Ceci n’est pas un essai!

par le non auteur Giuseppe Rinaldi, non date 28 settembre 2025

 1. Appena finite[1] le vacanze estive, capita che uno si senta in dovere di fare il punto su come ha trascorso il tempo, sulle eventuali esperienze e su ciò che ha imparato o disimparato. A questo scopo sono impaziente di raccontare ai miei dieci lettori il mio incontro, del tutto casuale, con alcuni esponenti di un nuovo movimento politico culturale che si chiama NNCBV. Ho scritto “alcuni” per ossequio abitudinario alla grammatica convenzionale, ma avrei dovuto scrivere “alcun*”, poiché si tratta di un movimento a composizione prevalentemente non binaria[2] e fluida. Il che è senz’altro un segno dei tempi attuali. La loro è certo una sigla un po’ pesantina, peraltro anche poco pronunciabile. Si tratta ovviamente di un acronimo e, come mi è stato spiegato, sta per «Noi non ce la beviamo!». Si tratta di un motto di sfida contro il tecno-sistema, sempre più onnipervasivo e invadente, che vorrebbe proditoriamente imporre un ordine unico e arbitrario a tutta la realtà.

2. Si tratta di un movimento nato e sviluppatosi proprio nel nostro Paese, soprattutto negli ambiti metropolitani, seppure esplicitamente ricalcato sul modello della woke culture nordamericana. Quella che, ahimè, ha dato una mano indiretta a far vincere le elezioni a Trump. Ma il pericolo rappresentato da Trump, come vedremo, non è certo la preoccupazione principale di costoro. Il movimento sta già cominciando ad avere un certo seguito anche all’estero. Per ora si sta diffondendo principalmente nei Paesi limitrofi della UE ma, si sa, le cose sul Web viaggiano velocemente.

I miei dieci lettori potrebbero eccepire, a questo punto, di non averne mai sentito parlare. Anch’io non ne avevo mai sentito parlare, fino al giorno prima. In effetti, si tratta di un movimento piuttosto riservato, che evita accuratamente le comparsate pubbliche nelle piazze, tipo pride e similari. Questo perché i loro leader tendono ad avere un atteggiamento un tantino underground e, anche se non l’ammetterebbero mai, piuttosto elitario. Sono organizzati soprattutto sul Web, dove cercano di costituire, quasi esclusivamente tramite i social media, delle micro reti di solidarietà e di intervento rapido. Agiscono dunque assai riservatamente e, per accorgersi della loro presenza, bisogna aspettare di essere oggetti, ahimè, della loro attenzione o dei loro interventi provocatori, che sono sempre repentini e furtivi ma tali che lasciano il segno. Oppure bisogna che gli algoritmi dei social facciano qualche deraglio e vi consegnino, magari per errore, qualche spezzone delle loro conversazioni, dei loro documenti o dei loro filmati.

3. L’acronimo che hanno scelto, «Noi non ce la beviamo!», non si riferisce a bevande varie, come Estaté, birra, aranciate o limonate, bensì sta a indicare una posizione risoluta, una contrapposizione senza quartiere, contro certi orientamenti di costume e culturali che oggi vanno per la maggiore e che, in forma tacita, nella odierna società di massa, sono ormai più o meno condivisi da tutti. Il loro campo d’intervento si colloca principalmente a livello linguistico, niente di meno che contro la testualità dominante. Questa viene messa sotto accusa in quanto pura espressione arbitraria di un potere occulto che pervade ormai tutte le società post – industriali. L’obiettivo preciso del movimento è, infatti, quello di colpire la diffusa e onnipervasiva catalogazione dei generi testuali (come, ad esempio, saggio, articolo, lettera, romanzo, sonetto, monografia, tesi, poesia, ma anche generi minori, come la barzelletta, il proverbio, l’aforisma e, certamente, anche il necrologio – genere peraltro assai sottovalutato).

4. Non dovrebbe proprio stupire questa specifica attenzione per le questioni attinenti il linguaggio e la testualità. Sono ormai decenni che, soprattutto nell’ambito della filosofia continentale e in particolare del post-strutturalismo, è stata riservata una notevole attenzione proprio al linguaggio e ai suoi rapporti con le strutture di potere del tecno-sistema. Sul piano teorico queste tematiche sono state sviluppate soprattutto da Michel Foucault[3], il cui pensiero ha avuto ampia diffusione sulle due sponde dell’Atlantico. Sul piano pratico, sono ormai più di tre decenni che gli States (e di riverso anche l’Europa) sono percorsi in lungo e in largo dalle parole d’ordine del politically correct e, successivamente, del decisamente più avanzato crazily correct che, del precedente, è una versione potenziata, come si esprime Luca Ricolfi[4]. Anche se il crazily non sarebbe condiviso dai protagonisti stessi. È risaputo che la correctness ha progressivamente investito tutti i settori o quasi del linguaggio comune. L’uso di determinate qualificazioni o aggettivi, la denominazione di certe categorie di persone o di certe professioni, l’uso dei pronomi personali, o quant’altro. La persuasione di fondo è che attraverso il linguaggio, in modo silente e impercettibile, siano trasmessi e imposti certi rapporti di potere, e che ciò sia determinato principalmente: a) dalle strutture socio tecniche impersonali; b) dai gestori occulti della globalizzazione; c) dal capitalismo finanziario e d) dal potere maschile patriarcale. Forse è questo spiccato anti patriarcalismo che spiega il relativamente alto tasso di partecipazione dei fluidi a questo movimento.

5. Sembrava a un certo punto che la correctness avesse esaurito quasi ogni possibile obiettivo nel campo del linguaggio, avesse cioè raggiunto una specie di copertura totale. Sembrava cioè ormai essersi volta verso l’esaurimento. Pressoché tutto era stato smascherato, tutto era stato attaccato e demolito. O, per lo meno, tutti erano stati messi sul chi vive intorno alle insidie del linguaggio, come del resto recita anche il noto slogan “Stay Woke”. Ebbene, ci eravamo del tutto sbagliati. Sembrava, appunto. Non avevamo capito che il lavoro più importante restava ancora tutto da fare. Dobbiamo proprio al gruppo NNCBV (“Noi non ce la beviamo!”) di avere individuato un nuovo e forse risolutivo campo d’intervento. Come già anticipato, si tratta nientemeno che del campo della testualità.

Immagino che i miei dieci lettori stiano strabuzzando gli occhi. Cosa c’è che non va nella testualità? La testualità è dappertutto. Come faremmo se non ci fosse? È appena il caso di ricordare che, anche per diversi illustri filosofi, la testualità è stata riconosciuta come fondamentale. Un vero e proprio a priori. Ad esempio, per Jacques Derrida[5] «Non c’è nulla all’infuori del testo»[6]. In altri termini, il testo per Derrida è l’elemento ontologico che costituisce la realtà intera. In altri termini, noi stessi siamo testo. Se proprio tutto è testo, allora, dal punto di vista di NNCBV, il nemico sarebbe veramente dappertutto. Avercela con la testualità in fondo è come avercela col mondo intero. Se poi proprio noi siamo testo, a rigor di logica dovremmo avercela anche con noi stessi, ovvero con la nostra profonda natura testuale.

6. Posso confermare che il Movimento NNCBV si rende ben conto della portata radicale e globale delle proprie posizioni. Tuttavia gli esponenti del movimento non sembrano particolarmente attratti dall’aspetto metafisico della questione. Essi adottano, infatti, una teoria materialista dei fenomeni linguistici. Confessano candidamente di avere avuto trascorsi marxisti e di mantenere tuttora una forte ispirazione marxista. Ho sentito più d’uno di loro dichiarare fieramente: «Io sono marxista!». Questo nonostante abbiano “superato”, o del tutto ignorato, alcuni elementi fondamentali del marxismo, come, ad esempio, la classica suddivisione tra struttura e sovrastruttura.

Così sostengono che la testualità è oggi la minaccia per eccellenza, in quanto si trova effettivamente “alla radice” delle disuguaglianze (che loro chiamano “differenze”) che caratterizzano e governano la società post-industriale. La quale società si riduce poi a un mostruoso tecno-sistema. In particolare, secondo loro, sarebbe la vigente configurazione classificatoria della testualità a costituire una trama oppressiva che è utilizzata per giustificare e mantenere gli attuali rapporti di potere. Di qui, lo slogan «Noi non ce la beviamo!». Se è vero che – proprio come sostiene Derrida – non c’è nulla al di fuori del testo, allora è possibile che il nuovo movimento, sporgendosi anche ben oltre Marx, abbia finalmente individuato l’obiettivo risolutivo, che permetterà di intaccare gli attuali rapporti di potere a tutti i livelli. Un movimento totale dunque.

«Vasto programma!» verrebbe da dire a quelli come noi, proni invece da tempo a qualsiasi conformismo testuale e ormai abituati a rinunciare a ogni opposizione. Alle mie modeste e imbarazzate obiezioni sulla fattibilità di un simile totale intervento trasformativo, mi è stato risposto che si tratta di procedere per tappe e di confidare sul fatto che, se si dispone di una strategia corretta, e avendo tempo e energie da investire, allora «una tappa tira l’altra».

7. La prima tappa sarà dunque proprio quella di liberare il testo dalle gabbie della testualità. Si tratta di identificare quelle che sono comunemente considerate come le strutture oggettive della testualità e di mostrare come queste siano soltanto dei dispositivi autoritari al servizio del tecno-sistema imperante. È questa un’azione sistematica di smascheramento, che mette chiaramente in connessione le teorie NNCBV con le famose filosofie del sospetto. Il Movimento crede fermamente nel potere dello smascheramento. Poiché il potere della testualità si basa meramente sulla illusione – qui c’è senz’altro un richiamo a Jean Baudrillard[7] e al segno come merce – il suo smascheramento coinciderà con la sua immediata evaporazione. In realtà, il precursore vero di questa prospettiva – come sanno anche i liceali – è stato Ludwig Feuerbach[8]. Se si pensa poi ad alcune avanguardie artistiche del primo Novecento, si potrebbe anche ritenere che non ci sia granché di nuovo ma, in effetti, vedremo che non è proprio così.

8. La seconda tappa, decisamente più radicale, consisterà nel liberare il testo dalle costrizioni grammaticali, soprattutto dalle strutture sintattiche e ortografiche, da sempre percepite, più o meno da tutti, come un vincolo, una limitazione, e poi tipicamente tecnocratiche, patriarcali e maschiliste. Tutto ciò, oltretutto, darà modo di moltiplicare le capacità espressive e creative di ciascuno di noi. Quelle capacità che abbiamo dovuto progressivamente reprimere nel corso della nostra formazione personale, sui banchi di scuola e attraverso i media. Ciò avrà anche, cosa di non minor importanza, l’effetto di imbrogliare sistematicamente le AI che lavorano soprattutto con modelli linguistici LLM, a previsione probabilistica.

9. La terza fase, la fase finale, sarà la liberazione del testo da ogni tipo di rigidità, in modo da assicurare la più completa fluidità testuale e fluidità comunicativa. Ma perché mai proprio la fluidità dovrebbe diventare l’obiettivo finale? Occorre ricordare che la fluidità – solo ora stiamo cominciando a capirlo pienamente – è una delle fondamentali implicazioni delle numerose filosofie della differenza che hanno caratterizzato per lo meno gli ultimi due secoli. Qui, a sentir queste parole, confesso di avere accusato qualche defaillance, poiché mi sono ricordato, con un profondo gulp, dei miei ripetuti, ma vani, tentativi di leggere Deleuze[9]. Non sono mai riuscito ad andare oltre le venti pagine. Limiti miei.

10. Mi spiegano così che è ormai diventato sempre più chiaro che ci sono differenze buone e differenze cattive. Le differenze dicotomiche non sono vere differenze. Sono imposte dal sistema, fanno parte di un ordine estraneo che è sovrapposto alla realtà, la quale invece è, di per sé, continua e non facit saltus. Si tratta allora di andare oltre la dicotomia, per considerare spettri sempre più ampi di gradazioni di differenze, e ciò – se perseguito rigorosamente – alla fine non potrà che portare alla fluidità totale. Il discreto, in altri termini, si trasformerà in continuo. Ogni elemento del testo (le lettere, le maiuscole, gli spazi, le interpunzioni) sarà, così, libero di fluire a caso, senza alcuna preventiva prevedibilità. Ciò permetterà di produrre sequenze sempre nuove di elementi, massimamente eterogenei ma continui, che interagiranno gli uni con gli altri, mossi soprattutto non dal caso bensì dal desiderio. A questo punto, le differenze fluide si manifesteranno principalmente in base al ritmo, all’accentazione e alla musicalità. Solo la fluidità assoluta permetterà di sfuggire, una volta per tutte, all’ordine deterministico imposto dal sistema, dalla ragione strumentale, dai vincoli della tecnica e del potere maschile. E qui, la maggior parte del lavoro sarà stato fatto.

Va oltretutto ricordato – per chi se ne fosse scordato – che, intanto, è già in avanzata realizzazione un progetto del tutto analogo nel campo della sessualità, che è un altro baluardo del tecno-potere. Al mondo binary della forzatura, degli incasellamenti contro natura, si sta opponendo il nuovo mondo delle infinite gradazioni, rispondente al diritto di ciascuno di modulare all’infinito – e “infinito” è davvero termine impegnativo – senza pregiudizi, la propria identità sessuale. Certo, occorrerà un’infinità di diversi pronomi personali, e un controllo sulla corretta applicazione degli stessi, ma la cosa non è giudicata impossibile.

11. Si tratta di teorie indubbiamente ardimentose, e tuttavia decisamente affascinanti. L’esposizione fattane dai loro militanti è decisamente sciolta e senz’altro fluida. Si tratterebbe, insomma, di smuovere finalmente tutto ciò che era stato immobilizzato dalla logica deterministica del sistema governato dalla ragione strumentale dicotomica. Quella stessa ragione in ultima analisi generatrice del tecno-sistema. Non nascondo che si tratti di concezioni alquanto complesse, che richiedono una notevole capacità di comprensione profonda e di meditazione.

Tuttavia gli esponenti del Movimento, al di là delle loro propensioni underground, ritengono che il nucleo del loro messaggio sia veramente a disposizione di tutti. Si tratta di mettere da parte il pregiudizio intellettualistico, che è sempre dicotomico e sempre in agguato, e di lasciarsi guidare soprattutto dal desiderio. Concetto peraltro già citato. Mentre l’intelletto è una pura sovrastruttura, il desiderio costituisce la struttura profonda e basilare, rizomatica, di ogni soggetto. Quelli del movimento parlano, infatti, proprio di un soggetto desiderante. Il soggetto desiderante è ovunque ormai pesantemente inibito dai processi dicotomici. Si tratta di risvegliarlo, di richiamarlo alla luce. Per fare ciò bisogna procedere dall’interno, lasciare che il desiderio si manifesti. Bisogna sapersi ascoltare. La cosa importante è che ciascuno si liberi delle sovrastrutture dicotomiche normative e impari a seguire il proprio desiderio. Si tratta di mettere da parte ogni intellettualismo e di procedere seguendo la propria intuizione.

12. Di fronte a questo profluvio di teoria, in attesa di approfondire il quadro complessivo, ho pensato bene, nel mio piccolo, di concentrarmi sulla prima tappa prevista dal Movimento. Intorno alla quale cercherò di dire qualcosa di più preciso. Cosa significa liberare il testo dalle gabbie della testualità? Vediamo intanto come vien da loro descritta l’attuale situazione di oppressione. Oggi, principalmente in Occidente, la testualità è imprigionata in una logica di potere che la costringe in una serie di categorie dicotomiche del tutto artificiali. Si tratta dell’articolazione cognitiva del potere classificatorio, ben nota fin dagli studi di Durkheim e Mauss[10]. Classificazioni che riducono i gradi di libertà di chi scrive, costringendo anche chi legge ad avere a che fare per lo più con merce preconfezionata e del tutto prevedibile. Tanto che perfino i modelli LLM riescono a produrre testi perfettamente canonici. Merce imposta, sempre accompagnata da qualche tetra categorizzazione testuale.

13. Ma vediamo in pratica. L’oppressione comincia fin dalla prima infanzia. Ai bambini piccoli vien detto «Scrivi i pensierini», escludendo già, con ciò, che si possano scrivere dei versi liberi, o ci si possa mettere a cantare, o si possa più semplicemente picchiare sul banco con la matita, come farebbe ogni piccolo della specie umana, se fosse spinto soltanto dal puro desiderio. Ogni “pensierino”, poi, è fin dall’inizio strutturalmente determinato, deve cominciare con la lettera maiuscola e finire con un punto a capo. Vien detto loro poi di fare il riassunto dei pensierini. Il riassunto dovrebbe individuare un contenuto prefissato che addirittura si troverebbe già nel testo da riassumere. Ma in ogni testo, come vedremo, c’è sempre un’infinità di contenuti. A rigor di logica, se si riflette bene, anche solo seguendo Derrida, il riassunto è impossibile. Non c’è fuori testo. Anche la composizione del famoso tema prevede un sacco di limitazioni e poi, soprattutto, implica l’imposizione esterna di un enunciato. Il tema poi, notoriamente, risale alla Ratio Studiorum gesuitica, autentico supplizio della mente e del corpo. Qualunque tema, poi, presuppone un destinatario che è, in realtà, un’ipertrofica struttura giudicante cui ci si abitua a sottoporsi. La scuola, da questo punto di vista, svolge la funzione della principale agenzia di controllo e imposizione. Qualcuno la chiama dispositivo della testualità dominante.

14. Crescendo, le limitazioni testuali si moltiplicano, con una sempre maggiore imposizione di regole sempre più assurde e arbitrarie. Così si viene progressivamente costretti nelle stretture dei generi testuali più ufficiali: diario, lettera, telegramma (ora per fortuna un poco in disuso), articolo di giornale, relazione, tesina, saggio breve, SMS, saggio bibliografico, saggio critico, articolo di storia, articolo di attualità, tesi di laurea triennale, tesi di laurea quinquennale, catalogo delle navi, manuale della lavatrice, racconto, sonetto, romanzo. Chi più ne ha, più ne metta. E questa è solo una parte minima delle possibili articolazioni dei generi testuali. Ma questo bestiario dei generi testuali è costituito da un cumulo di prescrizioni arbitrarie.

L’articolo di giornale per esser tale deve avere un certo numero di battute, ma nessuno sa dire davvero quante. Il saggio breve, che si usava all’esame di Stato, doveva avere caratteristiche così vincolanti che erano lesive della libertà di chiunque. Si dovevano mette anche le note a piè di pagina. Meno male che ci ha pensato la ministra Fedeli a sopprimere un tale abominio nel 2019. La tesi di laurea triennale, poi, secondo Vera Gheno[11], potrebbe avere come minimo 15 pagine e come massimo 70. Chi lo ha detto? E se mi volessi laureare con una tesina di 14 pagine? O di 71? Ci sono dei saggi in Montaigne[12] – che pure di saggi se ne intendeva – che sono lunghi una pagina e mezza. Se andate poi a consultare i numerosi manuali di scrittura, che continuano a essere pubblicati a un ritmo incalzante, troverete una miriade di prescrizioni, peraltro spesso in disaccordo tra loro, che costituiscono altrettante intimidazioni nei confronti di chi si appresti anche solo a compilare una lista della spesa, la qual lista poi è forse il più negletto dei generi testuali, seppure tra i più indispensabili. Chiunque legga anche uno solo di questi manuali non può che sentirsi intimidito. Convinzione del movimento NNCBV è che questo sconcio debba finire. Si tratta allora di condurre un attacco al cuore dei generi testuali.

15. Sì, va bene, ma come si fa? Noi, che abbiamo avuto i nostri peccati di gioventù, di primo acchito saremmo tentati, sull’onda di un’antica simpatia per Feyerabend[13], di dire che «Anything goes!», qualsiasi cosa va bene. Sarebbe sufficiente una negazione estemporanea delle regole, ogniqualvolta si venga in contatto con esse. Solo alla fine di ciascuna intensa giornata di disseminazione della contestazione, il militante dedito alla causa NNCBV, potrebbe fare il bilancio del caos testuale che è riuscito a seminare. Si potrebbero fare anche delle gare. Pur accettando pienamente la prospettiva feyerabendiana, il Movimento crede tuttavia particolarmente in paio di specifiche strategie che andrò a illustrare.

16. Uno dei metodi proposti dal movimento NNCBV è il détournement, ossia la diversione. Non si tratta certo di una novità, poiché notoriamente è il recupero di un vecchio metodo lettrista e situazionista. La novità è che ora sarà applicato sistematicamente proprio ai generi testuali. Sono certo che i miei dieci lettori avranno piacere di avere qualche esempio. Potete finalmente mettere in versi, con pieno valore legale, il verbale della riunione di condominio. Potete conferire un risvolto poetico anche ai latrati rivolti alla luna, del vostro cane, dopo una accurata registrazione, masterizzazione e relativa diffusione su Facebook. Potete ordinare una pubblicità alla radio locale che usi lo stesso idioma delle lettere circolari dell’Agenzia delle entrate. Oppure un verbale della Polizia potrebbe cantare in musica: «Lei andava a cento all’ora per trovar la bimba sua!». Si potrà – finalmente – avere un trattato sul modello standard della fisica delle particelle scritto interamente in versi dialettali, e per giunta, finalmente, senza formule matematiche. Il principio generale del détournement è il seguente: poiché tutto è sempre collocato in un contesto (e ogni contesto è sempre vincolante e normativo, cioè autoritario), allora la mutazione inattesa del contesto, il cambiamento repentino del gioco linguistico, come direbbe Lyotard[14], rende palese la dipendenza dal contesto e, nello stesso tempo, produce espressioni del tutto nuove, nello spirito della fluidità creativa.

17. Ma non basta. Poiché abbiamo citato Derrida, tra i metodi di NNCBV non poteva mancare anche la decostruzione. Per definizione, secondo i decostruzionisti, un testo qualsiasi (si ricordi che, per Derrida, tutto è testo!) non dice mai quel che apparentemente sembra voler dire. Dice sempre altro. Un testo in sé non è mai quel che sembra, è sempre qualcos’altro. Dietro al testo, sempre il sospetto ci cova. Attraverso la déconstruction si tratta di spremere il testo e fargli tirar fuori quello che proditoriamente nasconde. Trasferito questo concetto nel campo dei generi testuali, avremo dei risultati sorprendenti. Un genere testuale non è mai quello che si presenta come tale. Un saggio bibliografico potrebbe essere in realtà – à la Bourdieu – un episodio dello scontro di potere tra fazioni accademiche. Un vocabolario della pronuncia, come il DOP, sarà decostruito e interpretato come un dispositivo (Gestell) heideggeriano. Un apparato cioè che è espressione della tecnica e che consegue dal nascondimento dell’essere. Coloro che sono costretti all’uso del DOP scontano, per intanto, di non essere di madre lingua tedesca – cosa gravissima – e, poi, non possono che palesare così la loro condizione di deiezione e il loro oblio dell’essere. La famosa lista della spesa va interpretata, in realtà, come una denuncia dell’impoverimento del ceto medio, oppure della pericolosa tendenza verso l’obesità di una fascia sempre più ampia della popolazione. Un saggio, qualunque sia il suo contenuto, non può che essere una potente espressione della vana gloria, inevitabile da parte dell’autore: poiché scrivere un vero saggio è impossibile, chi dichiara di averne scritto uno, per di più nell’incipit, non può che essere in perfetta malafede. L’autore, autoproclamatosi tale, poi non sa, non solo che il saggio è impossibile, ma non sa neppure che ormai, da decenni, è stata dichiarata anche la mort de l’auteur[15]. Ma la casistica è infinita, poiché ovunque ci sia genere testuale, lì non può esserci che decostruzione. Per questo non si può mai fare un riassunto: i significati del testo sono in realtà infiniti. Non c’è fuori testo.

18. Un bambino sfortunato crede di star facendo un tema in classe, in realtà la sua è la denuncia di una violenza subita in famiglia. Senza decostruzione, la sua denuncia non sarebbe neanche recepita. La sequenza degli SMS sul telefonino è in realtà qualcosa di ben diverso da quel che comunemente si pensa. Si tratta, infatti, di un vero e proprio testo narrativo, di grande spessore e complessità, da fare invidia a cose come I fratelli Karamazov – si sa che la prosaica vita vera, con i suoi dettagli minimalisti ma autentici, è in grado di fare impallidire la migliore fiction. Gli scontrini del supermercato, opportunamente raccolti e trattati, costituiscono dei realistici saggi di scienza economica. In ogni caso, è la univocità della forma testuale che deve essere messa in gioco. Deve essere smascherata nella sua impossibilità. Attraverso il détournement e la deconstruction si tratta allora di rompere i confini presuntuosamente certi della testualità, mostrare coram populo le strutture di potere ovunque nascoste del pensiero unico. Solo lo smascheramento può dissolvere l’illusione costantemente messa e mantenuta in scena dal tecno-sistema.

19. Ecco che, allora, nessuno degli ingenui beoti che usano allegramente e spensieratamente le consuete classificazioni dei generi testuali, quelli dei vari manuali su “come si scrive”, può più sentirsi veramente al sicuro. Non appena si pubblica qualcosa, ci si espone continuamente agli attacchi di guerriglia linguistica dei NNCBV. Mi permetto di ricordare che uno dei primi a parlare di agonismo linguistico è stato proprio Lyotard. Ci si espone anche perché, in effetti, un qualsiasi tentativo di definizione dei generi testuali – agli occhi del Movimento – non può che rivelare l’impossibilità oggettiva di portare a termine la consegna. Questo per il motivo banale, appena visto, che ogni testo non è mai quello che dice di essere. E gli esponenti del Movimento NNCBV si impegnano a farlo notare con i loro interventi estemporanei, a sorpresa, talvolta anche necessariamente cattivi. Ma un po’ di guerriglia violenta è indispensabile, se vuoi davvero cambiare la situazione e salvare la libertà di espressione di tutti noi.

20. In queste operazioni di guerriglia linguistica, i NNCBV fanno grande uso di un espediente che ha una lunga storia filosofica alle spalle: l’ironia. Non certo quella di Socrate, che non credeva neanche alla scrittura, bensì preferibilmente quella di Rorty[16]. L’ironia rortiana non è quella dell’ingenuo che cerca la verità, come Socrate, bensì quella di chi ha capito com’è fatto davvero il mondo. Di chi si è finalmente pacificato col problema della verità, ammettendo che esistono mille verità, che ciascuno ha la sua verità, per cui possiamo benissimo stare in un mondo di tante verità che si equivalgono, oppure anche del tutto senza verità. Questo però è possibile purché ci mostriamo sempre bene educati e tolleranti. E pratichiamo la solidarietà. Non dovrebbe sfuggire al lettore la stretta parentela con l’ironismo rortiano del rifiuto delle dicotomie e delle classificazioni da parte del Movimento. Nonché la parentela stretta tra le mille verità e le infinite differenze fluide che costituiscono il mondo. Del resto, saper stare agevolmente senza punti fermi è la vera profonda caratteristica del postmoderno.

21. Credi di avere scritto un articolo di giornale? Sei un illuso, perché hai sbarellato sulla lunghezza, manca la descrizione completa di un fatto e c’è in mezzo una figura retorica inappropriata, inaccettabile in un articolo del genere. Il titolo poi non va bene. E poi il giornale su cui scrivi non è veramente un giornale. Come fai a sapere che un giornale è proprio un giornale? Insomma, scrivere un articolo di giornale vero è impossibile. Credi di avere scritto un racconto? Ma cosa è davvero un racconto, che requisito deve avere per esser tale secondo le regole? Nessun racconto sarà mai davvero esaustivo dei precetti testuali. Credi di avere scritto un saggio? Povero illuso. Il tuo saggio ha in realtà la stessa struttura sequenziale (cioè, tanti orrendi capoversi numerati!) della lista della spesa. Credi di star facendo della satira? Niente di più sbagliato, la tua non è satira, hai solo prodotto una elementare serissima descrizione di persone e comportamenti che hai appena incontrato nel piatto mondo ordinario. Hai tenuto una relazione? Ma come facciamo a sapere che si trattava proprio di una relazione, quando hai speso metà del tempo a divagare sul significato di un solo concetto? Perché ci sia una relazione, ci dovrebbe essere un contenuto, ma si dimostra facilmente che, essendo i contenuti infiniti, non ci può essere alcun contenuto prevalente. Dunque o hai relazionato su tutto, cosa impossibile, oppure su niente, cosa del tutto inutile. E poi, qual è il pubblico minimo perché si possa dire di avere “tenuto una relazione”? Su quest’ultimo punto ci viene in mente il famoso argomento del sorite, ben noto ai liceali di un tempo.

Insomma, di fronte alle solerti, puntuali, acute e ironiche (seppur non sempre bene educate, solidali e tolleranti) contestazioni di NNCBV, qualunque definizione darai del tuo testo sarà considerata pretestuosa, imperfetta, inattendibile e, dunque, prova ultimativa che i generi testuali sono soltanto imposizioni arbitrare del potere e del patriarcato. Se tu dovessi perseverare nelle tue ingenue convinzioni, saresti additato al pubblico ludibrio come servo del potere. Servo così stupido da essere perfino inconsapevole. Così la derisione collettiva (altrimenti detta gogna testuale) incombe sugli ingenui praticanti delle dicotomie testuali e delle loro varie pretese impossibili classificazioni autoritarie. Colpiscine uno, per educarne cento!

22. Ai miei dieci lettori verrà tuttavia da domandarsi: «Che fine farà allora il contenuto testuale?». È abbastanza chiaro che le provocazioni del Movimento mettono in primo piano l’elemento formale ed evitano di concentrarsi sul contenuto del testo. É questa una questione davvero non secondaria. Secondo NNCBV, prima di pensare al contenuto eventuale, si tratta di vedere sempre se la forma è autentica. Ma poiché nessuna forma può essere davvero autentica, per definizione, allora a considerare il contenuto non si arriverà mai. E questa è senz’altro una conseguenza consapevolmente voluta dal Movimento. Liberare il testo dalla sua forma significa anche liberarsi dalla schiavitù del contenuto. Diciamolo pure: «Il contenuto è una roba da vecchi!». Una roba da Boomer. In effetti, il contenuto non è certo la principale preoccupazione del Movimento. Il Movimento, a quanto ci è parso di capire, è di fatto del tutto indifferente rispetto ai contenuti. Liberati finalmente dalla forma, i contenuti divenuti privi di forma saranno abbandonati al loro destino. Al loro posto, si lascerà spazio a una benevola e gratuita ironia rortiana nei confronti di qualsiasi contenuto. Del resto, la fluidità espressiva, mossa dal desiderio, produrrà contenuti fluidi sempre nuovi e sarà così del tutto inutile soffermarsi su qualsiasi contenuto particolare. I contenuti di ieri, oggi sono già scaduti, da dimenticare o da buttare.

23. Dopo queste lunghe argomentazioni e spiegazioni, son rimasto quasi senza parole. Di stucco. E ho fatto un altro paio di gulp. Devo dire che, per quanto provocatoriamente radicale, il Movimento sembra possedere una base teorica alquanto lucida e consapevole, ben più di altri movimenti similari. Una base teorica difficilmente attaccabile. Impossibile da attaccare. Anche perché attaccare le loro teorie significherebbe attaccare, più o meno, tutta la filosofia continentale degli ultimi secoli. Naturalmente, poi, è innegabile che la loro pratica sia un’immediata conseguenza della teoria. Qui, veramente, la filosofia si capovolge e diventa pratica per trasformare finalmente il mondo.

24. Tuttavia devo ancora riferire di un piccolo dettaglio di costume che forse getta qualche ombra sulla lucidità della teoria e, soprattutto, sulla pratica del movimento NNCBV. Visto che la realtà, come dice Derrida, è interamente testuale, “Non c’è fuori testo”, ne consegue che l’impegno dei militanti fluidi è piuttosto pesante e questo fatto – si ammetterà – genera un certo stress psicologico. Oltretutto, la loro negazione pratica dei generi testuali crea un serio disturbo alla loro stessa vita sociale – che, al di fuori del gruppo di riferimento, è praticamente inesistente.

Allora, forse proprio per questo stress, accade che, a ogni fine stagione, quando altrove sarebbe il momento dei saldi, i militanti del gruppo celebrino, ahimè, la loro settimana del testo. Si tratta di una specie di rito carnevalesco che ricorda ai militanti, in forma decisamente orgiastica, l’altro lato del mondo, l’altra faccia della luna. Nientemeno che la testualità proibita. Questo forse per mantenere una qualche consapevolezza di quanto viene combattuto e represso tutti gli altri giorni. Freud avrebbe forse parlato di un ritorno del represso. L’antropologia culturale, su questo costume, avrebbe notevoli materiali su cui indagare.

25. Si tratta di un rituale da loro chiamato festa della testualità totemica, dove i militanti – in collegamento webcam – indossano ciascuno la maschera di uno dei generi testuali tanto esecrati, tanto considerati come impossibili. E così mascherati, si danno a produrre, tra lazzi e schiamazzi, coriandoli e trombette, in forma esagerata e compulsiva, barzellette, temi in classe, articoli di giornale, poesie, saggi e saggi brevi, tesi triennali, iscrizioni sepolcrali, necrologi e quant’altro. Fanno anche i riassunti! Insomma, una specie di ebbro mondo alla rovescia, dove Penelope disfa la tela che ha appena tessuto, dove potrete vedere (se sarete stati fortunati ad avere l’accesso, attraverso Facebook e i social media) i duri militanti, ora mascherati come satiri, diventare i più ortodossi cultori delle distinzioni tra i generi testuali. Li vedrete cioè intenti a tracciare e mantenere enfaticamente le prima tanto odiate distinzioni dicotomiche. Ma questo accade solo per pochi giorni. Tornando alla normalità della vita reale, il mondo illusorio “totemico” appena creato si dissolve e quegli stessi video e materiali prodotti saranno accuratamente riposti e conservati per il carnevale della stagione successiva. Quindi – un avviso ai miei dieci lettori – dovete stare bene attenti. Se su qualche social vi imbatterete in qualche esponente NNCBV, dovrete per prima cosa cercare di capire se si tratta del normale periodo di attività oppure di quello dei saldi di fine stagione. Personalmente, mi hanno fatto venire in mente gli australiani descritti da Durkheim[17], i quali per tutto l’anno si proibiscono di mangiare l’animale totemico, ma poi, nel giorno della festa, ne fanno una scorpacciata.

26. Comunque – nessuno è perfetto – lunga vita a Noi non ce la beviamo! Si tratta senz’altro di un Movimento nostrano che non ha nulla da invidiare alla cancel culture, a Me Too, a BLM, a Stay Woke o al più noto onnicomprensivo politically correct, o anche magari crazily correct. Resta un piccolo problema, ma solo per me, umile cronista di un incontro casuale durante una vacanza estiva. Dopo le sollecitazioni del Movimento, non oso proprio più asserire cosa sia questa cosa che ho appena scritto per i miei dieci lettori. E quindi mi trovo in estrema difficoltà, anche soltanto a trovare un titolo. Satira? Barzelletta? Manuale della lavatrice? Cronaca filosofica? Diario di viaggio? Articolo di giornale? Batracomiomachia? Trattato di morale? Non-fiction? Paradosso? Racconto di fantascienza? Flusso di coscienza? Saggio à la Montaigne? Saggio di linguistica? Racconto breve? Sogno di una notte di mezza estate? Così, spinto dal dubbio, mi è venuto in mente che, per schivare le giuste rampogne del Movimento NNCBV, non mi restava che nascondermi dietro a una nota tattica surrealista[18]. Tanto per riuscire a essere politically correct almeno una volta.


Note

[1] Se “questo non è un saggio”, ne deriva che anche l’autore non è un autore. La cosa non è del tutto impossibile. Abbiamo ben presente la sofisticata problematica relativa alla morte dell’autore (a partire da Roland Barthes, 1984,“La mort de l’auteur”, LesÉditionsduSeuil, Paris.  Tr. it.: “La morte dell’autore”, in Barthes, Roland   (a cura di), Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Einaudi, Torino, 1988). Infatti, il non autore di questo non saggio non ci ha messo proprio niente di suo. Si è limitato a guardarsi intorno, a osservare qualche personaggio ridicolo dei nostri tempi e a rubacchiare qualche spunto, qua e là, nella letteratura che va per la maggiore e che sta friggendo le menti delle vecchie e nuove generazioni. Nella stesura di questo non saggio il non autore non si è servito di alcuno strumento di AI, ovvero di intelligenza artificiale. Anche perché, qualora lo avesse fatto, si sarebbe trattato piuttosto di IA, ovvero di Ignoranza Artificiale.
Pubblicato su Finestre rotte il 31 agosto 2025.

[2] Non binary è un neologismo che si sta diffondendo sempre più, e sta a contraddistinguere coloro che rifiutano di stare nella strettoia delle dicotomie e delle classificazioni.

[3] Michel Foucault (1926-1984). Qualificato come filosofo e (ahimè) sociologo francese.

[4] Cfr.: 2024 Ricolfi, Luca, Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite, La nave di Teseo, Milano.

[5] Jacques Derrida (1930-2004), filosofo francese post strutturalista, inventore del decostruzionismo.

[6] La frase che molti citano suona come “Non c’è fuori-testo” e si trova alla pag. 219 in: 1967, Derrida, Jacques, De la grammatologie, LesÉditions de Minuit, Paris.  Tr. it.: Della grammatologia, Jaca Book, Milano, 1998.

[7] Ci si riferisce a Jean Baudrillard (1929-2007), sociologo, filosofo, politologo e saggista francese.

[8] Ludwig Feuerbach (1804-1872), filosofo della sinistra hegeliana.

[9] Mi riferisco al filosofo francese post – strutturalista Gilles Deleuze (1925-1995).

[10] Mi riferisco ovviamente al noto saggio: 1903 Durkheim, Émile&Mauss, Marcel, “De quelquesformesprimitives de classification”, in L’annéesociologique, n. 6, 1903.  Tr. it.: “Alcune forme primitive di classificazione”, in Durkheim, Émile&Mauss, Marcel   (a cura di), Sociologia e antropologia, Melita, La Spezia, 1981.

[11] Nota esperta di linguistica, peraltro aperta a molte innovazioni, come la “schwa”. Dice la Gheno: «In alcuni atenei [la lunghezza ndr] è di 20 pagine, con una tolleranza di più o meno 5 pagine; ma di solito, se non è diversamente specificato, la lunghezza attesa è compresa tra le 35 e le 70 pagine». Cfr.: 2019, Gheno, Vera, La tesi di laurea, Zanichelli, Bologna (pag. 8). Questo mio non saggio ammonta in tutto a circa 39 000 battute. A 2000 battute per pagina, potrei già prendere, da qualche parte, una non laurea triennale!

[12] Michel de Montaigne (1533-1592). Celebre autore dei Saggi. Cfr.: 1986 De Montaigne, Michel, Saggi (a cura di Virginio Enrico), Mondadori, Milano. [1580-1588]. C’è una traduzione nuova da Bompiani.

[13] Mi riferisco a Paul Feyerabend (1919-1994), noto epistemologo che ha sostenuto l’anarchismo metodologico. La sua posizione è davvero sottile, poiché l’anarchismo metodologico rende del tutto superflua l’epistemologia stessa.

[14] Francois Lyotard (1924-1998) filosofo francese post-strutturalista, considerato come il principale esponente del postmodernismo filosofico.

[15] Vedi nota n. 1.

[16] Il riferimento va a Richard Rorty (19341-2007), filosofo neo pragmatista americano, assai vicino al postmodernismo.

[17] Mi riferisco a: 1942 Durkheim, Émile, Lesformesélémentaires de la vie religieuse. Le systémetotémique en Australie, Alcan, Paris.  Tr. it.: Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, Newton Compton, Roma, 1973.

[18] Mi riferisco a René Magritte (1898-1967) e alla lettura anti fondazionale e relativista che Michel Foucault ha fatto della di lui opera titolata “Ceci n’est pas une pipe”.

Il lato sinistro della storia 1

(parte prima)

di Paolo Repetto, 28 gennaio 2022

Per aiutarvi ad ammazzare il tempo, in attesa che la variante omicron ci abbia visitati tutti e che venga eletto un nuovo presidente della repubblica, proponiamo i capitoli iniziali di uno studio in progress (in realtà fermo da un paio d’anni, dall’epoca pre-covid). In tempi di siccità si spremono anche i cactus, ed è quello appunto che stiamo facendo, visto che l’auspicato ricambio generazionale non si lascia scorgere. Dovrebbero seguire ulteriori capitoli, ma non promettiamo nulla. Al momento preferiamo considerarla un’opera aperta, non a una molteplicità di interpretazioni, ma ad integrazioni e sviluppi che arrivino da e si muovano verso ogni possibile direzione.

 

Il mistero esistenziale
segna tutta la mia vita
Sono un uomo o un animale
mi domando ad ogni uscita.[1]

Da piccolo, intendo dire fino attorno ai sette o otto anni, non ero quel che si dice un bambino propriamente sveglio. O almeno: lo ero per certe cose, leggere, scrivere, disegnare, ma sul versante appena appena più pratico ero un vero disastro. Oggi mi certificherebbero subito gravi disturbi dell’attenzione, e potrei tranquillamente fregarmene di studiare, e dedicarmi a tempo pieno ai miei libri, ai miei fumetti, ai miei giochi preferiti. All’epoca però non funzionava così, e per sopravvivere dovevi comunque adeguarti. Io, ad esempio, ho continuato a lungo ad avere dubbi sulla localizzazione della destra e della sinistra: per cui per distinguerle ricorrevo al segno della croce. Essendo naturalmente destrimane la cosa mi aiutava (fossi stato mancino genitori, preti e maestre mi avrebbero “rieducato”, con le buone o con le cattive), e così col tempo la distinzione è diventata automatica, nel senso che non faccio più il segno della croce, ma il riferimento non conscio al braccio persiste.

Qualcosa di quella confusione deve però essermi rimasto in testa, per cui a dispetto dell’automatismo fisico non sono mai riuscito in verità a raccapezzarmi perfettamente nelle lateralizzazioni. Soprattutto poi quando il terreno di gioco è quello della politica.

Avete già capito dove voglio andare a parare. Ci risiamo. Per l’ennesima volta (è l’ultima, lo giuro) torno sul tarlo che da tempo mi rosica, anche perché spesso è stuzzicato dagli amici: ma io, alla fin fine, sono di destra o di sinistra?

So benissimo che è un tormentone insensato e anacronistico, visto che queste appartenenze, già molto confuse di per sé, da quando il “pensiero liquido” ha ufficialmente cancellata ogni distinzione sono concordemente schifate da una parte e dall’altra: e anche perché di una mia eventuale “collocazione” importa poi in realtà a nessuno. Ma tant’è, il rosichìo del tarlo continua, è fastidioso, e a me importa. Perché liquido non lo sono affatto, nelle situazioni di ambiguità mi trovo a disagio e alle differenze ci tengo. Ed è anche significativo della confusione dei tempi il fatto stesso che uno si ponga la domanda. Visto dunque che una qualche risposta vorrei riuscire a darmela, il modo migliore che ho è costringermi a rifletterci su per iscritto, per procedere con un minimo di ordine. Per Roland Barthes scrivere era un verbo intransitivo: per me è un riflessivo.

Confesso subito però che quello dell’appartenenza politica, pur nascendo da un interrogativo reale, è solo un pretesto: un trampolino per tuffarmi un po’ più in profondità. Quando ho iniziato a pensare a questo pezzo ero convinto di cavarmela con quattro paginette, invece la cosa mi ha preso la mano e la curiosità ha alzato l’asticella. Ciò che cerco davvero è infatti una chiave di interpretazione che chiarisca, sia pure molto all’ingrosso, le mie convinzioni e i comportamenti che ne conseguono, non solo nella sfera politica, ma in tutti gli ambiti relazionali. Cerco ciò che mi distingue, per capire se la sempre più ricorrente sensazione di estraneità è frutto solo del trascorrere degli anni o rivela un’anomalia rispetto a una misura universale. È in fondo una curiosità fine a se stessa: voglio semplicemente capire un po’ di più, e non mi aspetto che una maggiore consapevolezza, quale che sia, possa poi influire su quei comportamenti, o addirittura modificarli. Fumo da cinquant’anni, e a dispetto di ogni negativa evidenza non ho mai cercato di smettere. Ma il sapere perché lo faccio mi dà una certa illusione di controllo.

Ora, non essendo appassionato di oroscopi e nutrendo ancor meno fiducia nella psicanalisi, nella ricerca di questa chiave, della mia, ma per forza di cose anche di quella universale, mi affiderò solo al pochissimo che ho appreso dalla biologia, dall’antropologia e dalla storia, saltando da un ambito all’altro, incrociando e collegando, magari del tutto arbitrariamente, ciò che credo di aver capito. Non so se ne verrà fuori un identikit verosimile, ma penso che almeno il percorso possa risultare in qualche misura interessante anche per altri. In fondo, non sono poi così originale. Per questo cercherò di documentarne le tappe.

Con un’avvertenza. Dietro questo scritto non ci sono geniali intuizioni: è tutto molto semplice e scontato. Lo schema suppone un tot di innato, un tot di acquisito e una percentuale di “costruito”. Su un fondo di determinazione genetica, in pratica il corredo che ci trasmettono i genitori, gli errori di replicazione del DNA e le contingenze storico-ambientali hanno sviluppato delle variabili, quelle che danno origine al carattere individuale. È storia comune, nemmeno molto diversa dalla lettura zodiacale che fa il mago Otelma: nasci con un segno (l’influsso astrale, in questo caso quello genetico) e lo declini poi in base alle congiunzioni o alle opposizioni dei pianeti. Ma io, da buon Scorpione[2], tendo a sottrarmi alla regola, e finisco per complicare le cose: mi piacciono i quadri molto mossi. E per sapere quanto lo è il mio devo capire quanto è davvero immobile quello comune.

Il lato sinistro 02

  1. Da che parte sto?

Dunque: sto a destra o a sinistra? Visto che sono partito da questa domanda proseguo per il momento nel gioco, e penso che la mossa più logica d’apertura sia riesaminare i significati originari delle due categorie politiche e seguire, sia pure per sommi capi, i loro aggiustamenti successivi, affrontando poi su questa base la presunta crisi identitaria odierna (e la mia in particolare)[3].

Fino a che il confronto è con Berlin, con Bobbio e con altri filosofi “classici” della politica devo dire che le cose funzionano, nel senso che bene o male è ancora possibile “riconoscersi”. In buona sostanza, come riassume perfettamente Bobbio, “il criterio rilevante per distinguere la destra e la sinistra è il diverso atteggiamento rispetto all’ideale dell’uguaglianza, e il criterio rilevante per distinguere l’ala moderata e quella estremista, tanto nella destra quanto nella sinistra, è il diverso atteggiamento rispetto alla libertà”. Ovvero: stai a destra se poni l’accento sulla libertà (con possibili eccezioni estremistiche, quando quest’ultima viene sacrificata ad una qualsivoglia presunta “identità” tradizionale), stai a sinistra se lo poni sull’uguaglianza, sulla “giustizia sociale” (anche qui, in uno spettro molto vasto di accezioni, che arrivano fino alla sovrapposizione con quelle della destra estremistica). All’interno di questo schema, come si vede, col variare dei rapporti percentuali tra gli elementi in gioco le combinazioni possibili sono infinite, e le appartenenze si sfumano. Oggi più che mai, perché è venuto a mancare, o almeno è diventato meno visibile, per l’una parte e per l’altra, l’antagonista. È difficile quindi definirsi, come si faceva un tempo, semplicemente per contrasto, puntando sul “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Va (andrebbe) chiarito ciò che intendiamo quando parliamo di uguaglianza (o più genericamente di giustizia sociale) e di libertà.

Quanto all’eguaglianza, ad esempio, io la interpreto così: tutti devono poter godere di eguali opportunità, il che significa azzerare (almeno tecnicamente: parlo di condizioni economiche, di opportunità scolastiche) gli svantaggi culturali e compensare quelli naturali: ma una volta realizzate queste condizioni, ciascuno è poi responsabile delle sue ambizioni e delle sue scelte, degli eventuali successi e delle possibili delusioni. L’eguaglianza ha da essere la condizione di partenza, non quella d’arrivo.

Perché qui poi entra in ballo la libertà: che è appunto libertà di fare delle scelte (Berlin la definisce libertà “positiva”, libertà di), purché queste non vadano a ledere la libertà altrui, e quindi di perseguire gli obiettivi e gli stili di vita più diversi. Le scelte sono veramente tali quando non sono condizionate da costrizioni o da forme subdole di persuasione (libertà da, o libertà “negativa”), ma nemmeno dall’invidia per quelle altrui e dalla imitazione puramente competitiva. Quando sono cioè totalmente responsabili e coerenti.

Per essere chiari: se ritengo non valga la pena dannarmi l’anima per possedere una casa al mare o in montagna (ma anche semplicemente per possederne una), e preferisco dare la precedenza ad altri valori o a più immediate soddisfazioni, non devo poi recriminare sul fatto che qualcuno possa permettersela: sempre che mi sia stata data in partenza la stessa possibilità e che quel qualcuno non abbia acquistata la casa coi soldi fatti sulla mia pelle. L’esempio è talmente banale da sembrare persino stupido, ma a mio avviso riassume, sia pure in maniera semplicistica, le dinamiche elementari dei rapporti (e dei conflitti) sociali. In base a questo criterio potrei dire, come Berlin, che “sto nel mezzo: sono all’estrema destra della sinistra e all’estrema sinistra della destra[4].

Questa posizione rientra ancora in una concezione “classica” della sinistra. Persino Berneri e gli anarchici, almeno quelli seri, l’avrebbero sottoscritta: ma non corrisponde, per contro, a quella marxista, o meglio a quella declinazione del marxismo di cui si è fatto monopolista il comunismo novecentesco. Credo si debba assumere un terzo criterio per una definizione corretta dell’essere “a sinistra”: essere consapevoli che non potrà mai esistere una “società giusta” (magari una un po’ più giusta di altre, si), ma essere convinti che possano esistere, ed esistano, uomini giusti. La differenza è netta: io parlo di una “rigenerazione sociale” che deve partire dal basso, dalla presa di coscienza e dall’assunzione di responsabilità da parte dei singoli individui, mentre il marxismo-leninismo parla di una “rivoluzione” calata dall’alto e di individui eteroguidati, “rieducati”. Dal momento che ritengo che la vicenda cambogiana, per citarne una, non costituisca un’aberrazione, ma sia il naturale esito di quell’idea spinta sino alle sue estreme conseguenze, è chiaro che non ho dubbi: io sono “la sinistra”, mentre gli altri sono quando va bene degli illusi, quando va male dei criminali.

Il problema si complica invece, come dicevo, allorché provo a confrontarmi tanto con le declinazioni ultime, post-comuniste, del significato dello “stare a sinistra”(da Toni Negri ai vari neo-populismi e neo-machiavellismi), quanto con i teorizzatori dell’avvenuta dissoluzione delle categorie contrapposte, da Alain de Benoist a Maffesoli e, dalle nostre parti, da Tarchi a Cacciari: un po’ perché ci capisco poco, un po’ perché c’è davvero poco da capire, e comunque, quando accade, non ne trovi due che concordino, dal momento che gli scenari coi quali confrontarsi si sono complicati parecchio. E infine perché, a conti fatti, io stesso non concordo con nessuno, pur riconoscendo che il mio percorso, in questi ultimi quarant’anni, è stato comune a quello di molti altri, a volte solo per alcuni tratti, in qualche caso sino in fondo. Non sempre però lo stesso sentiero, anche quando si snoda attraverso gli stessi panorami, porta a cogliere identici scenari. Ma su questo torneremo.

Quindi: o il problema dell’appartenenza, del posizionamento su una sponda o sull’altra, davvero non ha più senso, oppure va affrontato partendo da molto più lontano (in fondo la valenza politica di “destra” e di “sinistra” ha solo tre secoli). Per esempio, prendendo spunto dalle analisi a vasto raggio delle motivazioni dei comportamenti umani sviluppate da René Girard, che individua nel “desiderio mimetico” e nel risentimento che ne consegue il senso originario dell’ambiguità delle relazioni sociali. Oppure da quelle storico-sociologiche di Alexis de Tocqueville, che scriveva “Ho per le istituzioni democratiche un gusto della mente, ma sono aristocratico per istinto”, riassumendo perfettamente tutto quello che andrò a dire.

Ma anche su questo tornerò. L’ho anticipato solo per dire che per comprendere l’origine delle nostre propensioni, anche di quelle politiche, è necessario andare oltre il lessico politico. Capire cioè se classificazioni come “di destra” e “di sinistra” abbiano un carattere ed una origine puramente convenzionali[5], oppure se ci siano alle loro spalle delle ragioni di ordine “naturalistico”. È opportuno allora ripensare i concetti di “destra” e “sinistra” andando a ritroso nel tempo, partendo da una primordiale connotazione fisiologica. Questo porta a sconfinare dal discorso prettamente “politico” verso ambiti che toccano la linguistica, l’antropologia, la storia naturale, la biologia e la neurofisiologia, per poi rientrare attraverso la sociologia. Il rischio è quello di dar vita aduno sconclusionato helzapoppin, ma potrebbero anche scaturirne elementi di conoscenza curiosi e inattesi.

Il lato sinistro 03

  1. Un tuffo nella linguistica

La risalita a monte ha preso avvio dalla casuale riscoperta di un libro che possedevo da un pezzo e davo per scontato. Si tratta di “La rappresentazione collettiva della morte”, di Robert Hertz, edito da Savelli più di quarant’anni orsono. Oltre al saggio che fornisce il titolo, il volume contiene un breve studio su “La preminenza della mano destra”, che è un capolavoro di intuizione e di sintesi. Quest’ultimo non ricordavo di averlo letto. Probabilmente, a dispetto delle sottolineature che ho riconosciuto per mie, si era trattato di una lettura superficiale, perché la sua ripresa ha costituito un’autentica rivelazione (ma forse nemmeno questo è del tutto vero: forse certe cose avevano continuato a girarmi in testa anche dopo che ne avevo dimenticato la fonte).

Hertz era un brillante studioso tedesco di origine ebraica, cresciuto alla scuola sociologica di Durckheim e morto precocemente combattendo sul fronte francese durante la prima guerra mondiale. Sulle circostanze di questa morte e sul personaggio nel suo assieme varrà senz’altro la pena soffermarci in altra occasione: per il momento mi interessa invece la domanda con la quale si apre il secondo saggio: “La mano destra è il simbolo o modello di ogni aristocrazia, la mano sinistra di tutte le plebi. Quali sono i titoli di nobiltà dell’una, e da dove deriva la servitù dell’altra?”.

Per farla breve riassumo subito la risposta dell’autore. Fermo restando che l’uso prevalente della mano destra – ma in realtà di tutti gli arti e degli organi sensoriali situati nel lato destro del nostro corpo – ha una motivazione prevalentemente fisiologica (come vedremo più oltre), è interessante tutto ciò che ne consegue: l’identificazione cioè della destra con il positivo e la “demonizzazione” della sinistra, quella che potremmo definire l’elaborazione simbolica della differenza, frutto di un lungo lavoro della cultura collettiva. Secondo Hertz questo lavoro è legato al fatto che noi umani tendiamo a leggere il mondo, la realtà che ci circonda, in base a uno schema di polarità contrapposte. Dalla quotidiana alternanza delle esperienze fisiche esterne (luce e buio, caldo e freddo, vita e morte) e di quelle psicologiche interne (gioia e dolore, amore e odio, ecc …) abbiamo desunto la divisione dell’universo in due poli, che nella primitiva interpretazione religiosa rappresentano l’uno il sacro e l’altro il profano. Entro queste polarità si iscrivono rispettivamente tutte le coppie oppositive esistenti: il puro e l’impuro, il bene e il male, la forza e la debolezza, ecc …

Ora, questa lettura del mondo attraverso categorie oppositive ci è necessaria per elaborare un linguaggio della differenza, ai fini pratici immediati della sopravvivenza (commestibile-velenoso, innocuo–pericoloso) e a quelli sociali e identitari di difesa o offesa (amico-nemico). Le polarità originariamente religiose si secolarizzano poco alla volta in polarità sociali, e il funzionamento di ogni comunità finisce per fondarsi su una strutturazione bipolare: dentro-fuori, identità-diversità.

Il lato sinistro 04

Fin qui Hertz. A questo punto, con parecchia presunzione, inserisco una digressione mia, sia pure seguendo la linea da lui tracciata. Mi sposto sull’analisi lessicale, che mi è costata decine di ore di ricerche, ma mi ha regalato grosse sorprese e molte soddisfazioni.

Protagonista principale e al tempo stesso testimone chiave del processo che volevo ricostruire, sin dalle origini più remote cui possiamo risalire, è il linguaggio. Il perché lo vedremo. Per ora ci basti sapere che negli idiomi protoindoeuropei esiste una radice “dek” (presente in “tekh’s”, che indica appunto la mano destra, e più genericamente il lato destro) dalla quale germogliano una serie di voci tutte riferibili a valori positivi: dekos, ad esempio sta per onore, giustizia, bontà, decoro, ordine, misura, gradevolezza. Il lessema dek connota e identifica il campo del positivo, di ciò che è favorevole. E mantiene questa valenza nelle successive derivazioni: nel sanscrito dàkša (idoneo, capace), ad esempio. La discendenza lessicale poi è perfettamente rintracciabile nella lingua greca (dove destro è dexiteron) e in quella latina (dexter), per arrivare infine alle lingue neoromanze, ma anche a quelle germaniche: e assieme al suono si perpetua la valenza simbolica. Ad esempio, in latino c’è un tema verbale cui fanno capo azioni positive: decet, oppure, doceo, o ancora disco. Nell’antico germanico c’è Zeche, ordine, nell’irlandese dess (appropriato) e deis (compagno, amico).

Nella lingua italiana i termini derivati o direttamente apparentati con la destra sono una folla. Addestrare è impartire un buon insegnamento; maldestro è colui che sbaglia; destrezza è al contrario segno di abilità; il destrosio è un energetico, mentre il destriero è un cavallo di razza; avere il destro significa godere di una buona opportunità. Troviamo anche, oltre ai termini strettamente connessi con destra, quelli riferibili al suo equivalente, la “dritta” (che è ancora usato nel linguaggio marinaresco), dal quale abbiamo dritto, diritto, dirittura, ecc … Dritta è probabilmente traslato dal francese droite, che al maschile sta sia per diritto (sostantivo) che per giusto, onesto, dritto (aggettivi). Ha un equivalente nelle lingue celtiche e sassoni: right significa destro e significa anche giusto, regolare. Anche in italiano locuzioni come tenere la schiena dritta, prendere la dritta via, guardare dritto negli occhi, hanno rapporto con un atteggiamento giusto e leale. E anche i gesti della quotidianità sono orientati in tal senso: a destra si dà la precedenza; a destra si avvita per stringere, mentre a sinistra si allenta, ecc …

Non accade la stessa cosa per il concetto di sinistra. Non esiste cioè un radicale originario altrettanto evidente, e già questo è sintomatico. Mentre la radice da cui originano la destra e l’universo di significati positivi ad essa legati è unica, ed ha attraversato tutte le epoche e le culture linguistiche (almeno quelle occidentali), il concetto di sinistra non presenta alcuna stabilità morfologica, e questa assenza di continuità suggerisce di per sé l’idea di disordine. Possiamo risalire solo al latino sinis, che significherebbe “a differenza di”, e che combinato col suffisso -ter (di comparazione e opposizione) dà sinister. Indica ciò che è diverso dalla norma, in particolare “la mano anormale”. Pare che in realtà nel mondo romano il termine non avesse sempre un significato negativo, almeno nei rituali religiosi (i romani officiavano rivolgendosi a sud, e il levante, dal quale provenivano gli auspici positivi, veniva a trovarsi a sinistra): ma nella quotidianità prevaleva senz’altro l’abbinamento con il negativo, la disgrazia, la disonestà, derivante direttamente dalla interpretazione greca (i greci officiavano rivolti a settentrione). Non a caso Catullo quando bacchetta Asinio Marrucino fa riferimento al “cattivo uso della mano sinistra”.

Sinister, tra l’altro, convive nel latino con un termine più antico, laevus, da cui l’inglese attuale left (originariamente debole, inutile): ma in inglese è presente anche sinister, che non indica una condizione fisico-geografica, ma si riferisce solo ai significati negativi e infausti del lessema. E anche lo spagnolo ha una parola derivata dal latino sinistrum: siniestro, i cui significati ricalcano quelli del corrispettivo italiano, compreso l’incidente.

Questo ci riporta all’uso lessicale italiano. Come sostantivo un sinistro è un appunto un incidente, una disgrazia: come aggettivo sta ad indicare sgradevole, sfavorevole, tragico, sciagurato, minaccioso, pauroso, funesto, nefasto, cattivo, maligno, ecc … L’oppositivo di dritta è, guarda caso, manca, che dichiara esplicitamente una condizione imperfetta, di assenza. In francese accade pressappoco la stessa cosa: a droite si oppone gauche, che deriva da gauscir, deformare, alterare, curvare.

Direi che c’è già materia a sufficienza per tirare un po’ di somme. Tutta questa esibizione di competenze filologiche che in realtà non possiedo sta a spiegare come “destra” e “sinistra” diventino, a partire da una tendenza fisiologica e attraverso la mediazione del linguaggio, i simboli e la sintesi di una opposizione ancestrale intrinseca all’universo.

Questo processo lo possiamo constatare già nella Bibbia, dove la “mano destra” viene menzionata molto più spesso della sinistra,e quando si parla della gloria e della potenza di Dio si precisa che “è piena di giustizia la tua mano destra” (Salmo 48,11) e che “il Signore con la mano destra compie prodigi” (Sal 118,15-16), ma anche che “La tua destra, Signore, terribile per la potenza, la tua destra, Signore, annienta il nemico” (Es 15,6. 12). Il riferimento, almeno quando a parlare è il Signore, è sempre ad una sola mano. Dio con essa crea (“Tutte queste cose ha fatto la mia mano ed esse sono mie” (Is 66,1-2,), si prende cura, sostiene, salva, offre protezione, ma anche giudica, corregge, condanna e punisce. La destra indica la potenza e l’abilità di Dio, la dolcezza e l’elezione, la capacità di uccidere e di guarire. Le stesse attribuzioni, soprattutto quelle connesse alla misericordia, le ritroviamo nel Nuovo Testamento, nel costante richiamo alla mano risanatrice o benedicente di Gesù.

Ma il processo si sviluppa contemporaneamente nel mondo greco. È significativo ad esempio che Pitagora parta dall’opposizione tra i numeri (pari/impari) per dedurne la suddivisione di tutta la realtà in categorie antitetiche, e dunque una visione dualistica del mondo. La sua dottrina individua dieci coppie di contrari, gli “opposti pitagorici”, una delle quali è appunto destra-sinistra. Alla destra corrispondono unità, quiete, retta, luce, bene, maschio, limitato, dispari e quadrato. Alla sinistra molteplicità, movimento, curva, tenebre, male, femmina, illimitato, pari e rettangolo. Insomma, a destra sta la perfezione, perché perfezione nel mondo classico comporta anche il senso del limite (perfectus=compiuto, definito), mentre la sinistra è imperfezione, disordine.

Sia nella cultura classica che in quella giudaico-cristiana, se la destra è associata all’idea del divino la sinistra è invece collegata al magico. Nel mondo pre-cristiano tuttavia non sempre quest’ultimo legame comporta una valenza negativa: a volte l’uso della mano sinistra ha un valore apotropaico. Nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, ad esempio, viene prescritto per le operazioni magico-mediche curative e profilattiche: le piante medicinali vanno raccolte con la mano sinistra. Il cristianesimo medioevale sottolinea invece la distinzione tra magia bianca e magia nera, e naturalmente le due sfere vengono “lateralizzate” secondo il modello oppositivo. Quando poi la sfera del sacro si formalizza in canone (ad esempio con la controriforma) quella magica assume connotati equivoci e torbidi (e scatta la caccia alle streghe).

Il Cristianesimo ribadisce comunque l’opposizione: “dopo il giudizio, i giusti siederanno alla destra del padre, gli empi alla sinistra; i primi erediteranno il regno, i secondi bruceranno tra le fiamme dell’inferno”. (Matteo 25, 31-46). Nella quasi totalità delle raffigurazioni del peccato originale – da Wiligelmo a Michelangelo, a Rubens, ecc … – Eva coglie la mela con la sinistra, e con quella la porge ad Adamo. (Sempre nella cappella Sistina, però, Michelangelo mostra le dita della mano destra di Dio che toccano quelle della sinistra di Adamo. E questa non me la spiego, se non per ragioni di equilibrio della composizione – a meno che non stia a significare che prima del peccato, in un universo non diviso, ai fini della conoscenza destra e sinistra erano equivalenti).

La demonizzazione della sinistra è fatta naturalmente propria anche dall’islam. La tradizione islamica afferma che ogni cattiva azione viene iscritta sul braccio sinistro, mentre le buone azioni vengono iscritte sul braccio destro, e che il Giorno del Giudizio universale ogni uomo che avrà commesso del male tenterà, invano, di tenere il braccio sinistro nascosto dietro la schiena. Allo stesso modo, nel mondo mussulmano durante lo svolgimento dei pasti è obbligo utilizzare la mano destra, perché la sinistra è considerata haram, proibita in quanto impura. Ed è necessario lavarsi le mani cominciando dalla destra.

Bene. Abbiamo visto come la destra diventi in questo modo la depositaria di un comportamento adeguato rispetto ad un ordine stabilito (dalla natura, dagli dei, dagli uomini), mentre la sinistra rimanda alla trasgressione, all’alterazione, all’instabilità e all’inaffidabilità, e suscita sentimenti di inquietudine e di avversione.

Tutto questo trova espressione naturalmente anche nei rapporti tra i generi, e nella considerazione riservata a quello più debole. Accennavo a quel che ne pensava Pitagora, e aggiungo che i suoi connazionali erano tutti perfettamente d’accordo[6]. E non solo loro: troviamo che in epoca storica questa concezione è stata condivisa da tutte le culture e a tutte le latitudini[7]. Anche per le popolazioni più primitive destra è la parte del fegato, e fegato sta per “coraggio”. Una virtù solare, prerogativa, nella dominante concezione maschilista, degli uomini. Sinistra è invece la parte del cuore, quella che governa il lato femminile del sentimento (ciò che viene rimarcato soprattutto dalla cultura medioevale); è la parte sotterranea, satanica, passionale.

Pierre Bourdieu sintetizza in questo modo quanto ho cercato sino ad ora di raccontare: «Dunque, attraverso questi apprendimenti corporei, vengono insegnate delle strutture, delle opposizioni tra l’alto e il basso, tra il diritto e il curvo. Il diritto evidentemente è maschile, tutta la morale dell’onore delle società mediterranee si riassume nella parola “diritto” o “dritto”: “tieniti dritto” vuol dire “sii un uomo d’onore, guarda dritto in faccia, fai fronte, guarda nel viso”. La parola “fronte” è assolutamente centrale, come in “far fronte a”. In altri termini, attraverso delle strutture linguistiche che sono, allo stesso tempo, strutture corporali, si inculcano delle categorie di percezione, di apprezzamento, di valutazione, e allo stesso tempo dei princìpi di azione sui quali si basano le azioni, le ingiunzioni simboliche (le ingiunzioni del sistema di insegnamento, dell’ordine maschile, ecc.). In sintesi, è attraverso una logica disposizionale che l’ordine si impone.»

Il “comportamento adeguato” di cui parlavo sopra è oggetto nel corso del tempo di una codificazione. Si elabora un rituale al quale non è ammesso derogare, che governa gli scambi e le relazioni (con la divinità, o tra gli uomini). Si pensi ad esempio al motivo del duello che crea la fama, sinistra appunto, dell’Innominato: il non voler cedere la destra. Questa ritualizzazione è necessaria per diminuire gli attriti, le incomprensioni, le incertezze. Il comportamento adeguato viene riassunto in formule, e sacralizzato: diventa perciò appannaggio della casta sacerdotale, e successivamente di quella dominante (l’aristocrazia). La cosa si ripete in genere in conseguenza di ogni scossone, di ogni momento di grande trasformazione sociale. Nel rinascimento, ad esempio, quando la vecchia nobiltà di spada cede il passo a quella di roba, e gli assetti sociali vengono sconvolti dall’ingresso di nuovi attori, si moltiplicano i manuali di “comportamento adeguato” (il Galateo, Il Cortegiano, ecc …).

Hertz (e finalmente torniamo a lui) sottolinea però ancora un altro aspetto, quello in fondo più pertinente alla domanda dalla quale siamo partiti. Ritiene che la polarizzazione culturale abbia a sua volta un effetto reversivo, e nel contempo amplificatorio, proprio sulla tendenza fisiologica originaria. In altre parole, il fatto che la maggior parte della popolazione utilizzi la mano destra è almeno in parte imputabile all’essere orientata la nostra società in quella particolare direzione. Il che spiega l’accanimento col quale in passato si perseguitava o si cercava di correggere la “devianza” dei mancini. Ma anche nel presente, malgrado non pesi più su di essi un vero e proprio stigma sociale, è necessario che i mancini imparino, per “destreggiarsi” appunto nei comportamenti quotidiani, a utilizzare la mano destra, mentre i destrorsi non hanno la necessità opposta: per fare qualche esempio, si scrive da destra a sinistra, ciò che complica parecchio la vita ai mancini (tanto più quando devono scrivere sui tavolini reclinabili attaccati al bracciolo destro delle sedie), il cambio della macchina va gestito con la mano destra (tranne in Inghilterra, ma non per una maggiore apertura, piuttosto per spirito di contraddizione[8]), ecc … Sto banalizzando un ragionamento complesso, ma la sostanza è quella.

L’interpretazione di Herzt è senz’altro suggestiva, a patto di non estremizzarla. In effetti la lateralità specifica nell’uso degli arti è condivisa da altri primati, ma in essi non è altrettanto caratterizzante come nell’uomo. In genere usano quasi indifferentemente la destra e la sinistra. E questo parrebbe suffragare l’interpretazione di Hertz. Ma la spiegazione non può essere solo di carattere socio-antropologico. A oltre un secolo dalla formulazione di quella ipotesi, lo sviluppo delle neuroscienze, la conoscenza dei meccanismi cerebrali, le nuove scoperte della paleontologia, ecc … hanno modificato di parecchio l’approccio interpretativo.

Voglio dire che la prevalenza negli umani dell’uso della mano destra, per quanto poi enfatizzata da un accumulo di fattori sociologici e culturali, ha un’origine più complessa. Occorre dunque risalire oltre, fino ad un meccanismo ancora più remoto, quello biologico. Temo che la cosa mi stia prendendo la mano (destra, naturalmente: anche sulla tastiera). In effetti non mi sto più chiedendo se sono di destra o di sinistra, ma quanto l’idea stessa di questa appartenenza sia indotta da fattori culturali e quanto da una eredità biologica. In sostanza, se si sceglie o meno di essere “sinistrorsi” o “destrorsi”. Mi sto addentrando in un territorio pericoloso, pieno di sabbie mobili. (…)

Il lato sinistro 05

Note

[1] Interpolazione da Sandro Penna. L’originale recita così: “Il problema sessuale/ prende tutta la mia vita/ sarà un bene o sarà un male/ mi domando ad ogni uscita”.

[2] Max Jacob nel suo “Specchio di astrologia” associa questo segno all’occulto e al mistero. Mi ci riconosco poco, a meno di voler intendere che si può risultare “misteriosi” anche senza esserlo affatto, solo per motivi caratteriali. Concordo invece sull’idea che sia un segno amante del rischio (Jacob dice: più di tutti gli altri). In effetti spesso il rischio sono andato a cercarlo, ma non per dimostrare di essere il più coraggioso: l’ho fatto in genere quando ero solo, semplicemente perché le situazioni spericolate mi divertivano. Anche sul fatto che sia piuttosto difficile prendere in giro uno Scorpione sono d’accordo, non perché non abbia il senso dell’umorismo, ma perché ne ha sin troppo, e lo esprime attraverso l’ironia e più spesso ancora col sarcasmo. Quest’ultimo può essere anche interpretato come una manifestazione di cattiveria, ma in realtà è una reazione di risposta a sollecitazioni troppo idiote. A volte, ammetto, un po’ sproporzionata.

Jacob sostiene che gli Scorpioni hanno una concezione molto personale dell’equità, nel senso che dettano loro le regole e sono capaci di una discrezione assoluta ma, al contempo, sono capaci di infrangere le regole con una nonchalance impressionante. Qui la cosa va chiarita. Senz’altro amo dettare io le regole, e pretendo siano rispettate, ma sono comunque il primo a rispettarle: e quelle dettate dagli altri le violo solo se mi paiono palesemente inique o stupide, e lo faccio alla luce del sole, assumendomene la responsabilità. Mi piace anche il resto della descrizione, seppure mi corrisponda solo in parte: “Grazie al tagliente senso dell’umorismo, e al velo di mistero che le accompagna, le persone dello Scorpione hanno un fascino superiore a quello della maggior parte degli altri segni. È da tenere però in conto che lo Scorpione può essere difficile da gestire come partner (giustissimo). È da ricordare che l’animale Scorpione è l’unico capace di darsi la morte, con il proprio pungiglione, se si rende conto di non avere scampo”. O magari ne ha solo le scatole piene.

[3] In realtà evito di ripercorrere il cammino delle destre e delle sinistre storiche (per questo rimando a L’ultimo in fondo, a sinistra, in “Critica della ragion pigra“, Viandanti delle Nebbie 2004). Mi limito a ricordare che queste denominazioni sono invalse solo quando i rapporti gerarchici hanno cessato di viaggiare dall’alto al basso, all’interno di un ordine che si voleva i-mutabile e dettato da una sfera superiore, celeste, e ne era lo specchio terreno: cioè dopo la rivoluzione scientifica e quelle industriale e politica che ne sono conseguite.

[4] Mi riconosco nella posizione analoga espressa da Steven Pinker, quando constata di non essere né di destra né di sinistra, ma più vicino al liberalismo che all’autoritarismo. E, almeno in parte, in quella di Cristopher Lasch, che si definisce un “conservatore di sinistra”.

[5] Così potrebbe sembrare se considerassimo casuale il posizionarsi dei rappresentanti del terzo stato a sinistra negli Stati Generali del 1789 (ma già era accaduto nel Parlamento inglese nel 1648). In realtà si posizionarono a sinistra perché i conservatori avevano già saldamente occupati gli scranni di destra, con una precisa motivazione simbolica.

[6] Per i drammatici sviluppi di questa concezione nel mondo greco rimando a “La vera storia del-la guerra di Troia“, Viandanti delle Nebbie, 2014.

[7] La rappresentazione oggi più diffusa, nei testi cartacei e sul web, delle diverse funzioni degli emisferi, elenca come fondamentali caratteristiche del sinistro “analitico/mascolino/ egocentrico” e del destro “intuitivo/femminile/altruista comunitario”. Si tratta evidentemente di una banalizzazione, che ha però un suo fondamento.

[8] Simon Shama fa risalire la scelta inglese di viaggiare a sinistra alla volontà di contrapporsi alla normativa rivoluzionaria francese. In verità, da una serie di schizzi di Jan Bruegel (il vecchio) si evince ad esempio che il traffico dei carri sulle strade fiamminghe si svolgeva già nel 1500 secondo quello che sarà poi il modello anglosassone.

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