Courrier des livres

di Paolo Repetto, 15 agosto 2024

Li ho ordinati martedì sera, sono arrivati giovedì mattina. Dalla Germania.

In linea di principio sono contrario agli acquisti di libri on-line, e credo la cosa valga per tutti i bibliofili stagionati come me (dove bibliofilo non sta solo per amante della lettura, ma per amante del libro come oggetto, e come oggetto posseduto). C’è di mezzo senz’altro la nostalgia per le librerie d’antan, quelle dove andavi a curiosare, a sfogliare, a chiacchierare col libraio o con gli altri frequentatori abituali. Erano occasioni importanti, dalle quali scaturivano conoscenze, gustosi pettegolezzi e a volte anche solide amicizie. Purtroppo però le librerie d’antan, così come i princìpi, non ci sono più. Le pochissime rimaste sono in genere “a tema” (femminismo, lgbt, ecologismo, ecc …), in linea con le nuove religioni secolari, e persino quelle dedicate all’alpinismo o ai viaggi sembrano rivolgersi a un pubblico di devoti piuttosto che di bibliofili. D’altro canto, entrare oggi in una libreria legata a un gruppo editoriale o a una catena della grande distribuzione equivale ad entrare in un supermercato, e giustamente chi ci lavora ha con i libri lo stesso rapporto che hanno i commessi dell’Esselunga con gli ingredienti delle zuppe surgelate. Allora, tanto vale: invece di sfogliare un libro ne leggi sullo schermo gli estratti, e un minuto di navigazione in rete, sia pure facendo lo slalom tra gli scogli della pubblicità, ti procura tutte le informazioni e le recensioni che desideri. Nel mio caso si aggiunge poi il fatto che mi interessa sempre meno quanto di nuovo viene pubblicato, mentre sono ancora in caccia di titoli che nel tempo mi sono passati sotto gli occhi, che ho annotato in memoria o sui miei taccuini, e che per motivi diversi non ho mai acquisito (ma la memoria è talmente satura e i taccuini sono tanti che i titoli saltano fuori di norma solo per caso).

Così non entro quasi più nelle librerie, anzi, le evito: odio vedere “mercificato” così spudoratamente ciò che un tempo era l’oggetto delle mie attese, dei miei desideri, dei miei piaceri, e che ritenevo appartenesse ad una dimensione superiore – non che i libri anche prima non fossero merce, ma lo erano con altra dignità. Mi irritano gli accostamenti insensati nelle vetrine e i criteri di visibilità sugli scaffali, le promozioni palesemente mirate solo al mercato, la rapidissima obsolescenza dei titoli, tutte cose che non badano alla qualità ma solo al consumo e al ricambio: credo che a breve sulla quarta di copertina troveremo anche la data di scadenza, come sui tappi del latte. I titoli o le case editrici sono ormai solo etichette dietro le quali vengono proposti prodotti altrettanto intercambiabili delle birre o dei detersivi.

La frequentazione la riservo piuttosto ancora ai mercatini. Dall’ultimo di Predosa sono venuto via con quarantasei volumi, due borsoni della Coop che pesavano mezzo quintale: ho stentato a riguadagnare il parcheggio. Vi ho trovato la conferma del convincimento maturato in una ormai pluridecennale militanza: occorre frequentare i mercatini poveri, quelli dove l’espositore paga quindici o venti euro (a Ovada il costo per tenere banco è di settantacinque: e infatti …). Solo lì puoi trovare figli, cognate o mogli che si disfano a basso costo, con una presenza una tantum, della biblioteca del marito (mai trovato un marito che si liberasse di quella della moglie), e che ti consentono di entrare in possesso di preziosissimi volumi della Fondazione Valla o de La Nuova Italia a un euro l’uno. In questo caso gioielli come gli scritti di Seneca “Sulla natura”, di Basilio di Cesarea o di Gregorio di Nissa, che chiaramente non leggerò mai, ma che solo a sfogliarli, o a guardarli, a sapere di possederli, danno un indicibile piacere. E poi saggi di Aby Warburg o di Ernst Curtius e di un sacco di altri “veri maestri” oggi ingiustamente negletti. Insomma, ho speso l’equivalente di tre pizze con birra media e mi son portato a casa un tesoro: che ho dovuto quasi fare entrare di soppiatto, perché mia moglie ha posto un veto sulle nuove acquisizioni, non essendoci più un centimetro di spazio in cui alloggiarli.

Al mercatino comunque non trovi le cose che cerchi: al contrario, trovi cose delle quali in genere ignoravi l’esistenza, fai delle scoperte, testi che col tempo “potrebbero rivelarsi” interessanti e che per intanto sono già appetibili per il prezzo.

La ricerca sul web è tutta un’altra faccenda. Navighi con una disposizione completamente diversa da quella con cui ti aggiri tra i banchi dell’usato. Vai in caccia di qualcosa di preciso, e quasi invariabilmente lo trovi. Certo, il sottile piacere connesso al desiderio, la soddisfazione di una ricerca che ti è costata fatica e si conclude positivamente, la gioia di un inaspettato ritrovamento: tutte queste cose te le scordi, ma anche nelle librerie-supermercato non hanno più alcun posto. Finisci allora per tagliare la testa al toro, digitare un titolo o un autore e accorgerti che ciò che pensavi ormai introvabile te lo offrono in cinquanta, e che se un’opera non è mai stata tradotta in italiano e non te la senti di affrontarla in inglese o addirittura in tedesco è disponibile magari in francese, scontatissima. A quel punto la linea di principio va a farsi benedire, e fai l’ordinativo. Trentasei ore dopo ti recapitano a casa cinque volumi, in arrivo direttamente da Berlino, con una spesa di spedizione di due euro e mezzo.

Di questi appunto volevo parlare. Quattro sono taccuini di viaggio, ma questa è l’unica cosa che li accomuna. Sono piuttosto l’esemplificazione perfetta di come si possa viaggiare e si possano poi raccontare i viaggi in maniera molto diversa. Il quinto è una raccolta di brevi biografie di viaggiatori particolarmente “eccentrici”, fuori dagli schemi, che ha anticipato, purtroppo sino a ieri a mia insaputa, se non i soggetti almeno l’idea di fondo che ispirava molte delle cose che ho scritto.

Courrier des livres 02Voyages in Alaska, di John Muir, contiene i resoconti di tre viaggi di esplorazione compiuti dal naturalista americano tra il 1879 e il 1890. Di Muir avevo letto già altri tre libri, gli unici tradotti in Italia, e quindi sapevo pressappoco cosa attendermi: devo dire che ho ricevuto molto di più. Ho capito ad esempio di chi erano figli i racconti di Jack London, che ha saccheggiato da queste pagine molti protagonisti, umani e non, e ha preso lo spunto per diverse storie. Credo abbia vissuto la sua breve avventura di cercatore d’oro col libro di Muir nello zaino.

In Alaska Muir ha compiuto ben sette viaggi, gli ultimi con spedizioni ufficiali mirate soprattutto ad ampliare i territori di competenza degli Stati Uniti. Per questo si è limitato a raccogliere e a proporre i diari di questi tre, realizzati invece alla sua maniera, senza alcun supporto logistico, senza una precisa programmazione, senza un adeguato equipaggiamento, senza armi. Era particolarmente interessato ai ghiacciai, sul cui ruolo nel modellare il territorio formulò una teoria che si è poi rivelata assolutamente esatta. Nei primi viaggi si dichiara però intento soltanto all’ascolto e alla preservazione del “canto del mondo”.

Chi ha già letto La mia prima estate sulla Sierra e Mille miglia in cammino fino al golfo del Messico – dicevo – non trova molto di nuovo, se non la natura dei paesaggi. E deve mettere senz’altro in conto, per quanto concerne lo stile, l’entusiasmo pionieristico del nascente ecologismo d’oltre oceano, ispirato al trascendentalismo di Emerson. Voglio dire che i continui sbigottimenti e le urla di gioia e le danze nelle quali esprime l’eccitazione per gli spettacoli naturali alla lunga riescono un po’ fastidiosi, ma senz’altro corrispondono a un sentire, a una riconoscenza, ad una immedesimazione del tutto genuini e sinceri. Ne ha ben donde, del resto, perché a folgorarlo sono i panorami della Yosemite Valley, della Sierra Nevada o della Glacier Bay.

Si può scrivere della natura anche in questi termini, magari facendosi trasportare un po’ dall’eccesso, senza necessariamente scadere in una trita liturgia, in atteggiamenti devozionali. Ecco, Muir viaggia sempre a un livello spirituale altissimo, quasi mistico, ma mai religioso. Una lettura da consigliare vivamente, magari guidata, per evitare interpretazioni distorcenti, agli odierni fondamentalisti ecologici e ai cultori dell’integralismo animalista.

Courrier des livres 03Leggendo le prime pagine di Un petit tour dans l’Hindou Kouch (1958), di Eric Newby, ho avuto l’impressione di un deja vù. La situazione iniziale mi ha ricordato immediatamente Tre uomini in barca, di Jerome, e subito dopo Una passeggiata nei boschi, di Bill Bryson: due scriteriati, assolutamente digiuni di alpinismo e animati solo dall’incoscienza inglese, si mettono in testa di compiere alcune ascensioni sui settemila dell’Afghanistan, per la precisione nella regione più remota del paese, il Nuristan. Lo fanno dopo soli tre giorni di iniziazione all’arrampicata in Inghilterra, e con una organizzazioner logistica che rende improbabile persino l’avvicinamento a quelle montagne. Ad un certo punto ho temuto che il tutto si risolvesse in una solenne buffonata, in un rovesciamento esasperato e speculare dell’understatement inglese: invece, mano a mano che procedevo a seguire le loro disavventure, i dejà vu si sono moltiplicati e hanno rivelato la loro vera natura.

L’avventura di Newby e del suo socio ha luogo nel 1956. Una quindicina di anni prima lo stesso loro itinerario era stato percorso dalla coppia Annemarie Schwarzenbach (che lo racconta in La via per Kabul), e Ella Maillart (La via crudele, 1947). Alla fine degli anni Quaranta quattro scriteriati francesi amanti dell’arte orientale intraprendono un viaggio quasi simile muovendo dal Nordafrica, e lo raccontano poi in Dal Nilo al Gange, di Pierre Rambach. Nei primi anni Cinquanta è Nicolas Bouvier a percorrere a ritroso con un compagno la via della seta, attraversando i Balcani, l’Anatolia, la Persia e l’Afghanistan. E dopo Newby, soprattutto negli anni Settanta, sono decine i convertiti all’esotismo new age che si avventurano in quella direzione. Con tutti questi resoconti in memoria, sarebbe strano ora se non riconoscessi luoghi, situazioni, personaggi. Anche se ciascuno queste cose le ha raccontate a modo suo. Newby senz’altro in una maniera tutta particolare.

Gli unici suoi libri tradotti in italiano sono Amore e guerra negli Appennini e L’ultima regata del grano. Questo, che probabilmente è il migliore, almeno per gli amanti della letteratura di viaggio, non è mai stato preso in considerazione, nemmeno in questo ultimo periodo di revival del genere. Credo di poterne dare una spiegazione. Il mondo e l’umanità che Newby descrive, sia pure filtrati attraverso una dose massiccia di humor, sono tutt’altro che attraenti. Tra Istanbul a Kabul lui e il suo compagno non incontrano che miseria, disorganizzazione, e le rovine di un passato che doveva essere stato prospero, ma che sembra non aver lasciato traccia negli animi. È vero che mette in conto tutte le disavventure che gli capitano alla impreparazione sua e del suo compagno, e le legge con la cifra di un umorismo che spesso ricorda Wodehouse: ma non può non testimoniare la desolazione materiale e spirituale di quei luoghi. A volte gli è sufficiente un’osservazione casuale, senza commenti: Due nomadi passavano con un cammello, seguiti a quattro o cinquecento metri da una ragazza molto giovane carica di un fardello, che barcollava per la spossatezza. Nessuno dei due uomini le prestava la minima attenzione, ma in compenso ci salutarono calorosamente al passaggio.

Credo dunque che la ragione per la quale il libro non è ancora stato tradotto in italiano stia nella sua apparente “scorrettezza politica”. Oggi verrebbe senza dubbio accusato di proporre una visione razzista, colonialistica, imperialista, semplicemente perché dice le cose come stavano negli anni Cinquanta (e probabilmente adesso stanno anche peggio). In realtà nell’atteggiamento di Newby non ho colto traccia alcuna della supponenza e dello snobismo che spesso (molto spesso) i viaggiatori inglesi portavano nel loro bagaglio: è troppo occupato a combattere con la dissenteria, con la polvere, con le cimici che si coricano con lui, con i suoi continui qui pro quo dovuti alla non conoscenza delle lingue locali (si getta in un pozzo nero, irritato dall’inerzia degli “indigeni”, per salvare un bambino che se la sta ridendo dietro il muro di casa) per tranciare giudizi. Anche quando commenta, in più occasioni: Cavolo, siamo in pieno medioevo, non lo fa con spocchia, ma da antico entusiasta lettore di Walter Scott.

In compenso, solo a titolo di cronaca, i due dopo un paio di attacchi a vuoto riescono ad arrivare in vista della vetta del monte Samir (di 5.809 metri, ma all’epoca era stimato oltre i seimila, ed era considerato dagli afgani inespugnabile), ma il loro exploit verrà considerato, sotto il profilo alpinistico “insignificante”. La montagna sarà espugnata tre anni dopo.

Courrier des livres 04Courrier de Tartarie (News from Tartary: A Journey from Peking to Kashmir, 1936) di Peter Fleming è la narrazione di un viaggio compiuto dall’autore a metà degli anni Trenta, pressappoco negli stessi luoghi visitati da Newby ma in direzione opposta, procedendo da est ad ovest, in compagnia dell’onnipresente Ella Maillart (che ha raccontato la stessa vicenda in Oasi proibite). Difficile immaginare due caratteri e due approcci al viaggio altrettanto diversi: a leggere i due resoconti parrebbero aver attraversato mondi completamente differenti.

Il viaggio, iniziato nel febbraio 1935, dura sette mesi e si snoda per 5600 chilometri da Pechino al Kashmir. Lo scopo è verificare cosa sta accadendo in un’area particolarmente turbolenta e quasi sconosciuta, il Turkestan cinese (o Tunganistan, ma oggi Xinjiang), situata al confine tra l’India, la Cina e la Russia.

Fleming (che tra l’altro è fratello del più celebre Jan, quello di James Bond) è uno storico tenuto in grande considerazione in Inghilterra, molto meno dalle nostre parti. L’unica traduzione in italiano di un suo scritto di viaggio (Avventura brasiliana, Longanesi, 1950) risale a settanta anni fa, e non è più stata ristampata. Varrebbe la pena proporre oggi anche questo diario asiatico, non fosse altro per confrontarlo con la versione della Maillart, ma soprattutto con la coeva descrizione fatta da Sven Hedin degli stessi luoghi e delle stesse vicende politiche.

A differenza del libro di Newby, questo è il resoconto dettagliato di tappe, spostamenti, distanze, incontri, redatto con uno stile molto più distaccato, e meno coinvolgente, nel quale l’umorismo britannico, assai trattenuto, è rivolto quasi esclusivamente agli altri. Un umorismo molto aristocratico: leggere un propagandista, un uomo con interessi intellettuali acquisiti, è noioso quanto cenare con un vegetariano.

È evidente anche che Fleming non prova simpatia per le popolazioni che incontra, e le valuta col metro dei vantaggi o degli inconvenienti che possono procurare agli interessi britannici, ancora nell’ottica del Grande Gioco (all’epoca è un agente dell’MI6, il servizio di spionaggio: del resto, ai loro servizi segreti sono legati un po’ tutti i personaggi, inglesi, russi, tedeschi, che negli anni Trenta si aggirano da quelle parti). L’autore rivendica però ripetutamente la sua posizione quasi da “osservatore esterno”: Non so nulla, e mi interessa meno, della teoria politica; la furfanteria, l’oppressione e l’inettitudine, come perpetrate dai governi, mi interessano solo nelle loro manifestazioni concrete, nel loro impatto sull’umanità: non nelle loro nebulose origini dottrinali.

Ciò non significa che il libro non sia interessante, anzi, sul piano della conoscenza dei costumi e dei caratteri di quei popoli è molto più ricco di quello di Newby: ma non è, a mio parere, altrettanto divertente.

Courrier des livres 05Courrier des Andes è il titolo francese dato a Three Letters from the Andes (1991) di Patrick Leigh Fermor. Non ho ancora capito se ne esiste una traduzione italiana, a giudicare dagli esiti della ricerca in rete parrebbe di no. Paddy Fermor si aggrega nel 1955 ad una piccola spedizione esplorativa che non si pone traguardi particolarmente ambiziosi. È una sorta di ospite d’onore, e si comporta come tale. Lascia siano gli altri a scalare qualche vetta e fare le rilevazioni scientifiche, mentre inventa per sé un ruolo di custode della stufa da campo, di cronista ufficiale dell’avventura e di soprattutto di motivatore (ruolo questo che gli veniva automaticamente riconosciuto, state la sua esuberanza, da chiunque gli si accompagnasse, dai partigiani greci ai frequentatori dei circoli inglesi.). Le lettere cui si riferisce il titolo inglese sono indirizzate alla moglie Joan.

Si tratta palesemente di una operazione di recupero, intesa a sfruttare la popolarità che il viaggiatore inglese stava conoscendo alla fine del secolo scorso. Fermor naturalmente rimane se stesso, la sua scrittura continua ad essere estremamente pulita e raffinata, ma al di là di qualche gustoso aneddoto o di qualche acuta osservazione sui costumi e sui comportamenti delle popolazioni andine non ha molto da offrirci. Il testo dà l’impressione di essere stato buttato giù di getto, senza passare attraverso le innumerevoli riscritture che per Paddy erano abituali: e questo è forse il suo maggior pregio.

Courrier des livres 06Infine il quinto, Voyageurs excentriques, di John Keay (1982). Keay è conosciuto in Italia per due bellissimi libri di taglio storico Quando uomini e montagne si incontrano (1977) e La via delle spezie (2005), pubblicati entrambi nella benemerita collana Il cammello Battriano di Neri Pozza. Il primo soprattutto mi aveva a suo tempo affascinato, ma quando l’ho letto io, nel 2005, in Inghilterra era considerato un classico da quasi trent’anni. Eccentric Travellers, uscito nei primi anni Ottanta, in Italia non è mai stato tradotto. Ed è strano, perché ha tutti i requisiti per essere considerato a sua volta un piccolo classico. Racchiude gli schizzi biografici di sette viaggiatori pochissimo noti dalle nostre parti (immagino invece conosciutissimi in Inghilterra) e ciascuno a suo modo davvero singolari. Lo avessi letto prima, mi sarei risparmiato probabilmente lo scritto su Charles Waterton (L’inventore dei capelli a spazzola). Ma forse è stato meglio così: Waterton me lo sono guadagnato tutto e adesso lo sento davvero mio. Gli altri andrò a conoscerli meglio con calma.

Non posso negare che la lettura mi abbia suscitato un po’ d’invidia, qualche rammarico e alcune considerazioni. Avevo parlato dell’eventualità di un’operazione “divulgativa” di questo tipo già mezzo secolo fa con un amico, docente di storia delle esplorazioni geografiche. Non aveva bocciato l’idea, ma mi aveva fatto notare che nel nostro panorama editoriale, a differenza che in quello anglosassone o d’oltralpe, non c’era molto spazio per queste cose. Una collana miscellanea da lui stesso all’epoca diretta esigeva contributi ineccepibili sotto il profilo del protocollo storiografico, ovvero zeppi di note, di citazioni puntualmente identificabili, di riferimenti bibliografici, ecc. …: tutte cose sacrosante in vista di una preparazione all’attività storiografica, ma che risultano di norma scoraggianti per una lettura amatoriale (e tanto più dissuasivi per una scrittura non “accademica”). Aveva solo parzialmente ragione, come ha dimostrato successivamente proprio il successo de Il cammello battriano di Stefano Malatesta, ma aveva toccato anche un tasto reale, quello di una attitudine della cultura italiana al rispetto ossequioso dei “canoni” di genere, della quale mi rendo conto d’essere io stesso imbevuto.

Il che ci porta alla vera ratio di questo pezzo. Sempre diversi anni fa, in risposta ad un mio scritto comparso anche su Luomoconlavaligia (Perché non esiste in Italia una letteratura del viaggio), una collaboratrice del sito smontava le mie argomentazioni asserendo che erano frutto di una preconcetta esterofilia e sostenendo che in realtà la letteratura di viaggio era diffusissima in Italia e vantava una lunga e gloriosa tradizione. Per dimostrare quanto azzardate fossero entrambe queste affermazioni era sufficiente consultare il catalogo delle edizioni Payot, specializzate nell’editoria di viaggio e dal quale ho attinto tutti i titoli presentati sopra, e rendersi conto che negli anni Novanta del secolo scorso offrivano un solo titolo in traduzione dall’italiano, a fronte degli oltre centoventi presenti (e non per sciovinismo, perché la stragrande maggioranza erano traduzioni di opere inglesi). In quello delle edizioni La Découverte, altra collana specializzata, non ne compariva uno.

Ma basterebbero anche a mio giudizio le assenze che ho dovuto colmare trent’anni dopo cercando le traduzioni in un’altra lingua, o i ritardi coi quali sono stati presentati al pubblico italiano classici del viaggio ottocentesco come Eothen, di William Kinglake, il Viaggio all’interno dell’Africa di Mungo Park o il Viaggio a Timbouctu di René Caillié. Inoltre, in realtà nel mio articolo facevo riferimento non tanto alla letteratura, ma ad una più ampia “cultura del viaggio”.

Ora, non nego che anche in Italia, sia pure come sempre di riflesso, sia aumentato l’interesse per la letteratura di viaggio: di sicuro c’è che se ne scrive (e forse se ne legge) molta di più. Ma ho l’impressione che questo abbia poco a che vedere con una vera “cultura del viaggio”. Sembra infatti che si viaggi quasi solo in funzione del poterne scrivere, e che per giustificare la scrittura si cerchino soprattutto performance da sballati o da guinness dei primati, nelle quali si esaurisce poi tutto l’interesse: giri del mondo in monopattino o in vasche da bagno motorizzate, vie classiche, religiose o storiche percorse camminando all’indietro o ad occhi chiusi: insomma, buffonate. Oppure che ci si muova al traino delle mode e delle mete del momento, quelle “certificabili” con la progressione su Instagram o certificate ufficialmente dai grossi barnum messi in piedi per sfruttare il trend (dal camino di Compostela alla via Francigena e similari), col risultato di intrupparsi in un traffico che non ha nulla da invidiare a quello dei marciapiedi delle città cinesi. Questo accade ovunque, certamente, così come è vero che ovunque si voglia andare si è già stati preceduti dalla folla: ma rimango dell’idea che chi ha potuto crescere nutrendosi di una tradizione che il viaggio lo dava per scontato, che ad esso associava l’arricchimento spirituale (e magari anche materiale), l’apertura mentale, l’autoconsapevolezza, e non solo la fuga, l’esilio, la forzata migrazione, lo strazio del distacco, insomma, tutta la piagnucolosa retorica dell’“addio monti” che da noi sino a ieri ha dettato i canoni del sentire, ebbene, costui riesca a viaggiare ancora oggi con uno spirito diverso.

Magari mi sbaglio, magari siamo ormai tutti uniformati a consumare chilometri anziché a provare emozioni e curiosità genuine: ma avrei voluto poter leggere anch’io prima dei vent’anni Newby, e persino Peter Fleming.

Cari al cielo

di Paolo Repetto, 21 luglio 2022

Muor giovane colui ch’al cielo è caro
(Leopardi, Amore e morte)

Da un vecchio quaderno a copertina nera (di quelli grandi, con le pagine bordate in rosso) sbuca fuori una lunga lista di nomi. Non è un fatto inconsueto: ormai passo la gran parte del tempo a rovistare in cassetti e scartafacci e a spulciare polverosi faldoni, e di questi ritrovamenti ne capitano un sacco. Un tempo ero un compilatore seriale di liste: stilavo elenchi di libri “urgenti” o comunque “indispensabili”, di brani musicali per la colonna sonora dei miei viaggi, o indici per saggi che non ho mai portato a termine o addirittura mai intrapreso a scrivere. Li ho sparsi un po’ dovunque, nelle agende e nei block notes accumulati in quasi tre quarti di secolo (ho cominciato molto presto) o in fogli volanti che non mi decido mai a buttare. E mi compiaccio ogni tanto nel constatare che qualcuno di quei programmi l’ho anche realizzato, che alcune di quelle voci le posso spuntare. Purtroppo però ho smesso di compilare liste ormai da un pezzo, e questo è un segno inequivocabile dell’età: ogni lista era infatti un progetto per il futuro.

Quella rinvenuta nel quadernone mi ha intrigato particolarmente. Non ho un’idea precisa del periodo cui risale. È un elenco di personaggi che avevano suscitato per motivi diversi il mio interesse, e comprende figure eterogenee, alpinisti ed esploratori, militanti anarchici e scienziati, artisti e sportivi, ecc … Sono almeno una cinquantina. Sul retro compare però una seconda lista, più ristretta, che raccoglie dodici nomi scelti tra i precedenti: e questo numero è stato raggiunto attraverso successive cancellature e aggiunte.

Questa seconda lista ha fatto scattare il filo della memoria: non per un qualche collegamento evidente tra le attività svolte dai personaggi prescelti, che anzi, hanno operato tutti in ambiti molto diversi, ma appunto per il numero. Dodici sono infatti i mesi dell’anno (lo sono anche gli apostoli, ma qui non c’entrano), e quell’elenco era finalizzato alla realizzazione di una sorta di almanacco laico, di un calendario che in capo ad ogni mese presentasse un personaggio fortemente simbolico – almeno per me – e consentisse, a partire da quello, di trattare in poche righe i temi più disparati. E fin qui, direi, nulla di particolarmente strano: lo schema forniva un pretesto come un altro per fare quello che ho sempre fatto, ovvero viaggiare a ruota libera, con una parvenza minima di sistematicità.

Occorreva però che tra i vari personaggi corresse un filo. Come dicevo, questo non era rappresentato dal tipo di attività svolta, né da una particolare provenienza, e neppure da esperienze condivise: era invece legato ad un banale (insomma!) dato anagrafico. Tutti coloro che sono inclusi nell’una e nell’altra lista hanno infatti in comune il fatto di essere morti prima dei quarant’anni. Il perché di questo criterio un po’ strambo, e nello specifico dell’assunzione di quel limite, non lo ricordo: la spiegazione più plausibile è che fosse legato alla mia età di allora. Aggiornando Dante alle aspettative di vita attuali potevo considerare i quaranta “il mezzo del cammin di nostra vita”.

Avevo quindi iniziato col compilare una lista di personaggi che a dispetto della scomparsa prematura hanno lasciato una traccia profonda nella storia e nella cultura. Non che intendessi iscrivermi al loro club e mettermi in concorrenza: sono da sempre a mio agio nella vita e ho per fortuna una nitida coscienza dei limiti del mio ingegno, coi quali convivo senza eccessive recriminazioni. Volevo invece proporre degli exempla, che nascevano dalla curiosità e dal desiderio di rendere, nel mio piccolo, giustizia a certi protagonisti sottovalutati della storia. Le precocità eccezionali mi hanno sempre intrigato (e infatti ne ho scritto altrove), ma in questo caso si trattava di andare oltre, presentare esistenze la cui parabola potesse considerarsi in qualche modo compiuta. Col che non intendo “chiusa”, non pensavo che a questi protagonisti non restasse altro da dire o da fare, ma ritenevo che le loro esistenze fossero pur nella loro brevità estremamente significative. Per capirci: uno che a trentanove anni ha alle spalle L’infinito e La ginestra e tutto quello che c’è in mezzo, il suo tempo lo ha impiegato benissimo, e se gliene rimanesse potrebbe viverlo di rendita.

***

A questo punto sarà già chiaro che il nome che compare in testa alla lista, anzi, in entrambe le liste, è quello di Leopardi. Accanto c’è un segno di spunta, e credo di sapere cosa significasse. Di Leopardi a quell’epoca avevo già scritto, e più ancora ho scritto dopo, per cui la spunta ci sta tutta. Ma se il progetto di almanacco fosse andato in porto, nella pagina dedicata ai letterati avrei probabilmente scritto di altre parabole esistenziali brevi e compiute, legate ad altri nomi che compaiono nel primo elenco; a quello di Rimbaud, ad esempio, o di Poe, ma soprattutto alla meteora ancora più breve di Stig Dagerman. Dei primi due da qualche parte ho trattato, mentre la pratica Dagerman è rimasta purtroppo inevasa, non posso mettere alcuna spunta, e nemmeno avrà l’opportunità di aprire una prossima lista. Per questo mi ci soffermo.

cari al cielo02 Stig DagermanStig Dagerman potrebbe essere ospitato anche nel mese degli anarchici, ma io l’ho conosciuto prima di tutto come letterato. Ero rimasto folgorato dal suo ultimo libro di racconti, Il Viaggiatore. Folgorato significa in questo caso annichilito, agghiacciato: un simile spietato faccia a faccia con la realtà l’ho ritrovato poi solo nei libri di Thomas Bernhard. La stupefazione non si è ripetuta con i romanzi, perché c’è un limite anche a quanto a lungo uno è disposto a reggere un simile sguardo: ma ho poi letto quel concentrato di disperazione e angoscia, mista alla volontà di sperare, che è Il nostro bisogno di consolazione. Per leggerlo occorrono non più di cinque minuti: il problema è poi digerirlo. Qui ne riporto un paio di citazioni che potrebbero andare in esergo ad un possibile mini-saggio:

Posso camminare sulla spiaggia e all’improvviso sentire la spaventosa sfida dell’eternità alla mia esistenza nell’incessante movimento del mare e nell’inarrestabile fuga del vento. [,,,] Ma può accadere sulla spiaggia che la stessa eternità che ha poco fa suscitato la mia paura sia ora testimone della mia nascita alla libertà. […] Posso riconoscere che il mare e il vento non potranno che sopravvivermi, e che l’eternità non si cura di me. Ma chi mi chiede di curarmi dell’eternità. La mia vita è breve solo se la colloco sul patibolo del calcolo del tempo”.

Ecco, l’almanacco avrebbe dovuto proporre indicazioni di questo tipo, e qualche breve considerazione o citazione in proposito, a partire sempre dai nomi della lista definitiva, ma coinvolgendo poi anche tutti gli altri. Dal momento che ormai ho preso l’avvio, posso farlo in parte adesso, andare sino in fondo e azzardare un abstract di quel che avrebbe potuto ospitare. È un esercizio mentale del tutto gratuito, buono solo per queste interminabili giornate di afa: ma può tornare utile almeno a rinfrescare un po’ la memoria, e non solo la mia.

***

cari al cielo03Dunque: inaugurato l’anno con i letterati, febbraio l’avrei potuto riservare agli artisti. Il mese corrisponde bene all’immagine (quasi sempre falsa) di vite povere e disperate, di pasti saltati e di studi gelidi. È un’immagine che va bene per Modigliani, per Van Gogh e per Caravaggio, un po’ meno per Pellizza da Volpedo e per Egon Schiele, per nulla con Raffaello. Tutti sono comunque accomunati da un’attività frenetica. Schiele, ad esempio, che avevo scelto come testimonial ufficiale della categoria e che è morto di spagnola a soli ventotto anni, ha lasciato circa trecentoquaranta dipinti e duemilaottocento tra acquarelli e disegni, mentre Van Gogh fu autore di quasi novecento dipinti e di più di mille disegni. Danno l’idea di una corsa disperata a produrre, quasi presaghi di un tempo limitato a disposizione.

Resta l’interrogativo di quel che avrebbero potuto fare in una seconda parte della loro vita. Non è detto che avrebbero continuato a produrre capolavori. In effetti potevano finire anche come De Chirico o come Picasso, a ripetere sempre più stancamente le stesse cose. Sono pochi gli artisti che abbiano superato nella maturità i risultati ottenuti nella giovinezza. Questo perché “Lo stile può trasformarsi in maniera. Questo avviene quando l’artista diventa consapevole del suo stile e di conseguenza viene meno l’immediatezza che caratterizzava la relazione tra lui e il suo stile. La perdita dello stile è una forma di oggettivazione, alienazione o esteriorizzazione. Gli artisti giungono a vedere il loro proprio stile dal punto di vista esterno della terza persona. Chagall forse aveva uno stile ma ora ha una maniera, e spesso si accusa di essere un auto-plagiario o, per essere generosi, di ripetere se stesso” (Regina Wenninger, Lo stile individuale dopo la fine dell’arte).

Dopo la fine dell’arte, appunto, e dopo il trionfo del mercato.

***

Di marzo vi do una peschiera,
[…] con pescatori e navicelle a schiera
e barche, saettie e galeoni
le quai vi portino tutte le stagioni
a qual porto vi piace a la primera.
(Folgore da San Giminiano)

cari al cielo04Marzo sembra un mese adatto ai viaggiatori e agli esploratori. Il nome che compare nella mia lista definitiva è quello di Mungo Park. È probabile lo avessi scelto perché non avevo ancora trovato né una edizione dei suoi scritti né una biografia dedicata. A tutt’oggi i suoi Viaggi all’interno dell’Africa non sono mai stati tradotti in italiano, così come non esistono nella nostra lingua sue biografie. Per averne notizie bisogna ancora rivolgersi alla Treccani. La stessa cosa accade comunque per René Caille, mentre le vicende di Meriwether Lewis e di John Hanning Speke sono abbastanza conosciute, non fosse altro perché sono stata raccontate in un paio di bel film.

Park morì mentre cercava di discendere su una canoa il corso del Niger e tentava di difendersi dai continui attacchi che gli erano portati dagli indigeni. All’epoca della progettazione del calendario non avrei dovuto tenere conto del Black Lives Matter, il movimento che abbatte i monumenti e vuol cancellare la memoria di coloro che a vario titolo sono considerati complici dell’asservimento e dello sfruttamento dei popoli di colore. Non lo faccio nemmeno ora, naturalmente, perché mi sembra uno dei cascami più stupidi della cultura “post-modernista”, ma non posso evitare di sottolineare come al momento in cui il fenomeno è esploso, un paio d’anni fa, ci sia stata la solita corsa dell’intellighentia di sinistra per mettersi al pari, Saviano in testa e gli altri subito dietro. Rendendosi ancora più ridicoli, perché hanno poi dovuto esibirsi in acrobatici distinguo per tenere in piedi il Colosseo o la Colonna Traiana.

Ma al di là di queste patetiche rincorse alle mode d’oltreoceano, il tema serio è quello del prevalere odierno della memoria particolaristica sulla storia. Una umanità senza storia è una umanità senza futuro. E infatti, questo pare il nostro destino.

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cari al cielo05Aprile, “il più crudele dei mesi”, non poteva essere dedicato che agli alpinisti. Sono quelli con le più alte probabilità di uscire prematuramente di scena. La ricerca di nomi da iscrivere nella lista non era stata difficile: ne compaiono addirittura dieci. Si parte da Mummery, che ricompare nell’elenco ristretto, perché in effetti la sua figura mi ha sempre affascinato, e poi vengono nell’ordine Mallory, Comici, Gervasutti, Paul Preuss, Willo Welzenbach, Casarotto, Gian Piero Motti e Andrea Oggioni. Ho poi saldato il mio debito con tutti costoro ne La tentazione dell’inutile, da cui riporto alcune considerazioni maturate nella mia pur limitatissima esperienza alpinistica: che è stata comunque quella della fine di un mondo e di un modo genuino e “divertito” di confrontarsi con la montagna, e dell’ingresso definitivo nella “lotta con l’Alpe” e nella spettacolarizzazione mercificata di quest’ultima. Di qui la simpatia per Mummery, che considero l’ultimo dei puri.

L’alpinismo non scaturisce da una naturale spinta biologica. Questa spinta non esiste in natura perché non risponde ad alcuna strategia di sopravvivenza o riproduttiva. Nessuno stambecco ha mai sentito il bisogno di salire in vetta al Gran Paradiso, pur vivendo appena mille metri più in basso. Il desiderio di scalare una montagna appartiene solo all’uomo: può essere giustificato, a seconda delle epoche, in maniere diverse, con motivazioni politiche, religiose, scientifiche, nazionalistiche, superomistiche, sportive, economiche o legate al successo: ma è comunque frutto di una elaborazione culturale. In due sensi: nel primo perché l’assenza di fini concreti in un’azione che richiede sacrificio, impegno, dispendio energetico, e al limite anche assunzione di rischio, è misura della distanza di questa azione dai dettami dell’istinto. Nel secondo perché penso che l’affermazione vada presa anche alla lettera; non è un caso se la gran parte degli alpinisti ha un livello di cultura superiore, e se un tempo la cosa poteva dipendere dalla diversa disponibilità di tempo e di denaro nelle differenti classi sociali, oggi questo discrimine non esiste più.

L’alpinismo è dunque una forma di cultura, per un verso soggetta al variare dei climi culturali, storicizzata, per l’altro legata ad un modo d’essere “naturalizzato” degli umani, effetto reversivo dell’evoluzione.

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Maggio è invece tutto per gli anarchici, altra categoria ad alto rischio. Lo è perché nel maggio del 1937 veniva ucciso a Barcellona da sicari stalinisti Camillo Berneri, del quale ho poi raccontato ne Le foglie secche dell’utopia, e che per me rappresentava già la figura esemplare per eccellenza. In realtà nella lista grande compaiono meno nomi di militanti dell’anarchismo di quanti avrei potuto aspettarmene. (Gaetano Bresci, Sante Caserio, Michele Schirru) tutti peraltro appartenenti all’ala “bombarola”, alla scuola di Bakunin, nella quale non mi sono mai riconosciuto. È vero che ci sono anche Bartolomeo Sacco e Nicola Vanzetti, anarchici di altra pasta, più vicini alla mia idea della militanza: ma non mi sorprende constatare che i grandi anarchici, quelli che all’azione hanno saputo unire un percorso di pensiero coerente, sono stati capaci di sopravvivere a lungo, a dispetto di vite rocambolesche, senza perdere il loro smalto.

cari al cielo06Il commento lo lascio a uno morto anche lui troppo presto, non tanto però da rientrare nei “cari agli dei”: Gustav Landauer.

Rivoluzione è diventata una parola alla quale ci siamo abituati a tal punto da non potercene staccare, anche se non ci crediamo più. Ci sono bambini che già da tempo sono in grado di bere dalla tazza, come si deve e a modino, ma non vogliono abbandonare il ciuccio.

Nel frattempo, però, coloro che non sono responsabili del fatto che la rinascita profonda e radicale della società tarda a venire, devono continuare a lavorare con energia e coraggio. A noi, che un tempo avevamo la rivoluzione nel cuore, spetta continuare a servire fedelmente l’amata segreta, anche se le dobbiamo attribuire altri nomi: bisogna creare organizzazioni economiche fondate sul mutuo appoggio, contando su tutti coloro che vogliono e possono farlo; educare all’autonomia e all’iniziativa individuale; organizzare la vita in modo indipendente e coraggioso; promuovere la rivolta contro ogni forma di autoritarismo; fare piazza pulita dei cascami e del marciume del passato, che s’insinua nel presente sotto forma d’istituzioni minacciose e ancora potenti. C’è così tanto da lavorare con se stessi e con gli altri che non si deve affatto disperare per il fatto di essere nati per caso in un tempo che mostra un volto diverso da quello che prima pareva ostentare.

Mi dilungo nella citazione di Landauer perché davvero le sue parole mi sembrano uscire dal tempo, e quindi anche dai limiti imposti al mio almanacco.

cari al cielo07È diventato quasi un dogma tra gli anarchici considerare l’uccisione dei capi di Stato, una volta compiuta, come qualcosa di anarchico. Si tenga conto che quasi tutti gli attentatori degli ultimi decenni si sono effettivamente nutriti di principi anarchici. Coincidenza singolare dirà l’ingenuo, perché cosa mai può 90 avere a che fare l’uccisione di altri uomini con l’anarchismo, con la dottrina del raggiungimento di una società senza Stato e senza costrizione autoritaria; cosa c’entra con il movimento contro lo Stato e contro la violenza legalizzata? Proprio niente. Ma gli anarchici si rendono conto che dottrine e proclami non bastano: non si può erigere la nuova società a causa della violenza di coloro che detengono il potere, pertanto – argomentano – accanto alla propaganda svolta con i discorsi e gli scritti e accanto all’opera di costruzione bisogna iniziare anche un’opera di distruzione. Sono troppo deboli per abbattere tutte le barriere, quindi è almeno necessario sollecitare l’azione, e poi con questa fare propaganda. Se i partiti politici fanno attività politica positiva, allora anche gli anarchici, come singoli, devono fare antipolitica positiva, cioè attività politica negativa. Tale ragionamento spiega l’attività politica degli anarchici, la propaganda del fatto, il terrorismo individuale. Non esito a dire con grande nettezza – e so bene che non mi guadagnerò encomi né da una parte né dall’altra – che l’antipolitica degli anarchici muove in parte dal tentativo di un piccolo gruppo di imitare i grandi partiti. Alla base c’è smania di protagonismo. Anche noi facciamo politica, dicono, non siamo inattivi, ed essi devono fare i conti con noi. A me pare che questi anarchici non siano abbastanza anarchici, perché rimangono un partito politico e addirittura portano avanti una primitiva politica riformatrice: uccidere uomini fa parte degli ingenui tentativi di miglioramento dei primitivi.

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Nella lista compaiono diversi altri nomi di libertari e di rivoluzionari, da Felice Orsini a Piero Gobetti, da Pisacane a Matteotti, fino ai fratelli Rosselli e ad Emiliano Zapata. Alcuni di loro non figurano tra gli anarchici solo perché non si sono mai definiti tali, e ciascuno avrebbe potuto degnamente rappresentare nel mese di giugno un più ampio schieramento libertario. Io ho scelto Gobetti, pur essendo molto tentato anche da Pisacane e da Orsini. Come Landauer, Gobetti aveva idee molto chiare sui rischi di una democrazia che non si fondasse in primo luogo su una rivoluzione delle coscienze, e sulle possibili involuzioni totalitarie di una rivoluzione calata dall’alto.

Nessun cambiamento può avvenire se non parte dal basso, mai concesso né elargito, se non nasce nelle coscienze come autonoma e creatrice volontà rinnovarsi e di rinnovare.

cari al cielo08Dove le condizioni obiettive non sono mature per uno sviluppo rigoroso, abbiamo processi patologici che dagli stessi principi conducono a conseguenze contrastanti; il liberismo diventa socialismo di stato, il liberalismo democrazia demagogica o nazionalismo dilettantesco, come in sede culturale la dialettica cede all’eristica e alla retorica.

E aveva anche lucidamente presenti le caratteristiche peculiari del popolo italiano:

In pratica le cose in Italia non cambiano mai, cambiano i nomi e le occasioni della storia, ma, in definitiva, i nostri mali e i nostri vizi rimangono sempre desolatamente uguali.

Il fascismo è il governo che si merita un’Italia di disoccupati e di parassiti ancora lontana dalle moderne forme di convivenza democratiche e liberali: per combatterlo bisogna lavorare per una rivoluzione integrale, dell’economia come delle coscienze.

Il mussolinismo è […] un risultato assai più grave del fascismo stesso, perché ha confermato nel popolo l’abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza.

Potrebbe scrivere le stesse parole ancora oggi.

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Luglio possiamo riservarlo ai pensatori e ai filosofi, e la scelta del capofila era all’epoca dettata dal mio entusiasta rapporto con l’opera di Furio Jesi e dal fatto di averlo mancato per un soffio di persona. Avremmo dovuto incontrarci un fine settimana, eravamo curiosi l’uno dell’altro, io senz’altro molto più di lui, ma Jesi era morto per un incidente domestico due giorni prima dell’appuntamento. Aveva naturalmente trentanove anni.

cari al cielo09Non mi ero appuntato molti altri nomi: solo Otto Weininger, Carlo Michelstaedter e Claudio Baglietto. I pensatori e gli studiosi sembrano vivere molto a lungo (è scientificamente provato che pensare allunga l’esistenza: immagino sia per questo che l’aspettativa di vita ultimamente si sta abbassando) e comunque, dovessi stilare oggi la lista, non saprei chi aggiungere. Non era solo l’età del decesso ad intrigarmi, ma ciò che l’aveva preceduta. Weininger e Michelstaedter addirittura si erano dati la morte a ventitré anni, ma prima avevano prodotto cose come Sesso e carattere e La Persuasione e la Rettorica. L’una e l’altra opera possono essere discutibili sotto molti aspetti (quella di Weininger praticamente sotto tutti), ma appunto, obbligano alla riflessione, alla discussione, e lasciano intravvedere uno sforzo intellettuale immane. Forse proprio il timore di non poter andare oltre ha determinato le tragiche scelte degli autori. Baglietto era invece allora un filosofo quasi sconosciuto, e lo rimane ancor più oggi. Non ha lasciato opere epocali, ma ha testimoniato la sua tempra etica, di stampo kantiano, rompendo con l’ambiente accademico che gli faceva ponti d’oro (Gentile era un suo sponsor convinto) e scegliendo di contrapporsi al fascismo con l’esilio.

Quanto a Jesi, andrebbe riletto oggi con attenzione, magari anche con atteggiamento critico, per ritrovare i fondamentali della distinzione tra destra e sinistra, quella distinzione che oggi si dichiara scomparsa: “La cultura di destra è quella entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra”.

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Per la seconda metà dell’anno ho faticato un po’ a definire altre categorie. Quelle individuate all’epoca mi sembravano meno rappresentative, senz’altro erano meno rappresentate nelle mie liste. Evidentemente ad un certo punto il gioco, oltre ad essere ozioso, rischiava di diventare anche noioso. Anche ora comincio ad annoiarmi un po’, ho già la mente ad altri intriganti rinvenimenti, per cui cercherò di tirar via il più velocemente possibile. Ma non assicuro di riuscirci.

cari al cielo10Agosto vede comunque protagonisti gli scienziati. Nella lista avevo appuntato un paio di matematici, Evariste Galois, naturalmente, e Niels Abel, e altrettanti fisici, Ettore Majorana e Aldo Pontremoli, accomunati soprattutto dalla tragicità delle loro vicende e in un paio di casi dal mistero che ancora le circonda. Galois è famoso, prima ancora che per il suo contributo alla soluzione delle equazioni algebriche, per l’assurdità delle circostanze della sua morte. Il norvegese invece non lo è, mentre meriterebbe cento volte di esserlo, sia per l’impulso fondamentale dato alla disciplina che a risarcimento della sfortuna che lo accompagnò lungo tutta la sua breve esistenza. Per due volte Abel presentò a università diverse, in Danimarca e a Parigi, delle memorie scientifiche che avrebbero rivoluzionato gli studi matematici, ed entrambe le volte l’ambiente accademico le smarrì. Il che può farci immaginare quanto altro sapere debba essere andato disperso nel confronto con istituzioni culturali come minimo fossilizzate e distratte, e più spesso governate da logiche lobbistiche. È quindi Abel, cui fu recapitata la nomina ad una cattedra all’università di Berlino due giorni dopo che era morto praticamente di stenti, l’uomo di agosto.

Abel scriveva: “Per arrivare ad un risultato specifico, bisogna dare al problema una forma tale in modo che sia sempre possibile risolverlo, cosa che si può sempre fare con qualsiasi problema. Invece di affaticarci intorno ad una soluzione che non sappiamo se esista o no, domandiamoci piuttosto se tale soluzione è possibile… Presentando il problema sotto questa forma, l’enunciato stesso contiene il germe della soluzione e indica la strada che deve essere presa per giungervi, e io credo che vi siano pochi casi in cui non si possa arrivare a risultati più o meno importanti, anche se non si può rispondere completamente al quesito a causa della complessità dei calcoli”.

Si riferiva alla soluzione delle equazioni generali, quelle di grado superiore al quarto. Ma mi sembra che l’indicazione di metodo possa valere per qualunque problema, di qualsiasi tipo: prima di pretendere una soluzione, cerca di capire la vera natura del problema.

Più in generale però gli scienziati confermano quanto dicevo sopra sulla longevità di chi studia e pensa molto. Ho constatato che tendono a campare sino ad età molto avanzate (la Levi Montalcini ne è un esempio recente), e soprattutto ad arrivarci in piena lucidità. E sono la categoria che trae maggior vantaggio da una prolungata esperienza, ovvero che migliora invecchiando.

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Settembre è allietato dai musicisti. Al contrario degli scienziati, i musicisti sembrano però godere di una salute piuttosto cagionevole. Alzando solo di un paio d’anni il limite ne avrei imbarcati parecchi altri. Non so darmene alcuna spiegazione. Anche così comunque la rappresentanza era già notevole. Ci rientravano Mozart, Chopin, Bellini, Schubert, Mendelssohn Bartholdy, Georges Bizet. E mi ero limitato a pescare nell’arco di meno di un secolo, in quello che considero il periodo d’oro della musica.

cari al cielo11Credo che per i musicisti valga almeno in parte quanto ho già detto per i pittori e gli artisti in generale. Il rischio è la ripetitività. E tuttavia la reazione indotta è diversa: un ascoltatore è portato a cercare e ad apprezzare il riconoscimento di una particolare “impronta”. L’ambizione di ogni musicofilo è di riconoscere da quattro note prese a caso qualsiasi sinfonia. Ora, non voglio infilarmi in speculazioni per le quali non ho gli strumenti, ma mi sembra ovvio che nasca tutto dalla diversa modalità della percezione. Nell’ascolto entra in ballo il tempo anziché lo spazio. Mentre i colori e forme sono fissati e immobili, i suoni arrivano in sequenza, viaggiano, e sono resi più significativi proprio dal loro ritorno. Ho trovato qualche giorno fa questa considerazione (di un pittore che ama la musica): “Il brano mi provoca l’emozione in quanto ce l’ho dentro, lo conosco e so che di lì a poco, mentre ascolto il susseguirsi delle note iniziali, sta per arrivare la parte che mi colpisce maggiormente. È come quando aspetti una persona cara alla stazione, e sai che quando il treno si ferma scenderà, a momenti”. Rende bene l’idea. È vero che mi procura emozione anche vedere un dipinto, e che se si tratta di un’opera che amo particolarmente questa emozione si ripete ad ogni nuovo incontro; ma non posso negare che di fronte alla sua “immobilità” si attivi anche la razionalità analitica, che mi spinge di volta in volta a coglierne sempre più i dettagli anziché l’assieme. Questo mi spiega perché, ad esempio, dell’impressionismo apprezzi più l’espressione musicale (Ravel, Debussy, …) che non quella pittorica. E perché all’epoca avessi scelto George Bizet come uomo di settembre.

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cari al cielo12Le due categorie successive risultano in realtà un po’ forzate e non del tutto congruenti con il progetto dell’almanacco. Quella dei personaggi dello sport, ad esempio, per la quale avevo annotato i nomi di Serse Coppi, di Stan Ockers, di Alessandro Fantini e di Tommy Simpson (quest’ultimo poi inserito anche nella lista ristretta), non ha molto senso. È evidente che uno sportivo a quarant’anni deve aver già dato tutto il meglio di sé, sia esso un pugile o un ciclista. A meno di far rientrare nella categoria i giocatori di scacchi, quelli di bocce o quelli di biliardo. Io avevo pescato solo nel mio sport preferito. Ci sarebbe stata anche la boxe, e lì il problema non era certo quello di trovare atleti morti prematuramente: negli ultimi centotrenta anni ne sono deceduti sul ring più di seicento. Era piuttosto di trovare un senso, una giustificazione a queste morti, che infatti non ne hanno. I ciclisti che ho nominato sono scomparsi invece all’apice di sfolgoranti carriere, due di loro erano stati campioni del mondo, tutti avevano vinto grandi classiche. La loro parabola era almeno parzialmente compiuta. Sono rimasti nella storia dello sport come dei vincenti. Tutto sommato è giusto che illustrino il mese di ottobre, quello in cui si chiudono le competizioni su strada e si fanno i bilanci.

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Altrettanto difficile era stato, a giudicare dalla lista, individuare protagonisti fortemente simbolici tra i personaggi dello spettacolo. Scartati i nomi più ovvii, da James Dean a Marylin Monroe, attorno ai quali è scattata l’artificiosa mitologizzazione della società dello spettacolo, avevo finito per annotare il solo John Garfield.

Garfield aveva in effetti tutti i requisiti. Era cresciuto nelle gang di strada, aveva scaricato la sua aggressività nella boxe, per quasi un anno aveva vagabondato per tutto il paese saltando da un treno all’altro come Jack London, si era affermato nel teatro e affiliato a un gruppo di simpatizzanti della sinistra: tutto questo prima dei vent’anni. Poi erano venuti la carriera cinematografica, il successo con Il postino suona sempre due volte, la fondazione di una casa produttrice indipendente, la messa sotto accusa durante la caccia alle streghe scatenata dalla commissione McCarty. Al momento della morte, poco dopo il compimento dei fatidici trentanove anni, la sua parabola era in netto declino.

Una biografia avvincente, sotto ogni aspetto: ma il tratto fondamentale, per quanto mi concerneva, era il legame col mondo della boxe. Garfield non solo l’aveva praticata, e a buon livello, ma l’aveva portata due volte sullo schermo, in Hanno fatto di me un criminale e soprattutto in Anima e corpo, uno dei film più duri e realistici mai girati sul pugilato. Li ho visti entrambi, ad una età nella quale il mio sogno maggiore era la cintura europea dei mediomassimi (non quella mondiale: come ho già detto, avevo una precoce conoscenza dei miei limiti, e a livello mondiale giravano allora personaggi come Cassius Clay e Archie Moore).

I film sul pugilato costituivano un avvenimento. La televisione era di là da venire, almeno a casa mia, e seguivo gli incontri per radio, cercando di immaginare i montanti, gli uppercut, le schivate. Visto sullo schermo tutto questo, per quanto fittizio, era ben altra cosa. Anima e corpo, Stasera ho vinto anch’io, con Robert Ryan e L’uomo di ferro, con Jeff Chandler, erano schizzati in testa al mio indice di gradimento, superavano persino i migliori western. E gli attori che li interpretavano sono rimasti a far parte del mio ristrettissimo pantheon.

Dagli anni Sessanta, dopo che i miei sogni avevano ormai gettata la spugna, di film sul pugilato ne sono stati girati parecchi, un centinaio almeno. Dalla interminabile saga di Rocky a Il campione, da Toro scatenato fino ad Alì e oltre. Ma non è più stata la stessa cosa: il colore, gli effetti speciali, il sangue che schizza sull’obiettivo, tutto questo li rende esasperati e poco credibili.

cari al cielo13L’eroe-simbolo del mese di novembre è dunque Garfield, del quale riporto una battuta tratta da Il postino suona sempre due volte: “È come quando stai aspettando una lettera che non vedi l’ora di ricevere, e tu fai su e giù davanti alla porta per paura di non sentire il postino. Non tieni conto che il postino suona sempre due volte”.

Una lettera, magari col francobollo? Ma in che mondo, in che secolo ho vissuto?

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cari al cielo14Se qualcuno è riuscito a seguirmi sino a questo punto si sarà accorto che non ho ancora citato una sola figura femminile. Nella lista originaria in realtà alcuni nomi di donna c’erano, ma ho preferito raggrupparli in una categoria e in un mese a parte. Senza alcun intento discriminatorio, checché se ne vorrà pensare: se non avessi fatto così avrei rischiato davvero di non citarle o di lasciarle a margine. Nella lista compaiono i nomi di Ada Lovelace, la figlia di Byron, una matematica che già nella prima metà dell’Ottocento aveva contribuito alla realizzazione della prima macchina analitica, un rudimentale computer; di Rosalind Franklin, che scoprì il DNA ma venne vergognosamente esclusa da un Nobel strameritato, di Charlotte Brönte, delle viaggiatrici Isabelle Eberhardt, Annemarie Swarzenbach e Amelia Earhart, e infine quello di Simone Weil, poi transitato nell’elenco ristretto, per la filosofia. Sulla Weil, che era stata oggetto del mio primo (ed unico) corso tenuto all’università, sono tornato a più riprese, anche ultimamente, prendendo a dire il vero una sempre maggiore distanza. Non è dunque lei la regina di dicembre. In un libro letto recentemente[1]. ho invece scoperto che la Franklin era riservata, aspra e diffidente, poco attraente e molto gelosa del proprio lavoro (il suo rivale Watson, quello che le sottrasse il merito della scoperta, la definisce come “la terribile e bisbetica Rosy”). Sarebbe bastato anche meno a rendermela simpatica. Merita di essere il simbolo di questo mese che non cancella il passato ma lo archivia, e apre al futuro.

Dovessi aggiornare ad oggi le liste mi troverei in difficoltà. Le donne hanno la scorza più dura e tagliano più facilmente la boa dei quarant’anni. E fioriscono intellettualmente più tardi. Per un motivo semplice. Una donna deve impiegare metà della sua esistenza a liberarsi degli stereotipi che le hanno inculcato, degli abiti che le hanno cucito addosso, e riesce ad esprimersi compiutamente solo dopo. Questo alla longevità, si guardi ad esempio ad un qualsiasi elenco delle viaggiatrici più famose: a parte le tre che ho citato io, vi figurano una centenaria (Freya Stark) e diverse ultranovantenni: lo stesso vale per le scienziate.

Al di là di questo andrebbe comunque chiarita una volta per tutte l’annosa questione: la scarsa presenza femminile, e non mi riferisco solo alle mie futili liste, ma più in generale ad ogni narrazione storica, è solo frutto di pregiudizi radicati in una cultura e in una società maschiliste, o ha motivazioni oggettive? Non è certo un almanacco semi-serio la sede più adatta per dirimerla, ma penso che almeno un paio di telegrafici spunti di riflessione possano venire anche da queste pagine.

Partiamo dai dati di fatto. Il dimorfismo sessuale esiste in natura, è comune a tutte le specie, ed è particolarmente accentuato proprio tra quelle a noi più prossime, i primati antropomorfi. Negli umani, peraltro, si è di molto ridimensionato, almeno per quanto riguarda peso, altezza, ecc., e questo in conseguenza del carattere reversivo della evoluzione culturale. In altre parole, la progressiva redistribuzione dei ruoli tra i due generi ha favorito la selezione di caratteristiche morfologiche meno distintive. Quindi, non ci piove sulle differenze, tra le quali quella di fondo, e almeno per il momento l’unica ancora incontestabile, rimane la funzione riproduttiva: ma non piove nemmeno sul fatto che le differenze si vadano riducendo.

Ora, io credo che occorra distinguere tra ciò che è una condizione e ciò che rappresenta una situazione. La condizione è un dato di natura, la situazione è un portato storico, cioè culturale. Il dato di natura è che fino ad oggi l’anatomia maschile è risultata più adatta a certe attività, lavorative, militari o ricreative, il portato storico è che queste attività sono state costruite nel tempo su misura dell’anatomia maschile, quello culturale è che tale “superiorità” fisica è stata poi estesa a presunzione di superiorità intellettiva e trasportata in altri ambiti, quali quello politico, quello scientifico e più genericamente tutti quelli delle attività di ingegno.

La polarizzazione dei ruoli ha toccato il suo apice nelle civiltà classiche (in quella greca più che in quella romana), ha cominciato ad essere erosa dal cristianesimo (almeno da quello originario) e nel corso del medioevo, ha retto a stento ai colpi della rivoluzione scientifica e a quella industriale, è stata messa sotto accusa a partire dall’Ottocento. Con la conseguenza che là dove i “limiti” biologici non entravano in gioco, o quelli supposti dalla cristallizzazione dei ruoli erano superati dall’avvento di tipi e modalità diversi di espressione (un esempio potrebbe essere, in letteratura, il passaggio dal poema cavalleresco al romanzo, o più ancora, l’avvento della stampa e quindi di nuove modalità di fruizione della lettura) si sono create situazioni di “pari opportunità”. La Austen, le sorelle Brönte e Virginia Wolf non sarebbero d’accordo, ma nessuna scrittrice contemporanea potrebbe negarne l’esistenza. Lo stesso vale, sia pure con qualche ritardo in più, per la musica e per le arti.

Bene, a questo punto devo allora a maggior ragione spiegare (e quando scrivo spiegare non intendo “giustificare”: l’almanacco è mio e me lo immagino come voglio io) l’esigua presenza di figure femminili nelle mie liste. È presto fatto. Le mie liste riguardavano alcune attività nelle quali i limiti biologici sono prevalenti, e altre nelle quali non erano ancora stati superati i tabù dettati culturalmente. Gli esempi possono essere quelli dell’alpinismo, o delle esplorazioni, per il primo caso, e quello dell’anarchismo per il secondo. Voglio dire con questo che l’alpinismo è un’attività riservata ai maschi, perché hanno fisici più robusti? No, intendo dire che è un’attività prima di tutto “pensata” con mentalità maschile (spirito di conquista e di avventura), che nasce e che si basa su un tipo particolare di consapevolezza fisica. Che venga poi esercitata oggi ad ottimi livelli anche da donne non è una prova di “parità”, e nemmeno, a voler essere sinceri, di “pari opportunità”, perché quelle biologiche non lo sono affatto. Significa solo che anche alcune donne hanno adottato un rapporto “aggressivo” con la montagna, non in competizione, ma ad imitazione dei maschi. Tanto più la cosa vale per altri sport, come il calcio, il rugby o il pugilato. Questi non sono passi avanti, ma denunciano anzi una colonizzazione in profondità della psicologia femminile.

Altro discorso va fatto per la scarsa visibilità delle donne in categorie (anarchici, libertari, ecc…) che sino a ieri sono state appannaggio “culturale” dei maschi. In questo caso l’idea che si tratti di una presenza “gregaria” è frutto del persistere di una deformazione ottica che coglie e privilegia solo attività “muscolari”, perché in realtà ogni momento “rivoluzionario”, dalla nascita del cristianesimo all’esplosione delle eresie, dalla rivoluzione francese alla resistenza al nazifascismo, ha sempre trovato le donne in prima linea. Si pensi ad esempio all’operato di Ada Gobetti o a quello di Giovanna Caleffi e Maria Luisa Berneri, rispettivamente moglie e figlia di Camillo. Eppure le loro figure rimangono nell’ombra dei mariti o dei padri.

Perché non erano “care al cielo”, per loro fortuna, ma soprattutto perché la lista l’ho compilata quarant’anni fa, quando ancora contavo di redigerne un sacco di altre, e magari di riservarne alle donne una specifica, basata su criteri un po’ meno peregrini. Ora il tempo non c’è più, ma almeno un accenno sono riuscito a farlo. Evitando di porgere omaggi, ma riconoscendo loro semplicemente quello che loro spetta.

Alla fine, l’almanacco è praticamente già composto. Non resterebbe che aggiungere qualche immagine, inserire il calendario, reimpostare la grafica e stamparlo. Ma temo che il tempo massimo per gli almanacchi sia scaduto da un bel po’. Persino il passeggere leopardiano tirerebbe dritto senza acquistarlo.

[1] Brenda Maddox, Rosalind Franklin: La donna che scoprì la forma del DNA, Mondadori, 2004

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