di Fabrizio Rinaldi, 7 settembre 2019
Durante le mie ultime vacanze, mentre vagavo in auto per le colline toscane fra Siena e Follonica, sono approdato a quel che rimane dell’abbazia di San Galgano (prima metà del XIII secolo). Senza tetto, senza pavimento, senza tutto, rimane una magnifica manifattura gotica, e i molti visitatori vi trovano un rimando estetico ai ruderi diffusi che caratterizzano i paesaggi scozzesi o irlandesi. Qui però l’edificio è circondato dal grano, anziché dall’erba medica.
In quello che era lo scriptorium, dove i monaci cistercensi copiavano gli antichi e preziosi manoscritti, ora c’è la biglietteria dell’abbazia: mi è venuto spontaneo imprecare, sia contro l’uso fatto di un luogo che per me è davvero sacro, sia contro l’obbligo di pagare per vedere poco più di ciò che è visibile facendo un giro attorno all’edificio. Ovviamente la mia disposizione etica – avvalorata da una sana tirchieria – mi ha impedito di acquistare il biglietto.
Lo avrei pagato volentieri invece per vedere altri quadri come quelli esposti proprio lì, all’ingresso e del tutto ignorati dai visitatori dei ruderi: erano i dipinti di tal Franco Soldatini, detto “Il Cangialli”. Avrei acquistato sicuramente anche il catalogo, ma non ne esiste uno. Per ricavare questo Album ho dovuto digitalizzare le poche immagini dell’opuscolo informativo, perché su internet non c’è nulla, ma proprio nulla.
Un nulla che naturalmente ha fatto crescere la mia curiosità.
Soldatini era un semplice (aveva frequentato solo qualche anno delle elementari) e uno strambo (si perdeva a rimirare gli alberi invece di zappare per campare). Viveva in totale miseria, lavorando occasionalmente, ma facendosi regolarmente cacciare per scarso rendimento.
Ciò di cui non riusciva a fare a meno era prendere una matita, dei colori scadenti, un cartone e dipingere i paesaggi della sua terra, i castagni, le case: tutto questo in uno stile senza stile, perché non ne conosceva uno.
Non aveva mai visto mostre, probabilmente neppure cataloghi, non aveva un mentore da cui imparare e non era andato a Parigi per unirsi ai movimenti pittorici che stavano cambiando il modo di fare arte nel Novecento.
La sua scuola era ciò che vedeva intorno a sé, e riversava nelle sue opere una solitudine della quale probabilmente non percepiva neppure la profondità, perché era talmente sua che ne sentiva relativamente il peso.
Raffigurava spesso una piccola sagoma umana persa in paesaggi fitti di alberi e di colline, nei quali l’orizzonte si confondeva con il cielo. I colori predominanti erano quasi obbligati: il nero lo otteneva con una vernice procuratagli da un carrozziere, il grigio lo ricavava dalla cenere, il verde dallo smalto usato per colorare le persiane nella falegnameria del paese. Il tratto era veloce e non meno sicuro di quello di tanti artisti celebri.
Molto probabilmente ignorava i dipinti di Caspar David Friedrich, ma, sia pure con una tecnica elementare, ne ricalcava le orme.
Era sempre squattrinato, e per non sentirsi in debito ricambiava la generosità dei compaesani che gli offrivano un pasto o un aiuto con i suoi dipinti. Quelli che oggi sono appesi nei tinelli di molte case della zona. La sua arte ignorava le leggi di mercato, ne prescindeva: l’obiettivo non era vendere, ma dipingere, esprimersi nel modo che sentiva più congeniale. Senza saperlo, e probabilmente suo malgrado, Soldatini stava realizzando nel suo piccolo l’unica vera “rivoluzione” artistica. Infatti morì a settant’anni, nel 1997, senza una lira. Forse un giorno sarà riconosciuto come il Ligabue della Maremma, ma per il momento è ignorato sia dai critici che dagli appassionati.
Forse gli è andata bene così. Se fosse sopravvissuto fino ai giorni d’oggi avrebbe corso il rischio di essere “scoperto” ed esibito come un fenomeno da baraccone in tivù, o accompagnato a vendersi in quegli squallidi spettacoli a luci rosse che sono gli “eventi” culturali.
Io preferisco averlo conosciuto così: e in cambio di uno dei suoi quadretti fatti con pece e vernice scaduta gli avrei assicurato non un piatto di pasta, ma un posto fisso a tavola.