rispettoso della dignità del singolo, del diritto che non spetta né per natura né per appartenenza o nascita, o paradossalmente addirittura per differenza, ma che ha da essere individualmente conquistato.

In questo senso la scuola non deve garantire diritti: deve garantire le condizioni perché maturi la coscienza del diritto, e queste condizioni non possono prescindere dalla coscienza e dall’assunzione del dovere. Il diritto allo studio è un diritto a studiare, non genericamente a frequentare le aule scolastiche: e si accompagna in automatico al dovere di consentire anche ad altri di farlo, rispettando tutte le regole che sono garanti delle condizioni necessarie per lo studio.

Che c’entra tutto questo con gli stranieri? mi si obietterà. È semmai un discorso che vale per tutti. Appunto. Proprio perché dovrebbe valere per tutti, e già si stenta a farlo passare, non dobbiamo metterci nella condizione di operare dei distinguo e delle eccezioni, se non vogliamo far saltare l’intero l’impianto. È necessario, ripeto, limitare il più possibile ogni condizionamento esterno. Che non significa vivere sulle nuvole, creare campane di vetro o fingere che la realtà attorno non esista, ma frapporre un filtro che consenta di leggere criticamente questa realtà, di non considerarla come ineluttabile.

Non sto dicendo nulla di nuovo. È il ruolo che la scuola ha svolto da sempre, pur senza esserne investita. La trasmissione stessa di conoscenze, che è una consacrazione della realtà, si è tradotta in ogni epoca in educazione di competenze critiche, e quindi in una dissacrazione. È un ruolo che deve continuare a svolgere, oggi più che mai, perché ad educare al consenso si dedicano già con fervore una miriade di altre fonti: ma per farlo deve difendere con i denti la sua autonomia, anzi, deve conquistarsene una che non ha, e può cominciare proprio dal modo in cui affronterà il problema stranieri.

Ecco, magari in questo senso, se ci imporremo di considerare i nostri studenti come individui, e non come “portatori di culture”, nostra o altre che siano, potrebbero davvero rivelarsi una “risorsa”.

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Riscontro

di Paolo Repetto, 25 maggio 2009

da Angela Martignoni, 18 maggio 2009

Caro Paolo,
allora, mi sono armata di matita e di buona volontà. Ho letto il tutto la prima volta durante le vacanze di Pasqua, ma la mente continuava a fuggire altrove e i pensieri, confusi, non trovavano ordine. Era quel maledetto collegio docenti che mi aveva segnata e non mi dava la libertà di pensiero necessaria per poter accogliere teorie, riflessioni, percorsi altrui. Ho scritto quella lettera (inutile?) ai colleghi e mi sono in qualche misura scaricata di un peso, potendo così riprendere le questioni quotidiane. Ora rileggo tutte le pagine e abbandono la matita (tu mi avevi detto di intervenire correggendo, tagliando, sfoltendo e così via) e la dirotto ad altro.

A me lo scritto è piaciuto, lo ritengo ricco (e non ridondante) capace di trasmettere con chiarezza una situazione complessa come quella della scuola in cui uomini, donne (anzi, donne e uomini, come tu giustamente dici) e ragazzi intersecano i loro destini con stati d’animo diversi, diversi umori, vicinanze, lontananze, comprensioni, incomprensioni, persino rivalità e risentimenti.

Strano davvero il nostro lavoro. Può essere tutto e il contrario di tutto e quello che lo fa apparire ancora più strano è che è uno di quei rari lavori in cui non è trasmissibile l’esperienza. Ci pensavo in questi giorni. Arrivata all’ultimo anno, non senza timore e qualche barcollamento, quali sono le mie “consegne”? Nulla … è tutto talmente personale, intimo, racchiuso … cosa dire agli altri? È un mondo vivo che ciascuno di noi porta dentro, ma ciascuno di noi l’ha vissuto e lo vive a modo suo, con pochi contatti, con troppi pudori, forse; certamente con poca profonda condivisione. Io ritengo che i ragazzi siano una ricchezza straordinaria che non sempre riusciamo a capire e ad incanalare nel giusto modo. Credo che ci lasciamo scappare tante intelligenze, tante potenzialità, forse un po’ disordinate ma valide, non intrappolabili. Credo anche che facciamo tanti errori.

Quel melo a cui si mette il palo per renderlo dritto …, siamo certi che sia il modo migliore per “educarlo”? io, melo storto, stortissimo, ho dubbi al riguardo. Vedo i bambini di prima media pieni di entusiasmo, chiassosi, vivaci, ingenui, spontanei, a cui per una economia generale bisogna dire di stare zitti, di stare attenti, che spesso bisogna rimproverare per impostare una lezione, una spiegazione, e loro imparano in qualche modo a tenere a freno la loro esuberanza; li ritrovo in seconda taciturni, quasi diffidenti, prudenti, pieni di ritrosie e in terza tristi, controllati, sovente irriconoscibili. È così che li abbiamo “educati”? o li abbiamo solo spenti? Eppure questi sono gli alunni più apprezzati, perché non creano problemi, non danno segni di insofferenza o di ribellione.

Ma gli altri? Dove sono gli altri? Io non so togliermi dalla memoria i loro sguardi. Mi creano una sorta di imbarazzo enorme, di disagio profondo che vivo come una mia responsabilità verso le loro esistenze tradite. Ma non erano funzionali a niente, neanche a loro stessi. Le loro battute argute, le loro intemperanze erano di ostacolo ad un normale procedere delle lezioni, mi rendo conto. Eppure quella complicità di classe che anche grazie a loro si creava era un qualcosa di insostituibile. Ma io, ripeto, ho i pensieri del melo storto. Ma dove me lo hanno messo quel benedetto palo? Credo mi sia sempre stato strettissimo, e ancora oggi tento di divincolarmi.

E comunque, tornando al tuo scritto, ho molto apprezzato i punti che elenchi per un’azione formativa efficace, potrebbero essere i nuovi obbiettivi da perseguire, obiettivi in chiave moderna, intendo.

Ma anche qui, uno mi lascia perplessa: il punto f), quello della obbligatorietà dell’istruzione. Io non credo che le nostre indubbie differenze individuali, non così congenite, ma frutto di complessi condizionamenti ambientali (Margaret Mead ha a sua volta molto condizionato il mio modo di vedere gli altri) rendano alcuni di noi inidonei all’apprendimento. Non certamente a undici anni e neanche a quattordici. Ammesso che poi lo si possa fare.

Ci sono tempi e modalità diverse, e il garbo che un docente pone nel trasmettere qualcosa è determinante. L’essere in sintonia con la persona che ti ascolta (anche non particolarmente dotata), il rivolgerti a lei in un altro modo, il farle capire che non è un sacco vuoto da riempire, l’infonderle con una vicinanza umana profonda la necessaria fiducia, mi pare siano tutte componenti che rendono lo sforzo, la pazienza e – perché no? – anche la dedizione utile.

Ricordo un episodio di tantissimi anni fa. Forse non facevo ancora l’Università. Ho visto mia madre (insegnante di lettere) assorta e preoccupata e le ho chiesto cosa avesse. “Non riesco a trovare un modo per far capire un concetto ad una mia alunna”: questa la sua risposta. Semplice, sommessa risposta. Io troppo giovane e stupida per capirne fino in fondo il valore. Chi l’avrebbe detto che anni dopo mi sarei ritrovata nelle stesse difficoltà? Troppo tardi ora per poterglielo dire. Ma forse il famoso “modo” lo si trova nelle modalità di trasmissione e non tanto in una elaborazione intellettuale. Quanto poi tu dici in seguito su un’eventuale articolazione dei gruppi, con percorsi anche differenziati, mi trova d’accordo. Io introdurrei la manualità in certe discipline, tolta non si sa perché, come a nobilitare un insegnamento, quando invece anche la manualità è una forma di intelligenza e recupererebbe parecchie situazioni. E poi le classi aperte, come in Inghilterra (dove peraltro sono stati fatti tanti errori e dove lo standard culturale medio degli alunni credo sia peggiore del nostro) in cui a formare un gruppo classe è il livello di preparazione e da un’ora all’altra i gruppi si scompongono e ricompongono per seguire questo o quell’insegnante. Aule fisse per gli insegnanti,. Studenti mobili di volta in volta. E gli argomenti sono tanti, tanti davvero, come tu dici inesauribili, perché sempre si ricomincerebbe da capo e si formulerebbero mille altre ipotesi. Da quelle più razionali, “storiche”, come le tue, a quelle più emotive (sai, sono una donna) come le mie.

Comunque ritieniti soddisfatto del tuo lavoro, e archivialo a cuor leggero come concluso.

A presto.

Carissima Angela,

non avevo alcun dubbio su una tua lettura attenta e su un commento non banale. Proprio per questo ti ho sottoposto la bozza. E arrivo a dire che avevo già previsto anche il tenore delle tue considerazioni: perché credo ormai di conoscerti a sufficienza, almeno come insegnante, e perché condivido in assoluto il tuo atteggiamento nei confronti della scuola. Il che, il fatto cioè di lavorare con docenti come te, non può che darmi conforto e la carica per andare avanti; ma, ed è questo il problema, non deve farmi dimenticare la realtà diffusa con la quale mi confronto tutti i giorni. Parlo di docenti, parlo di allievi, e parlo anche delle tante “visioni” e “missioni” della scuola che circolano, tra i primi e tra i secondi, ma anche e soprattutto a livello di opinione pubblica e di proposta politica.

Partiamo dai primi, perché l’interrogativo sollevato dalla tua lettera riguarda soprattutto loro, e paradossalmente è inverato proprio dalla posizione che tu esprimi. Quanti credi siano i docenti che “sentono” la scuola come la senti tu? Non faccio elenchi di nomi dei tuoi colleghi, perché sarebbe impietoso, e perché le motivazioni della loro disaffezione o della loro inadeguatezza sono tante e diverse, andrebbero analizzate caso per caso: di fatto, però, operativamente, su chi si potrebbe fare conto per una trasmissione “garbata” di contenuti, di metodi e soprattutto di esempi? Siamo sinceri (e a te non ho bisogno di chiederlo, la tua lettera aperta ai colleghi dice già tutto): quando va bene siamo di fronte a gente che fa quello può, e spesso non è molto, quando va male a personaggi in totale malafede, che attribuiscono ai tempi, ai governi, alle riforme, ai disagi connessi al lavoro (!) il venir meno di un entusiasmo che non c’è mai stato. Il perché di questa situazione ho cercato di spiegarlo nel mio scritto, e non ci torno sopra: ma le considerazioni che ne conseguivano le posso riassumere in due righe. Non siamo attrezzati, sul piano “umano”, per una scuola come quella che tu sogni (ed io con te): dobbiamo allora creare le condizioni per reggere, molto prosaicamente, al degrado avanzante: e quindi qualche scelta, anche dolorosa, anche intimamente poco condivisibile, va fatta. Un esempio per tutti: l’ipocrisia dell’integrazione degli allievi con handicap di apprendimento. Siamo l’unico paese nel mondo ad aver scelto questa strada, e ne meniamo vanto; giustamente, sul piano teorico, ma ipocritamente, su quello dell’attuazione. Possibile che non si abbia il coraggio di dire che la presenza dei “diversamente abili” in classe non è una risorsa, ma nella quasi totalità dei casi un problema? E che la presenza degli insegnanti di sostegno, anche al netto delle porcate indotte dagli ultimi tagli, per cui viene utilizzato sul sostegno chiunque, e soprattutto docenti che ne sarebbero a loro volta bisognosi, non vale assolutamente a risolverlo? Che anche sul piano umano, anziché l’accettazione, si coltiva negli altri studenti il fastidio e il rifiuto?

Questo ci porta anche ad affrontare un punto sul quale ti soffermi. Quando parlo di diritto all’ignoranza mi riferisco a casi che abbiamo entrambi ben presenti, di ragazzi nei cui confronti si è tentato di tutto, ma che sono gestibili solo fuori della classe, e spesso nemmeno lì. Qui non valgono neppure le aggregazioni per competenze o le classi aperte: il nostro Ronaldo, che è alto un metro e ottanta e pesa un quintale, per competenze dovrebbe essere aggregato ai bambini di seconda elementare e, visto come si comporta con quelli della sua età, sarebbe un bel problema. Sai anche che non è un caso isolato; l’elenco sarebbe lunghissimo. Che facciamo? Invece del sostegno chiediamo un presidio di polizia? Lo so benissimo che si parla di un ragazzo di quattordici anni, che fuori della scuola non può diventare che un delinquente; ma lo è già dentro la scuola, e a subirlo quotidianamente sono altri ragazzi della sua età, che avrebbero altrettanto (e a mio parere maggiore) diritto ad essere tutelati. Continuiamo a sacrificare classi intere alla necessità di tentare inutilmente (è così!) l’inserimento di un individuo?

Certo, don Milani non avrebbe apprezzato ciò che dico: ma don Milani non aveva tra i piedi Ronaldo (al quale peraltro voglio un bene dell’anima, ma che vedrei realizzato piuttosto in una cava di pietre che a fare origami o dolcetti col forno per l’argilla). Non lo apprezzano nemmeno i nostri legislatori e i nostri esperti ministeriali, naturalmente per altri motivi, meno nobili. E meno che mai i genitori (ovvero quasi tutta l’opinione pubblica, perché quasi tutti sono genitori, o nonni o zii), pronti a insorgere quando i loro figli recitano nel ruolo di vittime, ma arroccati a difesa quando si vogliono far loro rispettare quelle regole che le famiglie non sono state capaci di trasmettere. Penserai che sono fissato con queste benedette regole e con i miei pali per la crescita, e che così si tarpano tante potenzialità creative: può essere, ma credo che senza regole si tarpino tutte le potenzialità, e che nessun gioco sia possibile. Soprattutto, credo che verremmo meno anche agli obiettivi minimi della nostra missione, che parla comunque di “formare”, dare forma, ed “educare”, e-ducere, tirar fuori il meglio da questi ragazzi conducendoli per mano, e non lasciandoli sbattere secondo il loro estro. Un estro non disciplinato è magari spettacolare, ma sostanzialmente è perso.

Sono cose che ci siamo già dette, quindi ti risparmio ogni ulteriore commento su quella che è la “vision” ministeriale (siamo un peso, che va scaricato al più presto, possibilmente ai privati) o per contro sull’immagine confusa e ideologizzata che della scuola ha la “nostra” sinistra (ma è ancora la nostra? Ti riconosci ancora in qualcuna, non dico delle proposte, perché non ne fa, ma almeno di quelle che una volta chiamavamo conquiste, che continua per inerzia a sostenere?).

Io non accetto che la scuola diventi un parcheggio, un pascolo per greggi di ignoranti da consegnare come carne da macello al duplice sfruttamento del lavoro e del consumo. Voglio che sia un luogo dove si trasmette, nei limiti del possibile, consapevolezza. Lo vuoi anche tu, siamo già in due. Probabilmente lo vogliono molti altri, non tutti purtroppo quelli che ci lavorano, ma un buon numero si. E allora facciamo una cosa davvero trasgressiva, difendiamolo questo luogo, conserviamolo diverso, pulito, ordinato, a dispetto di quello che c’è fuori. È l’unico modo perché i nostri ragazzi ne conservino un ricordo speciale, sappiano che “si può”, e non accettino quello che verrà loro offerto domani. Facciamone dei disadattati, come siamo tu ed io, sapendo che si può vivere come disadattati felici, o almeno, sereni con se stessi.

Ciao.

 

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Non solo bulli

di Paolo Repetto, 2008

Fingiamo uno scenario da “Invasione degli ultracorpi”, con gli alieni che vogliono impadronirsi della terra. Fossi in loro, sceglierei di partire dall’Italia, non perché ci sono il sole, la pizza, il PD e il papa, ma perché anche nello spazio sanno che qui si entra e si esce che è una meraviglia, e nessuno ti dice niente. Ora, mettiamo che prima di procedere all’invasione i nostri vogliano conoscere usi e costumi degli umani, e degli italiani in particolare. Per informarsi si rivolgerebbero, come giusto, ai mezzi di informazione: quindi leggerebbero i giornali, seguirebbero (con un po’ di fatica) la tivù e navigherebbero su Internet. Da bravi esseri superiori punterebbero soprattutto alle notizie riguardanti la scuola, perché questa offre il migliore spaccato di una società, oltre a costituire probabilmente l’ambiente più favorevole ad una infiltrazione clandestina. E qui rimarrebbero sconcertati.

A conoscerla attraverso i media, infatti, la scuola italiana appare come una sorta di girone infernale, popolato da mandrie di studenti idioti che vessano i compagni e filmano ogni loro bravata e da insegnanti non meno storditi che li lasciano e si lasciano filmare. I nostri studenti, a differenza delle squadre di calcio, delle scuderie motoristiche e delle pallavoliste, non vincono mai un accidente, e si piazzano anzi buoni ultimi in qualsivoglia campionato, europeo o mondiale. Il sistema scolastico stesso appare come un cantiere sempre aperto alle alzate d’ingegno di ministri che vogliono lasciare un segno del loro passaggio, e fanno e disfano ad ogni volgere di legislazione.

Non ci meraviglieremmo se a questo punto i poveri alieni cominciassero a dubitare dell’opportunità dell’invasione, e a guardarsi attorno per scegliere un altro paese, o forse un altro pianeta. Ma diamo loro credito: sono sì un po’ lunatici, ma non sono degli stupidi, e magari prima di lasciar perdere vorrebbero andare un po’ più a fondo, ignorando la cagnara mediatica ed entrando direttamente nelle scuole (e infatti, il sospetto che già lo stiano facendo qualche volta nasce …).

Bene, cosa troverebbero? Troverebbero ad esempio che non è poi così vero che gli studenti italiani siano i peggio preparati del pianeta, dal momento che quando vanno a completare gli studi all’estero e si confrontano con i coetanei di altri paesi (e soprattutto di quelli più sviluppati) scoprono di possedere una preparazione decisamente più ampia ed approfondita. E che i loro insuccessi nelle diverse prove comparative internazionali dipendono forse in primo luogo da come queste prove sono impostate, perché se ti alleni per la maratona hai poi qualche difficoltà a tenere il passo degli altri sui cento metri. Ma, primo, non è detto che i cento metri siano una disciplina atleticamente superiore alla maratona, e debbano costituire il parametro unico delle capacità: soltanto, sono una cosa diversa. Secondo, se si dedicano servizi di due facciate o quarti d’ora di notiziario ad ogni deficiente che allaga un cesso e si ignorano le medaglie d’oro in matematica, che pure ci sono, è difficile dare un’immagine meno disastrata.

Sempre più perplessi, gli aspiranti invasori troverebbero poi che la norma della vita scolastica non è affatto quella raccontata dai media, e che per ogni imbecille che filma le sue bravate e per ogni insegnante che lo lascia fare ci sono centinaia di migliaia di studenti e decine di migliaia di insegnanti che fanno, chi più chi meno, il loro dovere, dei quali non si parla mai perché la quotidianità positiva non fa né notizia né spettacolo.

Troverebbero che ogni giorno si ripete il miracolo di bambini, di ragazzi, di adolescenti che a blocchi di decine per classe e di centinaia per istituto convivono pacificamente, si rapportano tra loro e con gli insegnanti più civilmente di quanto non facciano i rappresentanti del paese in parlamento, stanno al loro posto per cinque o sei ore, o almeno per un bel po’ delle stesse, ascoltano, lavorano, prendono appunti, si cimentano in verifiche, rispondono se interrogati, e perlopiù tacciono quando viene loro richiesto. Il che dovrebbe apparire miracoloso non solo agli alieni, ma anche a quei troppi genitori che non riescono ad ottenere dai loro figli, e cioè da un singolo ragazzo, un secondo di attenzione, una risposta che non sia un grugnito e un briciolo di rispetto, salvo poi scaricare sulla scuola la responsabilità di una educazione che non c’è perché non sono stati in grado o non hanno avuto il tempo di impartirla.

Insomma, i nostri amici troverebbero un sacco di cose interessanti, ma molto diverse da quelle reperibili sui giornali.

Se poi scegliessero per loro missione spionistica proprio il “Doria-Boccardo” di Novi, avrebbero altro di cui stupirsi. Incontrerebbero ad esempio giovanotti e signorine tra gli undici e i vent’anni provenienti dai quattro angoli del mondo, allevati in lingue e tradizioni e religioni diverse, che non solo convivono senza spargimenti di sangue ma collaborano, scherzano, studiano, discutono, magari fanno magno, di comune accordo, e non danno spazio a nessuna manifestazione, né strisciante né eclatante, di razzismo: giovani che pur conservando la loro identità culturale non la usano come scudo, ma la mettono in gioco nel confronto. Ragazzi normalissimi, beninteso, lavativi a volte quanto basta, inclini come tutti gli studenti ad entrare un momento dopo e magari ad uscire un’ora prima, e a far slittare verifiche e interrogazioni; ma dediti, invece che a scannarsi vicendevolmente, ad aiutarsi, invece che a massacrare i loro compagni disabili, ad integrarli e a farli sentire protagonisti, invece che a scaricare immondizia sul Web, a lanciare messaggi di solidarietà semplici e genuini. Se i nostri visitors vedessero i due minuti e mezzo dello spot prodotto da questi ragazzi, quello che li ha portati ad essere premiati in un concorso nazionale sull’educazione alla legalità del quale nessun quotidiano o telegiornale ha pensato di dover dare notizia, beh, forse una mezza voglia di infiltrarsi proprio a partire di qui gli tornerebbe. O forse sono io a non essermi accorto di nulla, forse fuori la verità è davvero quella dei giornali, e quelli che incontro e che saluto qui dentro tutti i giorni sono già degli ultracorpi.

 

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