I viaggi nel futuro del reverendo Swift

di Paolo Repetto, 1° novembre 2025

La falsità spicca il volo
e la verità la segue zoppicando.

Jonathan Swift

Ci voleva l’ennesima personalissima emergenza sanitaria per indurmi a rileggere I viaggi di Gulliver, In realtà non si è trattato di una rilettura, perché la prima volta, più di sessant’anni fa, avevo tra le mani una versione ridotta, tanto ridotta da farlo sembrare un libro di avventure. Mi sono trovato a leggere in effetti un libro completamente nuovo, e a rimpiangere di non averlo fatto prima.

Ci sarebbe molto da raccontare, e su cui meditare, ma ho scelto ad esemplificazione del tutto alcune pagine che trovo particolarmente gustose e attuali. Il resto, se volete e se ancora non lo avete fatto, potrete trovarlo in una delle almeno dieci traduzioni italiane attualmente circolanti. In quella di cui mi sono avvalso (nell’Economica Feltrinelli) sono circa trecentocinquanta pagine.

Nella terza parte del libro il protagonista racconta il viaggio che lo ha portato a Laputa, un’isola sospesa per aria. Laputa è una roccia volante, sul tipo di quella de Il castello dei Pirenei di Magritte, che poggia su una base piatta di diamante e che può essere manovrata dai suoi abitanti utilizzando un gigantesco e complicato magnete (la cosa fa presumere una passata altissima capacità tecnologica, che sembra però ormai del tutto svanita). Gli isolani sono tutti scienziati, astronomi e filosofi, che vivono perennemente (e letteralmente) con la testa fra le nuvole, dedicandosi a esperimenti e invenzioni assurdi e totalmente inutili, perché non hanno alcun rapporto con la vita reale. “Sembra che codesta gente sia tanto immersa nelle sue profonde meditazioni da trovarsi in uno stato di perpetua distrazione, dimodoché nessuno può parlare né udire i discorsi altrui se qualche impressione esterna non viene a scuotere i suoi organi vocali o uditivi”. L’“impressione esterna” è creata da un particolare servitore personale, il “batacchiario”, “munito di un bastoncello con una vescica gonfia fissata in cima, piena di piselli secchi o di sassolini […] ed è compito di questo famulo, quando due o più persone si radunano, batacchiare dolcemente la vescica sulla bocca di chi deve parlare, indi sull’orecchio destro della persona, o delle persone cui il discorso è rivolto”. E ancora, durante il passeggio “dare al padrone una lieve batacchiata sugli occhi”, per evitargli di capitombolare o di dare col capo in ogni palo, o di spingere gli altri o di essere spinto nella cunetta di scolo”.

La roccia volante domina dall’alto un’area di terraferma, il regno di Balnibarbi, un tempo fiorente e ora ridotto alla desolazione e alla miseria, proprio a causa delle innovazioni nei metodi di coltivazione dei campi e di costruzione degli edifici imposti dai laputiani.

Nella capitale di questo regno, Lagado, ha sede una celebratissima Accademia, alla cui visita Swift dedica il quinto capitolo. Il suo alter ego descrive il funzionamento dell’accademia ed elenca le “arti e scienze in cui si esercitavano quei dotti”. Nel corso della visita, che si protrae per più giorni, il viaggiatore incontra una serie di personaggi l’uno più strambo dell’altro, tutti accomunati dall’aspetto esaltato, dagli abiti sporchi e stracciati, dal fetore che emanano e dall’abitudine di scroccare mance e oboli, oltre che da una spiccata tendenza a trafficare con gli escrementi. Ci troviamo quello che si dedica da otto anni a estrarre dai cetrioli i raggi del sole, per stoccarli in fiale di vetro e usarli poi per riscaldare le estati inclementi; quello che vuole ricondurre gli escrementi umani al cibo originale che li componeva, separando i diversi elementi; quello che vuole trasformare il ghiaccio in polvere da sparo; l’architetto che ha inventato un metodo per costruire le case partendo dal tetto e il biologo che vuole sostituire la seta dei bachi con le ragnatele tessute da insetti; il medico che cura le coliche aspirando per via rettale con un mantice le ventosità intestinali, o viceversa, insufflando aria con lo stesso strumento. Insomma, un vero e proprio manicomio. Questo per la parte dell’istituto riservata alle invenzioni meccaniche. Ma ce n’è un’altra, assegnata agli studiosi delle scienze astratte, non meno allucinata: e inquietante.

In questa seconda sezione “lavorano” i progettisti del “sapere speculativo”. E qui l’incubo di Gulliver si proietta nel futuro. Il primo sapiente che incontra presiede, con quaranta allievi, a un gigantesco macchinario simile ad un enorme telaio: “Tutti sanno, disse, che i metodi comunemente adottati per arrivare alle diverse nozioni scientifiche e ideali sono faticosi e difficili; col suo nuovo sistema, invece, anche un ignorante poteva scrivere libri di filosofia o di poesia, trattati di politica e di matematica, senza bisogno di speciale vocazione né di studio: bastava una modesta spesa e un piccolo sforzo muscolare.

Nello spiegarmi ciò, egli mi fece vedere il meccanismo intorno a cui stavano i suoi scolari. Il professore mi avvertì che stava per mettere in moto la macchina: a un suo cenno, infatti, ciascun allievo prese in mano un manubrio di ferro (ve ne sono quaranta fissati lungo il telaio). Essi, facendolo girare, cambiarono totalmente la disposizione dei dadi, e perciò delle parole corrispondenti. Allora il professore ordinò a trentasei dei suoi scolari di leggere fra sé le frasi che ne risultavano, via via che le parole apparivano sul telaio; e quando trovassero tre o quattro parole che avessero l’apparenza d’una frase, di dettarle agli altri quattro giovinetti, che facevano da segretari. Questo esercizio fu ripetuto diverse volte, e col successivo capovolgersi dei cubi sempre nuove parole e frasi comparivano sulla macchina. Gli scolari si dedicavano a tale occupazione per sei ore del giorno.

[…] Il professore mi fece vedere diversi volumi in folio pieni di frasi sconnesse ch’egli aveva raccolto e di cui pensava fare un estratto, ripromettendosi di cavar fuori da codesto materiale, il più ricco del mondo, una vera enciclopedia scientifica e artistica. Egli sperava che codesto suo lavoro, spinto con energia, avrebbe toccata la massima perfezione, a patto che la popolazione consentisse a fornire il denaro necessario per impiantare cinquecento consimili macchine in tutto il regno, e che i sovrintendenti dei vari istituti mettessero in comune le loro personali osservazioni.”

Il bersaglio neppure troppo mascherato della satira di Swift è qui la Royal Society, fondata settant’anni prima sul modello prefigurato da Francesco Bacone; ma più in generale è l’ideologia del progresso che va affermandosi in tutta la cultura europea sotto le specie dell’Illuminismo. Swift non è un antiscientifico né un oscurantista. Rifiuta però ogni dogma, e quindi anche quello illuminista secondo cui la scienza e la ragione porteranno inevitabilmente al progresso umano. Quando queste diventano fini a sé stesse, – ci dice – slegate dall’etica e dalla realtà, si trasformano in un’altra forma di superstizione. La satira di Laputa anticipa quindi la critica alla tecnocrazia e all’alienazione dell’intelligenza che attraverserà la modernità.

Con la macchina per produrre poesia o trattati filosofici e scientifici, siamo in presenza dei primi vagiti dell’Intelligenza Artificiale. Mi sembra significativo che i testi nascano da combinazioni di lettere, e poi di paragrafi, e così via. Queste combinazioni non sono propriamente casuali, seguono da un certo punto in poi una loro logica quantitativa di ricorrenza, ma non quella della pregnanza o della consequenzialità di un concetto. Non molto diversamente da quanto accade per i discorsi dei nostri politici o per le recensioni dei nostri critici letterari.

Di per sé, la selezione e memorizzazione di combinazioni dotate di senso a partire da una base di dati casuali è teoricamente possibile, anche se del tutto improbabile. Presuppone un algoritmo in grado di sondare per un tempo infinito una massa di dati altrettanto infinita. Swift sembra qui anticipare l’idea del teorema della scimmia instancabile di Borel, per il quale una scimmia che prema a caso i tasti di una tastiera per un tempo infinitamente lungo quasi certamente riuscirà a comporre qualsiasi testo prefissato, compresa la Divina Commedia. Solo che oltre che instancabile la scimmia dovrebbe essere anche immortale.

Ma forse aveva in mente un’invenzione molto più vicina al suo tempo, la calcolatrice meccanica progettata sessant’anni prima da Leibnitz, che azionata con una manovella avrebbe dovuto realizzare attraverso un sistema di ruote dentate ogni tipo di operazione matematica elementare. E soprattutto aveva presente il fiasco della presentazione di questa macchina alla Royal Society, che portò all’abbandono del progetto.

Passammo poi alla scuola delle lingue, dove tre professori discutevano insieme sul modo di perfezionare l’idioma del paese.

Il loro primo disegno era di rendere più conciso il discorso, riducendo tutti i polisillabi a monosillabi e sopprimendo i verbi e ogni altra parte del discorso, tranne i sostantivi: perché in realtà tutti gli oggetti di questo mondo si possono rappresentare con sostantivi.

I futuristi non hanno inventato nulla. Anzi, erano già stati ampiamente superati dal progetto di riforma laputiano.

Infatti: “Ma il sistema di riforma più radicale doveva consistere, secondo loro, nel fare a meno addirittura delle parole, con grande risparmio di tempo e beneficio per la salute; perché è chiaro che ogni parola da noi pronunziata corrode i nostri polmoni e li danneggia, accorciando così la nostra esistenza. Ora, siccome le parole sono in conclusione i nomi delle cose, costoro proponevano semplicemente che ognuno portasse seco tutti gli oggetti corrispondenti all’argomento delle varie discussioni. E la riforma sarebbe certamente stata adottata, con notevole vantaggio della salute e del comodo generale, se il popolaccio, e specialmente le donne, non avessero minacciato di fare addirittura la rivoluzione qualora fosse loro vietato di parlare nella solita lingua, come i loro antenati avevano fatto fin lì: tanto il volgo è costante e irreconciliabile nemico della scienza!

Tuttavia, il nuovo metodo era adoperato da alcuni dei più illuminati e dotti personaggi, i quali se ne trovavano benissimo. Il solo inconveniente s’affacciava quando costoro dovevano trattare di parecchi e complicati argomenti, perché in tal caso erano costretti a portare addosso dei pesi enormi; a meno che non potessero permettersi il lusso di mantenere un paio di robusti facchini per codesto ufficio. Più d’una volta ho osservato due di codesti scienziati, curvi sotto il peso del loro fardello, fermarsi in mezzo alla strada per conversare, posare in terra il sacco e slegarlo; poi, dopo un’ora di colloquio, aiutarsi reciprocamente a ripigliare il carico sulle spalle e riprendere il cammino.

S’intende che, mentre per i discorsi più comuni ciascuno portava indosso tutti gli oggetti necessari per farsi capire, in ogni casa v’era poi una provvista di molti altri oggetti; e nei locali dove si doveva tenere qualche adunanza di adepti della nuova lingua, si trovava ogni sorta di cose capaci di sopperire alla più complessa conversazione artificiale. E si noti che questo nuovo sistema aveva anche il sommo pregio d’essere universale, cioé di fornire un idioma comune a tutti i popoli civili, come sono loro comuni, press’a poco, tutti gli utensili e gli oggetti d’uso; né gli ambasciatori avrebbero avuto più bisogno, così, di studiare le lingue straniere per trattare coi principi e coi ministri degli altri paesi.”

Fantastico! Questa si chiama concretezza del linguaggio. Certo, funziona solo per la denotazione, e immagino che Heidegger per tenere le sue lezioni o conferenze avrebbe dovuto viaggiare con una carovana di muli. Ma a pensarci bene ci stiamo già avviando, a dispetto delle apparenze, proprio verso un uso essenzialmente denotativo (che è in fondo la condizione comunicativa e relazionale da cui siamo partiti). Il che potrebbe essere un bene per la sopravvivenza della specie, ci si capirebbe meglio, ma non lo è certo per la sua evoluzione.

E infine, Gulliver approda dove viene “concretamente” impartito il sapere sommo:

Visitai finalmente la scuola di matematica, in cui trovai un professore che adoperava, per l’istruzione dei suoi scolari, un metodo che in Europa nessuno sarebbe mai stato capace d’inventare. Ogni dimostrazione, proposizione o teorema veniva scritto sopra una piccola ostia, con uno speciale inchiostro di succo cefalico.

Lo studente inghiottiva l’ostia e stava digiuno tre giorni, nutrendosi solo d’un po’ di pane e acqua. Durante la digestione dell’ostia, il succo cefalico saliva al cervello e vi recava l’esercizio o il teorema desiderato.

Questo sistema non aveva dato, a quanto sentii riferire, risultati molto brillanti; ma ciò era dovuto solo al fatto d’essersi ingannati nel quantum, cioè nella dose del succo cerebrale; oppure anche al contegno maligno e ribelle degli scolari, i quali trovando nauseante il sapore dell’ostia, invece d’inghiottirla la sputavano da una parte, o dopo averla inghiottita la rivomitavano prima che potesse compiere il suo effetto, oppure anche non avevano la costanza di mantenere per tre giorni il regime d’astinenza necessario.”

Non sarà efficace, ma temo sia l’ultima possibilità che ci rimane. Magari aggiornando un po’ il sistema alle più recenti e sofisticate tecnologie: che so, inoculando ai nostri studenti per via endovena dei chips carichi di informazioni e di formule. Rimarrebbero degli asini comunque, ma almeno ci risparmieremmo i trucchi e le sceneggiate per copiare durante i compiti in classe e gli esami.

A questo punto sarà chiaro che Swift è tutto tranne un utopista. Semmai lo è al contrario. I quattro mondi in cui spedisce Gulliver sono il condensato di tutte le storture della società del suo tempo (e del nostro), e vengono esplorati seguendo lo schema perfettamente calibrato dei “mondi alla rovescia” (i lillipuziani sono un dodicesimo di Gulliver, i brobdingnaggiani sono dodici volte più grandi, in ossequio al modello duodecimale inglese: gli abitanti di Laputa sono tutto sommato degli asini irrazionali, mentre i cavalli che governano la Houyhnhnmland sono virtuosi e razionali, ma rigorosi sino alla crudeltà; e così via).

Alla fine I viaggi si rivelano essere un libello contro ogni fanatismo, che indica la via del buon senso comune non per fiducia nella natura umana ma anzi, per l’estrema sfiducia in una sua futura perfettibilità. Swift non crede nelle riforme né nelle rivoluzioni, e tantomeno in un nostalgico ritorno al passato. È un reazionario sui generis, che attacca tutti i pilastri della civiltà occidentale settecentesca, l’idea che la storia proceda verso il meglio, che la scienza porti verità, che la politica miri al bene comune; e ne ha ben donde: Come irlandese, sia pure protestante, e quindi appartenente alla classe dei dominatori, non può ignorare quanto è accaduto e quanto sta accadendo nella sua sfortunatissima isola, la miseria in cui vivono i suoi connazionali, il criminale disinteresse dell’amministrazione inglese, la corruzione che impera nelle istituzioni. Il suo pessimismo pesca però ancor più dal profondo, non nasce dalla situazione contingente in cui è immerso. Pensa che l’uomo sia intrinsecamente corrotto, ciò che in fondo pensava anche Kant, ma al contrario di quest’ultimo ritiene che ogni tentativo di riformarlo conduca al disastro o alla disumanizzazione. E qualche dubbio in proposito, se ci guardiamo attorno, riesce a sollevarlo.

Per quanto concerne poi le proiezioni sul futuro, occorre dire che malgrado il suo intento fosse di mettere alla berlina le fobie che angustiano i lapuziani (ad esempio, che la terra possa essere distrutta dalla coda di una cometa, o che il sole vada gradualmente esaurendo la sua energia) o l’assurdità dei loro progetti, paradossalmente in molti casi il nostro reverendo ci ha azzeccato. E non per un uso sfrenato della fantasia, ma perché evidentemente, a dispetto del suo sprezzo per le scienze e le tecnologie moderne, era anche molto informato. Ad esempio, attribuisce agli astronomi di Laputa la scoperta di due satelliti orbitanti attorno a Marte, scoperta che arrivò nella realtà solo un secolo e mezzo dopo la pubblicazione dei Viaggi. È molto probabile che Swift si rifacesse a una ipotesi già avanzata da Keplero, che a sua volta l’aveva formulata in base alla sua teoria che il numero dei satelliti del sistema solare segua una progressione geometrica. E addirittura, nell’indicarne le dimensioni e i tempi di percorrenza dell’orbita, applica proprio la terza legge di Keplero.

Persino quando satireggia i progetti più assurdi degli accademici di Lagado, quelli ad esempio del riciclo degli escrementi o dell’uso delle ragnatele in luogo della seta, non finisce molto lontano da quanto sta accadendo oggi. Per i primi al momento siamo ancora all’utilizzo per produrre non solo fertilizzanti, ma biometano, una fonte di energia rinnovabile: ma è presumibile che nei laboratori cinesi si stia già andando oltre. Quanto alle seconde, la seta di ragno, stanti le sue caratteristiche di eccezionale resistenza viene studiata per sviluppare materiali innovativi e ultrarobusti, da impiegare addirittura per i giubbotti antiproiettile. Solo l’esiguità della materia prima e la difficoltà di coltivare i ragni in allevamento impedisce oggi una produzione su larga scala, per cui si sta studiando di modificare geneticamente i bachi da seta, ibridandoli.

Questo significa che l’intenzione satirica non ha impedito a Swift di guardare avanti, sia pure con lucida e profonda angoscia. Non si è limitato a trattare come fantasie deliranti le promesse della tecnica, ma ha subodorato dove avrebbe potuto condurre il fanatismo che si stava sviluppando nei confronti di quest’ultima.

Del resto, una cosa simile ha fatto anche nella descrizione dei regimi politici e rapporti sociali vigenti negli altri stati che Gulliver visita. Ma lo scenario futurologico che più mi pare azzeccato rimane quello che vede i lapuziani ciondolare completamente rimbambiti per le strade dell’isola, seguiti dai “batacchiari”. È uno scenario che conosciamo benissimo: solo che anziché risucchiati dalle loro “profonde meditazioni” i moderni lapuziani lo sono dai monitor dei loro cellulari. E purtroppo non hanno batacchiatori a risvegliarli.

Ci sarebbe moltissimo altro da dire e da scoprire sul Gulliver: non vi si parla solo dei lillipuziani. Ma io non sono una scimmia instancabile, e il tempo che ho davanti è tutt’altro che infinito.

Per cui lascio a voi il piacere di farlo. Esistono ancora cose che possono riempirci intelligentemente la vita, e che spesso diamo troppo per scontate, mentre in realtà non le conosciamo affatto. Forse avremmo bisogno tutti quanti di “batacchiari” che ci facessero aprire ogni tanto gli occhi e rimettere in moto il cervello.

Primavere perdute

(e un solo lungo inverno)

di Paolo Repetto, 9 aprile 2021

I remake sono già insopportabili al cinema, figuriamoci quando a riproporsi tale e quale è una realtà come quella della clausura coatta. In queste prime giornate d’aprile, infatti, quanto a numeri dei contagi e dei decessi, e a conseguenti restrizioni, siamo esattamente nella condizione di un anno fa. E andrebbe addirittura peggio, se terapie più mirate non contenessero bene o male le dimensioni della strage.

A non essere più lo stesso è invece lo stato d’animo col quale affrontiamo la pandemia. Forse siamo meno spaventati. Ma se avvertiamo una pressione minore è solo perché ci stiamo abituando, e se prendiamo le regole meno alla lettera è perché in realtà abbiamo introiettato e troviamo naturali le precauzioni elementari (parlo delle persone normali, naturalmente: gli idioti non fanno testo, anche se fanno danni). Soprattutto, la speranza che ci sorreggeva la primavera scorsa, per cui l’estate avrebbe posto fine all’incubo, quella è totalmente svanita. Adesso sappiamo che con la pandemia dovremo convivere ancora per molto, cosa che per quelli della mia età significa per sempre. Nemmeno i vaccini riescono a rischiarare il futuro (ultimamente lo hanno reso anzi ancora più cupo: perché non ci sono, o perché quelli che ci sono non sembrano funzionare granché).

Abbiamo una sola certezza: che nulla sarà più come prima. E dato che già prima avevamo un’idea molto confusa di come le cose andassero veramente, tendiamo a mitizzare quel recentissimo passato, a ricordarlo come un’età dell’oro. Non è solo frutto di una deformazione prospettica: in effetti, paragonata alla situazione che stiamo vivendo, quella di un anno e mezzo fa appare paradisiaca. Se allora navigavamo in acque poco tranquille, oggi siamo proprio in balia della tempesta. Stiamo perdendo d’un colpo tutte le sicurezze che secoli di “progresso” sembravano averci garantito.

Ora, a livello individuale questo sconquasso viene naturalmente vissuto in maniere molto diverse, a seconda delle condizioni oggettive, anagrafiche, di salute, di lavoro, di famiglia, o di ciò che effettivamente si è perduto: ma intervengono poi anche le differenti disposizioni caratteriali, per cui ciascuno è portato a leggere la situazione da un suo particolare angolo prospettico. E dato che ritengo abbia poco senso tentare sintesi di ampio respiro rispetto alla condizione nuova in cui siamo venuti a trovarci, e meno che mai azzardare dei bilanci, vorrei parlare proprio di questi atteggiamenti individuali. Nella fattispecie, come al solito, del mio: per cui è facile che ripeta cose già scritte in questi mesi. Ma lo metto in conto ad una sclerotizzazione tipica dell’età, e anche al fatto che d’altro non c’è in fondo molto da dire.

Allora, pur rimanendo consapevole che delle mie sensazioni e della mia attitudine non può fregare di meno a nessuno, provo a fare mente locale sulla particolarissima percezione che ho della tragedia e dei suoi anche più banali risvolti quotidiani: non fosse altro che per conservarne un po’ di memoria per i tempi in cui l’emergenza sarà alle spalle (sempre che arrivi a vederli), quando ciò che oggi mi sembra intollerabile sarà diventato normale: oppure per confrontare, già da subito, la mia percezione con quella altrui. Penso che non sarebbe male se un’operazione del genere la facessero tutti: aiuterebbe a mitigare i possibili (e molto probabili) eccessi di entusiasmo, e ad evitare di ripetere almeno un po’ degli errori che la pandemia ha messo drammaticamente in luce.

Partiamo dunque da ciò che sento di aver perso, iniziando dalle cose più serie, da quelle che non sono legate a semplici mie impressioni.

Primavere perdute 02

Ho (abbiamo) perso, ad oggi, quasi centoventimila vite. Questo dato tendiamo a rimuoverlo. È troppo grande, ci spaventa e non riusciamo a visualizzarlo. Oppure lo stemperiamo, dicendoci che si tratta delle vite di persone molto anziane (anche se non è vero). Siamo ridotti a pensare che a breve sarebbero comunque morte, e che in fondo avevano già vissuto una buona fetta di esistenza: cercando, o fingendo, di dimenticare che tutti moriremo comunque, prima o poi, e che in genere nessuno ha voglia che sia prima, o pensa di avere già vissuto più che a sufficienza. Non voglio fare il menagramo e pronunciare degli infausti memento mori, e nemmeno sono motivato dal fatto che tra gli anziani di medio periodo rientro ormai anch’io. Constato semplicemente che di fronte a certe cifre, che in tempi normali parrebbero spaventose, abbiamo maturato una quasi indifferente assuefazione. Io stesso, che pure da questa ecatombe continuo ad essere particolarmente turbato, non riesco ad andare molto oltre il dato numerico.

D’altro canto, è naturale che riusciamo a visualizzare solo le perdite prossime. E, come quasi tutti, ne ho anch’io di molto personali da piangere. Amici della mia generazione o più giovani di me, persone con le quali sino a dieci giorni prima facevo progetti. Nella mia percezione di queste perdite ha avuto un rilievo fortissimo l’assenza dei funerali. Loro sono stati defraudati del diritto ultimo che rimane a un defunto, quello di essere salutato dagli amici, e io sono stato defraudato di quello di salutarli. Può sembrare assurdo, ma se sto poco alla volta abituandomi alla loro scomparsa, non ho accettato affatto l’impossibilità di salutarli un’ultima volta. È come se le loro anime non potessero essere pacificate fino a quando in qualche modo non avrò dato loro un addio decente.

Queste perdite hanno cancellato molte consuetudini che avevo ritualizzato: le conversazioni davanti al caminetto o attorno alla tavola, le lunghe passeggiate urbane, il ritrovo ai mercatini o alle mostre, il semplice piacere di condividere in una telefonata scoperte, letture, aneddoti. Mi sono venuti meno dunque un sacco di riferimenti fissi, e lo dico sommessamente, consapevole che c’è chi con queste scomparse ha perso molto di più.

La sfera nella quale il Covid ha pesato maggiormente, anche quando non in maniera così brutale, è appunto quella delle amicizie. L’amicizia può esistere (e resistere) anche a distanza, ma si tratta di casi eccezionali. Di norma è legata alla possibilità di una consuetudine diretta. Mi riferisco al bisogno fisico e psicologico di vedere determinate persone, di portare avanti colloqui fatti a volte anche di poco o nulla, addirittura di silenzi, che riescono in presenza a loro modo eloquenti, del conforto difficilmente rappresentabile che danno certe prossimità. La clausura non mi ha fatto perdere delle amicizie, ma certamente me le ha fatte riconsiderare. Mi ha consentito di capire quali erano interinali e quali a tempo indeterminato, e il criterio di valutazione, se di criteri si può parlare rispetto ad un’amicizia, è stato proprio il bisogno della presenza fisica, di concertare o immaginare o fare cose assieme. Ricordo che nella prima fase pandemica si celebrava il soccorso arrecato dai social, dalle reti virtuali: ma non c’è voluto molto per rendersi conto di quanto questo surrogato sia fragile, insipido ed evanescente.

Anche le restrizioni negli spostamenti e negli incontri hanno naturalmente ridimensionato, in qualche caso azzerato, le vecchie abitudini. Per quanto abbia interpretato i divieti in maniera piuttosto permissiva, improntata al buon senso piuttosto che alla lettera (non è stato difficile, vista l’incredibile confusione delle normative che si sono succedute), ho forzatamente diradato o annullato riunioni conviviali, escursioni di gruppo, conferenze e occasioni svariate di incontro e di scambio: tutte le cose attorno alle quali, sia pure in maniera molto improvvisata e aperta, era ormai organizzata da qualche anno la mia vita. Mi mancano particolarmente i seminari di storia delle idee, perché in fondo erano la naturale prosecuzione di una attività didattica svolta per tutta la vita, con in più il piacere del confronto alla pari, della libertà assoluta nella scelta dei temi e nei modi della loro trattazione, ma soprattutto perché erano una miniera di stimoli e arricchivano senz’altro più me che non i miei uditori. Ho preferito non proseguire quelle attività on-line, da remoto, perché sono convinto che il loro vero valore risieda nell’empatia comunicativa che solo può crearsi in presenza, che si trasmette attraverso l’immediatezza sincera dei gesti, delle posture, degli sguardi.

Ciò nonostante ho continuato per tutto questo ultimo anno a immaginare argomenti per le future conversazioni, a concepire per ogni nuova suggestione la forma di una trattazione colloquiale, come facevo prima: ma riesce difficile quando non c’è una destinazione precisa, una scadenza da rispettare. E anche il mettere le cose per iscritto è un impoverimento, rispetto a quello che può emergere nel corso di una esposizione orale. Platone lo aveva già ben chiaro duemila e passa anni fa, quando negava alla scrittura una vera capacità maieutica. Insomma: avverto ancora più pesante la sensazione di aver accumulato tante cose delle quali vorrei fare partecipi altri, e che invece sembrano destinate all’inutilità.

Diversa è la situazione riguardo ai viaggi e agli spostamenti. A mancarmi, in questo caso, è piuttosto la possibilità di immaginarli, di programmarli, che non la loro concreta realizzazione. Si tratti di viaggi veri e propri o di semplici scappate di giornata, mi rendo conto che per me il motivo maggiore di piacere era l’idea di poterlo fare. Di decidere, prendere su e andare. Dopo una lunga stasi avevo ricominciato a sentir prudere le gambe, forse nell’inconfessata consapevolezza che i tempi per permettermi queste cose (così come tutte le altre) stringono: ora, costretto al tapis roulant fisico e mentale, sento già affievolirsi le forze e la voglia.

Tutto questo ha però niente a che vedere con il senso di soffocamento che sembra rendere impossibile la vita a buona parte dei miei connazionali (chissà come si sentirebbero se vivessero in Cina). Il fatto di non essere totalmente libero di muovermi o di incontrare gli amici non lo considero un attentato alla mia libertà. Penso al contrario che non dovremmo nemmeno aspettare che siano altri ad imporci delle limitazioni, dovremmo arrivarci per conto nostro. Questa è la vera libertà: essere consapevoli del rischio, per la salute nostra e per quella degli altri, che questi movimenti e questi incontri possono comportare. La libertà è coscienza del dovere, solo alla quale consegue legittimamente la rivendicazione del diritto: e dal momento che il mio primo dovere è di non recare danno a nessuno, l’espressione massima della libertà è proprio questa, sapere e potere agire in modo da non nuocere.

Quella che percepisco di meno, e la cosa può apparire paradossale, perché ho piena consapevolezza del disastro che si profila, è il disagio economico. Non è questione di miope egoismo: come pensionato godo per il momento di una situazione privilegiata, ma so perfettamente che è destinata a durare ancora per poco, e che chi non è stato ancora colpito lo sarà al più presto. A furia di scostamenti il bilancio si sporgerà oltre l’orlo e finirà rovinosamente a terra, e il debito qualcuno dovrà pagarlo. Rispetto a queste cose, a differenza che nei confronti del Covid, sono vaccinato: stanti le mie origini mi sto preparando da una vita ad una evenienza del genere. Non me la auguro, ma nemmeno vivo questa prospettiva nel segno dell’angoscia: sarebbe solo il ritorno ad una condizione di precarietà che ho già conosciuto, e che ho la presunzione di saper affrontare. Il problema vero è che ho figli e nipoti, e loro a questa condizione sarebbero del tutto impreparati. Questo mi preoccupa.

Primavere perdute 03

Qualcosa ho perso anche nei confronti della scuola. Non direttamente, perché con la scuola non ho mantenuto alcun rapporto o impegno diretto. Ma indirettamente constato l’accelerazione dello smottamento attraverso coloro che la scuola la frequentano, o chi vi è ancora impegnato, e trovo che sia devastante. Continuavo a coltivare l’illusione, pur sapendo benissimo che di illusione si trattava, che un qualche evento particolare, felice o drammatico che fosse, avrebbe costretto a mettere finalmente mano a un risanamento della scuola. Parlo di risanamento, e non di rinnovamento o di riforma, perché di queste ne abbiamo avute sin troppe, una più rovinosa dell’altra. Risanare la scuola significa per me riconferirle un ruolo, un prestigio, una missione. E questo può essere fatto solo attraverso la ridefinizione di quelle che sono le sue finalità, la revisione di quelli che sono gli strumenti e le strade atti a raggiungerli, il reclutamento di operatori che sappiano davvero usare questi strumenti e percorrere queste strade. Scopi chiari, criteri di valutazione certi (degli studenti come degli insegnanti), luoghi sicuri, tempi congrui.

Sta accadendo esattamente l’opposto. L’emergenza è stata affrontata con provvedimenti uno più insensato dell’altro (i banchi a rotelle!), con decisioni prese sempre sull’onda delle pressioni mediatiche, per mostrare che qualcosa si stava facendo, senza una volta dire chiaro e tondo come stanno le cose: e cioè che la didattica a distanza non è una opportunità ma una sciagura e che le riaperture a singhiozzo avevano l’unico scopo di tacitare i genitori sfiniti. Si sono confusamente raccontate favole alla Baricco sulla “nuova intelligenza digitale”, si sono reclutati insegnanti “di supporto” con compiti sempre più espliciti di assistenza al parcheggio, ci si è riempiti la bocca di termini inglesi per mascherare la fuffa concettuale. Il risultato è che si sono persi due anni scolastici, né più né meno come se le scuole fossero rimaste chiuse, e non si è profittato di questa pausa per fare un concorso decente che sia uno o per riparare almeno le falle dei tetti degli edifici. Banchi a rotelle e piattaforme digitali. L’unico valore in crescita positiva è rimasto quello dell’analfabetismo di ritorno.

Quella che non ho perso del tutto è invece la fiducia nella scienza, anche se devo fare un bello sforzo per continuare a nutrirla. E sono tra i non molti che sanno che dietro i pagliacci esibiti in tivù c’è un sacco di gente in gamba. Figuriamoci la considerazione che possono averne tutti gli altri, coloro che nemmeno immaginano esista una realtà al di fuori di quella raccontata dal teleschermo, e attraverso quello hanno assistito al balletto delle comparsate e dei contrapposti protagonismi. La vicenda dei vaccini è emblematica. È stata ridotta ad un problema di tipo prettamente industriale, di rivalità politiche ed economiche, e a nessuno sembra minimamente interessare il percorso scientifico che sta a monte di quelle fiale. Anche in questo caso, ciò che è frutto di una conquista, di un sapere, di un modello conoscitivo che non è quello degli sciamani o dei taumaturghi ayurvedici, è percepito come qualcosa di dovuto. Si contesta la scienza, ma ci si attende e si pretende che risolva poi ogni nostro problema, e si scalpita se tarda a farlo.

Stavo per scrivere, in conclusione, che ho perso definitivamente il Futuro. In realtà non è stata una gran perdita, non lo vedevo più da un pezzo: diciamo che la pandemia mi ha aiutato a metterci definitivamente una pietra sopra. Questo significa che ho perso soprattutto la voglia, un po’ in generale tutte le voglie. Per questo non mi pesano più di tanto le restrizioni, che come dicevo ho preso con filosofia: non soffro la mancanza di libertà, ma il fatto che di questa libertà non saprei che fare, e che se anche lo sapessi non avrei più voglia di farlo. Questa primavera non ho messo a dimora nemmeno un alberello, e neppure una piantina di rose. Mi sono limitato a una svogliata manutenzione di routine, in campagna e in casa. Mi rimangono il presente e il passato. Nel primo galleggio, nel secondo sono sempre più immerso, ma senza coltivare nostalgie: cerco di rimettere ordine nei ricordi consegnati agli scaffali, e ogni tanto ne risfoglio qualcuno. Non mi chiedo più che ne sarà dopo.

Ma non è così che voglio chiudere. All’inizio ho accennato alle banalità che ci danno il senso di una cesura totale col passato, e ho finito poi per parlare solo di cose serie. Invece le percezioni piccole ci sono, arrivano da dove meno te le aspetti. Mi limito ad un esempio, per non scadere come al solito nell’aneddotica.

In questo periodo ho dovuto frequentare con una certa assiduità lo studio del mio dentista. Lì la percezione di una perdita c’è naturalmente già in partenza, e riguarda tanto il tuo portafoglio quanto la tua bocca. Ma questo valeva anche prima del Covid. Il tocco nuovo, la sfumatura significativa, l’ho conosciuta invece nella sala d’aspetto. Non c’è più una rivista. Quei dieci minuti o la mezz’ora di attesa li riempivo con una scorpacciata di informazioni che solo in quella occasione o in altre simili (studi medici, parrucchiere, ecc…) ero in grado di procurarmi. Mi aggiornavo sui prezzi delle auto con Quattroruote (anche se un po’ in ritardo, perché le riviste erano sempre vecchie di almeno sei mesi), sui modelli più raffinati di doppiette o sovrapposti con Diana o con Sentieri di caccia, ma soprattutto sul gossip, sulle ultime disavventure di Al Bano o di Emanuele Filiberto attraverso Cronaca vera o Chi. Scomparse. Ho provato a portarmi un libro ma non funziona, lì non attacca. Il piacere era nei titoli dei reportage, nelle foto, e nella serialità. Da un anno e passa ho perso totalmente di vista Al Bano: non so se sia vivo o morto, o magari cresciuto, se si sia beccato il Covid o abbia fatto outing, se sia tornato con Romina. La nebbia assoluta. E questo dà la misura della mia distanza dal mondo, spiega perché ne capisco così poco.

Ma non basta. Recentemente ho avuto occasione di seguire, senza volerlo, in un altro studio medico (mi sembra ormai di non frequentare altro), la conversazione tra due signore che come me erano in attesa. Una volta si sarebbero immerse nella lettura, al più avrebbero commentato malignamente gli ultimi amori della Hunziker o la scollatura di qualche giornalista televisiva: invece, orfane delle riviste, stavano parlando delle trame del governo, della pandemia creata ad hoc per imbrigliarci tutti, del complotto dei vaccini. Non so se siano finite sugli ebrei perché nel frattempo era arrivato il mio turno. Sono uscito traumatizzato. Ho capito che ci stavamo davvero perdendo molto più di quel che temiamo, ma che il futuro, purtroppo, non ce lo siamo affatto perso. È quello e, a dispetto della rassicurante continuità delle beghe interne al PD, è già cominciato.

Primavere perdute 04

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