Confessioni di un anglomane

di Paolo Repetto, 13 dicembre 2024

Chiacchierando con Vittorio (si parlava della mini-serie sui giallisti inglesi che ha postato recentemente su questo sito), abbiamo messo a confronto i nostri rispettivi rapporti con l’Inghilterra, con la sua storia, la sua cultura e i suoi abitanti. Il risultato era scontato, siamo entrambi anglofili ferventi, anche se con approcci diversi. E non è neppure una novità: ci conosciamo da tempo. Solo, non ne avevamo mai parlato diffusamente prima.

È nata di lì quindi l’idea di trasferire sulla carta le mie impressioni: una modesta dichiarazione d’affetto per la piccola grande isola, che mi accomuna peraltro a diversi connazionali illustri, come ad esempio – si parva licet – Luigi Meneghello o Beppe Fenoglio, o a coetanei d’oltreoceano, come Bill Bryson, professatisi inglesi d’elezione.

Una dichiarazione d’affetto non è una dichiarazione d’amore. L’amore è cieco, mentre il mio è un sentimento più controllato, che permette di rilevare gli aspetti di quella cultura che non mi piacciono, e di criticarli, ma di considerarli alla fin fine meno significativi di quelli che mi attraggono. Questo dovrebbe prevenire le obiezioni: ma la Brexit, ma gli hooligans, ma questo, ma quello … Certo, lo so, e non dico che me ne freghi niente, ma qui almeno ho come contropartita qualcosa di più della pizza e della canzone napoletana (non tiriamo in ballo le rovine classiche e i tesori d’arte che i nostri antenati hanno prodotto secoli fa, sono eredità non possono essere fatte pesare nel confronto – semmai testimoniano la nostra odierna decadenza). E poi, mica intendo stilare delle classifiche di cultura o di civiltà: semplicemente vorrei spiegare a me stesso – perché agli altri giustamente interesserà ben poco – cosa mi attrae di quella cultura e di quella civiltà, sapendo che il modo migliore per fare una cosa del genere è obbligarmi a mettere il tutto per iscritto.

Mentre ne parlavamo mi è venuto comunque in mente che io quel sentimento l’ho già espresso in più occasioni, è sparso nei vari pezzi che ho scritto, e che quindi potrò cavarmela con un’antologia di stralci dalle cose postate sul sito o dalla mia corrispondenza. Non è solo questione di pigrizia (anche se, insomma …), di autoreferenzialità o di insofferenza a ripetere cose che ho già detto. Credo davvero che solo le impressioni a caldo, e così pure quelle buttate giù a margine di altri argomenti, possano rendere con la giusta immediatezza un’attrazione difficilmente traducibile in argomentazioni lucide.

Devo premettere inoltre che nel mio caso il sentimento non nasce da un’assidua frequentazione, anzi: sono stato in Inghilterra cinque o sei volte, ne conosco solo una piccolissima parte, non ho mai avuto amici inglesi, non solo non parlo correntemente, ma conosco poco anche a livello elementare, la lingua. Il perché di questa affezione lo lascio alle pagine che ho raccolto di seguito, credo lo spieghino sufficientemente. Mi limito pertanto a pochissimi dati sulla frequentazione.

Ho vissuto a Londra per poco più di un mese cinquantacinque anni fa, nel 1969. C’ero finito al seguito di un amico conosciuto all’università, che vantava conoscenze nella capitale inglese, ragazzi italiani che ci avrebbero ospitato e “introdotto”. Già il viaggio, su una scassatissima cinquecento, si era rivelato un’avventura. All’arrivo la cosa si fece anche più interessante, perché gli amici erano naturalmente dei morti di fame come noi, che si barcamenavano alla meno peggio in sistemazioni e relazioni assurde. Sbarcammo a Londra come gli emigranti italiani di fine Ottocento a Long Island, e per tutto il tempo della nostra permanenza fummo occupati a trovare un tetto per la notte e qualcosa da mettere sotto i denti durante il giorno.

Un giorno dovrò raccontare tutto questo: per ora basti sapere che ero partito con sessantamila lire in tasca, che al cambio odierno sarebbero trenta euro, ma rivalutate in base all’inflazione corrisponderebbero a cinque-seicento euro. Coi quali però dovetti sostenere anche la metà delle spese di viaggio (benzina, traghetto, forature e inconvenienti vari), per cui al netto disponevo dell’equivalente di meno di trecento euro. Insomma, nelle ultime settimane ho fatto la fame e sono tornato a casa letteralmente senza una lira in tasca, dimagrito di cinque o sei chili.

In quelle condizioni confesso che l’impressione lasciatami dalla città non fu particolarmente positiva. Forse per questo non ho più messo piede in Inghilterra fino al nuovo secolo. Preferivo continuare a conoscerla attraverso i libri e i film, rispondevano meglio all’idea che mi ero fatto e non mi costringevano a diete ipocaloriche.

L’occasione di un ritorno è arrivata quando Chiara, la maggiore delle mie due figlie, si è trasferita per lavoro sull’isola, prendendovi casa e cittadinanza. È accaduto poco più di vent’anni fa, e da allora come dicevo sono tornato quattro o cinque volte (senza mai però toccare Londra, se non per il transito aeroportuale). Ho visitato il Somerset, il Devon e la Cornovaglia a sud, la Cumbria e il Lancashire al nord, ho solo sorvolato la Scozia e le Shetland. Che significa in pratica aver visto poco o nulla. In compenso ho conosciuto i colori della natura inglese in tutte le stagioni. E quelli qualcosa mi hanno aiutato a capire.

Nel buttare giù queste cose (e rileggendo quelle che ho scritto in più occasioni precedenti) mi chiedo se nella inossidabilità della mia anglofilia non ci sia qualche motivazione più profonda, magari inconscia, o subentrata di recente, che vada al di là delle giovanili suggestioni letterarie (per quanto queste continuino a ripetersi). E credo di poter individuare questa motivazione nel fatto che vedo ormai nell’Inghilterra l’ultimo baluardo della cultura e della civiltà occidentale.

Può sembrare paradossale, per un paese che ha il numero più alto in Europa di abitanti originari di altre parti del mondo, ma è così. In altri tempi l’Inghilterra è stata salvata dalle invasioni dal suo essere un’isola: oggi le sue difese non sono più quelle naturali, ma quelle culturali. La lingua, ad esempio: la maggioranza di coloro che sono migrati in Inghilterra nell’ultimo secolo non si è scontrata con una barriera linguistica, essendo ormai l’inglese una lingua universale: e questo non li ha indotti a fare gruppo solo con i propri connazionali o correligionari, ma ha consentito loro di integrarsi con relativa facilità, di assorbire costumi e mentalità dell’isola. Al contrario di quanto accade da noi, ma anche in Francia, in Germania, in Olanda, dove si sono insediate culture diverse che tendono a preservare gelosamente le loro differenze e a sviluppare una propria autonomia, in Inghilterra diventano bene o male tutti inglesi. E questo malgrado poi ottenere la cittadinanza inglese sia tutt’altro che semplice e a buon prezzo: mia figlia, che risiede là da quasi vent’anni, parla la lingua meglio degli autoctoni, ha un lavoro stabile e una casa di proprietà, ha dovuto sborsare più di mille sterline e superare due esami, uno di lingua e uno di cultura, due prove serie e non due ridicoli pro-forma, per essere accolta.

Questo produce un ulteriore paradosso: gli inglesi, che proprio attraverso la diffusione o l’imposizione della propria lingua (e della propria cultura) a livello mondiale sono stati tra i principali artefici della globalizzazione, risultano essere oggi uno dei popoli meno “globalizzati”, almeno nel senso che sono ancora tenacemente attaccati alla loro storia e alle loro tradizioni.

Ecco, sto naturalmente semplificando al massimo, ma credo che la differenza stia proprio lì: gli inglesi hanno stabilito delle regole. Non hanno nemmeno avuto bisogno di scriverle, le hanno sempre date per scontate: volevano imporle a casa degli altri, figuriamoci nella propria: se vuoi abitare qui, devi adeguarti alle leggi e alla consuetudine locale. Per il resto sei libero di pensare, credere, vestire e mangiare come vuoi.

Queste regole sono state fatte rispettare e hanno funzionato sino ad oggi, e se non hanno necessariamente favorito l’instaurarsi di relazioni d’amicizia (la fonte informata è sempre mia figlia) tra gli immigrati e gli “indigeni”, hanno quanto meno consentito una pacifica convivenza. È possibile che per il futuro le cose si complichino, i segnali già ci sono, ma al momento l’Inghilterra sembra ancora determinata a difendere il ridotto occidentale.

Ho cercato di scegliere, tra le centinaia di pagine che ho scritto in proposito, quelle che della cultura e della civiltà britannica coglievano le sfaccettature meno scontate. Naturalmente non mancheranno le ripetizioni, giustificate comunque dal fatto che quanto ho recuperato è stato scritto in tempi e in occasioni diverse, ed era destinato a differenti interlocutori.

Sono anche consapevole che tanto ripetute manifestazioni di “affetto” possano apparire esagerate e far sorridere. Ma corro il rischio volentieri, perché nel miglior spirito anglosassone nutro la pretesa che mi legge sia anche in grado di capirmi.

da Mr. Psmith nella Grande Mela (2018)

[…] Io sono malato di anglofilia, sono a tutti gli effetti un anglomane. Ma la mia è un’anglomania “povera”, coltivata per moltissimo tempo solo a tavolino, sulle letture in traduzione dei libri di Stevenson, di Kipling, di Wilde, di Conrad e di infiniti altri. Nemmeno oggi parlo l’inglese, lo leggo e lo capisco a stento. È anche un’anglomania selettiva: non sono mai stato un fan dei Beatles o dei Rolling Stones, e meno che mai di Elton John. E non è totalmente acritica: sono convinto che gli inglesi siano affetti da una incredibile spocchia e abbiano sempre guardato al resto del mondo come se avessero qualcosa da insegnargli (tra l’altro, sempre presumendo che gli altri non fossero comunque in grado di imparare). Quindi, in realtà ci sarebbe ben poco da amare: a meno di essere convinti che abbiano ragione.

Ebbene, non posso negare che una qualche idea del genere la coltivo, a dispetto anche dell’opinione della mia prima figlia, che in Inghilterra ci vive ed è cittadina inglese e dei suoi connazionali dice peste e corna. È una convinzione che viene rafforzata da ogni breve permanenza nell’isola (e lo è ulteriormente ogni volta che ne vengo via). Vedo qual è la realtà inglese attuale, e come gli inglesi si siano ridotti, ma continuo ad amarli, con tutti i loro difetti di ieri e di oggi. Cosa che non mi succede, ad esempio, coi romani.

Forse dovrei dire piuttosto che amo la “civiltà” inglese: ma quella civiltà è appunto il prodotto di uno spirito, di uno stile, di una cultura che mi appaiono straordinari, e che appartengono (o forse appartenevano) solo a loro. Posso affermarlo con cognizione di causa perché i miei interessi, che occupano uno spettro piuttosto ampio, hanno fatto sì che li incrociassi continuamente. Dovunque mi abbia portato il mio disordinatissimo percorso culturale, li ho trovati. Magari non erano approdati per primi, ma una volta arrivati c’erano rimasti. Ora, non è questione di qualità, non penso cioè (a differenza degli inglesi stessi) che nascano in Inghilterra intelletti “superiori”. Quelli possono nascere ovunque. È invece una faccenda di quantità, e un numero eccezionale di personaggi fuori dal comune: e il numero è tale che agli inglesi tanto straordinari poi non sono mai parsi. Lo sembrano a noi, dal di fuori. A me, senz’altro.

Sul perché di questa eccezionale fioritura ho le mie teorie, fondate sulla storia e non sulla biologia, delle quali ho già parlato in Due lezioni sulla storia inglese: ma per farsene un’idea è sufficiente leggere ad esempio, in Tour de France, di Richard Cobb, il racconto dell’adolescenza e del percorso di studi di uno storico anglosassone.

da Elisa nella stanza delle meraviglie (2003)

Letterature: gli inglesi

[…] Mi accorgo solo adesso che la letteratura inglese è quella che occupa il maggior numero di ripiani. Così su due piedi non saprei dartene una spiegazione. È evidente che gli inglesi hanno scritto molto di più rispetto ai rumeni o agli estoni, proporzionalmente e in assoluto: ma qui sono rappresentati in misura doppia anche rispetto ai francesi, ai russi, ai tedeschi e agli americani. E questo non è più un rapporto proporzionalmente oggettivo, dice di preferenze e di interessi soggettivi.

La mia consuetudine con la letteratura inglese è indubbiamente remotissima, dura ormai da cinquant’anni. Come già ti dicevo i classici per la gioventù me li sono fatti tutti (tranne Peter Pan, ora che ci penso: chissà perché nessuno ha mai pensato a regalarmelo. O forse ci hanno pensato, e poi han ripensato bene?) e probabilmente la spiegazione sta proprio lì. Nessun’altra letteratura offre tanti spunti e occasioni diverse per fantasticare (e per innamorarsi quindi dei libri) ai fanciulli e agli adolescenti. Ma c’è dell’altro. Con gli inglesi sei da subito in bilico tra la letteratura giovanile e quella adulta, anzi, entri immediatamente in quest’ultima perché leggi cose scritte per adulti ma facilmente riconducibili alla misura di un ragazzo. Uno dei primi libri che ho letto si intitolava Racconti da Shakespeare, erano riduzioni a novella delle sue tragedie. I contemporanei italiani di Shakespeare si chiamano Tasso e Marino: al di là del fatto che sfido chiunque a ridurre l’Adone per i ragazzi, se mai lo si fosse fatto per la Gerusalemme liberata (e comunque sarebbe risultato altrettanto difficile) si sarebbe gridato allo scandalo. Non parliamo poi de I promessi sposi!

Confessioni di un anglomane 03Gli inglesi invece scrivono Kim e Alice nel paese delle meraviglie, che puoi leggere con eguale soddisfazione a dieci o a sessant’anni, o le storie dei cavalieri della Tavola Rotonda, o le avventure di Robinson Crusoe e di Oliver Twist. Sono libri che non ti senti in dovere di nascondere, appena accedi alla letteratura adulta, come accade invece con Salgari, perché non sono bollati come appartenenti a generi “minori” o marginali. Fanno parte integrante della letteratura di quel paese, ti accompagnano nella tua maturazione lungo un percorso ininterrotto sui sentieri della fantasia. Nelle scuole inglesi degli anni Cinquanta e sessanta i miei coetanei leggevano Kipling, Conan Doyle, Stevenson: a me, se mi trovavano sotto il banco un romanzo di Scerbanenco, mi cacciavano dalla scuola.

Vedi Elisa, torna in ballo la questione che abbiamo già affrontato a proposito della poesia: ci sono popoli che hanno saputo coltivare il piacere della cultura, del farla come del consumarla, ed altri che ne hanno invece sempre riverito e sofferto il “peso”. C’entrerà la religione, o il clima e gli inverni lunghi, non lo so: sta di fatto che l’ultimo libro di poesie di Tom Hugues ha venduto in sei mesi seicentomila copie, mentre Ossi di seppia non le ha vendute in ottant’anni.

Confessioni di un anglomane 04 Oscar WildeNei confronti della letteratura inglese non c’è stata quindi una vera e propria “scoperta”, ma un passaggio graduale e conseguente. Forse potrei far coincidere l’ingresso nella fase totalmente “adulta” del rapporto con la lettura de Il ritratto di Dorian Grey, che mi ha preso a dispetto dell’inconsistenza della storia, per puro innamoramento dello stile e dell’arte del paradosso. Non so quanto abbia retto il romanzo a questi ultimi quarant’anni: ogni tanto c’è qualche studente che me lo chiede, forse perché intrigato dalla fama di libro un po’ “scandaloso”, ma quando lo riportano non vedo brillare nei loro occhi nessuna scintilla di entusiasmo. Io ormai non lo ricordo nemmeno più, ma ricordo che lo snobismo di Wilde, il suo culto dello stile, una qualche impressione deve avermela fatta, se mi ha spinto a leggere poi con gusto anche tutto il suo teatro, nonché i saggi (tra i quali è godibilissimo, e quanto mai attuale, La decadenza della menzogna).

Questa dello stile, di vita intendo, oltre che letterario, è una fissazione comune un po’ a tutti gli autori inglesi, non solo a Wilde. E forse questa è l’altra spiegazione del primato della presenza inglese nei miei scaffali. Vedi, io ho vissuta nella fanciullezza un’intensa militanza da chierichetto, precettata da tua nonna ma anche in parte sentita. Per cinque o sei anni ho sbaragliato la concorrenza nelle classifiche a punti del servizio, per poi, quando la superiorità era ormai manifesta e schiacciante, perdere inesorabilmente la fede. Non è stato facile, non tanto resistere alle pressioni materne, quanto imparare a convivere con principi che ormai si erano radicati, ma che non avevano più nessuna giustificazione in un quadro morale ben definito. Dovevo costruirmi un’etica, non mi bastava più De Amicis e non potevo certo chiedere soccorso a Pellico o Manzoni. Quelli giusti erano Conrad e Kipling, insieme magari a London. L’etica del dovere e della solidarietà, e l’orgoglio della solitudine. Guarda che non so scherzando: probabilmente sono state più che altro delle conferme, trovavo lì la perfetta corrispondenza con ciò che sentivo, ma è indubbio che hanno contribuito a rafforzare le mie inclinazioni (e diciamo anche le mie manie: dopo aver letto Lawrence d’Arabia spegnevo i cerini e le candele con i polpastrelli delle dita, per temprarmi a resistere alla tortura).

Sono molti, in effetti, gli autori inglesi che vale la pena conoscere: praticamente tutti quelli che trovi qui, più gli altri distribuiti nelle sezioni “speciali”. Messi assieme occuperebbero un intero scaffale, da cima a fondo (ma è anche da dire che quattro o cinque come Dickens o Conrad, o come Kipling e Stevenson, per non parlare di Shakespeare, portano via da soli tre quarti dello spazio, soprattutto se si ha la pretesa di raccogliere praticamente tutto quel che è stato tradotto). Non è certo il caso che te li presenti uno ad uno: quando arriverà il momento incontrerai quelli giusti, si faranno avanti da soli. Al più posso segnalarti qualche lettura particolare, di quelle meno scontate. Ad esempio questo libretto di Kipling, Qualcosa di me, dove viene rievocata un’infanzia prima favolosa (è nato in India) e poi tristissima (è stato spedito a sei anni a studiare in Inghilterra), ma dove si capisce soprattutto perché un poeta inglese che canta l’imperialismo rimane un poeta, mentre un italiano che fa altrettanto (pensa a D’Annunzio) diventa un trombone. Anche Stevenson ha scritto cose “minori” simpaticissime: il suo Viaggio nelle Cevennes in compagnia di un asino mi aveva quasi convinto a recuperare un mulo dell’esercito per farne un compagno di escursioni. E poi c’è Jerome, Tre uomini in barca. Una volta era considerato un classico dell’umorismo, oggi, per palati educati alla comicità demenziale, potrebbe avere un sapore di stantio. Ma non è così: prova a godertelo nelle condizioni giuste, sotto un albero in aperta campagna, lontano da televisione e walkman, e riassaporerai il gusto perduto della finezza (anche qui, è questione di stile).

Confessioni di un anglomane 05 Virginia WoolfNaturalmente, le donne. Ci stavo arrivando. Nella letteratura inglese non si può prescindere dalla scrittura al femminile, nemmeno io ho il coraggio di farlo. Sono passato per la Mary Shelley, per le Bronte, per Jane Austen, per la Barrett, su su fino ad arrivare alla Mansfield e a Virginia Woolf (e poi basta, però. Le voci femminili importanti sembrano fermarsi agli anni Venti. Deve essere accaduto qualcosa alle donne inglesi). Beh, queste devi leggertele tutte, non si scappa. Magari scegliendo, Senso e sensibilità ad esempio, o Jane Eire, se vuoi farti un’idea. E per entrare in argomento puoi iniziare con Flush, della Woolf, e proseguire subito dopo con Una stanza tutta per me, che della scrittura al femminile è un po’ il manifesto.

Io non credo di essere il lettore più adatto a cogliere tutte le sfumature di una sensibilità femminile (te n’eri già accorta? Meglio così), per cui se mi chiedi cosa mi attiri veramente in queste autrici temo di darti delle spiegazioni deludenti. Ho l’impressione che tutte queste storie, anche quelle apparentemente più pacifiche della Austen, siano in realtà tese come corde di violino, giocate su un minimalismo dei fatti e un massimalismo della loro interpretazione che nella scrittura maschile sono assenti. Le storie al maschile sono più piane, più distese, anche quando sono infarcite di massacri e violenze e peregrinazioni: in quelle femminili il massacro è continuo, sottile, apparentemente incruento, la tensione non cade mai. E questo mi piace, lo capisco fino ad un certo punto, cioè capisco fino ad un certo punto come si possa vivere e pensare così, ma letterariamente mi piace.

Per questo mi piace molto anche un autore come E.M. Forster, perché ha una sensibilità molto prossima a quella femminile, ed è uno dei pochi (assieme a Flaubert e ad Henry James) in grado di rappresentare uno sguardo femminile sul mondo (se poi ci riesca davvero, ripeto, non lo so. A me pare di sì). Prova a leggere Camera con vista, tra qualche anno, e magari ne discuteremo. Ma mi rendo conto che sono le chicche quelle che aspetti. Allora, salta quei venti volumi di Conrad (nel senso non di “scàrtali”, ma di “acquistali in blocco”), mettendo magari da parte per un primo assaggio I duellanti (di là c’è anche la videocassetta del film che ne hanno tratto, può essere interessante, dopo) ed estrai quel libricino azzurro. Si, sono poesie, il titolo è Grazie nebbia, il poeta è W.H. Auden. Scegline una a caso, e prendi a metà: “Ma il Tempo, il dominio dei Fatti / richiede una Grammatica complessa / con molti Modi e Tempi / e in primo luogo l’Imperativo. / Noi siamo liberi di sceglierci la strada / ma scegliere dobbiamo, non ha importanza / dove conduca, e le storie che raccontiamo / del passato hanno da essere vere”. Hai capito? Via, non pretendiamo troppo, intendevo dire se hai capito perché mi piace: perché dice le cose più vere con le parole più semplici. Lì accanto ci sono gli altri volumi delle sue poesie La verità, vi prego, sull’amore e una raccolta antologica. Quando dovessi chiederti se esiste e cos’è la poesia, aprine uno.

Confessioni di un anglomane 06 George OrwellAuden ha combattuto in Spagna, al tempo della guerra civile, nelle Brigate Internazionali. C’era anche Orwell in quelle brigate, come militante anarchico, mentre Auden era comunista. Orwell è famoso per La fattoria degli animali, che puoi leggere anche subito, e per 1984, che ti consiglio di affrontare più in là. Ma qui ci sono anche i suoi saggi, Sul leggere, Sullo scrivere, Sul chiedere e sul non chiedere, Sul vivere e sul morire, raccolti sotto il titolo Nel ventre della balena. In realtà non sono veri e propri saggi, sono raccontini autobiografici di fattura squisita e di eccezionale sostanza etica, come l’autore, del resto.

Io in genere non riesco a fare distinzione tra l’autore e l’opera. Dicono che non è giusto, che occorre leggere senza condizionamenti biografici, che se la mettiamo così anche Leopardi era un golosone e Foscolo uno sciagurato e Salgari si perdeva se usciva da Verona: ma non è a queste stupidaggini che mi riferisco, anzi, le trovo gustose. Voglio coerenza nelle cose importanti. Se uno scrive l’Emilio e manda cinque figli a morire al brefotrofio, ho delle difficoltà a dargli credito. Se uno (come Sartre) che non ha mosso un dito per gli ebrei durante l’occupazione nazista si riscatta, dopo la guerra, con un saggio sull’antisemitismo, e dopo aver attaccato nella maniera più feroce Koestler e Camus perché antistalinisti si scopre libertario nel ‘68, quale obiettività è possibile? Si salta a piè pari. Bene, Orwell è tra quelli che dimostrano che la coerenza è possibile, e che è quindi giusto pretenderla.

Confessioni di un anglomane 07 Bruce ChatwinUn’eccezione però riesco a farla. Per Chatwin. Come uomo Chatwin doveva essere di un’antipatia unica, l’ultima persona che vorresti avere come compagno di viaggio. Ho dovuto interrompere la lettura di una sua biografia (tra l’altro, scritta da un certo Nicholas Shakespeare) per eccesso di avvilimento. Ma come scrittore, di viaggio e non, è superbo. Utz e Sulle colline nere sono due gioiellini, il secondo non sfigura accanto ai libri di Thomas Hardy. È possibile che io non sia granché obiettivo nel giudizio, ma in senso favorevole all’autore, perché c’è di mezzo anche un mio diritto di prelazione: credo di essere stato uno tra i primissimi a leggere in Italia il libro che lo ha reso famoso, In Patagonia, subito dopo l’editore e i correttori di bozze, e per qualche mese ne ho tenuto l’esclusiva. E sai quanto godo di queste cose!

Sono arrivato piuttosto tardi invece a Il signore degli anelli. Tardi, ma sempre con largo anticipo sulla cultura di sinistra, che per anni lo ha ostracizzato o ignorato e poi ne ha conteso il culto alla destra. Tardi, ma d’un fiato. Neppure tu, con le tue innate doti di pervicace rompiballe, saresti riuscita a distrarmi quando ho cominciato il viaggio con Gandalf e Frodo Baggin. Spero che l’aver visto il film non ti dissuada, come mi sembra stia accadendo ad un sacco di ragazzi. Sono millecinquecento pagine, ma quando arrivi in fondo avresti solo voglia che fossero il doppio.

Confessioni di un anglomane 08 TolkienTra l’altro, sempre a proposito di coerenza, nello scaffale opposto, dove arriveremo più tardi, c’è un librone di Humprey Carpenter, Gli Inklings. È una sorta di biografia collettiva di un gruppo di amici, tra i quali lo stesso Tolkien, C. S. Lewis, Charles Williams, tutti docenti ad Oxford negli anni Venti e Trenta, raccolti in circolo informale sotto il nome appunto di Inklings, che invece di cacciarsi le dita negli occhi a vicenda come in genere avviene nell’ambiente universitario si trovavano tutti i giovedì sera per discutere, leggere ciò che avevano scritto in settimana, farsi qualche bicchiere di Porto o di scotch. Quando uno di loro doveva tenere qualche conferenza nelle città vicine era una festa collettiva: partivano a piedi nel weekend, arrivavano a farsi anche cento chilometri, con frequentissime soste nelle osterie sul cammino, tornavano alla stessa maniera e riprendevano il loro lavoro accademico. Dove sta la coerenza? Nell’amicizia Elisa, nella capacità di non sacrificare l’amicizia alla loro professione o alla loro vocazione di scrittori. Non sapevo nulla di tutto questo quando ho letto Il signore degli anelli, ma non potevo fare a meno di accorgermi che chi scriveva conosceva davvero il valore dell’amicizia.

Gli Inklings sono diventati anche il modello per un’esperienza personale di questo tipo. Per qualche anno, poco prima che tu nascessi, è esistito un gruppo di amici che si ritrovava a cenare ritualmente, quasi ogni settimana, al nostro capanno, e tirava tardi discutendo di cinema e di politica, facendo pettegolezzi e progettando escursioni, mettendo in cantiere mostre e redigendo riviste. L’unica cosa in comune con gli Inklings era probabilmente il tasso alcolico, ma i Viandanti delle Nebbie hanno corrisposto ad uno dei periodi più autentici della mia vita. Il gruppo, come motore di iniziative, non esiste più, ma gli amici sono rimasti: e a tenerli legati è, ancora e sempre, il comune amore per la letteratura.

E adesso chiudiamo, perché bisogna pur arrivarne ad una e perché ho bisogno di una pausa per il caffè. Non prima però di averti fatto notare questo libretto di racconti di Alan Sillitoe, La solitudine del maratoneta. Negli ultimi vent’anni credo lo abbiano letto solo i miei studenti, non lo trovo citato in alcuna antologia o bibliografia sulla condizione adolescenziale. Ma è perfetto, nella sua secchezza, nella capacità di evocare il peso di una condizione carceraria senza ricorrere a trucchi granguignoleschi, nel gesto finale autolesionistico di dignità e di coerenza. Malgrado il traino di un film altrettanto bello che ne è stato tratto, qui da noi non ha avuto una grossa fortuna nemmeno negli anni della contestazione. Troppo inglese, troppo elegante, troppo aristocratica come etica, evidentemente.

Libreria Paolo 05 b&n

da: I regali di un tempo (2013)

Confessioni di un anglomane 09 FermorHo sentito la voglia di raccontarlo [ndr: Patrick Leigh Fermor] quindi per quattro ragioni, e direi che ce n’è d’avanzo: perché era un uomo coraggioso, perché era un intellettuale raffinato, perché era un grande camminatore e perché era uno snob quale solo gli inglesi sanno esserlo. Fermor appartiene alla dinastia dei Byron, George ma soprattutto Robert, quello de La via per l’Oxiana, e risalendo più in su ancora, del bucaniere Dampier, e allungando indietro lo sguardo, dei cavalieri della Tavola Rotonda. E anche di Orwell o di Auden, pronti a combattere per quella che ritengono la causa giusta, e a fermarsi appena hanno l’impressione che tanto giusta non sia, o che comunque non sia più la loro causa. Individualisti, per nulla disposti a sacrificare la loro autonomia di pensiero agli interessi di un’idea che, nel momento in cui non garantisce la massima libertà individuale, non riesce più accettabile.

Ecco, credo che stia lì la radice di tutto: crescendo nella lettura di Malory fin da ragazzino, in quella dei classici nell’adolescenza (ed è da notare che per gli inglesi i classici per eccellenza sono i greci, e non i latini, e l’autore classico più popolare e letto in assoluto è Plutarco. Col risultato che gli studenti italiani conoscono soprattutto Cicerone e Seneca, e per essi la classicità rimanda paradossalmente all’esistenza di uno stato, o comunque di una ragione esterna superiore, alla quale poi in realtà non credono perché se ne sentono vittime, e non protagonisti: mentre al contrario gli inglesi hanno il senso dello stato proprio perché esso sembra esistere apposta per garantire in primo luogo la loro libertà) e con i libri dei viaggiatori e degli esploratori, o comunque di gente che ha girato il mondo in lungo e in largo nella giovinezza (si pensi a Stevenson, a Kipling, a Conrad), se uno poco poco è permeabile si imbeve di un’idea della vita tutta particolare. Quella del mondo viene di conseguenza, ma direi che nella prospettiva inglese è secondaria. Mentre noi ci trinceriamo dietro il Fato, e ci arrendiamo senza troppe resistenze al condizionamento delle contingenze esterne, gli inglesi sono persuasi di poterle tranquillamente governare. Questo spiega perché la nostra letteratura veda come protagonisti di norma degli anti-eroi, inetti, sconfitti o annoiati, e perché il personaggio letterario che forse meglio rispecchia il nostro sentire sia Don Abbondio, mentre già un secolo prima gli anglosassoni si identificavano in Robinson Crusoe.

Fermor era un uomo libero, e questo lo iscrive di diritto nella galleria dei personaggi che vorrei contribuire a tenere in vita. In quanto libero, e intendo libero “dentro”, era di conseguenza coraggioso: al limite della temerarietà, ma non dell’incoscienza. Questo non perché dovesse provare a se stesso, o agli altri, il proprio coraggio: semplicemente, si divertiva. È un atteggiamento che non appartiene alla nostra cultura mediterranea, a dispetto della “solarità” che accampiamo e che gli stessi nordici ci attribuiscono. Noi crediamo di essere allegri, invece siamo solo poco seri e melodrammatici. Recitiamo costantemente una parte della quale non siamo convinti: e nemmeno sappiamo giocare lealmente. Gli inglesi in fondo chiamano “grande gioco” tutta la complicata vicenda che li vede contrapposti ai russi nel Medio Oriente nella seconda metà dell’Ottocento. E sono coloro che hanno inventato il concetto moderno di sport, da non confondere con quello postmoderno di industria dello sport. In sostanza, per loro la vita è una cosa seria, e appunto per questo va valorizzata: ma è anche una cosa molto breve, e appunto per questo va presa con il giusto distacco – l’ironia – e con divertimento. Il divertimento nasce solo dal gioco leale, dal concordare delle regole e poi rispettarle. Quindi, gli inglesi prendono la vita come un gioco, e qui sta il loro snobismo, ma sono seri nel gioco, e qui sta la loro forza. (Non sto tessendo il panegirico dello stile britannico, anche se di fatto risulta tale: negli intenti è un panegirico di quello stile che vorrei permeasse qualsiasi atteggiamento esistenziale. Che, chiaramente, non appartiene solo agli inglesi: ma mentre inglesi lo apprezzano, dalle nostre parti – si veda il caso di Berneri – sembra addirittura dare fastidio).

Confessioni di un anglomane 10 Fermor

da: Tom Barnaby, antropologo (2018)

I telefilm di Barnaby non hanno la pretesa di documentare una realtà sociale, e meno che mai di denunciarne il degrado, ma propongono in compenso un campionario interessantissimo di materiale antropologico. Un repertorio sterminato di costumi, di manie, di riti sociali, di istituzioni non ufficiali ma investite di autorità dalla tradizione locale: tutto ciò insomma che dovrebbe caratterizzare nel profondo l’Old England.

Provo a farne un elenco a memoria, che sarà chiaramente molto difettoso, perché in effetti ogni singolo episodio ruota attorno ad un mondo particolare, a riti e a tradizioni diversi. Si va dagli appassionati di birdwatching ai coltivatori di orchidee, dalle gare dei cori a quelle dei campanari, dai club letterari alle bande musicali con majorettes, dagli ufologi alle sette sataniche o naturistiche, dai tassidermisti dilettanti ai micologi, fino ai collezionisti di monete, di punte di frecce preistoriche, di libri antichi e d’arte; e poi via via, i club sportivi, di canottaggio, di tiro con l’arco, di cricket, di pugilato, di equitazione, i passeggiatori a piedi o in bicicletta, gli amanti del mistero e dei fantasmi, delle visite ai cimiteri o alle case stregate, fino alle associazioni di ex-combattenti e ai patiti dei giochi di guerra. A fare incontrare tutta questa gente sono soprattutto le feste paesane, tutte uguali, con le gare di lancio del ferro di cavallo o di tiro con l’arco, la musica della banda sullo sfondo e Barnaby che si aggira fingendosi moderatamente divertito (è stato trascinato lì dalla moglie o dalla figlia) tra i quattro banchetti per l’assaggio delle torte e del sidro: fino a quando il primo omicidio non gli consente di rimettersi in azione. Ai nostri occhi di inveterati sagraioli queste feste di paese inglesi possono sembrare noiose e povere, soprattutto per l’assenza di caciara: in realtà sono molto più sentite e genuine di quelle nostrane, hanno alle spalle una reale tradizione, alla quale rimangono il più possibile fedeli, e soprattutto mirano a far incontrare i paesani, non a richiamare e a spolpare i turisti (questo l’ho constatato personalmente).

I telefilm di Barnaby mostrano in definitiva un’Inghilterra rurale che forse non c’è più (ma nemmeno è del tutto scomparsa), volutamente miniaturizzata in tante oleografiche cartoline, e capace di suscitare un velo di nostalgia. Intendiamoci: è l’Inghilterra che ha votato la Brexit: anzi, è l’immagine che quella Inghilterra ha di se stessa, o aveva sin quasi alla fine del secolo scorso. E che, questo è il punto, vorrebbe conservare. Ma qui scatta un primo paradosso. In effetti la serie quella immagine gliela rimanda, ma nel suo contesto Barnaby ha il ruolo di chi alza la pietra: sotto, appena rovista un po’ più in profondità, vien fuori di tutto: antichi rancori, faide secolari, vendette, invidie, livori, meschinità, cupidigie, drammi familiari, tradimenti, perversioni, superstizioni e manie religiose, insomma, una catena di piccoli viperai. In uno dei primi episodi l’ispettore commenta: “Questo paese sembra il paradiso terrestre: ma non lo è”. Una considerazione che potrebbe essere posta in esergo ad ogni puntata.

Questo aspetto del messaggio certamente piacerà poco a Farrange e alle destre fascistoidi: ma in realtà è perfettamente funzionale a raccontare il gioco complesso e delicato di equilibri sui quali si regge la vita di contea, quelli che l’ispettore è chiamato appunto a difendere e a ripristinare, e a suggerire perché non dovrebbero essere sconvolti. Un manifesto conservatore sottile e accattivante, che mescola abilmente mezze verità e ambigue suggestioni: tanto da non farti neppure vergognare di condividerlo.

lispettorebarnaby

da: Mr Psmith nella Grande Mela (2019)

[…] L’uso che Wodehouse fa della lingua non denuncia solo uno scarto temporale. Evidenzia anche la distanza che prima della definitiva globalizzazione mediatica correva tra la cultura inglese e tutte le altre, occidentali e no. Non esiste altrove il corrispettivo di un Jerome o di un Wodehouse.

Prendiamo il caso dell’Italia. Accennavo al fatto che tra le mie letture giovanili c’era Achille Campanile (che non la pensava come Psmith, perché riteneva che “In certi casi alla stretta d’un ragionamento ineccepibile non si può rispondere che con una bastonata”). Successivamente sono arrivati altri umoristi, da Marchesi a Guareschi a Benni. Ora, la differenza rispetto ai loro colleghi d’oltremanica è palese. Gli italiani, anche quelli più raffinati, usano sempre il linguaggio in una funzione urticante o demolitoria. Scombinano le architetture, giocano sui doppi sensi. Il loro sorriso è amaro, spesso cattivo, e quando forzano la mano può tradursi in uno sghignazzo. La cosa è più evidente ancora se si guarda al cinema, da Fantozzi ai cinepanettoni. La comicità (?) nostrana nasce dalla esasperazione dei caratteri e delle situazioni, e anche quando non è apertamente volgare è comunque sempre urlata.

L’’umorismo inglese è invece contenuto e distaccato: non esaspera le situazioni, ma le legge anzi sottotono, e si esercita prima di tutto sul narratore stesso (Jerome in questo è un maestro). Non è mosso dal sentimento pirandelliano del contrario, ma da quello del bizzarro. Il contrario lo si combatte, sul bizzarro si ironizza, al più si fa del sarcasmo. Mentre da noi Garibaldi voleva impiccare tutti i preti e con le budella dell’ultimo il papa, il lord cancelliere Disraeli, a proposito del suo più accanito avversario, diceva: “Se il signor Gladstone cadesse nel Tamigi sarebbe una disgrazia, ma se qualcuno lo riportasse a riva salvo sarebbe una calamità”. Questo intendo: fossi stato Gladstone, prima di cominciare a pensare a come ribattere avrei sorriso, e probabilmente lui lo ha fatto.

Non so cosa abbia poi risposto.

Confessioni di un anglomane 11

da: Thalatta! Thalatta! (2024)

Confessioni di un anglomane 12 StevensonHo sempre nutrito una grande ammirazione per lo spirito inglese, a dispetto di quanto ne dice mia figlia, che vive sull’isola, ne è cittadina, ma non ha dei suoi connazionali una grande opinione. La mia ammirazione ha una matrice letteraria, senz’altro, perché la letteratura inglese è quella cui ho maggiormente attinto sin da ragazzo e che ha alimentato alla grande la mia fame giovanile di viaggi e di avventura. Il riferimento obbligato in questo caso è naturalmente Stevenson. “Per un ragazzo di dodici anni traversare la Manica è come cambiare cielo; per un uomo di ventiquattro traversare l’Atlantico significa appena un lieve cambiamento di alimentazione. Ma io ero ormai uscito fuori dall’ombra dell’Impero Romano, che ci ha dominato dalla culla con le rovine dei suoi monumenti, le cui leggi e la cui letteratura ci assediano da ogni parte, piene di divieti e di costrizioni.” Schmitt avrebbe visto in queste parole una conferma della sua analisi.

Confessioni di un anglomane 13 ConradNaturalmente parlo dell’Inghilterra di ieri, o perlomeno dell’immagine di sé che quel paese fino a ieri riusciva a trasmettere. Mi son fatto l’idea (e quando mi faccio un’idea rimane ben radicata) che quello inglese sia un popolo che ha saputo mediare tra la volontà di fuga e di rottura e l’attaccamento alla terra e alle convenzioni. Ha attraversato gli oceani non per dimenticare la sua isola, ma per espanderla, per portarne un pezzo altrove, e magari per rigenerarla. Credo anche che il suo rapporto col mare sia stato in gran parte determinato dalle condizioni di temperatura e di violenza di quest’ultimo. Il mare inglese, lo dico per esperienza diretta, non è fatto per starci ammollo ma per essere affrontato: le sue onde, le sue correnti e le sue maree vanno conosciute e rispettate. Conrad ne era consapevole, tanto da scrivere che “Il mare non è mai stato amico dell’uomo. Tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza”. Ma questo non implica un rifiuto, anzi: “Scoprii quanto ero uomo di mare, nel cuore, nella mente e, per così dire, nel corpo: un uomo esclusivamente di mare e di navi; il mare, l’unico mondo che contasse, e le navi, un banco di prova di virilità, di carattere, di coraggio, di fedeltà e d’amore”. Anche qui mi riconosco.

Confessioni di un anglomane 14

dai: Carteggi a Lucia Barba (2018)

[…] Sono nuovamente reduce dall’Inghilterra, dove ho trascorso le feste con la mia figlia maggiore (c’erano anche Elisa e Mara), e mi viene di buttare lì alcune considerazioni spicciole. Intanto gli inglesi sentono le feste molto più di noi. Per essere un paese protestante, non l’avrei pensato. Ma devo dirla meglio: non è che festeggino di più, “sentono” proprio di più. Non si limitano alla compulsione da shopping pre-natalizio o da saldi post-epifania: cercano davvero di credere che le feste abbiano un significato interiore, e non solo vacanziero. Quanto poi ci riescano non lo so, ma almeno ci provano. È difficile spiegare da cosa lo si percepisca, è un’aura particolare che non ricordavo più e ho invece ritrovato passeggiando nel parco di Bournemouth e nelle vie del centro, o osservando gli amici di Chiara che passavano in visita. Non capivo nulla di quello che dicevano, ma sentivo che lo dicevano bene.

Forse riesco a farmi intendere meglio raccontandoti della programmazione televisiva. Nel pomeriggio di Natale il canale principale della BBC trasmetteva Sette spose per sette fratelli, che non rivedevo da quasi sessant’anni e che è davvero il capolavoro che ricordavo. La sera un documentario sulla Lapponia di due ore, il viaggio di due donne e tre slitte trainate da renne lungo una sterminata pianura innevata, macchiata solo qua e là da qualche albero, nella penombra della giornata boreale. Il tutto filmato in tempo reale, con immagini che arrivavano alternativamente da una camera fissa puntata sulla schiena della prima donna e su una chiappa della renna e da un’altra camera puntata sulla slitta di coda, sulla quale sedeva la seconda donna. Nessun commento musicale, nessuno scambio di parole tra le due, solo un brevissimo dialogo (in làppone, che somiglia all’abbaiare di un cane) a metà, quando arriva il momento di accendere le torce per proseguire. Nel primo quarto d’ora sono rimasto esterrefatto, credevo ad uno scherzo. Poi non ho potuto cambiare canale perché Elisa va matta per queste cose e ha sequestrato il telecomando. Infine, poco a poco, tutti abbiamo cessato di mugugnare e borbottare e fare dell’ironia, siamo come saliti sulle slitte e abbiamo atteso di arrivare, sempre nel silenzio totale, o meglio, col solo rumore dei pattini sulla neve.

Non so quanto posso aver reso l’idea, ma è stato bellissimo, incredibilmente natalizio, per come intendo io il natalizio. Mi obietterai che si tratta pur sempre di televisione, e che evidentemente i programmatori inglesi sono un po’ più furbi dei nostri. Ma è proprio questo che volevo dire. I programmatori televisivi sono probabilmente furbi né più né meno dei nostri, e quindi danno al pubblico quello che pensano il pubblico si aspetti: e il pubblico inglese si aspetta quelle cose, le sette spose e il viaggio nella tundra, anziché le vacanze di De Sica sulla neve, e questo vorrà pur dire qualcosa.

Intendiamoci, non sono un esterofilo da diporto. Non credo che gli inglesi, o i francesi, o i tedeschi, presi singolarmente, come individui, siano meglio di noi. Mia figlia poi me ne fa dei quadri ben poco edificanti. E tuttavia, non posso, ogni volta che valico le Alpi, non venire via col magone, al constatare quanto poco basterebbe per essere anche noi civili, e come quel poco non ci sia verso di ottenerlo. Che c’entra questo col Natale?, mi dirai. C’entra eccome. Perché è un discorso di sensibilità. Sette spose per sette fratelli è uno spettacolo che ancora oggi può tenere unite, strette sul divano, tre generazioni. Ci fosse stato mio nipote, l’avrebbe visto anche lui, invece di rintanarsi in un angolo a giocare con lo smartphone. E magari si sarebbe divertito anche con le renne.

Qui immagino invece un cicaleccio ininterrotto di cretini a gettone, ospiti a turno in tutti i diversi studi, o la sessantesima replica annuale dei film di Totò, a fare da sfondo alla delusione per i regali inutili e pacchiani ricevuti e al rammarico per averli contraccambiati al rialzo. Stiamo smarrendo la sensibilità, e questo è un fenomeno collettivo, prima e oltre che individuale. Là almeno sembra solo individuale, e il collettivo cerca di metterci una pezza. Mi spiego meglio. Il giorno dopo siamo usciti per un giro nei dintorni: che sono una splendida sorpresa. Lasciamo andare i paesaggi naturali, le fantastiche falesie, per le quali gli inglesi non hanno alcun merito, se non quello di non aver lasciato costruire per un chilometro almeno all’interno (ed è comunque già qualcosa). Ci imbattiamo ad un certo punto nei ruderi di un antico castello normanno (il Corfe Castle): dico ruderi ma è una costruzione imponente, che abbraccia un’intera collina. Ai piedi c’è un minuscolo villaggio, nato per ospitare chi lavorava all’edificazione del castello, quindi mille anni fa, e rimasto praticamente intatto: voglio dire che le case e la chiesa e le locande, malgrado il villaggio abbia continuato ininterrottamente ad essere abitato, sono state conservate per tutto questo tempo nella loro struttura originaria. Conservate, e non restaurate da una qualche soprintendenza che odia gli intonaci, anche quelli originali, o adempiendo a una normativa che impone comunque due metri e ottanta per i soffitti, e impianti a norma, e tutte quelle cagate lì. I soffitti sono alti quanto un uomo medio, e se sei un po’ fuori misura dopo un paio di capocciate ti adegui. Lo stesso vale per le strade, a doppio senso ma larghe quanto un’auto, così non si devono neppure indicare i limiti di velocità, si impongono da soli.

A questo mi riferisco, al fatto che un po’ di regole questa gente le ha introiettate, con le buone o con le cattive, e adesso non le subisce, ma le sente sue, a dispetto della maggiore o minore credibilità di chi le ha dettate e di chi è deputato oggi a farle rispettare. Questo significa, in linea di massima e almeno per ora, sentirsi responsabilmente coinvolti.

Confessioni di un anglomane 02

dai: Carteggi a Mario Mantelli (2018)

[…] Il mio, di resoconto, te lo anticipo invece, almeno in parte, per iscritto. Sono stato nei luoghi di Wordsworth, di Coleridge, di De Quincey e di Ruskin, nel Distretto dei Laghi insomma, e a dispetto di un colpo d’aria da low coast che mi ha lasciato rigido come un busto romano per tutto il viaggio ho ammirato uno dei luoghi più belli del mondo. Talmente bello da essere alla lunga insopportabile, credo, e questo spiegherebbe perché i suoi illustri abitatori non facessero altro che camminare in lungo e in largo, anche se alcuni solo nelle pause concesse dall’oppio. Ma di questo riparleremo.

Quella che voglio invece trasmetterti a caldo è un’impressione che non ha atteso certo il viaggio per nascere, ma che dal viaggio è stata decisamente e definitivamente confermata. Siamo un paese allo sfacelo, anzi, nemmeno siamo più un paese, siamo solo lo sfacelo. Fino ad ora, a dispetto del disgusto crescente avevo in qualche modo continuato a truccare le carte, trincerandomi dietro paragoni tutt’altro che significativi (gli ultimi viaggi li avevo fatti in Grecia e in Turchia, e già rispetto a quest’ultima il passivo era pesante). Ma appena sali oltre il quarantaseiesimo parallelo la verità è lì, evidente, spietata: stai attraversando un paese, stai incontrando un popolo, sei tra gente che in maniera più o meno fredda o anche rozza ha comunque introiettato l’idea di un qualcosa che appartiene a tutti, non nel senso italiano che tutti possono rubarne un pezzo, ma in quello per cui tutti ne sono responsabili. Thackeray in Italia non avrebbe scritto “La fiera delle vanità”, ma quella delle pretese. Un paese dove tutti pretendono e nessuno è mai responsabile e disponibile (non raccontiamoci palle sul fiorire del volontariato e compagnia bella: io parlo di qualcosa di più serio, non della vanità di fare “qualcosa in più”, ma dell’umiltà di fare semplicemente ciò che va fatto, senza attendere ricompense divine o ritorni in autostima).

Tutto questo, mi dirai, come lo percepisce uno che non biascica una parola di inglese? Proprio dal paesaggio. Ti guardi attorno e constati che le cose sono state fatte come dovevano essere fatte, che nulla stona, nemmeno, per dire, le pale eoliche. Le vedi stagliarsi lì, e pensi che prima di piazzarle hanno fatto due conti, di quelli veri, e non gli studi sulla compatibilità con eventuali colonie di chirotteri, non hanno dovuto fronteggiare cariche di integralisti della wilderness a casa altrui, semplicemente hanno usato il buon senso. E le pale sono entrate allora discretamente, senza protervia, nel paesaggio, e ci stanno benissimo. Oppure gli alberghi. Prospiciente il Dove Cottage, la casa di Wordsworth (nove euro per visitarla, nessun rimpianto. Altrettanto per quella di Ruskin, ma li vale solo il giardino) è stato costruito un albergo che a prima vista pare più antico del Cottage stesso. Hanno solo ripreso il modello degli edifici di fine Settecento, e parrebbe persino le tecniche costruttive. È un falso che non disturba affatto, perché senti che non è falso (a differenza dei recuperi nei nostri centri storici). Senza offesa per la categoria, ma verrebbe da dire: beati quei paesi che non hanno bisogno di grandi e innovative scuole architettoniche. Per non parlare poi dei giardini: danno l’idea di una natura appena appena addomesticata, tanto da conviverci: non le fanno indossare una livrea che presto sarà lercia per la trascuratezza di chi dovrebbe occuparsene e la preventiva, ma anche conseguente, maleducazione di chi li frequenta. In questo caso le scuole di architettura dei giardini ci sono eccome: ma prima di liberare la creatività educano evidentemente alla disciplina, alla serietà.

Vedi, si prova una sensazione totalmente diversa rispetto a quella suscitata dai luoghi pur bellissimi che ancora esistono, a dispetto di tutto, da noi: ti accorgi che gli inglesi queste cose non le esibiscono sfacciatamente (anche se paghi persino l’aria che respiri) ma le concedono, bontà loro e con riservata sufficienza, al tuo sguardo. Tu paghi, ma non hai mai l’impressione di quella smaccata e onnipresente marchetta che ti porti dietro dalle nostre parti. Per dirne ancora un’altra, prendiamo le feste di paese: là sono fatte dai e per i paesani, se passi di lì hai diritto a una o più birre, ma poi togliti dai piedi o stattene da una parte, perché non sei tu il destinatario di quei balli e di quelle musiche.

Insomma, la mia anglofilia è nuovamente esplosa. Ho perfettamente presente la spocchia degli inglesi, non sono un affezionato da diporto alla famiglia reale, ma non mi è mai capitato di pensare “Che bello questo paese: peccato che ci siano gli inglesi”, come invece mi capita quotidianamente da noi, e come pensava Jack Nicholson dell’America in Easy Ryder. Anzi, penso che l’Inghilterra sia bella proprio perché ci sono gli inglesi, che l’hanno fatta (perché di quella originale credo ci sia quasi più nulla) così.

dai: Carteggi da Vittorio Righini (agosto 2018)

Ho letto Barnaby, con piacere. Ricordo che l’ho visto, per intero, una volta sola, per il resto quando iniziava una puntata cambiavo canale. Il motivo è presto detto: io sono stato traumatizzato da Doc Martin, e ogni volta che comincia un telefilm (una volta li chiamavamo così) che si ambienta in Inghilterra con facce, panorami e colori di ripresa totalmente inglesi, vado in paranoia. Io mi auguro tu non abbia mai visto la serie di Doc Martin, e se lo hai fatto male te ne incorrerà! Se non l’hai fatto, ti spiego di cosa si tratta: Doc Martin è un medico chirurgo inglese, che siccome soffre alla vista del sangue, con scene di panico, vomito, fughe e altro, si è trasferito in un tranquillo villaggio di mare della Cornovaglia del nord. Lui è alto, bruttissimo, con due orecchie alla Dumbo, ed è la persona più antipatica che uno possa temere di avere soprattutto come medico, ma ha indubbie capacità nel suo lavoro. Il villaggio, invece di essere bello e attraente, non lo è affatto. Gli abitanti del villaggio hanno una media neuronica, cadauno, inferiore a due. Rarissime eccezioni. L’unico poliziotto è cerebro-leso. Il piccolo basso ciccione che gestisce l’unico ristorante (dopo aver fatto malamente l’idraulico per tutta la vita), è il paziente ideale per un buon vecchio manicomio, e cucina schifezze incommensurabili. La segretaria di Doc Martin sembra scesa dal pianeta delle scimmie, mentre la farmacista sembra uscita da un romanzo dell’orrore. I bambini sono tutti cattivi, rognosi, malaticci e pieni di paturnie.

Quindi, ti chiederai: ma perché lo guardi? non lo so, l’ho guardato per una decina di puntate, poi, come con la grappa, mi sono detto basta: il primo mi rende demente, la seconda mi dà troppa acidità di stomaco. Ma la mia rinuncia (a Doc Martin, non alla grappa), si è concretizzata solo pochi mesi addietro, allora non sono ancora del tutto disintossicato. Capisco perché mentre noi (con tutto il mare di difetti che abbiamo) costruivamo il Colosseo, loro si tingevano la faccia di blu. Ho anche pensato con ammirazione a Mario Appelius… e per tirarmi fuori dalle sabbie mobili prendevo in mano Sir Patrick, Robert Byron, Dalrimple, Hopkirk, Gerald Russell, i fratelli Durrell e così via, e ristabilivo i contatti con una nazione (pardon, un Regno), che, circa una volta all’anno, mi vede curioso viaggiatore al suo interno. Mi dirai: non sono mica tutti ebeti come quelli del villaggio di Doc Martin! certo, ma una gran parte del pubblico inglese è quello che vuole vedere, i suoi simili, temo. In Fantozzi lo sfigato è lui, mica il mega direttore galattico Balambam, e nemmeno la Sig.na Silvani o il Geom. Calboni sono idioti. Noi godiamo dei casini di uno sfigato, non del villaggio intero di smidollati. E questa differenza mi fa pensare, giuro. Tu, con la tua cultura enciclopedica, potresti meglio spiegare l’arcano.

L’uomo non mangiato dallo squalo.

dai: Carteggi a Vittorio Righini (2018)

Sono stato affetto anch’io dalla sindrome meridiana di Doc Martin. Era tassativo non perderne una puntata, e ancora oggi non mi capacito del perché. È rimasto uno dei grandi interrogativi della mia vita – ti lascio immaginare gli altri –, perché francamente era difficile identificarsi nel personaggio, o sognare di vivere a Portwenn (anche se adoro la Cornovaglia). Non so, forse sotto sotto il messaggio che si recepiva è che c’è speranza per tutti, anche per i meno adatti: e la cosa funzionava perché il protagonista era immerso in un mondo dove tutti o quasi erano dei disadattati. Mia figlia, che in Inghilterra abita ormai da quindici anni ed è anche cittadina inglese, assicura che la realtà è Portwenn, non Midsomer, e che in Doc Martin se ne vede solo il lato buono. Ma non è attendibile, perché è una donna in carriera e i suoi competitor sono tutti inglesi. In effetti, però, se ripenso alle amene disavventure che mi sono occorse nell’ultimo viaggio inglese, un paio di anni fa, nel distretto dei laghi (ubriachi che si manifestano in camera, completamente nudi, alle tre di notte – colpa mia, perché ho il maledetto vizio di non chiudere mai la porta, nemmeno quando sono in giro), battellieri non perfettamente sobri che litigano via radio coi colleghi o con la moglie e invertono la rotta di colpo, ecc…), devo ammettere che un po’ di ragione ce l’ha. Ma la cosa strana è che queste cose, che in Italia e sul continente mi farebbero incazzare a morte, lì mi paiono note di colore. Potenza della letteratura. Hanno saputo vendersi molto bene, da Shakespeare in poi, e ci hanno indotto una soggezione culturale. L’esatto contrario di quanto accade con gli americani. E ti dirò di più: è una sudditanza che mi piace, come in fondo mi piaceva Doc Martin. Varrà la pena tornarci un po’ su. Al più presto.

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Bene, a questo punto penso che dell’Inghilterra, di quella mia, ne avrete sin sopra i capelli. Posso capirvi, ma questo non cambia una virgola di tutto ciò che ho proposto. Ci tenevo da un pezzo ad un’operazione del genere, e ho dovuto contenermi per non renderla ancora più pesante. Ora di questi materiali potete fare due usi differenti: dimenticarli il più rapidamente possibile o metterli a confronto col vostro sentire rispetto alla cultura inglese. Non trarrete alcuna utilità dal farlo, ma potreste anche divertirvi.

Acufeni?

di Paolo Repetto, 25 novembre 2020

L’acufene non è una malattia, è un sintomo, come la febbre:
aspecifico. Può essere generato da diverse situazioni.
http://www.fondazioneveronesi.it

I domiciliari da Covid hanno almeno un lato positivo, che non è quello ottimisticamente pronosticato da molti all’inizio di tutta la faccenda, la favola delle ritrovate gioie del focolare domestico e del rinnovato rapporto tra genitori e figli o tra i coniugi (mai viste tante violenze tra le mura di casa come in questo periodo). No, sta molto più semplicemente nella forzata possibilità di perdere ogni tanto qualche ora in vagabondaggi nelle nebbie del web, e di misurare uno stato febbrile mentale collettivo che solo in parte è indotto dalla paura ossessiva e maligna ingenerata dal Covid; anzi, quest’ultima lo rende solo più immediatamente visibile.

Quando parlo di lato positivo non intendo quindi piacevole o divertente (oggi al “positivo” si associano ben altri significati); al contrario, è una esplorazione angosciante, ma che ci costringe quanto meno a prendere atto di una realtà che a dispetto del suo manifestarsi principalmente sul web è tutt’altro che virtuale. Non c’è alcuna scoperta, non rivelo niente di nuovo: è una realtà che tutti bene o male già conosciamo, e che all’occasione non manchiamo di deprecare. Ma poi la rimuoviamo immediatamente, con un moto di fastidio più che di preoccupazione, come fosse qualcosa che in fondo riguarda solo gli altri, per tanti che questi altri siano. È lo stesso atteggiamento, per intenderci, che manteniamo nei confronti dell’inquinamento ambientale: assistiamo alla crescita esponenziale del degrado, mutazioni climatiche repentine, ghiacciai che si sciolgono, acque che si acidificano o si plastificano, regioni enormi che si desertificano, come fossimo in trance, pensando tra noi e noi “non sono comunque io quello che può fare qualcosa”.

Ora, credo che fare il punto ogni tanto su questi fenomeni, che sono tra l’altro intimamente connessi, possa servire se non altro a scuoterci per un attimo dalla nostra apatia, a liquidare gli alibi che ci costruiamo e a metterci di fronte alle nostre singole responsabilità. Ciascuno potrà poi decidere se mutare qualcosa del suo comportamento, e nel caso, se farlo individualmente o cercare di agire in concerto con altri: ma se anche non deciderà nulla, non potrà almeno trincerarsi, davanti allo sguardo smarrito delle generazioni future, ma prima ancora di fronte a se stesso, dietro la scusante del “non sapevo, non mi rendevo conto”.

Dunque, parlavo di “febbre mentale”. Era un eufemismo, naturalmente. Quello di cui vado a scrivere è né più né meno che idiozia, cretinismo, stupidità, scegliete voi il termine. Ne ho già trattato ampiamente altrove (cfr. ad esempio Il mondo nelle mani degli stolti), direi addirittura che non ho fatto altro, ma sempre in termini molto generali, teorici, oppure stigmatizzando fenomeni singoli, quasi in forma di un divertissement preoccupato ma in fondo distaccato. Vorrei invece scendere un po’ più in profondità, perché anche il cretinismo, malgrado questo sembri un ossimoro, ha una sua ancestrale profondità, ha delle radici non solo sociali ma anche biologiche, e non va preso sottogamba, come un fenomeno di risulta, un effetto collaterale e solo un po’ fastidioso dell’evoluzione.  

Tra i collaboratori a questo sito c’è per fortuna chi ha conoscenze specifiche ben più ampie delle mie, e in futuri interventi proverà a spiegare in termini scientifici le origini e le motivazioni di questo tipo di comportamento.

Io per ora mi limito invece a produrre alcune pezze documentali ben precise, che ho pescato qua e là nel web. Le riporto seguendo un ordine “verticale” di rilevanza apparentemente decrescente, che induce un altro ordine “orizzontale” di collocazione, come si diceva una volta, da destra a sinistra. Posso garantire che sono frutto tutte della stessa escursione. Il percorso lungo il quale le ho attinte non era affatto preordinato, ma non può nemmeno essere considerato del tutto casuale: cercavo altro, ma se mi sono imbattuto in queste perle è appunto perché non c’è ambito al quale il cretinismo non si sia prepotentemente affacciato.

Sono notizie, ahimé, per nulla divertenti, che parlano di un istupidimento dilagante, trionfante, pericolosissimo, che andrà a toccare e già sta toccando le nostre vite in misura ben maggiore di quanto questa umana degenerazione abbia mai storicamente fatto. Sono il primo ad ammettere (e a scrivere) che da sempre, da Adamo in poi, sono state profetizzate da parte di ogni generazione sventure e apocalissi per quelle a venire: ma è pur vero che queste ultime nella maggior parte dei casi, almeno per i gruppi direttamente interessati, si sono poi verificate. E oggi però, di fronte ad un cretinismo che dispone di armi ben più potenti e incontra difese cerebrali disattivate dal bombardamento mediatico, il rischio si è davvero allargato a tutta l’umanità. È peraltro assodato che a fronte di questo tipo di contagio non si crea immunità di gregge: si crea solo il gregge.

Propongo queste cose nude e crude, così come le ho lette (citando anche la provenienza). Penso che ogni commento sia superfluo. Le lascio dunque alla vostra (spero sgomenta) riflessione, anche se già so che non potrò trattenermi dal tornarci sopra. Non sarebbe male se per una volta lo facesse anche qualcun altro.

QAnon, la teoria più amata dai complottisti americani
(Julia Carrie Wong, The Guardian, Regno Unito, 28 agosto 2020)

Per Donald Trump sono “persone che amano il nostro paese”. Per l’Fbi è una potenziale minaccia terroristica interna. E per chiunque altro abbia usato Facebook negli ultimi mesi potrebbe essere semplicemente un amico o un familiare che ha mostrato preoccupanti segnali d’interesse per il traffico di bambini messo in piedi da una “congrega” di devoti a satana o per teorie del complotto su Bill Gates e sul covid-19.

QAnon è una teoria del complotto basata sul nulla, cresciuta su internet e diventata popolare negli Stati Uniti ad agosto. Per anni i suoi adepti sono rimasti ai margini delle comunità di destra online, ma negli ultimi mesi – mentre negli Stati Uniti si diffondevano i disordini sociali e l’insicurezza dovuta alla pandemia – hanno trovato molta visibilità […].

Secondo questa teoria il mondo è governato da una congrega di celebrità di Hollywood, miliardari e democratici satanisti. Queste persone avrebbero messo in piedi un traffico di bambini e stanno cercando di allungarsi la vita usando un composto chimico preso dal sangue dei bambini vittime di abusi. I sostenitori di QAnon credono che Donald Trump stia conducendo una battaglia segreta contro questa congrega e i suoi collaboratori dello “stato profondo”, per rendere noti questi malfattori e mandarli tutti nella prigione della base statunitense di Guantanamo, a Cuba. Il presidente (che ha un ruolo fondamentale nella narrazione falsa di QAnon) si è naturalmente rifiutato di prendere le distanze: anzi, ha elogiato i sostenitori di QAnon, definendoli dei patrioti.

Esistono molte trame nella narrazione di QAnon, tutte improbabili e infondate: quella secondo cui John Kennedy, presidente assassinato nel 1963, sia in realtà ancora vivo; un’altra che accusa la famiglia Rothschild di controllare tutte le banche; oppure quella secondo cui i bambini rapiti sono venduti attraverso il sito web del rivenditore di mobili Wayfair (non è vero, ovviamente). Hillary Clinton, Barack Obama, George Soros, Bill Gates, Tom Hanks, Oprah Winfrey, la modella Chrissy Teigen e papa Francesco sono solo alcune delle persone che i sostenitori di QAnon hanno scelto come i cattivi di questa realtà alternativa.

Se tutto questo suona familiare, è perché ne abbiamo già sentito parlare. QAnon ha le sue radici in teorie del complotto esistenti, in altre relativamente nuove, e altre ancora vecchie di un millennio.

L’antecedente più recente è il cosiddetto Pizzagate, la teoria del complotto che si è diffusa durante la campagna presidenziale del 2016, quando siti d’informazione e influencer di destra hanno promosso l’idea infondata che i riferimenti al cibo e a una famosa pizzeria di Washington apparsi nelle email rubate del direttore della campagna di Clinton, John Podesta, fossero in realtà un codice cifrato che si riferiva a un traffico di bambini. Gli attacchi online hanno scatenato violenza reale contro il ristorante e i suoi dipendenti, culminati nel dicembre 2016 in una sparatoria per mano di un uomo convinto che nel locale ci fossero bambini da salvare.

Ma QAnon affonda le sue radici anche in teorie del complotto antisemite molto più antiche. L’idea di una congrega onnipotente che comanda il mondo viene direttamente dal Protocollo dei savi di Sion, un documento falso in cui viene descritto un piano segreto degli ebrei per controllare il mondo, e che è stato usato per tutto il Novecento per giustificare l’antisemitismo. Un’altra affermazione falsa dei seguaci di QAnon – l’idea che i membri della congrega estraggano dal sangue dei bambini l’adrenocromo, un composto chimico, e lo ingeriscano per allungarsi la vita – è una variante moderna di un’idea antisemitica calunniosa e vecchia di secoli relativa al sangue.

(L’articolo prosegue raccontando come è cominciata tutta questa vicenda, come funzionano le piattaforme di diffusione e a chi arrivano: “I più importanti gruppi Facebook dedicati a QAnon avevano circa duecentomila membri prima che la piattaforma li mettesse al bando, a metà agosto. Quando Twitter ha preso provvedimenti simili contro gli account QAnon a luglio, la misura ha colpito circa 150mila account […] In generale QAnon sembra essere popolare soprattutto tra gli elettori repubblicani più anziani e tra i cristiani evangelici.”,

quali strategie usano: “realizzare ‘documentari’ infarciti di disinformazione, prendere il controllo di hashtag popolari online per trasformarli in strumenti per diffondere le teorie QAnon; partecipare a comizi di Trump esibendo cartelli con su scritto Q; candidarsi alle elezioni. Una dimostrazione dell’efficacia di queste tattiche è arrivata quest’estate con la campagna #SaveTheChildren o #SaveOurChildren. Questo hashtag all’apparenza innocuo, usato in passato da ONG che lottano contro la violenza sui bambini, è stato inondato di argomenti dal forte contenuto emotivo da parte di seguaci di QAnon, con riferimenti alla più ampia narrativa del movimento”,

quanta  influenza stanno esercitando: “Media matters for America, associazione che monitora i mezzi d’informazione, ha compilato una lista di 77 candidati a seggi al congresso degli Stati Uniti che hanno dichiarato di sostenere QAnon. Una di loro, Marjorie Taylor Greene della Georgia, ha vinto le primarie repubblicane e a novembre con ogni probabilità entrerà al Congresso.”

Chi è Attila Hildmann, lo chef vegano dietro gli sfregi al museo di Berlino
(da  http://www.scattidigusto.it, 22 ottobre 2020)

Attila Hildmann, 39 anni, già star vegana dei masterchef tedeschi, è il principale indiziato per l’attacco che ha danneggiato 70 opere in tre musei di Berlino. Lo scorso 3 ottobre, qualcuno ha spruzzato una sostanza oleosa su decine di capolavori conservati nei musei. Sono stati macchiati e rovinati per sempre sarcofagi egizi, sculture, immagini di divinità greche e quadri dell’Ottocento.

Ieri, la Bild e altri mezzi d’informazione tedeschi hanno adombrato sospetti proprio su Hildmann, ricostruendo l’incredibile parabola che ha cambiato la vita del cuoco berlinese di origini turche. L’ex telechef è passato dal ruolo di amato vip dei fornelli mediatici, con una seconda carriera ben avviata da autore di bestseller culinari, a essere una bandiera dell’ultradestra.

Da quando preferisce agli show per la tv (anche americana) le piazze, da dove tenta, a suo dire, di aprire gli occhi a tutti i poveri stolti alle prese con l’epidemia globale, lo chef xenofobo, complottista, nonché negazionista del Covid-19, si è trasformato in un propagandista della spazzatura complottista sul Coronavirus. È stato lui a diffondere ai 100 mila follower del suo canale Telegram, il messaggio secondo cui il Pergamon Musem non sarebbe stato chiuso per la pandemia. Il vero motivo sarebbe la presenza all’interno del museo del “Trono di Satana”, essendo di fatto il Pergamom il “centro dei satanisti e dei criminali del Coronavirus”.

Martedì Attila Hildmann ha condiviso un link sui social che rimandava a un articolo sull’attacco ai musei. Il suo commento? “Fatto! È il trono di Baal (Satana)”.

Avevano fatto scalpore nel settembre scorso i messaggi pubblicati dal cuoco vegano ancora una volta sul suo canale Telegram. Protagonista la Cancelliera tedesca Angela Merkel, che in realtà sarebbe ebrea e a capo di “un regime sionista” che all’interno del Pergamom Museum consuma “sacrifici umani”.

Ted Huges, il poeta nella black list della British Library
(da http://www.leggo.it 22 novembre 2020)

Il celebre poeta Ted Hughes è stato aggiunto a un dossier che lo collega alla schiavitù e al colonialismo dalla British Library. Il poeta, nato in una famiglia di umili origini nello Yorkshire, è risultato essere un discendente di Nicholas Ferrar, che era coinvolto nella tratta degli schiavi circa 300 anni prima della nascita di Hughes.

Ferrar, nato nel 1592, e la sua famiglia erano “profondamente coinvolti” con la London Virginia Company, che cercava di stabilire colonie nel Nord America. La ricerca, ha riferito The Telegraph, è stata condotta per trovare prove di “connessioni con la schiavitù, profitti dalla schiavitù o dal colonialismo”.

Hughes è nato nel 1930 nel villaggio di Mytholmroyd nel West Yorkshire, dove suo padre ha lavorato come falegname prima di gestire un’edicola e una tabaccheria. Ha frequentato l’Università di Cambridge con una borsa di studio, e lì ha incontrato la sua futura moglie Sylvia Plath.

Quello di Hughes, che morì nel 1998, non è l’unico nome illustre della letteratura inglese identificato dalla British Library come beneficiario dei proventi della schiavitù attraverso parenti lontani: nella lista ci sono anche Lord Byron, Oscar Wilde e George Orwell. Tra gli intenti dell’istituzione, diventare “attivamente antirazzisti” fornendo un contesto alla memoria di personaggi storici sulla scia del movimento Black Lives Matter.

Ma il tenue legame tra Hughes e Ferrar, al quale è imparentato per parte di madre, ha suscitato l’ira tra gli esperti del grande scrittore. Il suo biografo, Sir Jonathan Bate, ha dichiarato: «È ridicolo incastrare Hughes con un legame con la tratta degli schiavi. E non è un modo utile per pensare agli scrittori. Perché diavolo giudichi la qualità del lavoro di un artista sulla base di antenati lontani?». Bate ha aggiunto che Ferrar era meglio conosciuto come sacerdote e studioso che ha fondato la comunità religiosa Little Gidding.

Il poeta romantico Lord Byron è stato aggiunto a questa lista perché il suo bisnonno era un commerciante che possedeva una tenuta a Grenada. Suo zio, attraverso il matrimonio, possedeva anche una piantagione a St Kitts.

Oscar Wilde è stato incluso a causa dell’interesse di suo zio per la tratta degli schiavi, anche se la ricerca ha rilevato che non c’erano prove che l’acclamato scrittore irlandese abbia ereditato alcun denaro attraverso la pratica.

George Orwell, che era nato Eric Blair in India, aveva un bisnonno che era un ricco proprietario di schiavi in Giamaica. Ma la Orwell Society ha specificato che il denaro era già scomparso tempo prima che Orwell nascesse.

Cosa ha detto J.K. Rowling sulle persone transgender e le donne
(www.ilpost.it 11 giugno 2020)

Mercoledì sera J.K. Rowling, notissima autrice dei libri su Harry Potter, ha pubblicato un lungo post sul suo sito per rispondere alle critiche e alle accuse di transfobia ricevute dopo alcuni suoi recenti commenti sull’identità di genere e su quello che lei definisce il “nuovo attivismo trans”, e per spiegare perché si è espressa pubblicamente su questi temi.

«Non mi piegherò di fronte a un movimento che ritengo stia facendo danni dimostrabili nel tentativo di erodere il concetto di “donna” come classe politica e biologica, offrendo protezione ai molestatori come pochi nella storia».

Ha inoltre rivelato di aver subito violenze domestiche e abusi sessuali durante il suo primo matrimonio, citando questa esperienza – insieme al suo passato di insegnante e alla sua convinzione dell’importanza della libertà di parola – come una delle ragioni a sostegno delle sue idee rispetto all’identità di genere e ai diritti delle persone trans.

Negli ultimi anni, Rowling ha più volte espresso opinioni controverse sul concetto di sesso e di identità di genere e sui diritti delle persone trans. Nel suo post ha commentato e cercato di spiegare le volte in cui era successo e ha fatto riferimento più approfonditamente all’episodio più recente, avvenuto lo scorso weekend. Sabato scorso Rowling aveva ironizzato sull’utilizzo dell’espressione “persone che hanno le mestruazioni” nel titolo di un articolo del sito Devex, che usava l’espressione per includere esplicitamente persone trans e non binarie: «Sono sicura che esistesse una parola per queste persone» ha scritto Rowling, «Aiutatemi… Danne? Done? Dumne?».

Il commento implicava una corrispondenza automatica tra le persone che hanno le mestruazioni e le donne: negando così la possibilità che esistano persone che le hanno ma non si identificano come donne (alcuni uomini trans, o persone che non si identificano in alcun genere, ad esempio), e ha generato critiche e discussioni.

Domenica Rowling ha risposto con tre nuovi tweet, affermando di «conoscere e sostenere persone transgender», ma opponendosi a «cancellare il concetto di “sesso”».

Anche questi tweet hanno ricevuto molte critiche e risposte, anche da famosi attori e attrici che avevano lavorato a film tratti dalla sua saga. Lunedì, ad esempio, l’attore Daniel Radcliffe – interprete del personaggio di Harry Potter nella serie di film tratti dai libri di Rowling – ha pubblicato una lettera in cui prendeva le distanze dalle parole di Rowling, evitando di attaccarla personalmente, e in cui esprimeva solidarietà verso le persone transgender e la volontà di “diventare un migliore alleato” (come vengono definite le persone che non appartengono alla comunità LGBTQIA+, ma condividono e sostengono le sue ragioni). Commenti simili sono stati fatti anche dagli attori Eddie Redmayne ed Emma Watson.

L’identità sessuale, oggi, viene definita in base a tre parametri: sesso, genere e orientamento sessuale. Il primo corrisponde al corpo sessuato (maschio-femmina), il secondo al senso di sé (al sentimento di appartenenza, all’identificarsi come uomo o donna a seconda di ciò che il mondo intorno riconosce come proprio dell’uomo e della donna), mentre il terzo riguarda la direzione dei propri desideri (eterosessuali-omosessuali-bisessuali, e altre categorie).

Il sistema sesso-genere-orientamento sessuale (usato oggi in tutto il mondo dalla maggior parte degli psichiatri, degli psicologi, dei sessuologi e dei sistemi giuridici) è però solo una griglia interpretativa e imperfetta della realtà, basata su rigide alternative binarie: la realtà stessa è ben più complessa e ricca di esperienze in cui i tre parametri non sono necessariamente “coerenti” tra loro. Un articolo del National Geographic riporta le esperienze di alcune persone che non rientrano perfettamente nella binarità, alcune dal punto di vista biologico, altre psicologico, più spesso un misto dei due.

La posizione di Rowling rifiuta queste posizioni e si può riassumere come segue: secondo lei esistono due sessi (maschio e femmina), che dipendono da fattori anatomici e fisici (come le mestruazioni); secondo lei, però, l’inclusione nella categoria di “donna” richiesta dalle donne trans rischierebbe di danneggiare le persone biologicamente donne.

(A scanso di equivoci, non sono un fan di Harry Potter, ma alla signora Rowling vanno naturalmente in questo caso tutta la mia stima e la mia solidarietà. Non aveva necessità di tirare in ballo gli abusi per giustificare la sua posizione. Decisamente meno, lo confesso, apprezzo l’opportunismo ipocrita di Daniel Radcliffe.

Mi si potrà inoltre obiettare che la rilevanza, in termini di pericolosità, tra i primi due casi e gli altri due che ho riportato sia molto diversa. Non ne sarei così convinto.)

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Lo zen e l’arte di raccontar balle

di Paolo Repetto, 30 aprile 2014

È lo stile che ci fa credere in qualcosa
nient’altro che lo stile!
Oscar Wilde

Una volta chiesi ad Osvaldo quanto ci si impiegasse per raggiungere Dego. Dovevo portare sin là con uno scassatissimo Transit la band del paese, strumenti e amplificazione compresa. Erano le otto passate, si era in inverno e l’esibizione era prevista per le dieci. Rispose: “Dego? Quaranta minuti”.

Rimasi interdetto. Sono quasi ottanta chilometri, all’epoca senza un metro di autostrada, tutti tornanti e attraversamenti. Obiettai: “Ma lo sai dov’è Dego? Ci sei mai stato?” Mi zittì: “Sia un po’ dove vuole. In quaranta minuti ci si va”.

Avrei dovuto saperlo. Non si obietta all’affermazione di un maestro. Fossi stato un discepolo zen avrei rimediato una bastonata. Osvaldo non bastonava, ma ammollava certi cartoni sulla schiena da lasciarti senza respiro per un quarto d’ora. A buon diritto, perché era maestro in un’altra disciplina: nell’arte antichissima di raccontar balle.

Questa conversazione non vuole offrirvi un trattato sulla menzogna. Non ne farà la storia, perché dovremmo partire da Eva e passare poi per Platone, Torquato Accetto e tutti gli altri, e non basterebbero due settimane per un riassunto. Toccherà solo marginalmente la letteratura, che pure è zeppa di bugiardi, da Ulisse a ser Cepperello e a Iago, per citare solo i più famosi: ma anche qui, al di là del fatto che la letteratura è di per sé menzogna, non ne usciremmo più. Mi terrò infine prudentemente lontano dalla psicologia, per cui non sarà un corso accelerato per mentitori, e nemmeno offrirà un prontuario per smascherarli. Tanto l’uno che l’altro sarebbero perfettamente inutili, conosciamo già tutto quel che serve e sappiamo anche che non serve a nulla.

E allora? Allora vado a proporre una serie di riflessioni a ruota libera, sia pure confortate da autorevoli esperti, su un’attitudine che per alcuni costituisce un vero e proprio sport, per altri una naturale necessità, per altri ancora uno strumento, di affermazione o di sopravvivenza. Nelle intenzioni dovrei limitarmi al tema dello stile, prescindendo da ogni considerazione morale o civica. Per questo il titolo parla di arte: si può essere semplicemente dei bugiardi o si può essere degli artisti nel travisare la realtà. Dei primi c’è poco da dire: quando non sono pericolosi sono patetici. Io voglio naturalmente parlare dei secondi.

Mi accorgo però che sarà difficile tagliar dritto, fingendo che il discorso sullo stile possa essere avulso da quello più generale sul nostro bisogno di nascondere o travestire la verità. C’è il rischio che ne nascano ambiguità e confusione. Non garantisco quindi che non verranno percorse anche altre vie.

Devo fare un’ulteriore precisazione: quando affermavo che non avrei parlato della menzogna volevo dire in realtà che non tratterò di ciò che noi normalmente intendiamo per menzogna. Il termine può essere infatti usato in un’ampia gamma di sfumature, ma la connotazione prevalente è la più negativa, quella già evocata dalle facili assonanze con rogna e vergogna; tanto che quando è riferibile ad un atteggiamento nostro gli preferiamo sempre la locuzione “raccontare bugie”. In questo modo da mortale il peccato diventa immediatamente veniale.

Ciò di cui vado a trattare rimane in effetti entro il campo del veniale: non intendo avventurarmi nei vizi capitali. Possiamo dunque metterci rilassati, ma solo dopo aver accettato come assiomatico un dato di fatto: tutti quanti raccontiamo bugie, e non una volta ogni tanto, ma continuamente. Una psicologa ha realizzato uno studio dal quale si evince che ciascuno di noi mente in media un paio di volte al giorno. La ricerca in questione è evidentemente una stupidata, ma se vogliamo avere una dimensione quantitativa del fenomeno direi che ci stiamo dentro, e anche un po’ stretti. E nessuno creda di poter fare quello cui non tocca il pollo: non venitemi a raccontare che i giudizi che date sul cibo che vi viene servito, in casa o presso amici, o i pareri sulle gonne che vostra moglie ha appeno preso “d’occasione”, o sui regali che ricevete a Natale, siano sempre del tutto veritieri. Uno che se intendeva, Mark Twain, che sarà chiamato a testimoniare più volte nel corso di questa conversazione, diceva che “mentiamo ogni giorno, ad ogni ora, da svegli e nel sonno”; e avrebbe potuto aggiungere che mentiamo a noi stessi e agli altri.

C’è persino una teoria evoluzionistica secondo la quale l’uomo avrebbe sviluppato un cervello più grande rispetto al suo parentado del ramo primati proprio per avere la capacità di ingannare e quindi di prevalere, o almeno di sopravvivere. Jan Leslie, in Bugiardi nati, la riassume così: “L’homo sapiens si distingue dagli altri animali per questa caratteristica: la capacità di raccontar frottole e addomesticare la realtà”. Il linguaggio, secondo questa interpretazione della specificità umana, sarebbe prevalentemente strumento di inganno, e direi che qui non ci piove, non ci vuole nemmeno la psicologa per dedurlo, è un’evidenza che avvalora tra l’altro la narrazione biblica. Se interpretata alla maniera giusta, la teoria non mi sembra affatto infondata. Cominciamo a mentire più o meno nello stesso momento in cui iniziamo a parlare, e nel farlo costruiamo una dimensione alternativa, che opponiamo agli altri per autodifesa o nella quale cerchiamo rifugiamo quando la verità ci riesce inaccettabile. Ed è proprio il fatto di vivere in questa continua tensione tra due piani della realtà a distinguerci dagli altri animali. Quindi, prendiamo atto che siamo per natura dei contaballe, e vediamo piuttosto come esercitiamo questa prerogativa.

In genere lo facciamo senza cattiveria, a volte addirittura senza intenzione, e si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di bugie piccole, tutto sommato innocue, quelle che aiutano anzi a mantenere un certo equilibrio nei rapporti familiari e sociali (paradossalmente, senza una certa dose di mistificazione sarebbero guai). Non è sempre così, però. A volte si mente per prevaricare, per ottenere vantaggi a danno degli altri, altre per semplice megalomania, per compulsione o per debolezza, altre ancora per pietà, per compassione. Ci sono quindi menzogne egoistiche e bugie altruistiche. E ci sono anche modi diversi di mentire: si può farlo per omissione, non dicendo tutto quel si dovrebbe dire (è quasi sempre il caso delle bugie pietose) o per falsificazione.

Nel momento stesso in cui si è reso conto della sua capacità di mentire, e quanto questa capacità potesse diventare un’arma, utile o pericolosa a seconda della parte del coltello che si impugna, l’uomo ha cominciato a darsi da fare per trovare gli antidoti, per smascherare la menzogna altrui. E ogni volta che ha fatto un passo avanti, acquisendo cultura, la cultura ne ha fatti due, elaborando nuove tecniche di inganno. Ultimamente però il gap parrebbe essere stato colmato. Sono state infatti individuate le specifiche aree del cervello che entrano in azione quando si dice una bugia, producendo impulsi elettrici. Questi impulsi vengono rilevati grazie a una speciale tecnica, l’imaging neurale, che ci mostra come le aree del cervello più attive nella costruzione delle bugie siano la regione frontale sinistra e la corteccia anteriore. È dunque possibile stabilire quando una persona sta mentendo poiché il cervello produce una risposta bioelettrica inconfondibile (si chiama N400). So cosa state pensando: c’è gente che con una cuffia in testa e quattro elettrodi potrebbe alimentare un condominio. Ma se ci riflettete un attimo, capirete che siamo fritti. Sarà sufficiente che ci applichino appena nati un microscopico rilevatore sottocutaneo, come già si sta pensando di fare per monitorare in tempo reale tutte le funzioni vitali, e tanti saluti alle vecchie care bugie: col rischio che saltino del tutto i già precari equilibri con colleghi, familiari, dipendenti o amici.

Non tutte le bugie, però, possono essere rilevate: e qui entriamo nel vivo della nostra conversazione. (In merito alla quale posso assicurare, anche se sembra un paradosso, che ogni riferimento a persone o cose sarà vero).

Io ho avuto la fortuna di conoscere due grandi Maestri, davvero due artisti nel loro campo, che era appunto quello del contar storie. Non ci sono parametri o criteri per l’attribuzione del titolo: l’artista lo riconosci dalla reazione che ti provoca. Davanti ad una balla più o meno evidente puoi provare fastidio e irritazione, quando non addirittura sdegno: oppure puoi provare un ammirato e divertito stupore. Ora, questa seconda reazione scatta evidentemente solo in presenza di qualcuno che non sta cercando di ingannarti e di procurarti del danno: al massimo si può essere “ammirati” nei confronti di chi ha saputo rifilarti una fregatura in maniera elegante, se la fregatura non ha procurato danni eccessivi. Ma io non considero neppure questo secondo caso. Voglio occuparmi di frottole fini a se stesse, pure come l’imperativo kantiano, non contaminate da interessi o secondi fini. Del piacere di raccontarle e di ascoltarle, e di come questo piacere sia davvero all’origine della nostra evoluzione culturale, ma non per i motivi egoistici supposti dalla teoria: o almeno, non solo per quelli.

Per questo ritengo che ciò di cui vado a parlare non sarebbe rilevabile con l’imaging neurale; non avrebbe alcun senso, e d’altro canto non sarebbe di alcuna utilità farlo. I sensori elettrici non scatterebbero perché si tratta di un travisamento della verità che con la menzogna voluta e consapevole, quindi con quella energia maliziosa necessaria ad occultare il vero e ad elaborarne un surrogato, quella che produce gli impulsi, ha a che fare molto marginalmente. Anzi, nemmeno di travisamento si dovrebbe parlare, ma piuttosto di enfatizzazione. Di qualcosa che esce dall’ambito della quotidianità comportamentale, per assurgere a quello della creatività artistica. Un altro esperto, Oscar Wilde, scrive: “L’arte stessa è una forma di esagerazione: e la scelta, che è lo spirito stesso dell’arte, non è niente più di una maniera intensificata di super-enfasi”.

Parlerò dunque di un’attitudine che è presupposto e motore di ogni creatività artistica.

I due maestri di cui dicevo sono il succitato Osvaldo e mio padre. Due artisti di impostazione diversa, che usavano tecniche e linguaggi differenti; ma comunque due sommi. Senza tema di sacrilegio li ascrivo alle tradizioni illustri rappresentate dagli esperti chiamati in causa: la scuola americana di Mark Twain, quella inglese di Oscar Wilde e quella internazionale del Barone di Münchausen. Mi si obietterà che a voler trovare degli artisti nel raccontar balle non è necessario uscire dal nostro paese, ne abbiamo da esportare: ma devo dire che la nostra tradizione non mi è affatto congeniale, nei casi migliori c’è comunque alle spalle quella presunzione di superiore furberia che riesce disturbante in ogni manifestazione di pensiero italiana. Le frottole di cui parlo io non sono destinate ad un pubblico di Calandrini o di teleutenti lobotomizzati: anzi, per non andare sprecate esigono un uditorio consapevole e complice.

Dunque, Twain descrive in Come raccontare una storia un tipo caratteristico di narratore, che identifica con l’uomo della frontiera, brutale, spaccone, capace davanti al falò di un bivacco o ad una bottiglia nel saloon di vanterie spropositate, di esagerazioni assurde: cacciatori che hanno lottato a mani nude con gli orsi, o hanno abbattuto tre prede con un solo colpo; pescatori che hanno tirato a riva lucci di due metri, con lo stomaco ancora pieno di trote vive e guizzanti; minatori andati in letargo in autunno e risvegliatisi a primavera inoltrata, un po’ smagriti, che con i loro racconti comici e surreali convertono la durezza della vita di frontiera in una fonte di risate catartiche.

Twain spiega come ciò che fa la differenza tra il fanfarone e l’artista non sia l’oggetto, ma il modo del racconto. Svela anche i trucchi del mestiere: “Raccontare una sfilza di scemenze senza alcun nesso, in maniera farneticante e spesso gratuita, mantenendo un’aria innocente e inconsapevole e fingendosi ignari dell’assurdità di ciò che si sta dicendo è il vero fondamento dell’arte americana”. E poi “farfugliare il nocciolo della questione”, “lasciar cadere casualmente un’osservazione in verità studiata” ed infine, la pausa, che “è una caratteristica straordinariamente importante per qualunque tipo di storia”. Lo humor nero e spaccone della frontiera è nelle sue corde perché Twain sa di cosa parla, nel senso che quegli uomini li ha conosciuti personalmente ed ha ascoltato i loro racconti. Proprio la loro scarsa o nulla credibilità gli ha fatto comprendere l’importanza della espressività linguistica, dell’uso calibrato dei vari slang, dello sfruttamento pirotecnico delle immagini per descrivere tipi e situazioni. Sa anche che se vuole trasformare l’umorismo di frontiera in letteratura deve sbarazzarsi delle strutture e delle convenzioni linguistiche tradizionali e trovare costruzioni del periodo più originali. Ma deve prima di tutto rispettare la serietà con la quale nella versione orale la più assurda delle storie viene imbandita, senza orpelli, senza strizzate d’occhio agli ascoltatori, che ne seguono gli sviluppi con altrettanto solenne gravità. “Nessuno nella taverna sembrava cosciente del fatto che una storia di prima qualità era stata raccontata in una maniera di prima qualità, e che era ricolma di una caratteristica che loro non avrebbero mai sospettato: l’umorismo”, scrive Twain ricordando la volta che aveva sentito il racconto della rana della contea di Calaveras.

Osvaldo non era nato nell’Oregon, ma in Vallescura. Richiesto se conoscesse Mark Twain avrebbe risposto che lo aveva incontrato una volta ad una gara di agnolotti, a Campomorone. Se però avesse aperto a Kansas City o a El Paso il bar che aprì a Lerma non avrebbe sfigurato al confronto coi suoi personaggi. All’epoca d’oro, tra i miei venti e trent’anni, il bar di Osvaldo era la meta pomeridiana e serale dei giovani di tutti i paesi dei dintorni. Sono arrivato a contare, una vigilia di Ferragosto, qualcosa come centoventi tra ragazzi e ragazze assiepati nelle due sale interne e nel déhors. Lui disse che non potevano essere meno di duecentocinquanta.

Questo era Osvaldo. La sua versione della realtà era costantemente sopra le righe: non le consentiva mai di toccare terra. Per anni, dopo la mezzanotte, estate e inverno, calate le serrande, il suo bar ha vissuto un altro paio d’ore di vita segreta e di atmosfera iniziatica. Quando mi capitava d’essere lontano non provavo alcuna nostalgia di casa, ma dopo la mezzanotte scattava l’ora che volge al desio, e pensavo a quello che magari stava accadendo da Osvaldo in quel momento, alle storie che sarebbero state raccontate. Al bar accadeva questo: partite a biliardo nelle quali alla consumazione si sostituiva il traverso (diecimila lire a botta, all’epoca una cifra, oggi cinque euro!), giri di “bestia” nei quali non vinceva chi barava, ma chi barava meglio, partite di Champions o incontri di boxe trasmessi nel cuore della notte: ma soprattutto c’era il rituale magico delle sei-sette sedie in cerchio, e del cazzeggio. Lì Osvaldo dava il meglio, sciorinava competenze ed esperienze enciclopediche, tutte maturate in prima persona e tutte incontestabili. Non era un cartesiano, non ammetteva dubbi o sottigliezze. “Cos’è ‘sta roba nuova che hai messo sul bancone?” “C’è scritto. Cuori di palma”. “Ho capito, ma voglio dire, che gusto hanno, sono dolci, salate, amare?” “Ma quale dolce o salato. Cosa ne vuoi sapere! Hanno il gusto giusto!” Oltre al bar, che di giorno era curato dalla moglie, conduceva anche una piccola attività di piastrellista. Poteva quindi venir fuori una sera che avesse riscosso in pagamento da un cliente moroso, proprietario di un’armeria a Genova, quattrocento chili di cartucce, naturalmente trasportate a casa su una vecchia Bianchina. “Caspita, gli dicevo, e adesso cosa te ne fai?” “Come, cosa ne faccio. Non ne ho già più!” “E che accidenti ne hai fatto? non è nemmeno stagione di caccia!” “Ho abbattuto a fucilate un bosco di roveri”.

Raccontata così, senza il colore del dialetto, senza la sua voce cavernosa di basso, senza i nottambuli immersi nell’atmosfera rilassata e complice dell’estate lermese, la cosa non colpisce granché: ma vi garantisco che le sue sparate sono rimaste impresse nella mia memoria come in quella degli altri fortunati che hanno condiviso quella stagione incantata, e sono diventate epos. Una sera toccò l’apice raccontando di una rissa scoppiata alle due di notte, lungo la discesa dei Giovi, a causa di un tamponamento in colonna (alle due di notte, giù dai Giovi, di lunedì, che se uno si sente male lo trovano il fine settimana successivo). Col suo Millecento familiare, sul quale viaggiavano naturalmente nove persone, aveva tamponato una Cinquecento targata Priaruggia. Da questa erano scesi cinque energumeni alti due metri e larghi altrettanto, ed era iniziato lo scontro, interrotto poi alle sei del mattino dall’arrivo della stradale. Un’altra volta era stato importunato dalle prostitute di via Prè, che respinte sdegnosamente avevano chiamato alla vendetta i loro magnaccia. Ne era seguito uno scontro al termine del quale questi ultimi erano finiti ammonticchiati sotto le acacie al bordo della strada (in via Prè!). Ogni racconto era un fuoco d’artificio, e venivano fuori così, non c’era alcuna preparazione. C’era una risposta a qualsiasi domanda, a qualsiasi obiezione. Anzi, il succo vero, la ciliegina erano quelle risposte.

Perché questi racconti non infastidivano? Perché avremmo addirittura pagato per ascoltarli? Come dicevo sopra, c’è gente che riesce fastidiosa anche quando racconta la pura verità, ed è addirittura insopportabile quando cerca pateticamente di venderti qualche frottola. Direi che sono la maggioranza, e attivano un gioco perverso di tolleranza reciproca. Ma ci sono poi gli artisti, quelli che non ti assillano, quasi si fanno pregare; che si muovono in una dimensione coerente nella sua eccezionalità.

Twain ha già anticipato quelli che sono i requisiti fondamentali: la totale gratuità, il puro piacere del racconto, la genuinità spontanea e sfrontata. E ancora: la capacità di mantenere un assoluto “distacco”. Di fingere di non aver alcun sospetto circa la presenza di implicazioni buffe o divertenti in ciò che si sta raccontando.

Ma forse per Osvaldo l’ascendente più appropriato non è nemmeno Twain, quanto addirittura Münchausen. Come il Barone, Osvaldo era un protagonista assoluto, e proprio la totale mancanza di remore, il “candore” con cui sparava le sue formidabili fanfaronate, ponendosi al di sopra delle leggi naturali e contraddicendo le più elementari nozioni della logica e dell’etica, lo rendevano un eroe al di sopra, o al di là, del bene e del male. Allo stesso tempo, faceva sempre professione di fedeltà ai fatti: come Münchausen pretendeva d’essere creduto incondizionatamente. E se il primo chiamava amici e conoscenti come Sinbad e Gulliver a garantire che “tutte le avventure del Barone, in qualunque paese esse abbiano avuto luogo, sono fatti positivi e reali”, Osvaldo ti rimandava per eventuali conferme ai personaggi più improbabili o irraggiungibili, quando pure esistevano. Avrebbe senz’altro fatto proprie le parole del Barone: “Qualcuno pensa che i miei racconti siano solo colossali bugie. Ci tengo a dire che quanto ho scritto in questo libro è solo il fedele resoconto dei miei molti viaggi per mare e per terra e delle mie avventure di guerra e di caccia. Leggete e giudicate voi”, se solo le avesse lette. Magari traducendole in un linguaggio meno forbito.

Ai requisiti indicati da Twain dobbiamo quindi in questo caso aggiungerne altri: la capacità di creare una dimensione autonoma, quasi un mondo opposto rispetto a quello razionale e reale, dove l’inverosimile sconfigge di continuo il verosimile, e contemporaneamente una tutta particolare “autorevolezza” della fonte, dalla quale discende una sia pur remota verisimiglianza dei fatti raccontati. Questo significa aver di fronte un narratore “certificato”, del quale conosci la tecnica, le misure, dal quale ti attendi quindi certe cose e sai che all’interno di una logica tutta particolare le devi accettare. Come dice anche Wilde: “Perché l’artista dovrebbe essere disturbato dallo stridulo clamore della critica? Perché coloro che non possono creare dovrebbero arrogarsi la valutazione dell’opera creativa?” È un po’ ciò che accade con i cartoni animati. È un mondo regolato da leggi interne diverse da quelle della quotidianità, e se segui le disavventure di Gatto Silvestro devi tenere per buono che quando sega in tondo la parte centrale del soffitto al quale è appesa la gabbietta di Titti precipiterà lui col resto del soffitto, mentre la parte centrale rimarrà in aria. Non puoi opporre l’insensatezza della cosa. Nel mondo di Gatto Silvestro le leggi della fisica classica non valgono, vale solo il paradosso. “A tali increduli io dirò soltanto che li compatisco per la loro scarsa fede e li debbo pregare, se mai ve ne siano tra i presenti, di andarsene prima che io dia inizio alle mie Avventure marinare, tutte egualmente autentiche” premetteva alle Avventure di mare il Barone di Münchausen. Per questo, quando chiedevi ad Osvaldo un panino, non dovevi lamentarti se arrivava una pagnotta di sette etti con tre dita di farcitura, pena sentirti rispondere che lui il mattino, prima del caffè, ne mangiava due appena sfornate, con ripieno di cipolline e acciughe; o se al contrario ti veniva negato, perché era in corso da un mese uno sciopero dei panettieri, e anche la birra era stata bloccata al confine, da dove partiva una coda di camion che attraversava tutta la Svizzera.

Quanto a quella che ho definito “autorevolezza della fonte”, chiaramente allargandomi un po’, mi riferisco alla capacità di dare la sensazione che, fatta la giusta tara, le cose avrebbero potuto andare veramente così. Non ho mai provato con Osvaldo il percorso per Dego (che richiese, per la cronaca, quasi due ore), ma ricordo una andata-ritorno Pegli-Lerma-Pegli, la volta che avevo dimenticato i tesserini della squadra per il campionato di calcio, con passaggi negli abitati di Rossiglione, Campo e Masone dei quali si parla ancora dopo due generazioni, e un fischio ininterrotto di gomme su e giù lungo il Turchino al quale i successivi rally passati per il paese facevano un baffo. Così come, tolte le improbabili acacie, i magnaccia ammonticchiati ai bordi di via Pré potevano starci tutti.

Dicevo sopra che la narrazione di Osvaldo avveniva prevalentemente in prima persona. Era narrazione autobiografica, lo diventava anche quando parlava di altri, quando da protagonista diventava regista, perché il taglio del film era sempre quello. Osvaldo costruiva ininterrottamente lo stesso personaggio, il suo era un racconto seriale, episodi di una stessa saga, come per Rin Tin Tin. Al contrario, i racconti di mio padre erano corali, e costruivano quadri d’assieme. Non ne veniva fuori una storia, ma un mondo, nel quale protagonisti erano i personaggi più disparati e lui si riservava il ruolo di testimone. Non l’ho mai sentito raccontare di se stesso. Anzi, le cose che so di lui, della sua giovinezza, del fatto che senza una gamba fosse un pilastro della squadra di pallapugno, le ho sapute da altri. Il suo piacere era ancora più puro di quello di Osvaldo. Sembrava aver fatto proprio l’assunto di Mark Twain: “Nella vita reale la cosa giusta non accade mai nel posto giusto nel momento giusto; è compito dello storico rimediarvi”. Lui rimediava infarcendola, ricreandola per effetto di moltiplicazione. La galleria dei suoi vicini di casa durante l’infanzia era spettacolare. Uno ad ogni starnuto staccava un pezzo della parete di roccia al di là del fiume. Un altro girava con medaglie militari grandi come coperchi di stufa, pur senza aver fatto la guerra. L’inarrivabile ‘Ngirin, che era migrato per un certo periodo in America, aveva visto a New York l’erba medica alta tre metri. Un padre e due fratelli avevano vissuto per quarant’anni nella stessa casa, di tre stanze, mangiando alla stessa tavola, e lavorato lo stesso vigneto, senza mai rivolgersi la parola. Una volta aveva pranzato lui stesso presso una famiglia, in una cascina nei bricchi, con sette figli maschi così lunghi e affamati che si sentiva il tonfo di ogni boccone nello stomaco, come dentro un pozzo.

A dire il vero, a volte un po’ d’intenzione c’era anche, nella costruzione delle storie. Come quando fece credere ad un altro vicino, uomo cattivissimo e invidioso, che una famiglia del paese, appena uscita dalla miseria più nera, avesse rilevato il servizio di autolinea tra Ovada e Genova. Quando il vicino chiese conferma all’osteria tutti, avendo capito immediatamente quale potesse essere la fonte, si affrettarono a confermare la notizia e a corredarla di nuovi particolari.

Anche nel suo caso l’operazione non era del tutto avulsa dalla realtà. I personaggi, le loro eccentricità e manie, l’essenza stessa dei fatti erano reali. Ma sarebbero rimasti figure anonime, storie monotone, pietose, a volte persino crude, se non fosse intervenuta la potenza vivificante dell’immaginazione. Per cui, “… qualunque cosa sia non è un realista. O piuttosto direi che è un figlio del realismo che non si parla con suo padre” avrebbe detto, molto a proposito, Oscar Wilde. E anche in questo caso, l’effetto della trasposizione letteraria non può che essere inadeguato. Dopo aver ascoltato il racconto sulla rana saltatrice Twain disse che, se avesse saputo scrivere la storia così come l’aveva ascoltata, quella rana avrebbe fatto il giro del mondo. Quante volte ho pensato la stessa cosa, davanti alle affabulazioni di mio padre!

Credo che a questo punto si sia capito di cosa volevo parlare. Qualcuno del genere lo avrete conosciuto anche voi, mi auguro. In caso contrario avete persa l’occasione di assistere di persona alla nascita di capolavori. Naturalmente, torno a ripetere, perché ciò accada è necessario che a raccontar balle sia un genio spontaneo, che non cerca l’effetto, ma riesce naturale in quanto in quel mondo sopra le righe ci vive: e tuttavia questo mondo deve anche saperlo dominare, non esserne preda, ma guardarlo lui stesso divertito. Stiamo quindi parlando di arte. Per questo, lasciato il buon Twain, che associava la capacità di inventare frottole al rude spirito della frontiera, alla necessità di esorcizzare attraverso l’esasperazione narrativa le paure e la monotonia di una vita solitaria e rischiosa (“Gli aspetti duri e squallidi della vita sono troppo duri e troppo squallidi e troppo crudeli per essere riconosciuti e toccati con mano ogni giorno senza alcun influsso mitigante” scriveva, per cui “l’umorismo della frontiera è il velo gentile che rende la vita sopportabile”), devo invece lasciare la parola proprio a Wilde. Il che significa che anche il tono del nostro discorso cambierà parecchio.

Se Twain ci dice come deve essere raccontata una storia, limitandosi almeno in apparenza alla pura trattazione tecnica, Wilde va molto più in là. Ne La decadenza della menzogna, un saggio in forma di dialogo, tra i suoi più brillanti, ci spiega perché la capacità di spacciare panzane è così importante. L’assunto iniziale è simile a quello di Twain: “La natura ha buone intenzioni, naturalmente, ma come disse una volta Aristotele, non sa tradurle in atto. È una fortuna per noi, tuttavia, che la natura sia così imperfetta, perché altrimenti non avremmo l’arte. L’arte è la nostra vibrante protesta, il nostro tentativo di insegnare alla natura a stare al suo posto”. Poi chiarisce, come ho vanamente tentato di fare io, cosa deve intendersi per menzogna. A uno degli interlocutori, che afferma: “La menzogna! Credevo che i nostri uomini politici ne avessero mantenuto vivo l’uso”, l’altro risponde: “Quelli non si sollevano mai al di sopra della distorsione deliberata, e consentono addirittura a discutere, ad argomentare. Quale differenza dalla tempra del vero bugiardo, con le sue affermazioni impavide, franche, con la sua superba irresponsabilità, con il suo disprezzo naturale per qualsiasi tipo di prova!” Sembra avere in mente Osvaldo, e nello stesso tempo traccia la linea che separa il cialtrone dall’artista. La distorsione deliberata è quella che persegue un meschino fine egoistico, e il fatto che imbonitori politici, religiosi e culturali d’ogni risma abbiano successo non significa affatto che costoro siano artisti: testimonia solo della povertà di spirito di coloro che li ascoltano. Aggiunge ancora: “Se un uomo è talmente privo di fantasia da produrre delle prove a sostegno di una menzogna, tanto vale che dica subito la verità”.

Più oltre Wilde sostiene che anche nel raccontare balle non si improvvisa: «La gente suole parlare distrattamente di un “bugiardo nato”, proprio come parla di un poeta nato. Ma si sbaglia in entrambi i casi. La menzogna e la poesia sono arti – arti, come capì Platone, non prive di rapporti reciproci – e richiedono lo studio più attento, la devozione più interessata. Come si riconosce il poeta dalla sua bella musica, così si può riconoscere il bugiardo dalla sua opulenta effusione ritmica, e in nessuno dei due casi l’ispirazione casuale del momento è sufficiente». Sarebbe insomma questione di allenamento. In questo non mi trova del tutto d’accordo: credo valga soprattutto la disposizione naturale, e che quando questa viene troppo coltivata si perda quella spontaneità che invece la rende tollerabile.

Vediamo però di seguire con un po’ d’ordine il filo del pensiero di Wilde, per discuterlo semmai dopo. “Se la natura fosse stata accogliente – dice – l’umanità non avrebbe mai inventato l’architettura, e io preferisco le case all’aria aperta. In una casa ci sentiamo tutti delle proporzioni giuste. Ogni cosa è subordinata a noi, modellata per il nostro gusto e per il nostro piacere. All’aperto si diviene astratti e impersonali. Si viene totalmente abbandonati dall’individualità. Ogni volta che passeggio nel parco qui fuori sento immancabilmente di non essere per lei più del bestiame che bruca nel pendio o della lappola che fiorisce nel fosso. Niente è più evidente del fatto che la Natura odia la Mente. Pensare è la cosa più malsana del mondo, e la gente ne muore, proprio come muore di qualsiasi altro male. Per fortuna, almeno in Inghilterra, il pensiero non è così contagioso”. Nemmeno in Italia, se è per questo: direi anzi che godiamo di ottima salute. Ma proviamo piuttosto a tradurre in spiccioli i paradossi di Wilde, che in mezzo ai fuochi d’artificio estetizzanti dei quali non riesce a fare a meno ci offre riflessioni profondissime. Delle eventuali incongruenze è responsabile la mia rielaborazione.

Posso sintetizzare così. L’uomo è un animale “inadatto” rispetto agli standard naturali: non ha artigli e zanne, non ha una pelliccia che lo difenda dal freddo o un guscio che lo protegga dai predatori. Di per sé sarebbe alla mercé dell’ambiente, e la specie umana avrebbe dovuto estinguersi da tempo. Ma l’uomo è dotato di un grande cervello, e almeno in una parte degli umani il cervello funziona anche. Funziona per ovviare all’inadeguatezza, e quindi inventa le tecniche: poi, sull’abbrivio, l’uomo finisce per porsi delle domande sul posto che gli compete nell’ambito della natura, e appena comincia a rispondere a queste (ha iniziato a farlo Darwin, pochi anni dopo la nascita di Wilde) approda immancabilmente all’interrogativo intorno al significato dell’esistenza. In questo senso pensare è una malattia.

Fino a quando però le domande sono finalizzate alla sopravvivenza questo ultimo interrogativo non si pone. Sarebbe assurdo chiedersi che senso ha l’esistenza, prima di essersela bene o male garantita. Per questo “finché una cosa ci è utile o necessaria, o ci colpisce in qualche modo, nel dolore o nel piacere, o agisce fortemente sulle nostre simpatie, o fa parte vitale dell’ambiente in cui viviamo, si trova fuori della sfera appropriata dell’arte. Il materiale dell’arte dovrebbe esserci più o meno indifferente”. Wilde parla di arte, ma si riferisce più in generale a quella dimensione “superiore” alla quale l’uomo accede nel momento in cui si separa dalla naturalità. Ed è in questo significato più ampio che noi qui continueremo a intendere il termine. Si badi che Wilde non ha in mente alcuna trascendenza, alcuna “spiritualità”, almeno in senso religioso. Se fosse un filosofo sarebbe un materialista. Guarda con ironia al revival spiritualistico che caratterizza gli ultimi decenni dell’Ottocento, e che si traduce anche in una sorta di culto neopagano della natura, soprattutto nei paesi nordeuropei: “Se consideriamo la natura come la raccolta dei fenomeni esterni all’uomo, la gente scopre in essa soltanto quello che le reca. La natura da sola non ha niente da suggerire”. È un atteggiamento controcorrente, come del resto ci si poteva attendere da lui, e viene senz’altro enfatizzato anche per posa. Ma Wilde ne è molto più convinto di quanto saremmo portati a credere. Trovare nella natura la risposta al nostro bisogno di significato, o se vogliamo di consolazione, gli sembra una contraddizione in termini. Questo bisogno esiste proprio perché non siamo più, o non siamo soltanto, natura. Anche dopo Darwin, forse più che mai dopo Darwin, l’uomo rimane diverso dagli altri animali: quantomeno ha altre aspirazioni. Questo è un dato di fatto, e Wilde non vuole darne spiegazioni: parte da una evidenza, e cerca semmai di spiegarne le conseguenze.

Dunque: l’uomo recide il cordone ombelicale che lo teneva vincolato dalla natura nel momento in cui crea dei simboli. “L’arte comincia con la decorazione astratta, con opere puramente fantasiose e piacevoli, trattanti quanto è irreale e inesistente. Questo è il primo stadio”. I simboli non sono l’imitazione di oggetti naturali; sono già una riflessione sugli oggetti, comportano la scelta di quelli che sembrano i caratteri essenziali, quindi letteralmente un’astrazione. La capacità di astrarre fa sì che attraverso un simbolo non si indichi un singolo oggetto, ma vengano rappresentate tutte le possibili interpretazioni, e gli usi conseguenti, di quell’oggetto. Non solo: a livello più alto può coinvolgere tutti gli oggetti possibili. Un simbolo numerico, ad esempio, applicato agli animali evoca un branco, una mandria, uno stormo, un gregge, applicato agli umani una famiglia, una tribù, un popolo. Ma il simbolo va oltre: proprio perché non imita la realtà, ma astrae da essa, può rappresentare anche ciò che non c’è, o che non è alla portata dei nostri sensi.

I simboli non sono solo visivi: sono gli strumenti di ogni linguaggio. Parole, gesti, immagini. Proprio servendosi dei primi […] colui che per primo, senza essere uscito per la dura caccia, raccontò agli esterrefatti cavernicoli, nell’ora del tramonto, come aveva trascinato il megaterio fuori dalla purpurea tenebra della sua caverna di diaspro, o ucciso il mammut in singolar tenzone per riportarne le zanne dorate, non possiamo dirlo […] quale che fosse la sua razza o il suo nome, egli certamente fu il fondatore delle relazioni sociali. Egli è la base stessa della società civile […]”. L’invenzione della bugia è l’invenzione della socialità. Se la bugia viene illustrata e avvalorata da immagini, è l’invenzione delle arti decorative. Quindi, l’uomo comincia a popolare il mondo di simboli: la spiegazione che la natura non può dare viene inventata sovrapponendo ad un ordine naturale che segue leggi sue imperscrutabili degli schemi di lettura elaborati a misura delle nostre paure ed aspirazioni. Il mondo popolato di simboli è un mondo magico, perché i simboli si sottraggono, al contrario delle cose e dei fatti, alle leggi della natura, e possono essere ricombinati e accostati con i criteri più svariati.

In un secondo stadio, prosegue Wilde, “la vita, affascinata da questo nuovo prodigio, domanda di essere ammessa nel cerchio incantato. L’arte prende la vita come parte del proprio materiale grezzo, la ricrea, e la rimodella in forme nuove, è assolutamente indifferente al fatto, inventa, immagina, sogna, e mantiene fra se stessa e la realtà la barriera impenetrabile del bello stile, del trattamento decorativo o ideale”. Qui il concetto di arte sembra restringersi, a rappresentare davvero solo il campo della raffigurazione, plastica o pittorica. Ma in realtà abbraccia ogni aspetto dell’“artificio”, della ri-costruzione o ri-lettura del mondo. Intendo dire che il rimodellamento della vita non riguarda solo la sua rappresentazione; quest’ultima produce un influsso che va a modificare la vita stessa. È l’effetto reversivo dell’evoluzione umana, che si estende dall’autopercezione ad una percezione culturalmente mediata di ciò che ci circonda. Arruolando al proprio servizio la vita, l’arte crea “una razza di esseri totalmente nuovi, i cui dolori erano più terribili di qualunque dolore l’uomo avesse mai provato, le cui gioie erano più intense delle gioie dell’amante, che aveva l’ira dei titani e la calma degli dei, che aveva peccati mostruosi e meravigliosi, mostruose e meravigliose virtù”. In altre parole, l’arte crea dei tipi ideali che riassumono il meglio e il peggio degli uomini, ma che soprattutto offrono a questi ultimi parametri assoluti coi quali confrontarsi.

La mediazione culturale naturalmente differisce da uomo a uomo, ma è su grande scala che le differenze si cristallizzano: “L’intera storia delle arti decorative in Europa è la cronaca della lotta fra l’Orientalismo, con la sua franca ripulsa dell’imitazione, il suo amore della convenzione artistica, la sua avversione della rappresentazione puntuale di qualsiasi oggetto della natura, e il nostro spirito imitativo”. Nel primo caso “abbiamo avuto opere belle e fantasiose nelle quali gli oggetti visibili della vita sono trasformati in convenzioni artistiche, e le cose che la vita non ha, sono inventate e foggiate per il suo piacere”. Nel secondo, quello dell’Occidente, l’arte cessa di essere ri-creazione e diventa racconto. Aderisce al vero, alla “vita”, ma nel farlo elabora le convenzioni “linguistiche” attraverso le quali questa vita può essere riprodotta. Lo studio dei volumi, della luce, dei colori, l’adozione di una rappresentazione prospettica dello spazio e di una analitica del corpo e degli oggetti, educano lo sguardo: e non solo quello dello spettatore, ma quello del ricercatore stesso, che da artista si trasforma in scienziato. Credo che l’esemplificazione più lampante di questa trasformazione si possa trovare nel percorso che va da Piero della Francesca a Leonardo, proprio perché in entrambi convivono ancora i due aspetti. Poco alla volta “gli oggetti visibili della vita” non sono più percepiti attraverso le convenzioni artistiche, ma attraverso convenzioni matematiche: vengono ricondotti a numero, pondere et mensura.

E questo è già l’ingresso nel terzo stadio. “Il terzo stadio è quando la vita ha il sopravvento, e scaccia via l’arte, nel deserto. Questa è la vera decadenza, ed è di questo che soffriamo oggi”. Nel passaggio rinascimentale da un approccio magico-alchemico, che utilizza una simbologia “animata” ed autonoma, ad una “conoscenza” scientifica, che si avvale invece di una simbologia fredda e puramente strumentale (il simbolo è solo un indicatore), si impone la legge dei fatti. Galileo, Bacone e gli altri loro contemporanei sanciscono la dominanza dei fatti e della loro commensurabilità sulla fantasia (si pensi ad esempio alla traduzione dell’astrologia in astronomia). Ciò rende possibile uno sviluppo esponenziale delle scienze, che erodono sempre più il terreno dell’incognito sul quale la fantasia poteva essere coltivata. In sostanza prevale il valore d’uso, contro l’astrazione e l’estetizzazione. La scelta stessa dei temi da rappresentare, il passaggio dalle immagini sacre a quelle profane, le nature morte, la paesaggistica, il ritratto, viene imposta dall’evolversi delle realtà politiche, economiche e sociali, ma a sua volta condiziona assieme al modo di apparire anche quello d’essere di tali realtà, ribalta completamente l’assunto originario dell’arte: “I fatti stanno usurpando il dominio della fantasia. Il loro gelido tocco è su ogni cosa. Stanno involgarendo l’umanità. Il crudo commercialismo dell’America, il suo spirito materialista, la sua indifferenza per il lato poetico delle cose, e la sua mancanza di immaginazione e di ideali alti e irraggiungibili stanno involgarendo l’umanità”.

Lo sviluppo delle scienze, a sua volta, influenza le arti spingendo la ricerca espressiva verso un cul de sac. La direzione è infatti quella del realismo, che conduce ad un punto morto: i suoi limiti e la sua inutilità vengono sanciti a metà dell’Ottocento dalla nascita della fotografia (estrema conferma di un procedimento tecnico-scientifico che surroga quello artistico). Di questo Wilde non parla, ma è l’approdo implicito del suo ragionamento. La fotografia ritrae la realtà in tutta la sua crudezza e imperfezione, non la idealizza. È documento, non trasfigurazione. Allo stesso modo in cui lo è il romanzo realista o naturalista, alla Zola, per intenderci (e qui invece l’esteta vien fuori: «Nella letteratura vogliamo trovare distinzione, fascino, bellezza e forza fantastica. Non vogliamo essere straziati e disgustati dal resoconto delle gesta delle classi inferiori … La differenza tra un libro come “L’Assommoir” di Zola e “Les illusions perdues” di Balzac è la differenza tra il realismo senza fantasia e la realtà fantastica”»). Wilde, pur avendo in mente fenomeni come la pittura preraffaelita piuttosto che l’impressionismo, sembra già intuire nuovi percorsi, che torneranno a ridare dignità all’arte attraverso l’astrazione. Ciò che non può o non sa presagire è che il nuovo corso dell’astrazione, quello che sfocerà nell’astrattismo, non avrà più il compito di ricondurre ad unità, e quindi ad una certa qual comprensibilità, l’infinita varietà dell’essere, ma anche nelle espressioni più genuine, che durano lo spazio di un mattino prima di essere risucchiate nella logica di mercato e di ridursi ad autocitazione, si assumerà piuttosto un ruolo di denuncia, di distruzione delle certezze e delle convenzioni di sguardo, senza sostituire ad esse alcuna altra indicazione. Wilde non coglie nel segno, pertanto, quando afferma che “La società presto o tardi dovrà tornare alla sua guida perduta, al colto e affascinante mentitore”: o meglio, ci azzecca, ma è molto improbabile che il mentitore odierno corrisponda a quello colto e affascinante cui faceva riferimento.

Come immaginavo, la faccenda mi ha preso mano ed è scivolata verso una piega in apparenza poco coerente col discorso iniziale. Ma forse non è proprio così. Il percorso delineato da Wilde segue una strada un po’ particolare, ricchissima di suggestioni che io ho raccolto solo in infinitesima parte, ma non è comunque originale negli esiti, perché conduce agli stessi ai quali possiamo arrivare per cinquanta altre vie: ad un mondo reso sterile dalla mancanza di fantasia e di proposte di idealità. L’aspetto più interessante, almeno per quanto concerne il nostro argomento, sta in ciò che viene fuori a margine. Wilde afferma che pensare la vita in un certo modo significa già viverla in quel modo, fare delle scelte rispetto a ciò che ci interessa coglierne e ciò che invece escludiamo. Il clou del suo pensiero è il seguente: “La vita imita l’arte assai di più di quanto l’arte imiti la vita. Un grande artista inventa un tipo, e la vita tenta di copiarlo, di riprodurlo in forma popolare”.

Ciò che Wilde sostiene ha delle conseguenze straordinarie, che non vanno tuttavia nella direzione che lui sembra scorgere o indicare. Intendo dire che proprio la nostra peculiarità, ovvero la capacità di riflettere sulle cose e sui fatti, e di interpretarli secondo schemi che non sono quelli naturali, spinta oltre un certo livello finisce per far prevalere l’artificio sulla natura, addirittura per sostituirlo ad essa. Wilde scrive: “L’arte non va giudicata secondo alcun criterio esterno di somiglianza. È un velo, piuttosto che uno specchio. Ha fiori sconosciuti a qualsiasi foresta, uccelli che nessun bosco possiede. Fa e disfa molti mondi, e può tirar via la luna dal cielo con un filo scarlatto… può operare miracoli a piacere, e quando evoca mostri dal profondo, questi vengono. Può far fiorire i mandorli d’inverno, e mandare la neve sul grano maturo. Perché, che cosa è la natura? La natura non è una grande madre che ci ha partoriti. È la nostra creazione. È nel nostro cervello che prende vita. Le cose sono perché noi le vediamo, e quel che vediamo, e come lo vediamo, dipende dalle arti che ci hanno influenzati. Guardare una cosa è molto diverso dal vederla. Non si vede niente sinché non se ne è vista la bellezza. Allora, e soltanto allora, la cosa comincia ad esistere. Al momento attuale la gente vede delle nebbie non perché vi siano delle nebbie, ma perché poeti e pittori le hanno insegnato la misteriosa grazia di tali effetti. Può darsi che vi siano state nebbie per dei secoli a Londra. Arrivo a dire che vi furono. Ma nessuno le ha mai viste, e così noi non ne sappiamo niente. Non sono esistite, finché non le ha inventate l’arte”.

E questo è senz’altro vero, mi pare corrisponda a quanto andavo dicendo poco sopra. Il problema nasce però dal fatto che a creare i tipi, a inventare le nuove nebbie che ci impediscono di vedere come stanno realmente le cose o ce ne fanno vedere altre che non esistono, non è più l’arte quale la intendeva Wilde, ma il meccanismo subdolo e complesso di persuasione e di distorsione sul quale si reggono totalmente l’economia, la politica, la società. Ciò che un tempo faceva l’artista oggi lo fanno su scala ben più ampia il pubblicitario, il creatore di campagne promozionali o elettorali, l’opinionista politico, tutti coloro che attraverso l’imbonimento mediatico suggeriscono stili di vita e propugnano l’omologazione del pensiero. L’artista foggiava modelli ideali che costituivano una “vibrante protesta” contro il non-senso della vita: il pubblicitario, l’opinionista promuovono l’accettazione di una vita insensata, da riempire con lo stordimento consumistico e da svuotare di responsabilizzazione, conferendo ad altri la delega di inventarle un significato. La guida dello sguardo e della mente, la costruzione di consenso per ogni forma di potere, religioso o civile che fosse, era già implicita nel lavoro di Fidia come in quello degli architetti del gotico, nei pittori e negli scultori del Rinascimento come negli illustratori delle riviste dell’Ottocento: ma questo ruolo trovava il suo limite nella persistenza di una realtà naturale esterna che ancora dettava i ritmi quotidiani e stagionali del lavoro e degli scambi, le ritualità religiose o laiche, i regimi alimentari e le tipologie abitative, ecc; ancora si contrapponeva all’artificio e lo rendeva evidente. Anzi, era proprio questo confronto a creare quella linea di tensione tra l’essere e il poter essere che originava l’idealità.

La condizione odierna è ben diversa. La realtà non è trasfigurata, e quindi messa in discussione, nell’arte, ma spettacolarizzata nella sua banalità e imposta come possibilità unica (e in ciò è complice anche quel che oggi passa per arte). “Fidia e Prassitele – scrive Wilde – avversarono il realismo per ragioni puramente sociali. Sentirono che il realismo rende inevitabilmente brutte le persone”. Chissà cosa penserebbero oggi, di fronte all’“arte povera” e alla cultura del reality show.

Penso che questo sia il nocciolo, il punto nel quale alla fine tornano ad incontrarsi Twain e Osvaldo, Wilde e mio padre. Le spacconate di Osvaldo e le esagerazioni di mio padre rientravano in quella dimensione nella quale i mandorli possono fiorire d’inverno e la neve scendere sul grano maturo, e noi ne eravamo comunque consapevoli: non si pagava il biglietto, ma era come andare al cinema, assistere ad una sparatoria con Clint Eastwood che fa fuori quattro avversari con tre pallottole, poi uscire dal buio della sala e rientrare nel mondo vero. La catarsi si consumava attraverso lo humor o in scariche di adrenalina giustizialista, ma all’interno di una zona sia reale che mentale letteralmente sacra, ovvero recintata, separata. Esattamente come nella celebrazione religiosa, in un luogo e in tempo speciale l’inverosimile diventava verosimile: il vino si tramutava in sangue e le acacie crescevano in via Prè.

Questa separazione oggi è venuta meno. Attorno a noi non c’è più nulla che faccia risaltare per contrasto l’artificio. Ci muoviamo ormai indifferenti alla ciclicità dei giorni e delle stagioni. Annulliamo spazi e tempi viaggiando on line. Viviamo come fossimo sottratti alle leggi naturali: l’invecchiamento stesso e la morte vengono negati o occultati (è una forma di occultamento anche la bulimia mediatica di morti innaturali) e quando la natura torna a farsi valere, attraverso i grandi cataclismi, la sua furia è immediatamente riciclata in spettacolo. La play station e i social network hanno definitivamente fatta saltare la valvola salvavita, adescandoci ed educandoci al grande gioco interattivo che ha pervaso ed oggi domina totalmente anche la quotidianità: i rapporti, gli scambi, gli acquisti, i consumi, la partecipazione politica, spesso anche il lavoro, tutto avviene all’insegna del virtuale. E sotto questa insegna i confini si cancellano: nulla è più inverosimile, perché nulla è più vero.

L’arte antichissima di raccontar storie, risalente alla Bibbia e ad Omero, e prima ancora alle grotte di Lascaux e di Altamira, deve dunque congedarsi da un mondo che ha cancellata ogni distinzione tra gli spazi consacrati alla fantasia, al sogno, in definitiva all’utopia, e il dominio della realtà che sta al di qua della balaustra. L’ostracismo vale tanto per l’Arte con la maiuscola, quella di cui parla Wilde, quanto per gli artisti della frottola di cui parlo io. Nella Repubblica ideale, dice Platone, se un poeta o un artista si presenteranno alle porte cingeremo il loro capo con corone di fiori e offriremo loro il pane e il sale dell’ospitalità, dopodiché li pregheremo di accomodarsi altrove. Nella nostra, che ideale non è affatto, va loro ancor peggio. Sono rimpiazzati da patetici buffoni che si prestano a far da comparsa nel baraccone televisivo. Gli artisti genuini, se ancora ne esistono, non solo non vengono onorati, ma non ci si prende nemmeno la briga di respingerli. Sono assolutamente innocui. Un mondo nel quale tutto è artefatto, i corpi e le intelligenze vengono costruiti in laboratorio, le prestazioni atletiche e sessuali sono frutto di additivi, i deserti si riempiono di campi da golf, le pesche maturano in inverno, da cosa può ancora farsi stupire? Lo stupore stesso è stato sostituito dalla stupefazione chimica e dall’istupidimento mediatico.

Per questo ho forti dubbi che la società voglia “tornare alla sua guida perduta, al colto e affascinante mentitore”. Con buona pace di Wilde, non c’è più spazio per quello stile che lui identificava come forma impressa dall’artista o da una scuola artistica ad un’epoca, a partire da un modello comunque inarrivabile e da spostare in avanti ad ogni approssimarsi della realtà. Wilde scriveva che “Nessun grande artista vede le cose come sono nella realtà … I disegni fatti da Holbein degli uomini e delle donne della sua epoca ci colpiscono nel senso della loro assoluta realtà. Ma questo è semplicemente perché Holbein costrinse la vita ad accettare le sue condizioni, a mantenersi entro i suoi limiti, a riprodurre il suo tipo e ad apparire com’egli desiderò che apparisse”. Paradossalmente ciò che ai tempi di Holbein era l’espressione di uno stile oggi si risolve nel suo contrario. I ritratti di uomini e donne di Andy Warhol non pongono condizioni alla vita, semplicemente la certificano: ne prendono atto. La loro stessa serialità racconta di uomini e donne e scatolette di minestra fatte in serie: questa non è una denuncia o una proposta di modello: è la consacrazione del banale contemporaneo, che va a sostituire la speranza, la tensione verso l’idealità futura. Le cose come sono in realtà non le vede nessuno, e non certo perché siamo tutti artisti, ma perché non abbiamo né il tempo né la voglia di farlo. Con un futuro ridotto ad un presente esteso, di fronte alla cancellazione di ogni distanza, e quindi, assieme agli spazi, di ogni differenza, a cosa dovremmo tendere? Dobbiamo stordirci con quanto abbiamo, sopperire con la quantità delle cose e delle esperienze alla perdita della loro qualità e diversità.

Febbre, io qui t’invoco L’altro giorno passavo davanti al vecchio bar di Osvaldo. Pur essendo la vigilia di Pasqua c’erano solo tre gatti, due ragazzi e un mio coetaneo. Ho finto di interessarmi ai prezzi dei gelati per poter origliare qualche brandello di conversazione. Dico brandello non perché ci senta poco, ma perché la conversazione si svolgeva proprio a brandelli, intervallati da lunghe pause, mentre ciascuno continuava a smanettare sul suo smartphone. Ad un tratto uno dei ragazzi si è acceso: “Cavolo! Mi offrono ottocento messaggini a soli sei euro”. “Lascia stare, è una fregatura, sono solo dei contaballe. E poi, cosa te ne fai di ottocento messaggini?” ha ribattuto, dopo una ventina di secondi, il mio coetaneo. “Potrebbe sempre tirar giù un bosco di roveri” ho suggerito, mentre mi allontanavo.

Non credo abbia capito. Ma è giusto così.

 

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