Sulle tracce di Arnold Henry Savage Landor

di Paolo Repetto, 24 febbraio 2020 – vedi Album Sulle tracce di Arnold Henry Savage Landor

Sulle tracce di Arnold Henry Savage Landor copertinaUna volta esistevano personaggi di questo calibro: un po’ perché così ci nascevano, un po’ perché il mondo fino ad un secolo fa consentiva (o imponeva) di essere tali.  Di essere cioè veri viaggiatori, veri artisti, veri spiriti liberi, di inseguire la propria insaziabile curiosità solo muovendosi, possibilmente lenti, preferibilmente a piedi, e di vederlo davvero il mondo, e di ritrarlo da dentro.

Arnold Henry Savage Landor il mondo lo ho visto, e ritratto, praticamente tutto. Non aveva terraferma. Nato a Firenze (1865) in una famiglia inglese, si è formato sui libri di Verne e sui diari degli esploratori, ha coltivato la sua passione per la pittura negli studi di artisti affermati, ha cominciato a viaggiare giovanissimo in Europa e nei paesi nordafricani. A vent’anni varca l’oceano e per qualche tempo vive dell’attività di ritrattista negli Stati Uniti. Quindi attraversa il Pacifico per approdare in Giappone (1889), e anche qui si impone subito, viene chiamato addirittura a dipingere alla corte del Mikado: ma non è quel mondo a interessarlo. Trova invece i suoi soggetti ideali nell’isola di Hokkaido, tra gli Ainu. E ancora, in Corea (all’epoca praticamente sconosciuta agli europei), e poi in Cina e finalmente in Australia (1891), dove ritrae il primo ministro. Breve riposo in Inghilterra (mostra direttamente i suoi quadri alla regina Vittoria), poi nuovamente in Asia, nel Tibet “proibito”, dove viene catturato dai briganti e torturato. Riesce a scansarla per un pelo e torna in Cina, nel frattempo sconvolta dalla ribellione dei Boxers (1900): di lì in Russia, poi in Persia, in India e nelle Filippine (1901). Ancora negli Stati Uniti, e di qui nuovamente in Africa (in Abissinia fa un ritratto del Negus). Gli manca l’America Latina, ma rimedia subito: Mato Grosso e Rio delle Amazzoni (1911-12), canoa, mosquitos, serpenti, rapide. In Europa torna giusto a tempo per partecipare alla guerra (sul fronte italiano) e per distinguersi come progettista di armamenti avanzati (aerei e carri armati).

Alla fine del conflitto la salute non lo sorregge più. Rinuncia ai viaggi, fa vita semi-mondana tra Roma e Firenze, conosce (e dipinge) reali e diplomatici e attrici al tramonto. Tramonta anche lui, prima di toccare i sessant’anni, lasciando vivacissimi resoconti dei suoi viaggi (chissà perché, mai tradotti in italiano) e un enorme patrimonio iconografico, che ha però trovato scarso spazio nei musei, forse per le ridottissime dimensioni della maggior parte delle sue opere.

Landor riassume perfettamente le caratteristiche dei semi-irregolari del suo tempo. Condivide con Guido Boggiani l’amore per la pittura “documentaria”, per le esplorazioni e per l’etnologia (oltre ad un ironico disprezzo per D’Annunzio), con Albert Robida la passione per le macchine belliche futuristiche, e con l’alter ego di quest’ultimo, Saturnino Farandola, le avventure in ogni angolo del globo.

È coetaneo anche di Gorkji, di London e di Knut Hamsun, e a modo suo esprime il loro stesso spirito vagabondo. Lo fa naturalmente all’inglese, tenendosi in perfetto equilibrio malgrado poggi un piede sulla strada e l’altro sugli scaloni dell’alta società.

Anche nella pittura si muove controcorrente. Ignora tutti i fermenti impressionistici e post-impressionistici, non si cura di rivoluzioni tecniche ed estetiche. La pittura non è la sua vita. Non gli basterebbe, ha ben altro con cui riempirla. L’arte è uno strumento al servizio della sua curiosità, le dà corpo e la riassume. È antropologia per immagini, che si sovrappone ai racconti di viaggio e acquista poi una dignità autonoma. Landor affida la testimonianza agli occhi (e ai pennelli) anziché all’obiettivo, fissa figure, situazioni e ambienti sul legno delle tavolette anziché sulle lastre fotografiche. Può sembrare una scelta snobistica, in realtà è motivata proprio dall’equilibrio tra le sue passioni. Ed è una scelta che alla fine paga. Perché quelle immagini, a differenza di quelle fotografiche, non sono invecchiate col tempo. Gli Ainu di Landor sono nostri contemporanei, mentre quelli delle rarissime fotografie dell’epoca sono scomparsi da oltre un secolo. La sua arte è inattuale, ma inattuale non significa superata: significa mai attuale, ovvero sempre fuori dal tempo e dalle mode.

Che è quanto all’arte si dovrebbe chiedere.

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I colori di Franco Soldatini

di Fabrizio Rinaldi, 7 settembre 2019

I colori di Franco Soldatini copertinaDurante le mie ultime vacanze, mentre vagavo in auto per le colline toscane fra Siena e Follonica, sono approdato a quel che rimane dell’abbazia di San Galgano (prima metà del XIII secolo). Senza tetto, senza pavimento, senza tutto, rimane una magnifica manifattura gotica, e i molti visitatori vi trovano un rimando estetico ai ruderi diffusi che caratterizzano i paesaggi scozzesi o irlandesi. Qui però l’edificio è circondato dal grano, anziché dall’erba medica.

In quello che era lo scriptorium, dove i monaci cistercensi copiavano gli antichi e preziosi manoscritti, ora c’è la biglietteria dell’abbazia: mi è venuto spontaneo imprecare, sia contro l’uso fatto di un luogo che per me è davvero sacro, sia contro l’obbligo di pagare per vedere poco più di ciò che è visibile facendo un giro attorno all’edificio. Ovviamente la mia disposizione etica – avvalorata da una sana tirchieria – mi ha impedito di acquistare il biglietto.

Lo avrei pagato volentieri invece per vedere altri quadri come quelli esposti proprio lì, all’ingresso e del tutto ignorati dai visitatori dei ruderi: erano i dipinti di tal Franco Soldatini, detto “Il Cangialli”. Avrei acquistato sicuramente anche il catalogo, ma non ne esiste uno. Per ricavare questo Album ho dovuto digitalizzare le poche immagini dell’opuscolo informativo, perché su internet non c’è nulla, ma proprio nulla.

Un nulla che naturalmente ha fatto crescere la mia curiosità.

Soldatini era un semplice (aveva frequentato solo qualche anno delle elementari) e uno strambo (si perdeva a rimirare gli alberi invece di zappare per campare). Viveva in totale miseria, lavorando occasionalmente, ma facendosi regolarmente cacciare per scarso rendimento.

Ciò di cui non riusciva a fare a meno era prendere una matita, dei colori scadenti, un cartone e dipingere i paesaggi della sua terra, i castagni, le case: tutto questo in uno stile senza stile, perché non ne conosceva uno.

Non aveva mai visto mostre, probabilmente neppure cataloghi, non aveva un mentore da cui imparare e non era andato a Parigi per unirsi ai movimenti pittorici che stavano cambiando il modo di fare arte nel Novecento.

La sua scuola era ciò che vedeva intorno a sé, e riversava nelle sue opere una solitudine della quale probabilmente non percepiva neppure la profondità, perché era talmente sua che ne sentiva relativamente il peso.

Raffigurava spesso una piccola sagoma umana persa in paesaggi fitti di alberi e di colline, nei quali l’orizzonte si confondeva con il cielo. I colori predominanti erano quasi obbligati: il nero lo otteneva con una vernice procuratagli da un carrozziere, il grigio lo ricavava dalla cenere, il verde dallo smalto usato per colorare le persiane nella falegnameria del paese. Il tratto era veloce e non meno sicuro di quello di tanti artisti celebri.

Molto probabilmente ignorava i dipinti di Caspar David Friedrich, ma, sia pure con una tecnica elementare, ne ricalcava le orme.

Era sempre squattrinato, e per non sentirsi in debito ricambiava la generosità dei compaesani che gli offrivano un pasto o un aiuto con i suoi dipinti. Quelli che oggi sono appesi nei tinelli di molte case della zona. La sua arte ignorava le leggi di mercato, ne prescindeva: l’obiettivo non era vendere, ma dipingere, esprimersi nel modo che sentiva più congeniale. Senza saperlo, e probabilmente suo malgrado, Soldatini stava realizzando nel suo piccolo l’unica vera “rivoluzione” artistica. Infatti morì a settant’anni, nel 1997, senza una lira. Forse un giorno sarà riconosciuto come il Ligabue della Maremma, ma per il momento è ignorato sia dai critici che dagli appassionati.

Forse gli è andata bene così. Se fosse sopravvissuto fino ai giorni d’oggi avrebbe corso il rischio di essere “scoperto” ed esibito come un fenomeno da baraccone in tivù, o accompagnato a vendersi in quegli squallidi spettacoli a luci rosse che sono gli “eventi” culturali.

Io preferisco averlo conosciuto così: e in cambio di uno dei suoi quadretti fatti con pece e vernice scaduta gli avrei assicurato non un piatto di pasta, ma un posto fisso a tavola.


Collezione di licheni bottone

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Un pittore incolto nella terra di Maremma

di Fabrizio Rinaldi, 7 settembre 2019 – vedi Album I colori di Franco Soldatini

I colori di Franco Soldatini copertinaDurante le mie ultime vacanze, mentre vagavo in auto per le colline toscane fra Siena e Follonica, sono approdato a quel che rimane dell’abbazia di San Galgano (prima metà del XIII secolo). Senza tetto, senza pavimento, senza tutto, rimane una magnifica manifattura gotica, e i molti visitatori vi trovano un rimando estetico ai ruderi diffusi che caratterizzano i paesaggi scozzesi o irlandesi. Qui però l’edificio è circondato dal grano, anziché dall’erba medica.

In quello che era lo scriptorium, dove i monaci cistercensi copiavano gli antichi e preziosi manoscritti, ora c’è la biglietteria dell’abbazia: mi è venuto spontaneo imprecare, sia contro l’uso fatto di un luogo che per me è davvero sacro, sia contro l’obbligo di pagare per vedere poco più di ciò che è visibile facendo un giro attorno all’edificio. Ovviamente la mia disposizione etica – avvalorata da una sana tirchieria – mi ha impedito di acquistare il biglietto.

Lo avrei pagato volentieri invece per vedere altri quadri come quelli esposti proprio lì, all’ingresso e del tutto ignorati dai visitatori dei ruderi: erano i dipinti di tal Franco Soldatini, detto “Il Cangialli”. Avrei acquistato sicuramente anche il catalogo, ma non ne esiste uno. Per ricavare questo Album ho dovuto digitalizzare le poche immagini dell’opuscolo informativo, perché su internet non c’è nulla, ma proprio nulla.

Un nulla che naturalmente ha fatto crescere la mia curiosità.

Soldatini era un semplice (aveva frequentato solo qualche anno delle elementari) e uno strambo (si perdeva a rimirare gli alberi invece di zappare per campare). Viveva in totale miseria, lavorando occasionalmente, ma facendosi regolarmente cacciare per scarso rendimento.

Ciò di cui non riusciva a fare a meno era prendere una matita, dei colori scadenti, un cartone e dipingere i paesaggi della sua terra, i castagni, le case: tutto questo in uno stile senza stile, perché non ne conosceva uno.

Non aveva mai visto mostre, probabilmente neppure cataloghi, non aveva un mentore da cui imparare e non era andato a Parigi per unirsi ai movimenti pittorici che stavano cambiando il modo di fare arte nel Novecento.

La sua scuola era ciò che vedeva intorno a sé, e riversava nelle sue opere una solitudine della quale probabilmente non percepiva neppure la profondità, perché era talmente sua che ne sentiva relativamente il peso.

Raffigurava spesso una piccola sagoma umana persa in paesaggi fitti di alberi e di colline, nei quali l’orizzonte si confondeva con il cielo. I colori predominanti erano quasi obbligati: il nero lo otteneva con una vernice procuratagli da un carrozziere, il grigio lo ricavava dalla cenere, il verde dallo smalto usato per colorare le persiane nella falegnameria del paese. Il tratto era veloce e non meno sicuro di quello di tanti artisti celebri.

Molto probabilmente ignorava i dipinti di Caspar David Friedrich, ma, sia pure con una tecnica elementare, ne ricalcava le orme.

Era sempre squattrinato, e per non sentirsi in debito ricambiava la generosità dei compaesani che gli offrivano un pasto o un aiuto con i suoi dipinti. Quelli che oggi sono appesi nei tinelli di molte case della zona. La sua arte ignorava le leggi di mercato, ne prescindeva: l’obiettivo non era vendere, ma dipingere, esprimersi nel modo che sentiva più congeniale. Senza saperlo, e probabilmente suo malgrado, Soldatini stava realizzando nel suo piccolo l’unica vera “rivoluzione” artistica. Infatti morì a settant’anni, nel 1997, senza una lira. Forse un giorno sarà riconosciuto come il Ligabue della Maremma, ma per il momento è ignorato sia dai critici che dagli appassionati.

Forse gli è andata bene così. Se fosse sopravvissuto fino ai giorni d’oggi avrebbe corso il rischio di essere “scoperto” ed esibito come un fenomeno da baraccone in tivù, o accompagnato a vendersi in quegli squallidi spettacoli a luci rosse che sono gli “eventi” culturali.

Io preferisco averlo conosciuto così: e in cambio di uno dei suoi quadretti fatti con pece e vernice scaduta gli avrei assicurato non un piatto di pasta, ma un posto fisso a tavola.


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I colori dell’estremo Nord

di Paolo Repetto, 29 luglio 2019 – vedi Album Luci e ombre di Peder Balke

Luci e ombre di Peder Balke copertinaPeder Balke appartiene alla generazione successiva a quella di Friedrich (nasce nel 1804), e conosce la pittura di quest’ultimo a Dresda, attraverso Johan Christian Dahl. Ma è norvegese, e racconta nei suoi dipinti la parte più settentrionale del suo paese, quella più dura e selvaggia. Lo fa senza alcuna concessione al misticismo romantico, attraverso la rappresentazione quasi sgomenta di una natura che non cela alcun segreto e si mostra in tutta la sua terribile potenza. I suoi paesaggi, sia quelli marini che quelli montani, potrebbero benissimo fare da sfondo ai romanzi di Knut Hamsun: ma qui non ci sono superuomini, anzi, non si vedono nemmeno gli uomini, del tutto assenti o nascosti dentro le minuscole imbarcazioni in balìa delle onde, presumibilmente in preda al terrore. Balke non inventa gli scenari, anche se il suo stile può sembrare visionario: va a cercarseli di persona attraverso continue spedizioni nelle zone più sperdute e sconosciute della penisola scandinava, da Tromso a Capo Nord e al cuore della Finlandia. Poi li riversa su tela illuminandoli della luce nordica, traendone colori di volta in volta freddi e quasi lividi per i ghiacciai e pastosi e intensi per le spiagge e le rocce. A dominare è comunque un’atmosfera gelida: per questo i suoi dipinti, per quanto stupendi e moderni nella concezione, difficilmente saranno usati come poster per la promozione turistica.

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Il silenzio su Maggi

di Paolo Repetto, 20 dicembre 2018 vedi Album I colori di Cesare Maggi

I colori di Cesare Maggi copertinaPer fortuna esiste anche il silenzio, quello di e quello su Cesare Maggi (1881-1962). Un silenzio che ci consente di gustare ancora il piacere e la magia della scoperta.
Maggi non è un artista vissuto nell’ombra, nel 1912 a Venezia gli era stata dedicata una intera sala dell’Esposizione Internazionale: ma nell’ombra c’è tornato quasi subito per non aver imboccato nel primo dopoguerra la strada della sperimentazione. E meno male. Probabilmente avremmo avuto un anonimo gregario in più e avremmo perso uno splendido paesaggista. Per i suoi soggetti, e per come li interpreta, Maggi si candida ad essere il riferimento artistico ideale per i Viandanti delle Nebbie. Le montagne, la neve, il silenzio appunto, senza eccessive concessioni a tormenti spirituali interiori. La neve e le montagne come abbiamo sempre sognato di trovarle e di vederle: per come stanno lì, intatte, a offrirci un immediato senso del vivere, anziché a caricarci di altri interrogativi.
Non cercate sul web recensioni critiche sulla sua arte. Non ne troverete. Ci sono invece le sue opere, e tante. Qualcosa dovrà pur significare.

per sguardistorti

per l’Album

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I colori di Vilhelm Hammershøi

di Paolo Repetto, 11 dicembre 2018

I colori di Vilhelm Hammershoi copertinaLa vita e la pittura di Vilhelm Hammershøi (1864 –1916) sono state definite una “Sinfonia in Grigio”. Non accade niente nell’una come non è accaduto nell’altra. Ha studiato. Si è sposato. Ha abitato in un appartamento. Lo ha dipinto. Si è spostato in un altro. Dipinto anche quello. E questo è tutto.

Niente bambini. Nessuna guerra. Niente avventure. Le sue immagini raccontano silenzi senza fine e una sorvegliatissima malinconia (o forse disperazione), della quale non ci è dato conoscere alcuna ragione reale.

Il pittore sembra trascorrere il tempo a fissare tristemente le sue quattro mura danesi, riposizionando all’infinito i suoi riferimenti – il divano, il pianoforte, il vaso, la moglie. Quest’ultima è ritratta quasi sempre di spalle, nella quotidianità delle occupazioni domestiche o mentre guarda dalla finestra in lontananza. È forse un modo per esorcizzare lo scorrere del tempo, che all’interno di quella casa pare in effetti essersi fermato.

Il risultato è claustrofobico, ma troppo educato ed elegante, troppo sorprendentemente chiaro e preciso per essere drammatico. È invece sconcertante. E bellissimo.

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Le Sinfonie in Grigio di Hammershøi

di Paolo Repetto, 11 dicembre 2018 – vedi Album I colori di Vilhelm Hammershoi

I colori di Vilhelm Hammershoi copertinaLa vita e la pittura di Vilhelm Hammershøi (1864 –1916) sono state definite una “Sinfonia in Grigio”. Non accade niente nell’una come non è accaduto nell’altra. Ha studiato. Si è sposato. Ha abitato in un appartamento. Lo ha dipinto. Si è spostato in un altro. Dipinto anche quello. E questo è tutto.

Niente bambini. Nessuna guerra. Niente avventure. Le sue immagini raccontano silenzi senza fine e una sorvegliatissima malinconia (o forse disperazione), della quale non ci è dato conoscere alcuna ragione reale.

Il pittore sembra trascorrere il tempo a fissare tristemente le sue quattro mura danesi, riposizionando all’infinito i suoi riferimenti – il divano, il pianoforte, il vaso, la moglie. Quest’ultima è ritratta quasi sempre di spalle, nella quotidianità delle occupazioni domestiche o mentre guarda dalla finestra in lontananza. È forse un modo per esorcizzare lo scorrere del tempo, che all’interno di quella casa pare in effetti essersi fermato.

Il risultato è claustrofobico, ma troppo educato ed elegante, troppo sorprendentemente chiaro e preciso per essere drammatico. È invece sconcertante. E bellissimo.



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Dell’arte come esemplarità

di Paolo Repetto, 2 maggio 2018

28 aprile 2018

bentrovato. sarò brevissimo. facendo seguito a quanto anticipato telefonicamente, sarebbe mia intenzione organizzare una mostra, non troppo convenzionale, avente come tema il dolore (ovviamente nelle molteplici accezioni e sfumature). Alcuni lavori sono già esistenti, altri in fase di realizzazione … e di condivisione … critica. Se a te facesse piacere sarei lieto di averti come compagno di avventura nelle vesti che tu ritieni più consone.

Ti allego il minicatalogo che ha realizzato mio figlio in occasione della mostra Artevicenza 2018 alla quale ho partecipato, confidando in un tuo contributo critico e, perché no, in un incoraggiamento (dato il momento …). Ti saluto e ti auguro un buon primo maggio. Roberto

Carissimo Roberto,

ho letto la tua mail e ho visto il catalogo, e stasera riesco finalmente a risponderti con un po’ di calma. Se ho capito bene gradiresti un mio coinvolgimento “critico” nell’iniziativa che stai varando. Sono senz’altro lusingato dall’offerta, ma devo manifestarti alcune perplessità, che non riguardano il merito delle tue opere, ma qualcosa di molto più complesso che sta loro alle spalle.

Da quello che ho visto, tu interpreti l’arte come una forma di testimonianza e di denuncia. Uno strumento per scuotere e svegliare le coscienze, per mantenerle vive e vigili di fronte al male del mondo. Non è un caso che il tema della tua ricerca sia il dolore. Tutto questo nelle intenzioni va benissimo. Ma, al di là della tua personalissima presa ed espressione di coscienza, che naturalmente ha comunque un valore di per sé, ritieni che negli altri possa sortire qualche effetto? E, ciò che soprattutto mi preme, che sia questo il senso dell’arte?

Io qualche dubbio lo avrei. Intanto, sugli effetti. Tutta l’arte contemporanea (la faccio iniziare dall’Espressionismo, ma volendo si può risalire anche un po’ indietro, agli impressionisti) si propone come arte di denuncia. In un primo momento solo dei limiti del nostro sguardo, poi dell’indifferenza o del sonno della nostra coscienza. Si è tradotta quindi in una operazione continua di avanguardia, il che se ci pensi bene è un controsenso, è l’equivalente di quella immagine manzoniana per cui se tutti si alzano in punta di piedi per vedere meglio è come se tutti rimanessero coi talloni a terra. Le avanguardie sono tali solo se dietro arriva il grosso: un esercito di sole avanguardie è un assurdo. Può scompigliare, se tutto va bene, momentaneamente il nemico. Se tutto va bene, dicevo: perché c’è anche il rischio che le avanguardie si disperdano nella loro fuga in avanti, e finiscano per fare una loro guerra sterile, diventando fini a se stesse e autoreferenziali. Soprattutto quando intervengono altri fattori, che nel nostro caso possono essere ad esempio la subordinazione alle regole di un mercato multiforme o la presenza di altre tecniche di produzione o di modalità d’uso dell’immagine che hanno un impatto ben maggiore.

Mi spiego meglio. Tu hai scelto come tema il dolore. Scelta lodevolissima, ce n’è tanto nel mondo e non ne abbiamo mai sufficiente coscienza. Per parlarne, per indurre alla riflessione, hai in mente una mostra, che è comunque un evento, e come tale rientra nel circuito di una serie infinita di eventi, molti dei quali peraltro incentrati sullo stesso tema (esiste, ho scoperto, anche un festival della disperazione). Non dico che ne fai biecamente “spettacolo” come nei salotti della tivù pomeridiana, o nelle spregevoli pubblicità delle fondazioni caritative: anzi, l’intento sarebbe esattamente l’opposto, sarebbe quello di incidere con un segno che non sia leggero e ruffiano, che urtichi magari chi lo vede e gli imponga di grattarsi l’anima attorno alla puntura. Ma quale pensi sia, in definitiva, il risultato? Siamo talmente sommersi da immagini e da speculazioni sul dolore, così come, allo stesso modo, sulle ferite all’ambiente, sulla violenza dilagante, sull’imbecillità trionfante, da esserci ormai assuefatti: e in più, anche quando rimaniamo consapevoli che tutta questa bruttura esiste realmente, che non è solo un ingrediente morboso per giochini virtuali, sappiamo che ci viene proposta attraverso le regole di un mercato, che viene trattata e commercializzata come un qualsiasi prodotto industriale da consumarsi alla veloce. Qualsiasi “evento”, mostra, festival, convegno di premi Nobel o sagra paesana, è uno scaffale da supermarket, allo stesso modo di una trasmissione televisiva o di un sito sul web, indipendentemente dal fatto che la merce esposta rechi un’etichetta col prezzo o meno.

Aspetta a sbuffare. So di dire cose ovvie, ma forse meno ovvia è la direzione verso la quale vado a parare. E comunque, a questo punto sarebbero legittime almeno un paio di tue obiezioni. Le anticipo io, così sgombriamo il terreno da fraintendimenti e arriviamo poi al punto chiave. La prima obiezione riguarda il fatto che l’arte è inserita da sempre, e non solo da oggi, in un circuito commerciale. Lo era ai tempi di Fidia, e prima ancora, così come lo è stata nel Rinascimento e in ogni altra epoca. È verissimo: l’artista ha sempre risposto alle richieste di committenti, fossero la chiesa o i potenti o i benestanti di turno. Forse oggi è cambiato solo il meccanismo, per cui è ormai l’offerta a condizionare la domanda, e ciò rende l’artista in apparenza più libero. Ma in realtà lo rende solo superfluo. Un tempo la funzione dell’artista era cruciale: era l’unico produttore di immagini, e quelle immagini avevano un potere comunicativo e condizionante immenso, quale che fosse la causa che promuovevano. Oggi la produzione di immagini è alla portata di tutti, e il moltiplicarsi di queste ultime ne cancella paradossalmente il peso.

Non solo: un tempo quelle immagini, proprio per lo scopo al quale erano subordinate, dovevano essere “accattivanti”. Dovevano piacere, prima e piuttosto che far pensare: tanto meglio funzionavano quanto più erano esteticamente gradevoli, ovvero accettabili rispetto al senso comune diffuso del “bello”. Persino quelle orrifiche, gli inferni di Bosch o i giudizi universali, giocavano sulla bellezza del contrappasso, dell’assurdo conclamato e speculare rispetto a quel senso comune. Erano comunque inserite in un gioco equilibrato di specchi, in trittici che risolvevano il male o la meschinità del reale entro una superiore armonia celeste. Alcune di quelle immagini finivano però per trascendere gli scopi della committenza, e qualche volta persino gli intenti dell’autore, per assumere e per trasmettere un significato che andava ben oltre le contingenze politiche e religiose e il sottofondo culturale nel quale erano nate. Per motivi diversi, ma tutti riconducibili poi ad uno soltanto, quelle immagini testimoniavano l’esistenza nell’animo degli uomini di una aspettativa di bellezza che vinceva il trascorrere del tempo e dei gusti. E su questo tornerò.

Passo invece alla seconda obiezione, che riguarda lo specifico della modalità espressiva. È chiaro, siamo assuefatti alle istantanee dell’orrore rubate dai reporter di guerra, ai documentari sulla miseria, sulla sofferenza, sull’ingiustizia, sulla violenza, sulla catastrofe ambientale al punto da riuscirne a volte persino infastiditi. Ma la pittura racconta in modo diverso: quella come la tua richiede ad esempio uno sforzo di decodificazione, di interpretazione, insomma, una complicità: non dovrebbe avere a che vedere con l’assuefazione alle immagini. Dovrebbe giocare sullo “scandalo” non dei contenuti, ma delle forme in cui questi contenuti vengono suggeriti. Di qui Burri e Manzoni, e le performance sadiche della Biennale o le “provocazioni” di Documenta, insomma, tutta quella roba li, concettuale o concettuosa o semplice paccottiglia, di cui si è riempito tutto il secondo Novecento. Ebbene, credi che qualcuno si scandalizzi ancora? Quando poi, quotidianamente, la realtà va ben oltre ogni possibile e pensabile provocazione, oltre ogni paventabile e profetizzabile orrore?

Questo a mio giudizio vale, pur con tutti i dovuti distinguo, anche per la tua scelta espressiva. Le tue piccole continue tracce ematiche escono sconfitte dalla quantità industriale di sangue sbattuto in faccia allo spettatore in una qualsiasi sequenza di un telefilm proposto all’ora dei pasti. D’accordo, il contesto è ben diverso, dovrebbero andare a contrapporsi proprio a quella esibizione spettacolare, grottesca e banalizzante del tragico: ma, non avertela a male, non è così. Non lo è più. Temo che le tue opere saranno digerite senza difficoltà alcuna da stomaci assuefatti a ben altro, e che non si andrà oltre il “mi piace”, il “non mi piace” o il “che cavolo mi rappresenta?”.

E questo ci porta al dunque. Non vorrei essere frainteso. Non ti sto dicendo di lasciar perdere e di dedicarti ad altro (l’ho fatto con un tuo compagno, si, proprio lui, Mirco, tanti anni fa, e ancora oggi ironicamente me lo rinfaccia – ma io rimango convinto di quel che dicevo). Sto semplicemente sostenendo che per me l’arte, oggi più che mai, dovrebbe tornare al suo vecchio ruolo. Che è poi quello di testimoniare la possibilità della bellezza. L’arte è (dovrebbe essere) il regno della libertà, quindi entro i suoi confini ciascuno dovrebbe sentirsi libero di testimoniare ciò che vuole (quali siano, e se ci siano, questi confini, è un discorso troppo complicato per lo spazio di una lettera: sappi comunque che per me esistono, anche se non seguono affatto le linee tracciate dalla critica ufficiale). Ma si è liberi solo quando si possiedono i mezzi, ovvero le competenze, che consentano una scelta vera, e quando si ha un’idea di cosa fare della propria libertà. Bene: le competenze tu le hai. Hai sensibilità, ha una cultura artistica alle spalle, hai padronanza tecnica. Puoi scegliere di fare ciò che vuoi: e dai anche l’impressione di saperlo, quello che vuoi.

Ma qui, se me lo consenti, mi inserisco io, che ho scelto un altro ruolo, quello in cui mi hai conosciuto, di insegnante “pungolatore”: e ti suggerisco di alzare lo sguardo da terra, dove certamente non puoi vedere altro che fango e polvere e tracce di sangue, e di provare a guardare ad altezza d’uomo, o magari anche un po’ più in su (ma non troppo, perché allora l’uomo lo perdi di vista). Cosa rimane di tutta la produzione artistica del passato? O meglio, cosa percepiamo come “artistico”, che nel senso comune vale tout court come “bello”, al di là del condizionamento dei canoni culturali entro i quali siamo stati educati, o delle particolari sfumature di gusto con le quali ogni epoca colora la sua percezione? Perché rimango affascinato nella stessa misura, anche se non allo stesso modo, da una statua di Prassitele, da un Budda thailandese o da un totem degli indiani Abenaki? Perché credo esista un “gusto” universale, una idea “originaria” di bellezza comune a tutti gli uomini, che è stata ed è declinata in varie maniere, ma è comunque immediatamente (cioè senza mediazioni) percepibile, prima e a dispetto di qualsiasi analisi. È la stessa idea di bellezza che mi pervade fino allo struggimento davanti ad uno stupendo scenario naturale, sia esso il mare o un deserto o una vallata alpina, e che ha indotto lo stesso sentimento probabilmente già nei primi sapiens. Questa idea esiste, a dispetto di tutto il relativismo dei valori estetici e il decostruzionismo e il postmodernismo predicati negli ultimi decenni. Potrei persino cercare di spiegarla (è fatto molto bene in un libro che ho letto di recente, Una bellissima domanda, di Frank Wilczec) chiamando in causa una disposizione biologica per certi equilibri cromatici o volumetrici, per certi rapporti di tonalità sonore, per certe combinazioni chimiche di sapori o odori, ecc… Ma mi basta sapere che esiste, che ha a che fare con l’equilibrio e l’armonia, e ci dice che noi proprio quello vorremmo. Questo desiderio, questo struggimento, la sensazione che ci stiamo perdendo qualcosa di meraviglioso, giustamente connaturata al nostro status di esseri transitori, ci suggeriscono una direzione. Vedere, riconoscere, amare il bello, ci stimola a raggiungerlo, a realizzarlo a difenderlo. Diventa un valore etico.

Questo credo sia lo scopo dell’arte (non necessariamente quello degli artisti, che possono anche perseguirlo inconsapevolmente, mentre credono di essere alla ricerca d’altro): far intravvedere un mondo migliore, delle alternative a ciò che in questo, in quello reale, non funziona. A documentare l’orrore, il negativo, ci pensano già i telegiornali e tutti i loro corollari. Anzi, l’orrore “sono” i telegiornali. E chi vuole coglierlo non ha bisogno, a mio parere, di essere costretto alla riflessione. Dovrebbe bastargli guardarsi attorno. L’arte deve invece parlarmi d’altro. E quando è davvero tale, lo fa anche l’arte contemporanea. Non è necessario scomodare Raffaello o il beato Angelico. In una composizione geometrica di Mondrian i colori sono distribuiti secondo una perfetta proporzionalità di quello che potremmo chiamare il loro peso specifico. Ne consegue una sensazione di equilibrio che appaga il mio occhio, ma non addormenta la mia coscienza. Crea un parametro ideale al quale rapportare tutta la realtà che sta fuori, e che mi consente di cogliere più evidenti, e meno tollerabili, gli squilibri. Kandinsky getta poi una pietra sulla composizione, e i colori schizzano sulla tela da tutte le parti: ma il loro rapporto “quantitativo”, il loro equilibrio, rimane lo stesso, e io lo percepisco. Il che significa che quando poi guardo al mondo che mi circonda non pretenderò che i colori siano divisi da linee, muri, confini, intruppati negli stessi poligoni, ma solo che siano distribuiti in maniera armonica.

Sto parlando di una tensione verso l’ideale che un tempo si chiamava utopia, e che oggi non abbiamo più il coraggio di chiamare così per l’abuso e lo strazio che del termine è stato fatto. Ecco, l’arte per me deve essere la garante di questa tensione, deve fare si che non venga mai meno, e che conservi al tempo stesso la consapevolezza di essere sogno, perché non si trasformi in incubo. Deve raccontare la bellezza in ogni sua possibile manifestazione, per non consentire a che ci rassegniamo a perderla. Vedi, sarò sacrilego, ma non credo affatto che Guernica sia il miglior manifesto possibile contro gli orrori della guerra (al di là del fatto che nemmeno un decimo di coloro che lo conoscono, che l’hanno visto almeno una volta, sa a che guerra e a che episodio si riferisca). Credo invece che se abituassimo sin dalla culla i nostri pargoletti a conoscere e riconoscere il Bello (pensa alle illustrazioni di Dulac o di Rackam per i libri di fiabe, o di Doré per il Don Chisciotte; pensa ai film di John Ford) e arginassimo un po’ i danni creati dal cinema, dalla televisione, da internet, dalle visite scolastiche al Parlamento, opponendo loro una “estetica positiva”, una estetica dell’esemplarità, ne faremmo degli esseri felicemente disadatti. E il manifesto migliore contro la guerra diverrebbe la Primavera del Botticelli. Il dolore lo conosceranno, purtroppo per loro, molto presto. Forse dovremmo offrire degli spiragli di idealità, per affrontarlo.

Ti renderai conto, a questo punto, che i margini per un mio “intervento critico” rispetto alla tua opera sono piuttosto ridotti. E non solo rispetto alla tua opera, ma a tutto ciò cui oggi è riconosciuto lo statuto artistico, anche al netto delle operazioni più sfacciatamente commerciali o della paccottiglia contrabbandata dalle gallerie. Ciò non significa affatto che non sia interessato a discuterne: ma sulle mie convinzioni sono rigido come i Cinque stelle. Mi auguro comunque che il nostro dialogo non si interrompa qui: una delle forme più alte di bellezza è rappresentata dai dialoghi di Platone, dove si, è vero, tutti in realtà sono già d’accordo sin dall’inizio, ma le argomentazioni con le quali si raggiunge e si giustifica questo accordo rimangono affascinanti. In scala (molto) ridotta, questo può valere per qualsiasi dibattito.

A presto, Paolo

 

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La semplice arte del colore

Sergio Fava I colori e le forme - Copertinadi Paolo Repetto, 2009, dall’Album “Sergio Fava. I colori delle forme

Parto dal catalogo. L’approccio non è molto ortodosso, ma ho le mie ragioni, e poi immagino che poche cose lo saranno in questo mio intervento: quindi, tanto vale. Intendiamoci: la mostra l’ho visitata, ho ammirato le opere dal vivo e ne ho ricavato un’impressione forte. Forse avrei potuto lavorarci a caldo, giocare con quella che Benjamin chiamava “l’aura” e con le suggestioni dell’immediatezza: ma non è il mio mestiere, le suggestioni non le so trasmettere e in fondo preferisco tenerle per me. Per questo ho scelto di lasciarle decantare per qualche giorno e di verificarle poi, sfogliando il catalogo, sfidando quell’effetto “farfalla sotto vetro” che ogni riproduzione, anche la più perfetta, induce.

Funziona. L’impressione è confermata, vince la prova della distanza fisica dall’opera: in più ora sono in grado di andare oltre la pura sensazione, di ragionarci sopra. Il problema sarà a questo punto quello di tenere in riga le idee; e qui, conoscendomi, non garantisco nulla.

La prima riflessione riguarda proprio il metodo, cioè la scelta di una “lettura” meditata. È curioso, perché rispetto alla dimensione artistica (in particolare alle arti figurative) mi sono quasi sempre limitato all’impatto emotivo – del tipo, per capirci, mi piace/non mi piace. È anche piuttosto spiazzante, perché proprio quell’atteggiamento, giustificato da una oggettiva povertà di strumenti critici ma anche un po’ compiaciuto, mi ha consentito sinora di sospendere il giudizio rispetto a ogni espressione o tendenza dell’arte contemporanea e di lasciare libero corso alle reazioni emotive (non lo capisco, ma mi piace): e soprattutto di coltivare in pace una elementare passione per il calligrafismo (cose tipo i fumetti di Toppi, gli illustratori fine ottocento/primi novecento, Hokusai e gli artisti cinesi e giapponesi) e la pittura di paesaggio (quella ottocentesca, nordica e di montagna). Niente di impegnativo, tutto filava chiaro e semplice.

Adesso, invece, davanti alle riproduzioni dei dipinti di Sergio Fava mi rendo conto di non poter liquidare come un effetto epidermico la particolare sintonia che ho avvertita da subito. Queste immagini, il ripetersi delle emozioni che avevo provato nel visitare la mostra, mi costringono ad ammettere che il mio rapporto con l’arte non è poi così spregiudicato, che al contrario è condizionato da modelli interpretativi quantomeno complessi. Insomma, non è così vero che un’opera “mi piace e basta”. In realtà “mi piace, perché …”, e quel perché, una volta portato allo scoperto, può riservare sorprese, fare a cazzotti con la pretesa naïveté. Nel contesto di questa chiacchierata il problema si porrà rispetto alle tendenze moderne e contemporanee, dall’astrattismo all’informale; ma avrebbe senso anche procedere a ritroso e verificare ad esempio perché mi piacciono i fiamminghi del cinquecento e non quelli di un secolo dopo. Magari poi la contraddizione tra impatto immediato e rivisitazione ragionata è più apparente che reale, magari non c’è. Questa mi pare un’ottima occasione per verificarlo.

Se ho idee alquanto approssimative sull’arte, ne ho invece alcune ben definite riguardo la storia. Credo che la “Storia” per eccellenza sia quella naturale, e che ogni aspetto di quella che potremmo definire storia culturale, ovvero storia della specie umana, cioè quello economico, quello politico, quello sociale, tutti gli ambiti insomma nei quali si può riconoscere una espressione specifica dell’uomo, compreso quello artistico, ne seguano il modello evolutivo. Il che può sembrare lapalissiano, ma ha invece un risvolto piuttosto ereticale. Significa infatti non accettare il presupposto sotteso a tutte le ideologie degli ultimi tre o quattro secoli e alle concezioni religiose di sempre, e anzi, fondante delle une e delle altre, che esista una cesura netta tra storia culturale e storia naturale; che dove comincia l’una abbia termine l’altra e che l’uomo sia diventato, o sia sempre stato, a seconda dei casi, qualcosa d’altro rispetto alla natura. In altre parole: non ho dubbi che la “cultura” sia un prodotto solo umano, talmente particolare e potente da condizionare per un effetto reversivo la stessa evoluzione naturale: ma sono anche convinto che i suoi meccanismi di innesco e di sviluppo siano né più né meno gli stessi che determinano il percorso naturale.

Riassumo per chiarezza il funzionamento di quest’ultimo. Il processo evolutivo (dove evoluzione non significa perfezionamento e nemmeno miglioramento, ma semplicemente passaggio più o meno graduale da una forma all’altra) della storia naturale si dispiega attraverso mutazioni e adattamenti. In sostanza, all’interno di una specie compaiono ogni tanto individui che per particolari combinazioni cromosomiche presentano caratteri nuovi. Tali caratteri possono essere appunto evolutivi, nel senso che aprono all’individuo che ne è portatore nuove chanches di sopravvivenza, quindi maggiori opportunità di riprodursi, e finiscono col tempo per imporsi: oppure, e questo avviene nella maggior parte dei casi, sono recessivi, cioè riducono le potenzialità di sopravvivere e di riprodursi di quell’individuo, quindi col tempo scompaiono. Dopo la comparsa di ogni nuovo carattere evolutivo c’è in genere un lungo periodo di adattamento, nel corso del quale appunto quel carattere si trasmette e si afferma (non sempre: qualche volta anche quello che sembrava costituire un vantaggio adattivo può rivelarsi solo temporaneo). L’adattamento è quindi la fase di normalizzazione della novità. Quella fase in cui la novità viene assimilata, sanata da eventuali controindicazioni o effetti collaterali, e diventa poco alla volta un carattere comune.

Questo processo, come dicevo, vale per la cultura allo stesso modo che per la natura. Nel processo culturale, nel nostro caso in quello artistico, assistiamo a momenti di rottura, di introduzione della novità, che si alternano ad altri di assimilazione e ricomposizione. Portatori del nuovo sono anche qui individui non conformi, dotati di caratteristiche anomale, che ricombinano in modo diverso il patrimonio di saperi e di abilità ereditato. Nella cultura questa anomalia genetica si chiama genialità, quando è evolutiva, mentre quando è recessiva, e accade molto più spesso, si chiama idiozia. Sempre di “geni” comunque si tratta.

Ora, è normale che la percezione di un processo focalizzi anzitutto i momenti di novità, di rottura, perché sono appunto quelli più visibili, caratterizzati da un movimento più evidente: ma questo non significa che si possano liquidare quelli dell’assimilazione come tempi morti, momenti negativi di stasi. Invece di norma accade proprio questo. Prendiamo come esempio il manierismo. La denominazione stessa ha una valenza negativa, rimanda all’idea di qualcosa di vuoto ed inutile, che non apporta alcunché di nuovo: è difficile che ci venga in mente che un fenomeno del genere è comunque importante, perché testimonia della diffusione della novità, della sua consacrazione come carattere adattivo. Anche i più recenti tentativi di recuperarlo ad una maggiore dignità artistica viaggiano tutti nella direzione dell’ “eppur si muove”, di una sua costrizione stiracchiata ed improbabile nella categoria della novità (e questo al di là del fatto che rientrino in una campagna di “valorizzazione” molto prosaica, alla Sgarbi per intenderci, con un occhio o forse tutti e due al mercato e al nuovo business delle mostre “evento”).

Da dove nasce questa ossessione del cambiamento? Perché non ci accontentiamo di leggere il fenomeno e di riconoscergli significato per quello che è, un assestamento, una condivisione sempre più allargata delle novità introdotte da pochi mutanti? Ragionando all’ingrosso direi che a indurci ad assumere come valore assoluto la novità è una concezione romantica dell’arte, discendente da quella concezione “romantica” della vita nella sua totalità di cui siamo da almeno due secoli totalmente impregnati, e che si manifesta, oggi più che mai, con l’anelito all’innovazione costante, alla velocità. Il nostro gusto è educato ormai ad inseguire costantemente il nuovo, o ciò che viene contrabbandato per tale; ma inseguire il nuovo significa di norma muoversi solo orizzontalmente, in velocità e in superficie. Significa anche perdere di vista quel paradigma naturale in base al quale solo una parte infinitesima delle mutazioni ha valore evolutivo, mentre tutto il resto è spazzatura genetica. (Non sarebbe male, invece, tenerlo ben presente: mi pare attagliarsi perfettamente, soprattutto oggi, al campo dell’arte.)

In sostanza abbiamo maturato la convinzione (che oggi si è tradotta in convenzione) che l’arte, ma in genere ogni espressione dell’umano che voglia dirsi “significativa”, debba avere a che fare con la discontinuità, vuoi che l’annunci, la produca o ne dia testimonianza. Ebbene, non è affatto così, e comunque non lo è sempre stato. Non dimentichiamo che sino a duecento anni fa il termine rivoluzione designava un movimento a ritroso, e chi introduceva un cambiamento si premurava per prima cosa di dimostrare che non era tale. L’ideale era semmai quello della restauratio. Ora, assumere a parametro della rilevanza artistica il coefficiente di novità significa scambiare il mezzo per il fine. Non è detto che ci sia un fine nell’arte, così come non c’è nell’evoluzione. Ma senz’altro ci sono dei risultati, e se il parametro fosse quello i vertici dell’espressione artistica sarebbero toccati dalle avanguardie, mentre persino i miei studenti sanno che nella stragrande maggioranza dei casi la rottura prodotta dalle avanguardie non si concretizza in una produzione di grande livello, e che l’importanza di queste ultime è connessa piuttosto al loro ruolo “storico” che ad un intrinseco “valore” artistico (non ci si dovrebbe esprimere in questi termini, probabilmente il “valore artistico intrinseco” non esiste, ma io rivendico la mia libertà di profano e credo che la semplificazione in molti casi aiuti a capire).

Le conseguenze dell’atteggiamento “romantico” sono facilmente intuibili. Si determina in primo luogo un paradossale fraintendimento dei concetti di “facilità” e di “originalità” rispetto all’opera d’arte. L’incondizionata riverenza per la novità ci sgrava della responsabilità di prendere partito, rende più comodo arrendersi ad un’opera di difficile interpretazione (ma anche produrla), purché “originale” nel linguaggio o nei materiali, che proprio come tale si pone in una sorta di zona franca, che fermarsi ad analizzare ciò che sembra scontato, ma qualche volta non lo è. Di fatto risulta assai più impegnativo apprezzare la scelta di un artista di percorrere strade già battute, ma con spirito e con occhi “originali. È più difficile perché per distinguere tra chi dice cose vecchie, o non dice assolutamente niente, con parole nuove e chi dice cose nuove con parole già usate occorre possedere una dimestichezza col linguaggio (i criteri di giudizio) e una capacità di discernimento delle cose (i valori di riferimento) che vanno pazientemente educate. La velocità non si sposa affatto con la paziente educazione, e questi strumenti di lettura rischiamo di perderli o li abbiamo già perduti.

Il venir meno di criteri e di valori conduce inevitabilmente ad una nuova forma di relativismo estetico: non più quello primitivo, e tutto sommato genuino, riassunto in “è bello ciò che piace”, ma quello prodotto dagli impianti di riciclaggio del postmoderno, quello del “nulla è oggettivamente bello (o vero), ma tutto può diventare interessante (e commestibile) – se noi decidiamo che lo sia”. Vale a dire, non esiste un canone estetico universale, in qualche misura connesso ad una oggettiva, biologica disposizione umana: il gusto è culturalmente determinato, condizionato dalla storia politica, sociale, economica, ma non da quella naturale. E, tra parentesi, il “noi” non sta ad indicare “tutti noi”, ma si riferisce essenzialmente alla confraternita degli interpreti e dei critici. Ora, pur senza ignorare che esistano dei capolavori di interpretazione della dimensione artistica, delle analisi che rivoltano opere e autori e correnti ed intere epoche come calzini e ne propongono aspetti rivelatori e assolutamente stimolanti, nutro una profonda diffidenza per la cosiddetta critica militante. Ho la convinzione che il barnum del postmoderno e delle trans e post avanguardie miri in fondo proprio a snaturare il concetto di gusto, negandone le invarianze biologiche e riducendolo ad una combinazione transitoria di fattori sociali e culturali. Il che, senza mezzi termini, significa “rieducare” alla cambogiana l’inclinazione estetica, renderla sempre più docile ad una manipolazione e ad uno sfruttamento gestiti in combutta dai diversi “addetti al settore”, critici, mercanti e pataccari vari (le telepromozioni “d’arte” sono solo l’aspetto più pacchiano, ma forse anche il più divertente e rivelatore, nella loro grossolana schiettezza, di tutta l’operazione).

Al contrario, e per fortuna, il fattore naturale è determinante nel gusto. Noi (inteso collettivamente, come specie umana) preferiamo certi colori, certi suoni, certe immagini, per una predisposizione genetica: allo stesso modo in cui tutti gli animali dimostrano, ad esempio nelle scelte di accoppiamento, una sensibilità particolare per certe forme, per certi suoni, per certi odori. L’individuo portatore di mutazioni, di novità, deve avere qualcosa “in più” per garantirsi il successo riproduttivo: non è sufficiente che abbia qualcosa di diverso (anzi!). In natura il canone esiste, eccome. Esistono senza dubbio anche le variazioni, ma nel solco di una certa linea. E quella linea è possibile riconoscerla. Non è un caso che la Golf, che esiste da cinquant’anni e aveva venduto milioni di esemplari molto prima che comparissero i personal computer e i telefonini, continui ad avere successo: il fatto è che sotto tutte le evoluzioni e le trasformazioni rimane riconoscibile la vecchia linea, e questo ci dà sicurezza. Cerchiamo come i bambini rassicurazione in ciò che si ripete, abbiamo “naturalmente” in sospetto la novità. Per questo conferiamo valore a ciò che resiste al tempo.

La terza conseguenza è invece proprio quella di svalorizzare un requisito che parrebbe essenziale dell’espressione artistica, la sua resistenza al tempo. Se il valore si esaurisce nella novità, è conferito solo o soprattutto dal tasso di originalità, certamente non ci può essere canone: la novità finisce di essere tale immediatamente, è intrinsecamente destinata alla rapida obsolescenza. E questo, per paradosso, induce una serializzazione che non è più quella manieristica, assuefazione lenta all’innovazione, ma è ormai quella industriale, digestione veloce del nuovo prodotto per fare immediatamente posto al prossimo. L’opera d’arte diventa insomma, da unicum capace di trascendere il tempo e la contingenza, il suo esatto contrario: prodotto seriale destinato ad uno sfruttamento intensivo e ad un consumo rapido (Warhol e Pinot Galizio insegnano, magari a prescindere dai loro intenti).

Questo mi sembra il punto: la novità irrompe nella storia e la muove, tanto in quella naturale come in quella culturale, ma il movimento deve trasmettersi in tempi lunghi e con sussulti leggeri, per non trasformarsi in sisma. Non si può convivere perennemente col terremoto, se non al prezzo di diventare nevrotici. Che è quanto ci sta accadendo. La nostra epoca paga lo scotto di una accelerazione innovativa costante, che lascia indietro una generazione ogni cinque anni e rende impossibile ogni assestamento.

L’ alternativa è fingere di essere scesi dal treno, invece che essere stati sbattuti fuori, e di incamminarsi a piedi con animo sereno. Vedremo passare meno brandelli di mondo, ma con un semplice moto degli occhi potremo averne una panoramica intera, e ferma. Potremo godere di un atteggiamento “classico”.

L’atteggiamento classico non persegue la novità, ma l’armonia. E l’armonia nasce da una disciplina, che nel canto e nella musica è disciplina delle voci e dei suoni, nella danza dei corpi, ecc… Nella pittura è evidentemente disciplina dei colori, del gesto che sta dietro i colori, delle scelte che stanno dietro il gesto. L’adattamento è per l’appunto, nella storia culturale come in quella naturale, disciplina della novità ed esplorazione di tutte le potenzialità che questa racchiude. La novità deve essere metabolizzata, e il suo senso, la sua reale importanza vengono appunto sanciti dalla possibilità di esserlo. Quando questo non avviene, evidentemente il carattere della novità era recessivo. In termini molto prosaici potremmo dire che si trattava di una ciofeca.

La riflessione lenta è la sola che permette di distinguere una ciofeca da una mutazione evolutivamente vantaggiosa. La lentezza conferisce autonomia al giudizio, consente di transitare da un’estetica del nuovo ad una estetica del profondo. Ciò è tanto più vero ed importante nei confronti di tutta l’arte contemporanea, a partire dall’informale, proprio perché quest’ultima prescinde da qualsiasi griglia minima di valori formali o contenutistici. Consente anche di tentare una risposta al mi piace perché, recuperando i canoni della disciplina come mezzo e dell’armonia come scopo.

Non si tratta qui di mettere in discussione il nuovo status dell’arte, una ricerca di senso e una ricognizione di possibilità espressive che vanno avanti da un secolo e mezzo, da quando cioè sono venuti meno il rapporto mimetico con la realtà naturale e la sfida di trascenderlo dall’interno. Sarebbe assurdo, e non è comunque un tema sul quale spenderei il mio tempo, se anche ne avessi le credenziali. Sto semplicemente cercando di capire perché Kandinsky mi piace, mentre le opere di Burri e di Hartung mi lasciano perplesso e detesto Dubuffet, Paladino e Rotella. Vedrò quindi di riprendere un po’ le fila e di applicare tutto questo a ciò che rimane dell’arte (nello specifico, della pittura) dopo la dissoluzione delle forme: cioè all’uso del colore.

In biologia si dice che la filogenesi ripete l’ontogenesi. Per la storia dell’arte potremmo dire che le tappe dell’evoluzione sono di norma riassunte nel processo di crescita di un artista. Prendiamo ad esempio la vicenda di Mondrian, quella che l’ha portato dagli esordi figurativi alla geometrizzazione dei colori fondamentali. Ho scelto Mondrian, anche se la sua parabola è nelle grandi linee simile a quella di molti altri artisti, perché è un portatore di novità un po’ particolare e si presta al mio ragionamento. Mondrian azzera la combinazione cromatica: il suo punto d’approdo è un punto di partenza. Riordina la scacchiera nell’assetto iniziale, i colori ben distinti, costretti in geometrie rigide e bilanciati in un preciso rapporto spazio-peso. Chi viene dopo può solo liberare i colori, portarli fuori dal recinto tracciato sulla tela e distribuirli su tutta l’area del quadro. Ha due possibilità di apertura, a seconda della strategia che intende adottare: può mantenere invariate le proporzioni cromatiche perseguendo, all’interno della mescolanza, la conservazione dell’armonia. Oppure può volutamente sottolineare la disarmonia, facendo entrare i colori in collisione, contrapponendoli con violenza e “provocando” lo spettatore, sottraendogli le certezze dell’equilibrio.

Stiamo nuovamente parlando della differenza tra un’arte che viene ritenuta decorativa e consolatoria e una che viene definita provocatoria. L’arte della rottura e quella della ricomposizione. In realtà, il fatto che sia la rottura ad ottenere il maggior consenso dovrebbe indurci a riflettere. Ha successo perché è più consona ai nostri palati educati al culto della novità, perché è più conforme, nei propositi e negli esiti, all’attitudine dominante. C’è da chiedersi allora se la vera trasgressione non sia invece nel perseguimento dell’armonia, che risponde non ad una moda temporanea e alla visione della vita imposta dalla società moderna o postmoderna, ma ad un anelito che è parte eterna, costituente, della psicologia umana. Non a caso amiamo gli oggetti, le atmosfere, le architetture del passato. Li vediamo come vestigia di un’armonia che non c’è più, che in realtà non c’è mai stata, ma alla quale gli uomini aspiravano; e a cui, a dispetto di tutte le sollecitazioni in senso opposto, vorrebbero poter aspirare ancora.

Questo mi riporta finalmente al catalogo e all’opera di Fava (che, per intenderci, non ha fornito un pretesto al mio sproloquio, ma ne è stata l’occasione scatenante, e ne rimane a tutti gli effetti la destinataria). Adesso so perché questi dipinti mi piacciono. Corrispondono perfettamente all’idea che ho della vita, della natura, dell’uomo. Fava prende i colori e li distribuisce prescindendo da figure e contorni: ma non del tutto, perché immediatamente l’immagine, l’idea soggiacente la intuisci, anche se non c’è il minimo segno a tradirla. Sono la varietà e la sfumatura dei toni, la densità materiale dei colori , la delicatezza degli accostamenti a suggerirla. Quello che ne risulta è un effetto armonico, in qualche modo rassicurante, che prescinde da ogni appartenenza (il tempo) e da ogni collocazione (lo spazio), e fa approdare l’immagine ad una dimensione ulteriore. L’armonia non è immobilità, non è la rigidità della morte: è invece movimento, potente e delicato al tempo stesso, verso l’inattingibile, l’assoluto.

Tutto ciò non può essere frutto del semplice “estro”: non c’è il furor artis, dietro. Ci sono delle ascendenze culturali, non so quanto consapevoli, e in fondo m’importa assai poco (per parte mia ascriverei il suo astrattismo più al filone Mondrian che a quello Kandinskj, anche se a prima vista potrebbe sembrare il contrario). Quel che davvero mi importa sono la disciplina, la pazienza. Fava disciplina il colore, lascia che invada la tela, ma si vede che è un colore educato, sempre forte e vivace, mai irruento e disordinato. È un colore che non urla, ma canta. La sensazione è simile a quella che provo nel rivedere vecchie immagini degli stadi di calcio, quando erano pieni di un pubblico non meno appassionato di quello di oggi, ma sicuramente meno becero. L’idea di una competenza composta, scevra da esibizionismi, fumogeni e chiassosità.

Ma ciò che ancor più mi mette in sintonia con l’opera di Fava è il sentire che l’educazione alla dignità non è solo un fatto tecnico: che all’uso “disciplinato” del colore corrisponde una disciplina interna dei sentimenti. Il che non significa affatto negarli o congelarli, anzi, al contrario, significa non permettere loro di straripare rovinosamente per salvaguardarne l’energia, per renderli fertili. Conservare la capacità di amare la vita, la natura, cogliendone tanta bellezza anche quando se ne sono assaporati gli aspetti più tragici, è quanto di più eroico si possa chiedere ad un uomo. Se poi questa capacità trova modo di comunicarsi anche agli altri nell’arte, nella musica, nella letteratura, ma anche semplicemente nella quotidianità dei rapporti, bene, quello che viene trasmesso è un vero tesoro. È la testimonianza che in qualcosa, in effetti, la storia culturale ci ha resi diversi, e insieme un monito a non dare troppo per scontata questa diversità. In un’epoca in cui tutti i sentimenti vengono urlati e svenduti nella pattumiera televisiva, trovo quasi commovente che qualcuno riesca ancora ad educarli attraverso la disciplina artistica e a sublimarli nella bellezza.

Mi torna in mente quello che considero nella sua essenzialità l’esempio più perfetto e struggente di “educazione del dolore”, il carducciano “Pianto antico”: bastano un verde ed un vermiglio, luce e calore, a dire tutta la bellezza della vita, e il nero e il freddo a sussurrare l’angoscia secca della morte. Come in una composizione di Mondrian. E come, nella loro luminosa sobrietà, nelle scomposizioni di Fava.

A questo punto credo di aver mandato in confusione chiunque, quando poi sarebbe stato molto più semplice lasciarsi andare alla primitiva impressione, raggiungendo lo stesso risultato. Ma dalla confusione almeno io ho guadagnato qualcosa: sono stato costretto a pensare. Adesso, scorrendo il catalogo di un pittore che già apprezzavo, ma che conoscevo solo attraverso poche opere isolate, credo anche di aver colto il filo del suo discorso per immagini e la ragione che me lo fa condividere. In definitiva, un paio di certezze le ho acquisite: so che Fava è un artista vero, pulito, onesto, e che io non sarò mai un critico d’arte.

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