di Paolo Repetto, 2009, dall’Album “Sergio Fava. I colori delle forme“
Parto dal catalogo. L’approccio non è molto ortodosso, ma ho le mie ragioni, e poi immagino che poche cose lo saranno in questo mio intervento: quindi, tanto vale. Intendiamoci: la mostra l’ho visitata, ho ammirato le opere dal vivo e ne ho ricavato un’impressione forte. Forse avrei potuto lavorarci a caldo, giocare con quella che Benjamin chiamava “l’aura” e con le suggestioni dell’immediatezza: ma non è il mio mestiere, le suggestioni non le so trasmettere e in fondo preferisco tenerle per me. Per questo ho scelto di lasciarle decantare per qualche giorno e di verificarle poi, sfogliando il catalogo, sfidando quell’effetto “farfalla sotto vetro” che ogni riproduzione, anche la più perfetta, induce.
Funziona. L’impressione è confermata, vince la prova della distanza fisica dall’opera: in più ora sono in grado di andare oltre la pura sensazione, di ragionarci sopra. Il problema sarà a questo punto quello di tenere in riga le idee; e qui, conoscendomi, non garantisco nulla.
La prima riflessione riguarda proprio il metodo, cioè la scelta di una “lettura” meditata. È curioso, perché rispetto alla dimensione artistica (in particolare alle arti figurative) mi sono quasi sempre limitato all’impatto emotivo – del tipo, per capirci, mi piace/non mi piace. È anche piuttosto spiazzante, perché proprio quell’atteggiamento, giustificato da una oggettiva povertà di strumenti critici ma anche un po’ compiaciuto, mi ha consentito sinora di sospendere il giudizio rispetto a ogni espressione o tendenza dell’arte contemporanea e di lasciare libero corso alle reazioni emotive (non lo capisco, ma mi piace): e soprattutto di coltivare in pace una elementare passione per il calligrafismo (cose tipo i fumetti di Toppi, gli illustratori fine ottocento/primi novecento, Hokusai e gli artisti cinesi e giapponesi) e la pittura di paesaggio (quella ottocentesca, nordica e di montagna). Niente di impegnativo, tutto filava chiaro e semplice.
Adesso, invece, davanti alle riproduzioni dei dipinti di Sergio Fava mi rendo conto di non poter liquidare come un effetto epidermico la particolare sintonia che ho avvertita da subito. Queste immagini, il ripetersi delle emozioni che avevo provato nel visitare la mostra, mi costringono ad ammettere che il mio rapporto con l’arte non è poi così spregiudicato, che al contrario è condizionato da modelli interpretativi quantomeno complessi. Insomma, non è così vero che un’opera “mi piace e basta”. In realtà “mi piace, perché …”, e quel perché, una volta portato allo scoperto, può riservare sorprese, fare a cazzotti con la pretesa naïveté. Nel contesto di questa chiacchierata il problema si porrà rispetto alle tendenze moderne e contemporanee, dall’astrattismo all’informale; ma avrebbe senso anche procedere a ritroso e verificare ad esempio perché mi piacciono i fiamminghi del cinquecento e non quelli di un secolo dopo. Magari poi la contraddizione tra impatto immediato e rivisitazione ragionata è più apparente che reale, magari non c’è. Questa mi pare un’ottima occasione per verificarlo.
Se ho idee alquanto approssimative sull’arte, ne ho invece alcune ben definite riguardo la storia. Credo che la “Storia” per eccellenza sia quella naturale, e che ogni aspetto di quella che potremmo definire storia culturale, ovvero storia della specie umana, cioè quello economico, quello politico, quello sociale, tutti gli ambiti insomma nei quali si può riconoscere una espressione specifica dell’uomo, compreso quello artistico, ne seguano il modello evolutivo. Il che può sembrare lapalissiano, ma ha invece un risvolto piuttosto ereticale. Significa infatti non accettare il presupposto sotteso a tutte le ideologie degli ultimi tre o quattro secoli e alle concezioni religiose di sempre, e anzi, fondante delle une e delle altre, che esista una cesura netta tra storia culturale e storia naturale; che dove comincia l’una abbia termine l’altra e che l’uomo sia diventato, o sia sempre stato, a seconda dei casi, qualcosa d’altro rispetto alla natura. In altre parole: non ho dubbi che la “cultura” sia un prodotto solo umano, talmente particolare e potente da condizionare per un effetto reversivo la stessa evoluzione naturale: ma sono anche convinto che i suoi meccanismi di innesco e di sviluppo siano né più né meno gli stessi che determinano il percorso naturale.
Riassumo per chiarezza il funzionamento di quest’ultimo. Il processo evolutivo (dove evoluzione non significa perfezionamento e nemmeno miglioramento, ma semplicemente passaggio più o meno graduale da una forma all’altra) della storia naturale si dispiega attraverso mutazioni e adattamenti. In sostanza, all’interno di una specie compaiono ogni tanto individui che per particolari combinazioni cromosomiche presentano caratteri nuovi. Tali caratteri possono essere appunto evolutivi, nel senso che aprono all’individuo che ne è portatore nuove chanches di sopravvivenza, quindi maggiori opportunità di riprodursi, e finiscono col tempo per imporsi: oppure, e questo avviene nella maggior parte dei casi, sono recessivi, cioè riducono le potenzialità di sopravvivere e di riprodursi di quell’individuo, quindi col tempo scompaiono. Dopo la comparsa di ogni nuovo carattere evolutivo c’è in genere un lungo periodo di adattamento, nel corso del quale appunto quel carattere si trasmette e si afferma (non sempre: qualche volta anche quello che sembrava costituire un vantaggio adattivo può rivelarsi solo temporaneo). L’adattamento è quindi la fase di normalizzazione della novità. Quella fase in cui la novità viene assimilata, sanata da eventuali controindicazioni o effetti collaterali, e diventa poco alla volta un carattere comune.
Questo processo, come dicevo, vale per la cultura allo stesso modo che per la natura. Nel processo culturale, nel nostro caso in quello artistico, assistiamo a momenti di rottura, di introduzione della novità, che si alternano ad altri di assimilazione e ricomposizione. Portatori del nuovo sono anche qui individui non conformi, dotati di caratteristiche anomale, che ricombinano in modo diverso il patrimonio di saperi e di abilità ereditato. Nella cultura questa anomalia genetica si chiama genialità, quando è evolutiva, mentre quando è recessiva, e accade molto più spesso, si chiama idiozia. Sempre di “geni” comunque si tratta.
Ora, è normale che la percezione di un processo focalizzi anzitutto i momenti di novità, di rottura, perché sono appunto quelli più visibili, caratterizzati da un movimento più evidente: ma questo non significa che si possano liquidare quelli dell’assimilazione come tempi morti, momenti negativi di stasi. Invece di norma accade proprio questo. Prendiamo come esempio il manierismo. La denominazione stessa ha una valenza negativa, rimanda all’idea di qualcosa di vuoto ed inutile, che non apporta alcunché di nuovo: è difficile che ci venga in mente che un fenomeno del genere è comunque importante, perché testimonia della diffusione della novità, della sua consacrazione come carattere adattivo. Anche i più recenti tentativi di recuperarlo ad una maggiore dignità artistica viaggiano tutti nella direzione dell’ “eppur si muove”, di una sua costrizione stiracchiata ed improbabile nella categoria della novità (e questo al di là del fatto che rientrino in una campagna di “valorizzazione” molto prosaica, alla Sgarbi per intenderci, con un occhio o forse tutti e due al mercato e al nuovo business delle mostre “evento”).
Da dove nasce questa ossessione del cambiamento? Perché non ci accontentiamo di leggere il fenomeno e di riconoscergli significato per quello che è, un assestamento, una condivisione sempre più allargata delle novità introdotte da pochi mutanti? Ragionando all’ingrosso direi che a indurci ad assumere come valore assoluto la novità è una concezione romantica dell’arte, discendente da quella concezione “romantica” della vita nella sua totalità di cui siamo da almeno due secoli totalmente impregnati, e che si manifesta, oggi più che mai, con l’anelito all’innovazione costante, alla velocità. Il nostro gusto è educato ormai ad inseguire costantemente il nuovo, o ciò che viene contrabbandato per tale; ma inseguire il nuovo significa di norma muoversi solo orizzontalmente, in velocità e in superficie. Significa anche perdere di vista quel paradigma naturale in base al quale solo una parte infinitesima delle mutazioni ha valore evolutivo, mentre tutto il resto è spazzatura genetica. (Non sarebbe male, invece, tenerlo ben presente: mi pare attagliarsi perfettamente, soprattutto oggi, al campo dell’arte.)
In sostanza abbiamo maturato la convinzione (che oggi si è tradotta in convenzione) che l’arte, ma in genere ogni espressione dell’umano che voglia dirsi “significativa”, debba avere a che fare con la discontinuità, vuoi che l’annunci, la produca o ne dia testimonianza. Ebbene, non è affatto così, e comunque non lo è sempre stato. Non dimentichiamo che sino a duecento anni fa il termine rivoluzione designava un movimento a ritroso, e chi introduceva un cambiamento si premurava per prima cosa di dimostrare che non era tale. L’ideale era semmai quello della restauratio. Ora, assumere a parametro della rilevanza artistica il coefficiente di novità significa scambiare il mezzo per il fine. Non è detto che ci sia un fine nell’arte, così come non c’è nell’evoluzione. Ma senz’altro ci sono dei risultati, e se il parametro fosse quello i vertici dell’espressione artistica sarebbero toccati dalle avanguardie, mentre persino i miei studenti sanno che nella stragrande maggioranza dei casi la rottura prodotta dalle avanguardie non si concretizza in una produzione di grande livello, e che l’importanza di queste ultime è connessa piuttosto al loro ruolo “storico” che ad un intrinseco “valore” artistico (non ci si dovrebbe esprimere in questi termini, probabilmente il “valore artistico intrinseco” non esiste, ma io rivendico la mia libertà di profano e credo che la semplificazione in molti casi aiuti a capire).
Le conseguenze dell’atteggiamento “romantico” sono facilmente intuibili. Si determina in primo luogo un paradossale fraintendimento dei concetti di “facilità” e di “originalità” rispetto all’opera d’arte. L’incondizionata riverenza per la novità ci sgrava della responsabilità di prendere partito, rende più comodo arrendersi ad un’opera di difficile interpretazione (ma anche produrla), purché “originale” nel linguaggio o nei materiali, che proprio come tale si pone in una sorta di zona franca, che fermarsi ad analizzare ciò che sembra scontato, ma qualche volta non lo è. Di fatto risulta assai più impegnativo apprezzare la scelta di un artista di percorrere strade già battute, ma con spirito e con occhi “originali. È più difficile perché per distinguere tra chi dice cose vecchie, o non dice assolutamente niente, con parole nuove e chi dice cose nuove con parole già usate occorre possedere una dimestichezza col linguaggio (i criteri di giudizio) e una capacità di discernimento delle cose (i valori di riferimento) che vanno pazientemente educate. La velocità non si sposa affatto con la paziente educazione, e questi strumenti di lettura rischiamo di perderli o li abbiamo già perduti.
Il venir meno di criteri e di valori conduce inevitabilmente ad una nuova forma di relativismo estetico: non più quello primitivo, e tutto sommato genuino, riassunto in “è bello ciò che piace”, ma quello prodotto dagli impianti di riciclaggio del postmoderno, quello del “nulla è oggettivamente bello (o vero), ma tutto può diventare interessante (e commestibile) – se noi decidiamo che lo sia”. Vale a dire, non esiste un canone estetico universale, in qualche misura connesso ad una oggettiva, biologica disposizione umana: il gusto è culturalmente determinato, condizionato dalla storia politica, sociale, economica, ma non da quella naturale. E, tra parentesi, il “noi” non sta ad indicare “tutti noi”, ma si riferisce essenzialmente alla confraternita degli interpreti e dei critici. Ora, pur senza ignorare che esistano dei capolavori di interpretazione della dimensione artistica, delle analisi che rivoltano opere e autori e correnti ed intere epoche come calzini e ne propongono aspetti rivelatori e assolutamente stimolanti, nutro una profonda diffidenza per la cosiddetta critica militante. Ho la convinzione che il barnum del postmoderno e delle trans e post avanguardie miri in fondo proprio a snaturare il concetto di gusto, negandone le invarianze biologiche e riducendolo ad una combinazione transitoria di fattori sociali e culturali. Il che, senza mezzi termini, significa “rieducare” alla cambogiana l’inclinazione estetica, renderla sempre più docile ad una manipolazione e ad uno sfruttamento gestiti in combutta dai diversi “addetti al settore”, critici, mercanti e pataccari vari (le telepromozioni “d’arte” sono solo l’aspetto più pacchiano, ma forse anche il più divertente e rivelatore, nella loro grossolana schiettezza, di tutta l’operazione).
Al contrario, e per fortuna, il fattore naturale è determinante nel gusto. Noi (inteso collettivamente, come specie umana) preferiamo certi colori, certi suoni, certe immagini, per una predisposizione genetica: allo stesso modo in cui tutti gli animali dimostrano, ad esempio nelle scelte di accoppiamento, una sensibilità particolare per certe forme, per certi suoni, per certi odori. L’individuo portatore di mutazioni, di novità, deve avere qualcosa “in più” per garantirsi il successo riproduttivo: non è sufficiente che abbia qualcosa di diverso (anzi!). In natura il canone esiste, eccome. Esistono senza dubbio anche le variazioni, ma nel solco di una certa linea. E quella linea è possibile riconoscerla. Non è un caso che la Golf, che esiste da cinquant’anni e aveva venduto milioni di esemplari molto prima che comparissero i personal computer e i telefonini, continui ad avere successo: il fatto è che sotto tutte le evoluzioni e le trasformazioni rimane riconoscibile la vecchia linea, e questo ci dà sicurezza. Cerchiamo come i bambini rassicurazione in ciò che si ripete, abbiamo “naturalmente” in sospetto la novità. Per questo conferiamo valore a ciò che resiste al tempo.
La terza conseguenza è invece proprio quella di svalorizzare un requisito che parrebbe essenziale dell’espressione artistica, la sua resistenza al tempo. Se il valore si esaurisce nella novità, è conferito solo o soprattutto dal tasso di originalità, certamente non ci può essere canone: la novità finisce di essere tale immediatamente, è intrinsecamente destinata alla rapida obsolescenza. E questo, per paradosso, induce una serializzazione che non è più quella manieristica, assuefazione lenta all’innovazione, ma è ormai quella industriale, digestione veloce del nuovo prodotto per fare immediatamente posto al prossimo. L’opera d’arte diventa insomma, da unicum capace di trascendere il tempo e la contingenza, il suo esatto contrario: prodotto seriale destinato ad uno sfruttamento intensivo e ad un consumo rapido (Warhol e Pinot Galizio insegnano, magari a prescindere dai loro intenti).
Questo mi sembra il punto: la novità irrompe nella storia e la muove, tanto in quella naturale come in quella culturale, ma il movimento deve trasmettersi in tempi lunghi e con sussulti leggeri, per non trasformarsi in sisma. Non si può convivere perennemente col terremoto, se non al prezzo di diventare nevrotici. Che è quanto ci sta accadendo. La nostra epoca paga lo scotto di una accelerazione innovativa costante, che lascia indietro una generazione ogni cinque anni e rende impossibile ogni assestamento.
L’ alternativa è fingere di essere scesi dal treno, invece che essere stati sbattuti fuori, e di incamminarsi a piedi con animo sereno. Vedremo passare meno brandelli di mondo, ma con un semplice moto degli occhi potremo averne una panoramica intera, e ferma. Potremo godere di un atteggiamento “classico”.
L’atteggiamento classico non persegue la novità, ma l’armonia. E l’armonia nasce da una disciplina, che nel canto e nella musica è disciplina delle voci e dei suoni, nella danza dei corpi, ecc… Nella pittura è evidentemente disciplina dei colori, del gesto che sta dietro i colori, delle scelte che stanno dietro il gesto. L’adattamento è per l’appunto, nella storia culturale come in quella naturale, disciplina della novità ed esplorazione di tutte le potenzialità che questa racchiude. La novità deve essere metabolizzata, e il suo senso, la sua reale importanza vengono appunto sanciti dalla possibilità di esserlo. Quando questo non avviene, evidentemente il carattere della novità era recessivo. In termini molto prosaici potremmo dire che si trattava di una ciofeca.
La riflessione lenta è la sola che permette di distinguere una ciofeca da una mutazione evolutivamente vantaggiosa. La lentezza conferisce autonomia al giudizio, consente di transitare da un’estetica del nuovo ad una estetica del profondo. Ciò è tanto più vero ed importante nei confronti di tutta l’arte contemporanea, a partire dall’informale, proprio perché quest’ultima prescinde da qualsiasi griglia minima di valori formali o contenutistici. Consente anche di tentare una risposta al mi piace perché, recuperando i canoni della disciplina come mezzo e dell’armonia come scopo.
Non si tratta qui di mettere in discussione il nuovo status dell’arte, una ricerca di senso e una ricognizione di possibilità espressive che vanno avanti da un secolo e mezzo, da quando cioè sono venuti meno il rapporto mimetico con la realtà naturale e la sfida di trascenderlo dall’interno. Sarebbe assurdo, e non è comunque un tema sul quale spenderei il mio tempo, se anche ne avessi le credenziali. Sto semplicemente cercando di capire perché Kandinsky mi piace, mentre le opere di Burri e di Hartung mi lasciano perplesso e detesto Dubuffet, Paladino e Rotella. Vedrò quindi di riprendere un po’ le fila e di applicare tutto questo a ciò che rimane dell’arte (nello specifico, della pittura) dopo la dissoluzione delle forme: cioè all’uso del colore.
In biologia si dice che la filogenesi ripete l’ontogenesi. Per la storia dell’arte potremmo dire che le tappe dell’evoluzione sono di norma riassunte nel processo di crescita di un artista. Prendiamo ad esempio la vicenda di Mondrian, quella che l’ha portato dagli esordi figurativi alla geometrizzazione dei colori fondamentali. Ho scelto Mondrian, anche se la sua parabola è nelle grandi linee simile a quella di molti altri artisti, perché è un portatore di novità un po’ particolare e si presta al mio ragionamento. Mondrian azzera la combinazione cromatica: il suo punto d’approdo è un punto di partenza. Riordina la scacchiera nell’assetto iniziale, i colori ben distinti, costretti in geometrie rigide e bilanciati in un preciso rapporto spazio-peso. Chi viene dopo può solo liberare i colori, portarli fuori dal recinto tracciato sulla tela e distribuirli su tutta l’area del quadro. Ha due possibilità di apertura, a seconda della strategia che intende adottare: può mantenere invariate le proporzioni cromatiche perseguendo, all’interno della mescolanza, la conservazione dell’armonia. Oppure può volutamente sottolineare la disarmonia, facendo entrare i colori in collisione, contrapponendoli con violenza e “provocando” lo spettatore, sottraendogli le certezze dell’equilibrio.
Stiamo nuovamente parlando della differenza tra un’arte che viene ritenuta decorativa e consolatoria e una che viene definita provocatoria. L’arte della rottura e quella della ricomposizione. In realtà, il fatto che sia la rottura ad ottenere il maggior consenso dovrebbe indurci a riflettere. Ha successo perché è più consona ai nostri palati educati al culto della novità, perché è più conforme, nei propositi e negli esiti, all’attitudine dominante. C’è da chiedersi allora se la vera trasgressione non sia invece nel perseguimento dell’armonia, che risponde non ad una moda temporanea e alla visione della vita imposta dalla società moderna o postmoderna, ma ad un anelito che è parte eterna, costituente, della psicologia umana. Non a caso amiamo gli oggetti, le atmosfere, le architetture del passato. Li vediamo come vestigia di un’armonia che non c’è più, che in realtà non c’è mai stata, ma alla quale gli uomini aspiravano; e a cui, a dispetto di tutte le sollecitazioni in senso opposto, vorrebbero poter aspirare ancora.
Questo mi riporta finalmente al catalogo e all’opera di Fava (che, per intenderci, non ha fornito un pretesto al mio sproloquio, ma ne è stata l’occasione scatenante, e ne rimane a tutti gli effetti la destinataria). Adesso so perché questi dipinti mi piacciono. Corrispondono perfettamente all’idea che ho della vita, della natura, dell’uomo. Fava prende i colori e li distribuisce prescindendo da figure e contorni: ma non del tutto, perché immediatamente l’immagine, l’idea soggiacente la intuisci, anche se non c’è il minimo segno a tradirla. Sono la varietà e la sfumatura dei toni, la densità materiale dei colori , la delicatezza degli accostamenti a suggerirla. Quello che ne risulta è un effetto armonico, in qualche modo rassicurante, che prescinde da ogni appartenenza (il tempo) e da ogni collocazione (lo spazio), e fa approdare l’immagine ad una dimensione ulteriore. L’armonia non è immobilità, non è la rigidità della morte: è invece movimento, potente e delicato al tempo stesso, verso l’inattingibile, l’assoluto.
Tutto ciò non può essere frutto del semplice “estro”: non c’è il furor artis, dietro. Ci sono delle ascendenze culturali, non so quanto consapevoli, e in fondo m’importa assai poco (per parte mia ascriverei il suo astrattismo più al filone Mondrian che a quello Kandinskj, anche se a prima vista potrebbe sembrare il contrario). Quel che davvero mi importa sono la disciplina, la pazienza. Fava disciplina il colore, lascia che invada la tela, ma si vede che è un colore educato, sempre forte e vivace, mai irruento e disordinato. È un colore che non urla, ma canta. La sensazione è simile a quella che provo nel rivedere vecchie immagini degli stadi di calcio, quando erano pieni di un pubblico non meno appassionato di quello di oggi, ma sicuramente meno becero. L’idea di una competenza composta, scevra da esibizionismi, fumogeni e chiassosità.
Ma ciò che ancor più mi mette in sintonia con l’opera di Fava è il sentire che l’educazione alla dignità non è solo un fatto tecnico: che all’uso “disciplinato” del colore corrisponde una disciplina interna dei sentimenti. Il che non significa affatto negarli o congelarli, anzi, al contrario, significa non permettere loro di straripare rovinosamente per salvaguardarne l’energia, per renderli fertili. Conservare la capacità di amare la vita, la natura, cogliendone tanta bellezza anche quando se ne sono assaporati gli aspetti più tragici, è quanto di più eroico si possa chiedere ad un uomo. Se poi questa capacità trova modo di comunicarsi anche agli altri nell’arte, nella musica, nella letteratura, ma anche semplicemente nella quotidianità dei rapporti, bene, quello che viene trasmesso è un vero tesoro. È la testimonianza che in qualcosa, in effetti, la storia culturale ci ha resi diversi, e insieme un monito a non dare troppo per scontata questa diversità. In un’epoca in cui tutti i sentimenti vengono urlati e svenduti nella pattumiera televisiva, trovo quasi commovente che qualcuno riesca ancora ad educarli attraverso la disciplina artistica e a sublimarli nella bellezza.
Mi torna in mente quello che considero nella sua essenzialità l’esempio più perfetto e struggente di “educazione del dolore”, il carducciano “Pianto antico”: bastano un verde ed un vermiglio, luce e calore, a dire tutta la bellezza della vita, e il nero e il freddo a sussurrare l’angoscia secca della morte. Come in una composizione di Mondrian. E come, nella loro luminosa sobrietà, nelle scomposizioni di Fava.
A questo punto credo di aver mandato in confusione chiunque, quando poi sarebbe stato molto più semplice lasciarsi andare alla primitiva impressione, raggiungendo lo stesso risultato. Ma dalla confusione almeno io ho guadagnato qualcosa: sono stato costretto a pensare. Adesso, scorrendo il catalogo di un pittore che già apprezzavo, ma che conoscevo solo attraverso poche opere isolate, credo anche di aver colto il filo del suo discorso per immagini e la ragione che me lo fa condividere. In definitiva, un paio di certezze le ho acquisite: so che Fava è un artista vero, pulito, onesto, e che io non sarò mai un critico d’arte.