I viaggi nel futuro del reverendo Swift

di Paolo Repetto, 1° novembre 2025

La falsità spicca il volo
e la verità la segue zoppicando.

Jonathan Swift

Ci voleva l’ennesima personalissima emergenza sanitaria per indurmi a rileggere I viaggi di Gulliver, In realtà non si è trattato di una rilettura, perché la prima volta, più di sessant’anni fa, avevo tra le mani una versione ridotta, tanto ridotta da farlo sembrare un libro di avventure. Mi sono trovato a leggere in effetti un libro completamente nuovo, e a rimpiangere di non averlo fatto prima.

Ci sarebbe molto da raccontare, e su cui meditare, ma ho scelto ad esemplificazione del tutto alcune pagine che trovo particolarmente gustose e attuali. Il resto, se volete e se ancora non lo avete fatto, potrete trovarlo in una delle almeno dieci traduzioni italiane attualmente circolanti. In quella di cui mi sono avvalso (nell’Economica Feltrinelli) sono circa trecentocinquanta pagine.

Nella terza parte del libro il protagonista racconta il viaggio che lo ha portato a Laputa, un’isola sospesa per aria. Laputa è una roccia volante, sul tipo di quella de Il castello dei Pirenei di Magritte, che poggia su una base piatta di diamante e che può essere manovrata dai suoi abitanti utilizzando un gigantesco e complicato magnete (la cosa fa presumere una passata altissima capacità tecnologica, che sembra però ormai del tutto svanita). Gli isolani sono tutti scienziati, astronomi e filosofi, che vivono perennemente (e letteralmente) con la testa fra le nuvole, dedicandosi a esperimenti e invenzioni assurdi e totalmente inutili, perché non hanno alcun rapporto con la vita reale. “Sembra che codesta gente sia tanto immersa nelle sue profonde meditazioni da trovarsi in uno stato di perpetua distrazione, dimodoché nessuno può parlare né udire i discorsi altrui se qualche impressione esterna non viene a scuotere i suoi organi vocali o uditivi”. L’“impressione esterna” è creata da un particolare servitore personale, il “batacchiario”, “munito di un bastoncello con una vescica gonfia fissata in cima, piena di piselli secchi o di sassolini […] ed è compito di questo famulo, quando due o più persone si radunano, batacchiare dolcemente la vescica sulla bocca di chi deve parlare, indi sull’orecchio destro della persona, o delle persone cui il discorso è rivolto”. E ancora, durante il passeggio “dare al padrone una lieve batacchiata sugli occhi”, per evitargli di capitombolare o di dare col capo in ogni palo, o di spingere gli altri o di essere spinto nella cunetta di scolo”.

La roccia volante domina dall’alto un’area di terraferma, il regno di Balnibarbi, un tempo fiorente e ora ridotto alla desolazione e alla miseria, proprio a causa delle innovazioni nei metodi di coltivazione dei campi e di costruzione degli edifici imposti dai laputiani.

Nella capitale di questo regno, Lagado, ha sede una celebratissima Accademia, alla cui visita Swift dedica il quinto capitolo. Il suo alter ego descrive il funzionamento dell’accademia ed elenca le “arti e scienze in cui si esercitavano quei dotti”. Nel corso della visita, che si protrae per più giorni, il viaggiatore incontra una serie di personaggi l’uno più strambo dell’altro, tutti accomunati dall’aspetto esaltato, dagli abiti sporchi e stracciati, dal fetore che emanano e dall’abitudine di scroccare mance e oboli, oltre che da una spiccata tendenza a trafficare con gli escrementi. Ci troviamo quello che si dedica da otto anni a estrarre dai cetrioli i raggi del sole, per stoccarli in fiale di vetro e usarli poi per riscaldare le estati inclementi; quello che vuole ricondurre gli escrementi umani al cibo originale che li componeva, separando i diversi elementi; quello che vuole trasformare il ghiaccio in polvere da sparo; l’architetto che ha inventato un metodo per costruire le case partendo dal tetto e il biologo che vuole sostituire la seta dei bachi con le ragnatele tessute da insetti; il medico che cura le coliche aspirando per via rettale con un mantice le ventosità intestinali, o viceversa, insufflando aria con lo stesso strumento. Insomma, un vero e proprio manicomio. Questo per la parte dell’istituto riservata alle invenzioni meccaniche. Ma ce n’è un’altra, assegnata agli studiosi delle scienze astratte, non meno allucinata: e inquietante.

In questa seconda sezione “lavorano” i progettisti del “sapere speculativo”. E qui l’incubo di Gulliver si proietta nel futuro. Il primo sapiente che incontra presiede, con quaranta allievi, a un gigantesco macchinario simile ad un enorme telaio: “Tutti sanno, disse, che i metodi comunemente adottati per arrivare alle diverse nozioni scientifiche e ideali sono faticosi e difficili; col suo nuovo sistema, invece, anche un ignorante poteva scrivere libri di filosofia o di poesia, trattati di politica e di matematica, senza bisogno di speciale vocazione né di studio: bastava una modesta spesa e un piccolo sforzo muscolare.

Nello spiegarmi ciò, egli mi fece vedere il meccanismo intorno a cui stavano i suoi scolari. Il professore mi avvertì che stava per mettere in moto la macchina: a un suo cenno, infatti, ciascun allievo prese in mano un manubrio di ferro (ve ne sono quaranta fissati lungo il telaio). Essi, facendolo girare, cambiarono totalmente la disposizione dei dadi, e perciò delle parole corrispondenti. Allora il professore ordinò a trentasei dei suoi scolari di leggere fra sé le frasi che ne risultavano, via via che le parole apparivano sul telaio; e quando trovassero tre o quattro parole che avessero l’apparenza d’una frase, di dettarle agli altri quattro giovinetti, che facevano da segretari. Questo esercizio fu ripetuto diverse volte, e col successivo capovolgersi dei cubi sempre nuove parole e frasi comparivano sulla macchina. Gli scolari si dedicavano a tale occupazione per sei ore del giorno.

[…] Il professore mi fece vedere diversi volumi in folio pieni di frasi sconnesse ch’egli aveva raccolto e di cui pensava fare un estratto, ripromettendosi di cavar fuori da codesto materiale, il più ricco del mondo, una vera enciclopedia scientifica e artistica. Egli sperava che codesto suo lavoro, spinto con energia, avrebbe toccata la massima perfezione, a patto che la popolazione consentisse a fornire il denaro necessario per impiantare cinquecento consimili macchine in tutto il regno, e che i sovrintendenti dei vari istituti mettessero in comune le loro personali osservazioni.”

Il bersaglio neppure troppo mascherato della satira di Swift è qui la Royal Society, fondata settant’anni prima sul modello prefigurato da Francesco Bacone; ma più in generale è l’ideologia del progresso che va affermandosi in tutta la cultura europea sotto le specie dell’Illuminismo. Swift non è un antiscientifico né un oscurantista. Rifiuta però ogni dogma, e quindi anche quello illuminista secondo cui la scienza e la ragione porteranno inevitabilmente al progresso umano. Quando queste diventano fini a sé stesse, – ci dice – slegate dall’etica e dalla realtà, si trasformano in un’altra forma di superstizione. La satira di Laputa anticipa quindi la critica alla tecnocrazia e all’alienazione dell’intelligenza che attraverserà la modernità.

Con la macchina per produrre poesia o trattati filosofici e scientifici, siamo in presenza dei primi vagiti dell’Intelligenza Artificiale. Mi sembra significativo che i testi nascano da combinazioni di lettere, e poi di paragrafi, e così via. Queste combinazioni non sono propriamente casuali, seguono da un certo punto in poi una loro logica quantitativa di ricorrenza, ma non quella della pregnanza o della consequenzialità di un concetto. Non molto diversamente da quanto accade per i discorsi dei nostri politici o per le recensioni dei nostri critici letterari.

Di per sé, la selezione e memorizzazione di combinazioni dotate di senso a partire da una base di dati casuali è teoricamente possibile, anche se del tutto improbabile. Presuppone un algoritmo in grado di sondare per un tempo infinito una massa di dati altrettanto infinita. Swift sembra qui anticipare l’idea del teorema della scimmia instancabile di Borel, per il quale una scimmia che prema a caso i tasti di una tastiera per un tempo infinitamente lungo quasi certamente riuscirà a comporre qualsiasi testo prefissato, compresa la Divina Commedia. Solo che oltre che instancabile la scimmia dovrebbe essere anche immortale.

Ma forse aveva in mente un’invenzione molto più vicina al suo tempo, la calcolatrice meccanica progettata sessant’anni prima da Leibnitz, che azionata con una manovella avrebbe dovuto realizzare attraverso un sistema di ruote dentate ogni tipo di operazione matematica elementare. E soprattutto aveva presente il fiasco della presentazione di questa macchina alla Royal Society, che portò all’abbandono del progetto.

Passammo poi alla scuola delle lingue, dove tre professori discutevano insieme sul modo di perfezionare l’idioma del paese.

Il loro primo disegno era di rendere più conciso il discorso, riducendo tutti i polisillabi a monosillabi e sopprimendo i verbi e ogni altra parte del discorso, tranne i sostantivi: perché in realtà tutti gli oggetti di questo mondo si possono rappresentare con sostantivi.

I futuristi non hanno inventato nulla. Anzi, erano già stati ampiamente superati dal progetto di riforma laputiano.

Infatti: “Ma il sistema di riforma più radicale doveva consistere, secondo loro, nel fare a meno addirittura delle parole, con grande risparmio di tempo e beneficio per la salute; perché è chiaro che ogni parola da noi pronunziata corrode i nostri polmoni e li danneggia, accorciando così la nostra esistenza. Ora, siccome le parole sono in conclusione i nomi delle cose, costoro proponevano semplicemente che ognuno portasse seco tutti gli oggetti corrispondenti all’argomento delle varie discussioni. E la riforma sarebbe certamente stata adottata, con notevole vantaggio della salute e del comodo generale, se il popolaccio, e specialmente le donne, non avessero minacciato di fare addirittura la rivoluzione qualora fosse loro vietato di parlare nella solita lingua, come i loro antenati avevano fatto fin lì: tanto il volgo è costante e irreconciliabile nemico della scienza!

Tuttavia, il nuovo metodo era adoperato da alcuni dei più illuminati e dotti personaggi, i quali se ne trovavano benissimo. Il solo inconveniente s’affacciava quando costoro dovevano trattare di parecchi e complicati argomenti, perché in tal caso erano costretti a portare addosso dei pesi enormi; a meno che non potessero permettersi il lusso di mantenere un paio di robusti facchini per codesto ufficio. Più d’una volta ho osservato due di codesti scienziati, curvi sotto il peso del loro fardello, fermarsi in mezzo alla strada per conversare, posare in terra il sacco e slegarlo; poi, dopo un’ora di colloquio, aiutarsi reciprocamente a ripigliare il carico sulle spalle e riprendere il cammino.

S’intende che, mentre per i discorsi più comuni ciascuno portava indosso tutti gli oggetti necessari per farsi capire, in ogni casa v’era poi una provvista di molti altri oggetti; e nei locali dove si doveva tenere qualche adunanza di adepti della nuova lingua, si trovava ogni sorta di cose capaci di sopperire alla più complessa conversazione artificiale. E si noti che questo nuovo sistema aveva anche il sommo pregio d’essere universale, cioé di fornire un idioma comune a tutti i popoli civili, come sono loro comuni, press’a poco, tutti gli utensili e gli oggetti d’uso; né gli ambasciatori avrebbero avuto più bisogno, così, di studiare le lingue straniere per trattare coi principi e coi ministri degli altri paesi.”

Fantastico! Questa si chiama concretezza del linguaggio. Certo, funziona solo per la denotazione, e immagino che Heidegger per tenere le sue lezioni o conferenze avrebbe dovuto viaggiare con una carovana di muli. Ma a pensarci bene ci stiamo già avviando, a dispetto delle apparenze, proprio verso un uso essenzialmente denotativo (che è in fondo la condizione comunicativa e relazionale da cui siamo partiti). Il che potrebbe essere un bene per la sopravvivenza della specie, ci si capirebbe meglio, ma non lo è certo per la sua evoluzione.

E infine, Gulliver approda dove viene “concretamente” impartito il sapere sommo:

Visitai finalmente la scuola di matematica, in cui trovai un professore che adoperava, per l’istruzione dei suoi scolari, un metodo che in Europa nessuno sarebbe mai stato capace d’inventare. Ogni dimostrazione, proposizione o teorema veniva scritto sopra una piccola ostia, con uno speciale inchiostro di succo cefalico.

Lo studente inghiottiva l’ostia e stava digiuno tre giorni, nutrendosi solo d’un po’ di pane e acqua. Durante la digestione dell’ostia, il succo cefalico saliva al cervello e vi recava l’esercizio o il teorema desiderato.

Questo sistema non aveva dato, a quanto sentii riferire, risultati molto brillanti; ma ciò era dovuto solo al fatto d’essersi ingannati nel quantum, cioè nella dose del succo cerebrale; oppure anche al contegno maligno e ribelle degli scolari, i quali trovando nauseante il sapore dell’ostia, invece d’inghiottirla la sputavano da una parte, o dopo averla inghiottita la rivomitavano prima che potesse compiere il suo effetto, oppure anche non avevano la costanza di mantenere per tre giorni il regime d’astinenza necessario.”

Non sarà efficace, ma temo sia l’ultima possibilità che ci rimane. Magari aggiornando un po’ il sistema alle più recenti e sofisticate tecnologie: che so, inoculando ai nostri studenti per via endovena dei chips carichi di informazioni e di formule. Rimarrebbero degli asini comunque, ma almeno ci risparmieremmo i trucchi e le sceneggiate per copiare durante i compiti in classe e gli esami.

A questo punto sarà chiaro che Swift è tutto tranne un utopista. Semmai lo è al contrario. I quattro mondi in cui spedisce Gulliver sono il condensato di tutte le storture della società del suo tempo (e del nostro), e vengono esplorati seguendo lo schema perfettamente calibrato dei “mondi alla rovescia” (i lillipuziani sono un dodicesimo di Gulliver, i brobdingnaggiani sono dodici volte più grandi, in ossequio al modello duodecimale inglese: gli abitanti di Laputa sono tutto sommato degli asini irrazionali, mentre i cavalli che governano la Houyhnhnmland sono virtuosi e razionali, ma rigorosi sino alla crudeltà; e così via).

Alla fine I viaggi si rivelano essere un libello contro ogni fanatismo, che indica la via del buon senso comune non per fiducia nella natura umana ma anzi, per l’estrema sfiducia in una sua futura perfettibilità. Swift non crede nelle riforme né nelle rivoluzioni, e tantomeno in un nostalgico ritorno al passato. È un reazionario sui generis, che attacca tutti i pilastri della civiltà occidentale settecentesca, l’idea che la storia proceda verso il meglio, che la scienza porti verità, che la politica miri al bene comune; e ne ha ben donde: Come irlandese, sia pure protestante, e quindi appartenente alla classe dei dominatori, non può ignorare quanto è accaduto e quanto sta accadendo nella sua sfortunatissima isola, la miseria in cui vivono i suoi connazionali, il criminale disinteresse dell’amministrazione inglese, la corruzione che impera nelle istituzioni. Il suo pessimismo pesca però ancor più dal profondo, non nasce dalla situazione contingente in cui è immerso. Pensa che l’uomo sia intrinsecamente corrotto, ciò che in fondo pensava anche Kant, ma al contrario di quest’ultimo ritiene che ogni tentativo di riformarlo conduca al disastro o alla disumanizzazione. E qualche dubbio in proposito, se ci guardiamo attorno, riesce a sollevarlo.

Per quanto concerne poi le proiezioni sul futuro, occorre dire che malgrado il suo intento fosse di mettere alla berlina le fobie che angustiano i lapuziani (ad esempio, che la terra possa essere distrutta dalla coda di una cometa, o che il sole vada gradualmente esaurendo la sua energia) o l’assurdità dei loro progetti, paradossalmente in molti casi il nostro reverendo ci ha azzeccato. E non per un uso sfrenato della fantasia, ma perché evidentemente, a dispetto del suo sprezzo per le scienze e le tecnologie moderne, era anche molto informato. Ad esempio, attribuisce agli astronomi di Laputa la scoperta di due satelliti orbitanti attorno a Marte, scoperta che arrivò nella realtà solo un secolo e mezzo dopo la pubblicazione dei Viaggi. È molto probabile che Swift si rifacesse a una ipotesi già avanzata da Keplero, che a sua volta l’aveva formulata in base alla sua teoria che il numero dei satelliti del sistema solare segua una progressione geometrica. E addirittura, nell’indicarne le dimensioni e i tempi di percorrenza dell’orbita, applica proprio la terza legge di Keplero.

Persino quando satireggia i progetti più assurdi degli accademici di Lagado, quelli ad esempio del riciclo degli escrementi o dell’uso delle ragnatele in luogo della seta, non finisce molto lontano da quanto sta accadendo oggi. Per i primi al momento siamo ancora all’utilizzo per produrre non solo fertilizzanti, ma biometano, una fonte di energia rinnovabile: ma è presumibile che nei laboratori cinesi si stia già andando oltre. Quanto alle seconde, la seta di ragno, stanti le sue caratteristiche di eccezionale resistenza viene studiata per sviluppare materiali innovativi e ultrarobusti, da impiegare addirittura per i giubbotti antiproiettile. Solo l’esiguità della materia prima e la difficoltà di coltivare i ragni in allevamento impedisce oggi una produzione su larga scala, per cui si sta studiando di modificare geneticamente i bachi da seta, ibridandoli.

Questo significa che l’intenzione satirica non ha impedito a Swift di guardare avanti, sia pure con lucida e profonda angoscia. Non si è limitato a trattare come fantasie deliranti le promesse della tecnica, ma ha subodorato dove avrebbe potuto condurre il fanatismo che si stava sviluppando nei confronti di quest’ultima.

Del resto, una cosa simile ha fatto anche nella descrizione dei regimi politici e rapporti sociali vigenti negli altri stati che Gulliver visita. Ma lo scenario futurologico che più mi pare azzeccato rimane quello che vede i lapuziani ciondolare completamente rimbambiti per le strade dell’isola, seguiti dai “batacchiari”. È uno scenario che conosciamo benissimo: solo che anziché risucchiati dalle loro “profonde meditazioni” i moderni lapuziani lo sono dai monitor dei loro cellulari. E purtroppo non hanno batacchiatori a risvegliarli.

Ci sarebbe moltissimo altro da dire e da scoprire sul Gulliver: non vi si parla solo dei lillipuziani. Ma io non sono una scimmia instancabile, e il tempo che ho davanti è tutt’altro che infinito.

Per cui lascio a voi il piacere di farlo. Esistono ancora cose che possono riempirci intelligentemente la vita, e che spesso diamo troppo per scontate, mentre in realtà non le conosciamo affatto. Forse avremmo bisogno tutti quanti di “batacchiari” che ci facessero aprire ogni tanto gli occhi e rimettere in moto il cervello.

Gli orfani del progresso

di Paolo Repetto, 8 marzo 2021

Forse è solo un problema di disinformazione mia, dal momento che non leggo quasi più i giornali e non seguo la televisione. Mi sarà sfuggito qualcosa. Comunque sia, ho l’impressione che il recentissimo atterraggio della sonda Perseverance su Marte non abbia suscitato nell’opinione pubblica non dico entusiasmi, ma nemmeno una qualsivoglia emozione. Nei giorni successivi nessuno dei miei amici o conoscenti vi ha accennato: ed è gente che non segue solo il festival di Sanremo.

La cosa non mi ha meravigliato affatto: alla luce di quello che ci sta capitando, e pure al netto delle crisi di governo, dei giochi opachi di potere e degli intrallazzi che quotidianamente emergono, è un silenzio comprensibile. In fondo Perseverance non ha neppure il fascino della novità, visto che già altre quattro missioni hanno portato dei rover a calcare il suolo marziano, la prima addirittura venticinque anni fa (ma i primi oggetti terrestri a toccare Marte erano stati, fin dal 1971, i landers della missione sovietica Mars 3), e che in questo momento attorno al pianeta rosso ruotano una sonda cinese ed una sponsorizzata dagli Emirati arabi, mentre altre sono previste in arrivo nel corso dell’anno, per cui a breve ci vorranno i semafori. Ma sul piano prettamente tecnico-scientifico la valutazione è assai diversa: si tratta pur sempre di una missione importante, dalla quale si attendono grossi risultati. La sonda reca a bordo anche un drone, un mini elicottero, che dovrebbe scorrazzare nei cieli del pianeta, e una batteria incredibile di sensori che rileveranno l’esistenza o meno di condizioni per una ipotetica futura presenza umana. Non sono più cose da fantascienza, ma ancora sino a una decina d’anni fa lo erano.

Bene, di tutto questo a nessuno (se si escludono gli addetti ai lavori e i club di appassionati del settore), e a me per primo, lo confesso, importa granché. Un’affermazione del genere parrebbe smentita proprio da quanto dicevo prima, dall’affollamento delle orbite marziane oggi e dai possibili ingorghi sul pianeta rosso domani: ma la contraddizione è solo apparente. Il fatto è che nella percezione comune, non specialistica, queste missioni, per quanto strabilianti, non sembrano avere una ricaduta diretta, visibile, sulla nostra vita quotidiana, e nemmeno si capisce come potrebbero averne una futura (penso che per la mia generazione giochi la disillusione seguita all’avventura lunare, che per il momento, al di là di fantomatici sbocchi “turistici”, sembra tornata ad essere un’impresa fine a se stessa). Appaiono piuttosto mirate a scopi di propaganda politica, a offrire dimostrazioni di potenza tecnologica (e finanziaria, perché i costi sono altissimi). Sotto un profilo pratico, al massimo si può pensare siano finalizzate a sperimentare in condizioni estreme materiali, tecnologie, strumentazioni da riportare poi nella grande produzione sulla terra: ma credo che andare a testare su Marte macchine fotografiche o tessuti pressurizzati risulti un po’ eccessivo persino per le ambizioni produttive più sofisticate e innovative. È anche difficile immaginare che possano rivestire un vero interesse strategico, preludere ad esempio alla creazione di reti remote di controllo, perché allo stato attuale della velocità delle comunicazioni una ipotetica base marziana sotto questo aspetto non avrebbe alcun senso.

Di fatto dunque le missioni continuano, anzi, si infittiscono: ma per contro, quale che sia la consapevolezza diffusa dei loro scopi, non sembrano più sedurre nemmeno attraverso i risvolti spettacolari. C’è allora da chiedersi cosa sia accaduto negli ultimi cinquant’anni, confrontando l’attuale indifferenza con l’entusiasmo suscitato all’epoca dai primi passi umani sulla luna. Fosse un’attitudine solo mia, potrei pensare ad un problema di età: nei giorni della passeggiata di Amstrong avevo vent’anni e almeno teoricamente un mezzo secolo davanti per vedere come sarebbe andata a finire: oggi so benissimo che non lo vedrò, ma anche che tutto sommato non mi perderò molto, e non ne faccio un problema.

Ma non è una sensazione solo mia: almeno, non credo. E nemmeno penso che la scarsa attenzione collettiva sia dovuta solo al Covid, o riguardi soltanto le missioni spaziali. C’è dell’altro, la faccenda affonda più in profondità. C’è in ballo l’idea stessa di progresso, della quale queste missioni erano divenute le avanguardie. O meglio: la fine dell’idea stessa di progresso.

Ci spostiamo dunque su un tema enormemente complesso. Oserei dire, sul tema per eccellenza, quello che condizionerà la vita e le scelte delle generazioni future. In cosa potranno credere? E perché?

Non essendo un testimone di Geova non ho in mente risposte, mi limito a porre le domande. D’altro canto, chi fosse interessato ad approfondire la cosa a livello filosofico e sociologico può trovare materiale a bizzeffe: della fine del progresso si parla (e soprattutto si straparla) da oltre un secolo. La novità degli ultimissimi anni è che ormai non ci si limita a profetizzarla, ma la si certifica, se ne prende atto. Purtroppo lo si fa quasi sempre partendo da un retroterra pregiudiziale, da una condanna aprioristica emessa quando va bene sull’onda di reazioni emotive, quando va male sulla scorta di una lettura “integralista” e acrimoniosa della storia, condotta con una lente deformante. Ciò che posso cercare di fare è quindi, nei limiti delle mie conoscenze, fornire in calce qualche indicazione per letture passabilmente equilibrate.

A scendere io stesso più in profondità naturalmente non ci penso nemmeno: non ne ho le forze, ma prima ancora è un impegno che ormai mi solletica poco. Confesso tuttavia di aver coltivato per un certo periodo, davvero moltissimi anni fa, un progetto del genere, e di avere anche iniziato a lavorarci (come dimostrano le pagine che allego a questo scritto (“L’origine del progresso“), recuperate pari pari dal cassetto nel quale erano sepolte, e che mi azzardo ora a propinare solo come testimonianza della sostanziale coerenza di un percorso), nell’intento di ricostruire la genealogia di questa idealità. Se la cosa è rimasta allo stato di bozza è perché una salutare consapevolezza dei miei limiti la possedevo già a vent’anni, e non l’ho persa nel corso del tempo. Ma proprio in virtù della coerenza che rivendicavo sopra mi sento autorizzato invece a proporre, cogliendo al volo l’occasione, qualche considerazione spicciola, qualche banale constatazione di fatto, sperando di offrire anche ad altri degli spunti per riflettere.

La prima considerazione è naturalmente di carattere lessicale. L’uso linguistico è sempre un sensore affidabile dei fenomeni, oltre che il più immediato. E mai come in questo caso ritengo sia indispensabile avere ben chiaro il significato nel quale si usano le parole. Oggi quando si fanno progetti per il futuro, di qualsiasi tipo, si parla ormai solo di crescita. Quello della crescita è un concetto eminentemente quantitativo: implica il ragionare per dimensioni, volumi, e per antonomasia sottende espansione, incremento delle grandezze economiche (produzione, investimenti, occupazione, reddito, ecc…). È strettamente connesso ad una matematizzazione del mondo e di ogni aspetto della vita. Si parla del tasso di crescita, pensando ad un numero indice, mentre riferito ai singoli individui il termine viene declinato in peso e altezza, caratteristiche quantitative, o in numero di conoscenze, anch’esso in qualche modo misurabile. L’uso del termine crescita sembra garantire dunque al discorso un valore asettico, il crisma dell’oggettività.

Con maggior cautela è invece utilizzato il termine sviluppo, ormai indissolubilmente associato al limitativo sostenibile, e in questa formulazione viene contrapposto proprio alla nuda crescita. Nell’idea di sviluppo entrava un tempo una coloritura più variegata: quando si parlava di paesi in via di sviluppo, o sottosviluppati, si sottintendevano anche ritardi politici e culturali, oltre che economici, cosa che oggi cozza contro il politically correct e solo a pensarla ci si attira l’anatema. Ma quell’idea recava in sé anche una ambiguità insanabile, quella tra una concezione che leggeva lo sviluppo in termini quasi naturalistici, quasi fosse insito nelle cose stesse, ed una che lo vedeva come il prodotto di una volontà e di un disegno prettamente umani. L’ambiguità permane ancora oggi, ma nella sostanza sviluppo è passato a designare qualcosa di ben diverso da ciò che era chiamato a significare sino a cinquant’anni fa: qualcosa cioè di non ineluttabile, di estremamente complesso, da governarsi con mille attenzioni. Il problema è che in realtà il nuovo significato è molto vago, e si presta alle interpretazioni più peregrine e contrastanti.

Ad essere quasi scomparso dal lessico corrente, e già da un pezzo, è invece proprio il termine progresso. A progresso erano sottese valenze morali, sociali, politiche, ecc …, oltre a quelle economiche e tecniche, ancora più esplicite. L’avanzamento morale era considerato infatti una naturale e automatica conseguenza di quello economico e tecnico, e il tutto rappresentava l’esito di uno sforzo interamente umano. Il progresso incarnava insomma fino a qualche decennio fa la concreta manifestazione dello Spirito hegeliano, da accettarsi a scatola chiusa perché imperscrutabile nei modi e nei mezzi del suo dispiegamento, alla quale era naturale sacrificare ogni altro valore. Oggi, al contrario, il termine evoca non solo l’idea una grande illusione, ma quella di una grande menzogna, dietro la quale sono state celate e giustificate le infamie e gli sfruttamenti più sfacciati. Come si sia arrivati a questa inversione semantica è un po’ lungo da spiegare: vedremo di arrivarci per gradi.

Vorrei intanto sottolineare come la parola sviluppo susciti, anche nei critici della modernità e del modello occidentale, una reazione meno negativa di quella connessa all’uso di progresso. Credo che la spiegazione stia nel fatto che la prima ha una valenza originaria di matrice biologica: il nostro cervello nel corso della sua evoluzione ha sviluppato dei modelli conoscitivi che hanno dovuto tenere conto della mutevolezza della realtà, della incessante trasformazione del nostro corpo e di quella dell’ambiente che ci circonda, per accettarla senza essere indotto a reazioni di paura. Questi cambiamenti sono stati di conseguenza percepiti, fossero essi ciclici (stagioni, fasi lunari, ecc ..) o irreversibili, come fasi del naturale “sviluppo” di un organismo o di un intero ambiente. La parola progresso viene invece automaticamente ascritta ad un ambito “culturale”: indica qualcosa che va ben oltre, che chiama in gioco le arti e la téchne.

La seconda considerazione concerne la storia dell’idea di progresso. In genere diamo questa idea come scontata, nel senso che parrebbe aver accompagnato tutto il processo della “civilizzazione”; è invece piuttosto recente, risale a non più di quattro o cinque secoli fa, agli esordi della rivoluzione scientifica. In termini macrostorici la sua obsolescenza è quindi stata rapida (come del resto quella di tutte le idee guida sorte dopo quel periodo). In realtà la credenza nel progresso non si è mai affermata completamente, e soprattutto ha viaggiato su due binari ben distinti. All’inizio era caldeggiata solo dagli ambienti scientifici (l’Advancement of Learning, 1605, di Francesco Bacone può esserne considerato il manifesto antesignano – ma io credo che i veri precursori siano da individuarsi negli studi quattrocenteschi sulla prospettiva), mentre veniva osteggiata da quelli religiosi e dall’establishment intellettuale più conservatore, e rimaneva in pratica sconosciuta a tutto il resto della popolazione. Anche Fontenelle, che nel 1688 la teorizzò apertamente con la Digression sur les anciens et les modernes (in base al principio della costanza dell’ordine naturale, per cui come ogni altro processo di natura anche la vita dell’umanità è governata da leggi immutabili, e le differenze tra l’oggi e il passato hanno origine dall’accrescimento del sapere nel corso del tempo) non sarebbe stato assolutamente in grado di far comprendere in cosa consistesse all’atto pratico questo fantomatico progresso ai milioni di contadini che sopravvivevano stentatamente nelle campagne francesi e dell’Europa tutta. Sino alla metà del diciannovesimo secolo più dei due terzi dell’umanità del progresso conosceva solo, e a proprie spese, le ricadute tecnologiche peggiori, ovvero gli strumenti militari della colonizzazione o della repressione e quelli “civili” del controllo del tempo e del lavoro. E tuttavia, il mutamento di prospettiva aveva cominciato lentamente ad agire anche dall’interno, nelle coscienze individuali, come frutto della secolarizzazione galoppante. L’affermazione su vasta scala dell’idea fu in effetti più legata alla rivoluzione morale indotta dalla Riforma che ai ribaltamenti conoscitivi prodotti da Cartesio e da Newton.

Ciò che intendo dire è che agli inizi del Settecento nulla era ancora intervenuto tangibilmente a sconvolgere i ritmi millenari della vita contadina, ma qualcosa cominciava a smuoversi nelle coscienze, nella percezione del tempo e nelle aspettative che lo caratterizzavano. L’incontro col grande pubblico, la discesa dell’idea sulla terra, si realizzò però solo sull’onda del positivismo; le grandi esposizioni universali, il dilagare delle ferrovie, le meraviglie dell’elettricità e la diffusione delle industrie, erano qualcosa che andava concretamente a incidere sulla vita quotidiana.

Nel frattempo, tuttavia, dopo che l’Illuminismo aveva connotato “materialmente” questa progressione, portando in primo piano l’interesse per l’artigianato, per l’industria, per l’economia in generale, si era già scatenata la reazione romantica, a difesa del sentimento contro la ragione calcolante. Il progresso aveva cominciato ad essere messo in discussione non solo dalla cultura reazionaria, ma anche da quella che oggi si definirebbe cultura “progressista”. A fronte delle nuove meraviglie tecnologiche riuscivano evidenti anche i costi sociali e ambientali altissimi, e ciò alimentava da un lato le reazioni popolari, con fenomeni come il luddismo, dall’altro offendeva la sensibilità estetica e morale degli intellettuali. Nel corso dell’ottocento le due cose avrebbero poi trovato una composizione col nascere prima delle organizzazioni operaie e sindacali e col loro confluire poi in movimenti politicamente strutturati, attraverso i quali il rifiuto veniva incanalato nella direzione opposta: non era più l’idea di progresso ad essere messa in discussione dal basso, ma piuttosto la sua interpretazione in termini di una distribuzione ineguale dei benefici.

Ma proprio mentre sia il marxismo che il liberalismo cucivano l’idea di progresso sulle proprie bandiere, e persino i popoli non occidentali cominciavano a farla propria, la stessa veniva già data per spacciata a cavallo tra il XIX e il XX secolo dalla cultura decadente, tanto che dopo la prima guerra mondiale la sua parabola era considerata definitivamente chiusa. Il secolo scorso l’ha vista risorgere ancora, almeno nella coscienza popolare, nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale: ma solo per tramontare, e questa volta direi definitivamente, dopo gli anni settanta.

La storia dell’idea di progresso ha conosciuto dunque un andamento tutt’altro che lineare e progressivo, almeno per quanto riguarda la considerazione riservatale dall’ambiente intellettuale: ma, soprattutto, c’è stato uno scarto sia temporale che qualitativo notevole tra questa considerazione e la percezione che ne ha invece avuto la maggior parte dell’umanità. Ho azzardato questo pasticciatissimo riassunto per sottolineare una cosa molto semplice, che mi viene in mente ogniqualvolta leggo le requisitorie che si sono levate (e oggi più che mai si levano) da tutte le parti contro l’idea di progresso. Per quanto il mea culpa sia espresso in termini di norma molto generici (la nostra civiltà, il nostro sistema, ecc…), ho l’impressione che la responsabilità di aver coltivata (e mal digerita) tale idea venga alla fin fine tacitamente ribaltata sulla “gente”, sugli incolti che si sono lasciati abbagliare dagli effetti speciali e dalle luminarie, mentre la parte “pensante” rivendica per sé il ruolo di precoce cassandra inascoltata. Bene, le cose non stanno proprio così. Se questa idea per un certo periodo si è imposta è perché forse davvero recava con sé un nuovo tipo di speranza, un senso da dare all’esistenza, e davvero veniva suffragata, al netto di tutte le tare possibili, da effettivi e tangibili miglioramenti delle condizioni di vita. Non si è trattato della corsa insensata di una massa di allocchi ad inseguire una chimera, ma della legittima aspirazione dei molti a godere almeno in parte di ciò che ai pochi era stato da sempre garantito. Questo mi sembra doveroso chiarirlo, e va tenuto ben presente se si vuole evitare l’ipocrisia. Insomma: le semplici cifre dell’aspettativa di vita nel Seicento, ad esempio, confrontate con quelle odierne parlano chiaro. E raccontarci che non ha senso raddoppiare gli anni di vita senza riempirli di significato è uno stupido sofisma. Il ruolo del progresso, se un ruolo vogliamo attribuirgli, sarebbe quello di creare le condizioni per vivere di più, con minori fatiche e con maggiori sicurezze: a vivere meglio, nel senso di dare alla nostra esistenza un significato, dobbiamo pensare noi.

In sostanza: il popolo dei credenti nel progresso non usciva dall’Eden, checché si insista oggi a raccontare, ed è stato guidato all’esodo da un mondo immobile e tutt’altro che idilliaco proprio dalle avanguardie intellettuali. Se poi il percorso si è rivelato tortuoso, o addirittura, come pensano i più, catastrofico, una qualche responsabilità queste guide dovrebbero assumersela: prima tra tutte, quella di non aver saputo suggerire percorsi alternativi credibili, vuoi per l’incapacità spesso volontaria di comunicare con chiarezza, vuoi, soprattutto, per la presuntuosa ignoranza delle reali condizioni e delle vere aspettative delle “masse”.

La terza considerazione prende spunto direttamente dalla constatazione iniziale, dal fatto che alla “gente” appunto non importa più nulla delle missioni spaziali. Ciò non avviene perché il ripetersi di queste ultime abbia prodotta ormai una certa assuefazione: il fatto è che non si vede più nelle missioni alcun segno di progresso, non le si inquadra più in quella dimensione di speranza e di attesa per il futuro che aveva caratterizzato ad esempio il primo allunaggio. Il che significa che, lungi dall’essere distratta, la gente ha in realtà disgiunto l’idea di progresso da quella di avanzamento tecnologico: al momento vede solo quest’ultimo e si rende conto di come solo strumentalmente abbia a che fare con quella condizione di maggiore serenità e giustizia che il progresso nella visione dei suoi promotori avrebbe dovuto assicurare.

Qui si apre una questione delicata. Riguarda appunto il fatto che l’avanzare delle tecnologie è l’aspetto più clamorosamente evidente del cosiddetto progresso, ed ha finito per essere confuso ad un certo punto dai più con “il” progresso tout court. In realtà, la tecnologia dovrebbe essere solo lo strumento che rende possibile il progresso, o meglio, uno degli strumenti (altri possono essere considerati ad esempio la politica, ecc …). La tecnologia in sé è insomma come una scatola di fiammiferi in mano ad un bambino, secondo l’immagine di J. B. Haldane, e con quella il bambino può accendere delle candele che illuminano la stanza o dar fuoco a tutta la casa. In quanto strumento, se non funziona o se funziona male, può essere aggiustato, se produce disastri può essere cambiato. I tecnofobici tendono a sottolineare come da strumento essa sia diventata ad un certo punto fine a se stessa, si sia “autonomizzata”, e questo in parte è vero: ma non considerano a sufficienza il fatto che è la scelta del bambino, e non una autonoma volontà della scatola di fiammiferi, a produrre eventualmente la distruzione della casa.

È altresì vero (non lo dico io, lo afferma uno come il fisico Freeman Dyson[1]) che “negli ultimi quarant’anni gli sforzi maggiori della scienza pura si sono concentrati in campi altamente esoterici, lontani da ogni contatto con i problemi quotidiani. […] Al tempo stesso gli sforzi maggiori della scienza applicata si sono concentrati su prodotti che possano essere venduti con profitto. Poiché ci si può attendere che per i nuovi prodotti i ricchi paghino più dei poveri, la scienza applicata condurrà, come al solito, all’invenzione di giocattoli per i ricchi. […] L’incapacità della scienza di produrre benefici per i poveri in questi ultimi decenni è dovuta a due fattori che operano nella stessa direzione: gli scienziati puri sono diventati meno sensibili ai bisogni mondani dell’umanità, e gli scienziati applicati sono diventati più attenti alle prospettive di profitto immediato”. In effetti esiste anche una terza alternativa, quella che i fiammiferi vengano utilizzati solo per accendere delle sigarette. Ma non sono loro i responsabili del vizio del fumo.

Ora, l’identificazione del progresso con la tecnica, e della tecnica con la negazione della natura e col trionfo dell’artificio, è alla base di tutti gli attacchi all’ “ideologia” delle “magnifiche sorti e progressive”. Si tratta allora di capire se il progresso così inteso sia o meno intrinseco alla natura umana, sia cioè un fattore costitutivo e fondante della humanitas. E in caso affermativo, se gli esiti debbano essere considerati necessariamente quelli che abbiamo di fronte, o se invece non ci sia stato ad un certo punto uno scarto, non si sia prodotta una forzatura, che ne ha dirottato le finalità e condizionato i modi. E ancora, se questo fenomeno sia eminentemente “occidentale” oppure no, e chi e cosa abbia in tal caso prodotto la frattura.

Il discorso a questo punto diventa talmente complesso da consigliarmi di lasciare in sospeso la questione. Ho già messo sin troppa carne al fuoco. Potrà essere l’argomento per interventi futuri, meglio sarebbe se di altri.

Per il momento mi limito invece a un paio di constatazioni conclusive. Per quanto sia additata quasi universalmente come la causa di tutti i nostri guai, la tecnica (e per estensione naturalmente la scienza, della quale la tecnica costituisce la risultante performativa) è oggi è anche l’unica che ai guai – di origine naturale o artificiale che siano – può porre in qualche misura rimedio. Lanciare dei violenti j’accuse contro la mentalità scientifica, contro la “ragione calcolante”, contro la nemmeno troppo strisciante tecnocrazia, può far vendere qualche libro e procurare qualche comparsata televisiva in più, ma non offre risposte immediate e concrete ai sette e passa miliardi di umani che si aspettano domani di poter mangiare e di potersi curare. In questo momento qualche Agamben in meno e qualche scienziato in più farebbe comodo.

E a questo proposito: la vicenda Covid ha necessariamente intensificato il rapporto tra la gente comune e la scienza (ma in realtà è più corretto dire: con l’ambiente scientifico). Avrebbe potuto essere un’ottima occasione, purtroppo pagata a un prezzo salatissimo, per sottoscrivere una “nuova alleanza”, per aprire un dialogo che in realtà non c’è mai stato e per orientare la scienza stessa su obiettivi più “sociali”, distraendola da una vocazione che sta diventando sempre più “economica”. Così non è stato. Il rapporto è oggi caratterizzato da una fondamentale ambiguità, in gran parte dovuta proprio al comportamento “spettacolare” e in qualche caso decisamente incosciente degli “esperti”, esasperato poi all’ennesima potenza da una modalità di informazione becera e urlata, superficiale nel migliore dei casi e distorsiva negli altri. Così, da un lato, le diatribe tra virologi e immunologi e infettivologi hanno sconcertato un pubblico che si attendeva risposte certe, e hanno minato la credibilità dell’ambiente scientifico: dall’altro lo stesso pubblico si trova a dover confidare comunque sempre più, per ottenere risposte, in una scienza volgarmente screditata dai suoi sacerdoti. La situazione risultante non mi pare molto diversa da quella in cui sopravvivono le religioni: credere nella scienza è diventato per molti un puro atto di fede, motivato dalla disperazione. Invece di chiarire il ruolo reale che la scienza ha, che è quello di porre le domande giuste e offrire risposte sempre passibili di essere smentite o migliorate, si è accreditata da un lato l’immagine della scienza come nuova divinità, che si vuole o si spera infallibile, dall’altro quella di una grande menzogna, che non solo non risolverà il problema, ma è addirittura responsabile di averlo creato.

Non è di questo che abbiamo bisogno: abbiamo bisogno non di fede, ma di ragionevole fiducia, che significa una fiducia fondata su una maggiore conoscenza e attenzione collettiva a quel che davvero accade nel mondo scientifico. La scienza, pura o applicata che sia, può diventare “etica” e tornare a guardare alle reali necessità umane. Ma per farlo necessita di una spinta e di un controllo, e quelli siamo noi, attraverso i nostri comportamenti politici collettivi e quelli morali individuali, a doverli esercitare. Di fronte a situazioni come quelle attuali, e non mi riferisco solo alla pandemia, non ci sono più alibi per il disimpegno, e non serve a nulla ritirarci schifati sull’Aventino. Il progresso non è né il vento della volontà divina né l’alito fetido di un Moloch che ci divora. È ciò che la nostra natura e la nostra coscienza ci impongono di perseguire.

Per farlo avremo un gran bisogno di Perseverance. Ma che si muova qui, sulla terra.

Avevo promesso qualche indicazione di lettura. Eccone alcune, per cominciare.

BURY J. B. – Storia dell’idea del progresso, Feltrinelli 1964

EDELSTEIN, L., L’idea di progresso nell’antichità classica, Il Mulino 1987.

LASCH, Ch., Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica, Neri Poz-za, 2016

HALDANE J.B. S., Dedalo, o la scienza e il futuro, Boringhieri 2008

MUMFORD, L., Tecnica e Cultura, Il Saggiatore 1964

NACCI, M., Tecnica e cultura della crisi, Loescher 1982

ORTEGA y GASSET, J., La ribellione delle masse, SE 2017

ROSSI, P., Naufragi senza spettatore. L’idea di progresso, Il Mulino 1995.

RUSSEL, B., Icaro, o il futuro della scienza, Boringhieri 2008

SASSO, G., Tramonto di un mito. L’idea di progresso fra Ottocento e Novecento, Il Mulino 1984.

SCHELER, M., Il risentimento nella edificazione delle morali, Chiare-lettere 2019

SPENGLER, Osvald, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi 2008

SPENGLER, Osvald, L’uomo e la tecnica, Meridiana 2008

TOYNBEE, A., Civiltà al paragone, Bompiani, 1949.

[1] ne Lo scienziato come ribelle, Longanesi 2009

Torna indietro

Il messaggio è stato inviato

Attenzione
Attenzione
Attenzione
Attenzione

Attenzione!

L’incostanza della ragione

di Carlo Prosperi, 28 dicembre 2020

​Caro Nico,
ho letto e riletto con piacere le tue considerazioni e le tue osservazioni (“Endogenesi delle cause o eterogenesi dei fini”) sulla mia lettera a Paolo, anche perché vedo che, da buon positivista, dimostri una dimestichezza con le scienze che io non ho e non ho mai avuto. Ma il tuo discorso, nei punti in cui sembra discostarsi e discordare dal mio, nasce da fraintendimenti. Io infatti non sono un irrazionalista né danno in toto l’Illuminismo. Ci mancherebbe. Degli illuministi, di certuni almeno, non apprezzo l’idolatria della ragione, quella che supera il dualismo cartesiano di res cogitans e di res extensa in maniera semplicistica, tutto riducendo a mero materialismo meccanicistico e scomunicando o – quel ch’è peggio – irridendo quanto ad esso non è riconducibile. Diciamo D’Olbach ed Helvetius, per semplificare. Ma altri ve ne sono più subdoli e sfuggenti… Non credere che ciò contrasti con la mia affermazione intesa a includere l’uomo nella Natura: la Natura, a parer mio, non è solo materia, ma anche energia, creatività, pensiero. Leopardi arriva a dire che la materia pensa: che vi è in essa un principio che la trascende. Forse quella che noi chiamiamo anima, mente, psyche. Ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano. Da approfondire, dunque.

Io sono eminentemente un pascaliano. Pascal, criticando Cartesio, distingueva un esprit de géométrie e un esprit de finesse, fino a concludere che vi sono delle ragioni che la ragione non conosce: quelle del cuore, come avrebbero poi detto i romantici. Le scienze sperimentali hanno per lui dei limiti intrinseci: l’esperienza, la quale inevitabilmente limita i poteri della ragione che non sono mai assoluti, e l’indimostrabilità dei principi primi della scienza, che, pur stando alla base di ogni ragionamento, sfuggono al ragionamento stesso (è infatti impossibile la regressione all’infinito dei concetti). Pascal oppone alla ragione deduttiva quella che chiama “comprensione istintiva”, ovvero quel tipo di comprensione che coglie gli aspetti più problematici della condizione umana. L’esprit de géométrie ha per oggetto gli enti astratti e gli oggetti esteriori, l’esprit de finesse ha per oggetto l’uomo e, tramite l’intuito, visualizza subito l’oggetto indagato senza dover passare dal ragionamento. Nel cosmo l’uomo occupa una posizione mediana tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, scaturito dallo studio scientifico della realtà naturale. Modellando il ragionamento su un principio matematico (per cui aggiungendo ad una grandezza delle grandezze di un ordine d’infinito inferiore essa non si accresce in misura sostanziale), Pascal nota che l’uomo vive sempre a metà strada tra il mondo fisico e le sue aspirazioni spirituali e che ha riempito con i suoi divertissements l’abisso generato dall’assenza di Dio nella sua vita; la conseguenza è quella dell’angoscia, in quanto la ragione si rivela insufficiente a penetrare il mistero della grazia divina. Detto in soldoni, è da qui che parte la filosofia di Pascal, il quale – non dimentichiamolo – era pure un grande matematico. E qui, per ora, mi fermo.

Del resto, i frutti migliori dell’illuminismo si vedono in Kant, che dimostra di essere pienamente cosciente dei limiti della ragione e per questo non la idolatra. Il mio razionalismo, come il suo, si oppone sia all’iper-razionalismo sia all’irrazionalismo. Ambedue appiattiscono la realtà, negandone la complessità, lo spessore dialettico. In fondo, dimentichiamo che ad ispirare Cartesio era un Angelo, a guidare Socrate un Daimon. Troppo spesso si dimentica il potere creativo, visionario e “immaginario” del nostro cervello, che molti geni, tra gli scienziati e gli inventori del passato, hanno utilizzato in modo proficuo per giungere a formulare le loro conclusioni. Ricordo di aver letto, tempo fa, un articolo di tale Andrea Doria che, a sostegno di ciò portava diversi esempi: tra cui quello del chimico Friedrich August Kékulé von Stradonitz che si era invano affannato a decifrare la struttura della molecola di benzolo; quello, però, che non gli consentì la riflessione cosciente fu un sogno a permettergli di conseguirlo: una notte, addormentatosi di fronte al fuoco, vide in sogno un serpente che si mordeva la coda, ovvero l’archetipica figura dell’Uroboros. Guarda caso, la molecola di benzolo ha una struttura ad anello. Singolare, poi, anche il caso di Niels Bohr, il quale giunse a formulare il suo famoso modello atomico come un sistema planetario in piccolo traendo ispirazione da un sogno: sognò infatti di essere seduto su un sole ardente intorno a cui ruotavano a velocità folle dei pianeti del pari incandescenti.

Non sono un irrazionalista nemmeno quando parlo dell’insonnia della ragione. L’insonnia in fondo è una malattia o è, comunque, indizio di malessere. Fa perdere lucidità. Induce stati ossessivi. L’insonnia della ragione è un’aberrazione, del tutto simile a quella – apparentemente opposta – dei massacri perpetrati da sedicenti cristiani. La troppa luce acceca, al punto che illustri illuministi hanno demonizzato il Medioevo come “secoli bui”. Ecco, la demonizzazione non mi appartiene: tanto che anche nei pensatori più lontani dalla mia visione del mondo, anche tra gli illuministi, anche in Marx, so (e amo) ricercare barlumi di verità, pagliuzze d’oro tra le tante scorie. Né presumo di essere infallibile. O di sapere tutto. Al contrario, so bene di sapere ben poco, quasi nulla. Cerco solo di orientarmi, di non perdere la bussola: una volta si diceva la trebisonda. E questo m’induce alla cautela, a comprendere più che a condannare. Quantunque, alla fine, una scelta bisogna pur farla.

Tu spieghi quella che io, usando un’espressione vichiana, chiamo “eterogenesi dei fini”, con l’incapacità dell’uomo di comprendere: io parlerei piuttosto di impossibilità. Non è umanamente possibile prevedere tutte le conseguenze delle nostre azioni, soprattutto se è vero che il minimo battito d’ali di una farfalla ai tropici sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo. Per questo a Diego Fusaro obietto che, a parer mio, la filosofia marxiana non è impunemente praticabile o applicabile alla realtà – che non è geometrizzabile o scientificamente-tecnicamente governabile sulla base di piani e di pianificazioni –. Finora almeno non sembra. Pensare che con l’avvento del comunismo cominci la “storia” vuol dire che finiranno le contraddizioni, e quindi la dialettica storica. O le contraddizioni rinasceranno in forma nuova? E con il comunismo si aprirà una nuova fase della vita, forse post-umana? In ogni caso la “mobilitazione totale” in vista della rivoluzione non è né indolore né scontata. Né, appunto per l’eterogenesi dei fini, è detto che raggiunga davvero i suoi scopi o sogni virtuosi … Marx affida invece alla praxis della soggettività organizzata e cosciente il riscatto, ma non considera che l’umano sapere non è in grado di valutare le infinite interferenze e le infinite conseguenze dell’agire umano: per cui questo non può essere né univoco né lineare né in toto prevedibile e scontato. Di qui la fatale eterogenesi dei fini. Lo stesso Gestell (per Heidegger, l’attuale sistema tecnocratico) è sì stato posto e prodotto dall’agire umano, ma con esiti, a sua insaputa, perversi. Fatto è che Fusaro, al pari di Marx e dei marxisti à la Lukács, tende a reagire al pessimismo dell’intelligenza con l’ottimismo della volontà astratta, in maniera appunto velleitaria…

Ha osservato Corrado Ocone: «Il fatto che gli accadimenti e le opere, così come le azioni, siano sempre individue, non significa che in esse, in sede di comprensione, non sia possibile rinvenire un ordine. Solo che quest’ordine, pur essendo opera in ultima istanza delle azioni degli individui empirici, trascende ogni loro intenzionalità, non corrisponde a ciò che gli individui o anche gruppi più o meno ampi di loro, si erano proposti con le loro azioni. È in questo solo e preciso senso, e solo in questo, che Croce può affermare, in senso metaforico, che gli accadimenti o la Storia sono come Dio. Essi, per così dire, se ne vanno per i fatti loro: la libertà è veramente, da questa prospettiva, non degli uomini ma dello Spirito». Analogamente Einstein diceva: «Dio non gioca a dadi». È come se ci fossero due piani: uno empirico, pragmatico (per cui vale l’asserzione di von Mises: «solo l’individuo pensa, solo l’individuo ragiona, solo l’individuo agisce») e uno storico-spirituale (in cui si ordinano, in un «ordine spontaneo», le conseguenze delle azioni individuali. «Gli accadimenti non sono governabili ex ante dagli individui empirici, ma sono da loro riducibili a senso ex post».

Questo per quanto concerne l’eterogenesi dei fini. Ma torniamo ora al Gestell, frutto della “ragione strumentale”. Si dice che la post-modernità abbia segnato la fine delle ideologie. È un cliché retorico: in realtà, l’epoca che si suppone depurata da tutte le viete ideologie novecentesche si sta potentemente delineando come l’epoca forse più ideologica della storia, pervasa da un’ideologia neutra, quasi impalpabile, la quale tuttavia sta penetrando in profondità nel tessuto sociale e culturale dell’umanità, generando un uomo ormai soggiacente al volere e alla meccanica della sua stessa creatura: la Tecnica. È stato giustamente scritto, al riguardo, da Davide Parascandolo che «la soggezione di fronte allo strapotere di questo moderno Leviatano è la cifra di un uomo irriconoscibile, che ha rinunciato a se stesso e che appare profondamente assorbito da dinamiche dominate da meccanismi autoregolativi e autoperpetuantesi. La post-modernità si presenta come l’epoca dell’automatizzazione dell’uomo, della sua alienazione completa, dell’abdicazione totale del suo pensiero e del suo pensare. Le conseguenze pratiche di questo mutamento, che è al tempo stesso filosofico ed antropologico, sono di notevole portata e investono evidentemente tutte le principali dimensioni che caratterizzano il vivere umano, sia esso inteso nel più ampio spettro delle relazioni sociali e comunitarie come in quello più ristretto e privato dell’ambito prettamente individuale. Lo scivolamento di status ontologico dell’uomo da creatore a suddito della propria creatura produce ripercussioni rilevanti sulla vita associata delle società contemporanee, determinando un asservimento totale della vita umana a logiche economicistiche pervase da una sorta di tecnicismo razionalistico di per sé sussistente che si sgancia dalla realtà delle cose per assurgere a unica e assiomatica verità, la quale pretende di non conformarsi più al divenire, ma, al contrario, di imbrigliare quest’ultimo entro le sue ferree ed asettiche costruzioni iper-razionalistiche».

Di qui l’asservimento della politica all’economia o, meglio, al suo epifenomeno finanziario. Con la “delocalizzazione” della sovranità dai parlamenti a clubs ristretti, a élites impenetrabili che operano secondo logiche autoreferenziali. Emblematica e, per così dire, plastica espressione di tale processo di tecnicizzazione della politica è, a parer mio, l’attuale costruzione europea, che si regge su irrazionali criteri economicistici e contabili, assurti tuttavia ad intoccabili ed irriformabili Moloch ideologici. Essa appare – per tornare al testo di Parascandolo – come «l’inveramento storico di quel dogma dell’irreversibilità che rischia di far pericolosamente regredire l’umanità verso un unico modello: quello dell’homo reiterans». È, questo, lo svuotamento di ogni progetto umanistico, «cui fa da contraltare una drammatica automatizzazione dell’umano che è l’anticamera di quella logica dell’irreversibilità che sembra costituire l’unico possibile orizzonte imposto da una sorta di finalismo storico dal quale non poter in alcun modo sfuggire e che, in ultima istanza, rappresenta l’irreversibilità stessa dell’accettazione dell’attuale strutturazione del mondo, espressione di quella religione globalista e iperliberista che ne connota in profondità l’essenza».

Mi viene in mente Il Mondo nuovo di Aldous Huxley, ambientato in una Londra del futuro dove controllo delle nascite e controllo sociale attraverso le droghe di Stato e i piaceri diventano esempio di un nuovo tipo di dittatura. Mentre per Orwell la dittatura è promossa da un Grande Fratello che fa della cultura una prigione, per Huxley l’intrattenimento è meglio della forza e la cultura diventa una farsa. Nella nostra società non c’è nessun carceriere che ci sorveglia, ma le prigioni sono dentro le nostre teste. Il nostro non è un mondo di schiavi terrorizzati dalle punizioni di un regime totalitario, ma una società di ebeti rimbambiti da piaceri cafoneschi. Siamo cioè di fronte a un mondo apparentemente libero, in realtà controllato dalla sua stessa “libertà”. «Controllare la gente non con le punizioni, ma con i piaceri»: è così che si arriva al nuovo assetto dei sistemi totalitari. Nella “democrazia” immaginata da Huxley il popolo non è imprigionato, ma distratto continuamente da cose superficiali. La vita culturale trasformata in un eterno circo di divertimenti e un intero popolo ridotto a spettatore. Nel “mondo nuovo” non esistono censure, ma la gente è talmente subissata dalle informazioni che, incapace di rielaborare una simile mole di notizie, finisce col diventare passiva, con il disinteressarsi a tutto e a non ribellarsi più a niente. Difendersi è impossibile: si finirebbe come in un romanzo di Dick: pazzi e isolati detentori di una verità che nessuno, per comodità, accetterà mai. «Questi milioni di individui abnormemente normali, che vivono senza gioia in una società a cui, se fossero pienamente uomini, non dovrebbero adattarsi, ancora accarezzano l’illusione dell’individualità, ma di fatto sono stati in larga misura disindividualizzati. Il loro conformismo dà luogo a qualcosa che somiglia all’uniformità. E uniformità e salute mentale sono incompatibili». Per Huxley siamo solo una «calca di pecore umane che vivono soggiogate dalle cieche leggi delle abitudini».

A questo ci ha portato un certo modo – non proprio ragionevole – di intendere la ragione. E credo che anche tu ne converrai. E se anche non fosse, non ritengo che ciò possa in qualche modo precludere la prosecuzione del nostro dialogo. Almeno lo spero, in nome della nostra antica amicizia.

Affettuosi saluti e auguri di buon anno, Carlo.

 

Torna indietro

Il messaggio è stato inviato

Attenzione
Attenzione
Attenzione
Attenzione

Attenzione!