Un americano alla prova dei truck stop

di Paolo Repetto, 11 aprile 2024

Avevo in mente da un pezzo di riprendere il discorso su Bill Bryson, discorso che in realtà sino ad ora è rimasto limitato a brevissimi accenni nei consigli di lettura. Non l’ho fatto prima perché davo Bryson per scontato, conosciuto da tutti i frequentatori di questo sito, un po’ come Chatwin. Mi sembrava ci fosse in fondo poco da dire, se non rinnovare l’invito a leggere i suoi spassosissimi diari di viaggio, a partire dal celeberrimo Una passeggiata nei boschi.

Bryson non ha scritto però solo taccuini di vagabondaggio. Nella sua bibliografia trovano posto anche opere di tutt’altro genere, cose come Breve storia di (quasi) tutto, Breve storia della vita privata, Breve storia del corpo umano, e ancora, Vestivamo da Superman o Il Mondo è un teatro. Trattano argomenti molto diversi, ma sono unite tra loro e anche ai racconti di viaggio da un piglio e uno stile paragonabili solo a quelli di Mark Twain, da un approccio apparentemente scanzonato ma in realtà capace di cogliere i dettagli essenziali e davvero significativi di ambienti, persone, vicende.

Non sono sicuro che questa parte del suo repertorio di scrittura sia altrettanto conosciuta. Conto dunque di tornarci su, ma non ora: mi piacerebbe allargare un po’ più in generale il discorso alla divulgazione narrativa, che qui da noi non è molto praticata, e per farlo ho bisogno di maggiore concentrazione. Per il momento mi limito invece a proporre una selezione di pagine tratte da America Perduta, libro d’esordio del nostro, che già contiene tutto il Bryson che cerchiamo quando prendiamo in mano un suo scritto.

A me è capitato di rileggerlo a distanza di quasi trent’anni dal primo incontro, e a differenza di quanto accade in genere con la rilettura di testi che ti avevano entusiasmato in un periodo particolare della tua vita, perché direttamente legati ad esperienze o a stati d’animo che stavi vivendo (tre decenni fa ero ancora nel pieno della mia attività di girovago), non mi ha affatto deluso. L’ho riletto naturalmente con occhi nuovi, cercandovi cose che alla prima lettura potevano essermi sfuggite; e mentre all’epoca ricordo di aver provato soprattutto il piacere della scoperta di un’America profonda, quella sterminata e semi-sconosciuta che sta tra le due coste, questa volta vi ho trovato soprattutto delle conferme e delle spiegazioni.

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Insomma, uno che ha amato la storia degli Stati Uniti in tutte le sue sfaccettature, che si è svezzato coi fumetti e col cinema western, che si è nutrito nell’adolescenza dei libri di Twain, di London e di Steinbeck, e poi di Kerouack e di Salinger, nonché dei gialli di Chandler e di Hammett, non può, a dispetto di tutto ciò che ha poi appreso sulla politica sporca, sulle attività della CIA, o di tutte le evidenze della superficialità dell’american way of life, non conservare in fondo all’anima tracce del mito americano. E allora tanto più si chiede come un paese così grande e così ricco di tradizione democratica possa essere arrivato negli ultimi decenni ad affidarsi a personaggi come Bush jr e come Trump, e a ritrovarsi addirittura quest’ultimo quale probabile futuro presidente per la seconda volta.

Bene, in America perduta era già prefigurato quanto stava per accadere. Dopo quasi vent’anni di assenza (si era trasferito in Inghilterra ventenne, aveva iniziato a lavorare lì come giornalista, lì si era sposato e aveva preso casa) o perlomeno di fugaci rimpatriate, Bryson torna a vagabondare per gli Stati Uniti nei tardi anni Ottanta, intenzionato a ritrovare suoni, sapori e immagini della sua infanzia. Naturalmente non ci riesce, perché è cambiata l’America e soprattutto è cambiato lui: ma con un tragitto a doppio anello di oltre ventimila chilometri, a bordo della vecchia Chevrolet della madre, batte quella parte del paese che ancora non conosceva (e sulla quale aveva tanto fantasticato), oltre a ripercorrere le strade lungo le quali aveva invece viaggiato per le rituali gite familiari. Non riconosce la “sua” America, o meglio, la conosce adesso sia per come veramente era all’epoca che per come è diventata. Non si può dire che non gli piaccia, e neppure che ne sia entusiasta. Parrebbe far suo il giudizio espresso da Jack Nicholson in Easy Rider: l’America è un grande paese, peccato che ci siano gli americani.

Comunque, America perduta è uno di quei libri che non tollerano riassunti e analisi critiche: vanno letti e basta. A coloro che ancora non lo avessero fatto (ma anche agli altri), propongo appunto una serie di frammenti che dovrebbero fornire almeno un’idea di quel che si sono persi. Ho scelto quattro momenti di sosta, quelli destinati alla cena, al rilassamento dopo ore di guida e ad un bilancio della giornata. Naturalmente i locali frequentati sono quelli tipici del viaggiatore di lungo corso. A mio parere qui Bryson dà davvero il meglio: non racconta, non spiega, non dà giudizi, apre dei siparietti spassosissimi ma tutt’altro che fini a se stessi, perché rivelano dei suoi interlocutori (in questo caso, delle sue interlocutrici) molto più di qualsiasi tentativo di descrizione. E rende facile anche a noi percepire attraverso le reazioni scocciate, meccaniche o ossessive (non solo quelle degli interlocutori, anche le sue) quell’atmosfera pregna di monotonia, di solitudine e di distanza che sembra caratterizzare la vita americana, quella che già abbiamo conosciuto attraverso i dipinti di Hopper e soprattutto attraverso innumerevoli film on the road.

Non nascondo infine che sulle scelte ha influito anche l’aver riconosciuto nei modi di fare e di pensare di Bryson certi atteggiamenti propri di un amico col quale ho viaggiato ultimamente (e che già avete potuto conoscere proprio su questo sito). Immaginarlo seduto in quegli improbabili posti di ristoro in mezzo al deserto o in cittadine quasi fantasma ha raddoppiato il divertimento.

Ma non vado oltre: meglio lasciar parlare l’originale.

(i numeri di pagina si riferiscono all’edizione Feltrinelli Traveller 1993)

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pag. 54 Carbondale (Illinois)

[…] Malinconicamente e faticosamente arrivai al Pizza Hut, e una cameriera mi fece accomodare a un tavolo con vista sul parcheggio.

Tutti mangiavano delle pizze grandi come ruote di un pullman. Proprio davanti a me – non c’era via di scampo – un uomo super-obeso, sui trent’anni, si ficcava in bocca intere fette di pizza, come un mangiatore di spade. C’era una tale gamma di tipi e dimensioni di pizze, tali varietà che mi sentii quasi perso. La cameriera si avvicinò: “Ha scelto?”

“Ancora un momento”, replicai. “Per favore.”

“Non si preoccupi,” aggiunse. “Ritorno più tardi.”

Sparì, uscì dal mio raggio visivo, contò fino a quattro e poi riapparve. “Vuole ordinare?”, chiese.

“Se non le dispiace”, dissi “vorrei aspettare ancora un po’.”

“OK”, disse seccata andandosene. Questa volta contò forse fino a venti, ma, quando si rifece viva, io vagavo ancora nel mare magnum di possibilità e opzioni che il Pizza Hut offriva.

“È un po’ lentino, Lei, vero?” asserì vivace.

Ero imbarazzato. “Mi dispiace. Sono un po’ stordito. Sa … sono appena uscito di prigione.”

Stralunò gli occhi. “Non dirà sul serio?”

“Eh, si. Ho ucciso una cameriera che mi metteva fretta.”

Abbozzando un sorriso indietreggiò, e mi lasciò tutto il tempo di cui avevo bisogno per decidere. Alla fine optai per una pizza media, ai peperoni, con doppia porzione di cipolle e funghi. Una pizza che vi consiglio vivamente di assaggiare.

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pag. 165 Littleton (New Hampshire)

[…] Entrai nel ristorante, il Topic of the Town. Gli altri clienti mi sorrisero, la signora alla cassa mi mostrò dove appendere la giacca e la cameriera, una signora piccola e grassottella, si prodigò in tutti i modi per offrirmi il servizio migliore. Era come se avessero somministrato a tutti un meraviglioso tipo di tranquillante.

Quando la cameriera mi portò il menù, commisi l’errore di dire grazie. “Prego”, rispose lei. Una volta innescato questo meccanismo non c’è modo di fermarlo. Poi la signora pulì il mio tavolo con uno straccetto umido. “Grazie”, dissi. “Prego”, rispose. Mi portò le stoviglie avvolte in un tovagliolo di carta. Esitai, ma non riuscii a trattenermi. “Grazie”, dissi. “Prego”, rispose. Quindi arrivò con la tovaglietta con sopra scritto Topic of the Town, poi con un bicchiere d’acqua, poi con un posacenere pulito, poi con un cestino con i salatini nella loro confezione di cellophane e a ogni gesto ci scambiammo quelle formali gentilezze. Ordinai del pollo fritto speciale. Mentre aspettavo incominciai a essere a disagio perché i miei vicini di tavolo mi osservavano e mi sorridevano in modo inquietante. Anche la cameriera mi stava osservando, appostata vicino alla porta della cucina. In un certo senso era snervante. A ogni piè sospinto lei veniva al mio tavolo per riempirmi il bicchiere di acqua ghiacciata e per dirmi che avrei dovuto aspettare ancora un minuto per la mia ordinazione.

“Grazie”, dicevo.

“Prego”, rispondeva lei.

Alla fine uscì dalla cucina reggendo un vassoio grande come un tavolo, e iniziò a disporre i piatti davanti a me: minestra, insalata, un piatto di pollo, un cestino di panini caldi. Tutto aveva l’aria di essere appetitoso. Improvvisamente mi resi conto di avere una fame da lupi.

“Desidera qualcos’altro?”

“No, grazie. Va tutto benone”, risposi, impugnando coltello e forchetta, pronto a buttarmi sul cibo.

“Desidera del ketchup?”

“No, grazie.”

“Gradisce ancora un po’ di condimento nell’insalata?”

“No, grazie.”

“Ha abbastanza salsina sul pollo?”

Ce n’era abbastanza per annegarci un cavallo. “Sì, c’è molta salsina, grazie.”

“Che ne direbbe di una tazza di caffè?”

“Şul serio, sono a posto così.”

“È sicuro di non desiderare nient’altro?”

“Potrebbe andarsene fuori dalle palle e lasciarmi mangiare in pace?” avrei voluto rispondere, ma ovviamente non dissi nulla. Mi limitai a sorridere garbatamente e a rispondere: “No, grazie”, e quella dopo un po’ si ritirò. La donna rimase in piedi con la brocca dell’acqua ghiacciata in mano, senza però togliermi gli occhi di dosso per tutto il pasto. Ogni volta che bevevo un sorso d’acqua, si avvicinava al tavolo e lo riempiva fino all’orlo. Quando allungai la mano per prendere il pepe la cameriera fraintese la mia mossa e avanzò con la brocca in mano, ma dovette fare dietrofront. Dopo di che, ogni volta che lasciavo le posate per un qualsiasi motivo, le mimavo ciò che stavo per fare, per esempio “Sto per imburrare il pane”, tanto per evitarle di correre al mio tavolo con la brocca in mano. Nel frattempo le persone del tavolo accanto mi osservarono mangiare con un sorriso d’incoraggiamento. Friggevo dalla voglia di andarmene.

Quando terminai il pasto, la cameriera mi propose i dessert:

“Le andrebbe una fetta di crostata? C’è ai mirtilli, alle more, ai lamponi, alle more selvatiche, ai mirtilli bianchi, ai ribes rossi, ai ribes neri e all’uva spina”.

“Caspita! No, grazie, ho mangiato fin troppo”, dissi mettendomi le mani sullo stomaco. Sembrava che mi fossi nascosto un cuscino sotto la camicia.

“Cosa ne direbbe invece di un bel gelato? Abbiamo stracciatella, cioccolato speciale, cioccolato amaro, cioccolato bianco, bacio, cioccolato e menta, riso soffiato e cioccolato con e senza stracciatella.”

“Non ha del cioccolato semplice?”

“No, mi dispiace, non c’è molta richiesta.”

“Allora credo che non prenderò niente.”

“Che ne dice di una fetta di torta? Abbiamo…”

“Guardi, proprio no, grazie.”

“Caffè?”

“No, grazie.”

“Sicuro?”

“Sì, grazie.”

“Le porterò ancora un po’ d’acqua allora”, e scattò a prendere l’acqua prima ancora che riuscissi a dirle di portarmi il conto. Le persone del tavolo accanto osservarono la scena con interesse, e sorrisero come volessero dire: “Noi siamo completamente fuori di testa. Lei come sta?”.

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pag 176 Elmira (Stato di New York)

[…] Erano quasi le nove quando mi fermai in un motel alla periferia di Elmira.

Andai direttamente fuori a cena ma, poiché quasi tutti i locali che incontravo erano chiusi, finii per mangiare nel ristorante di un bowling in aperta contravvenzione alla terza norma di Bryson sul cenare in una città sconosciuta. Generalmente non credo nel fare le cose per principio e poi si tratta di un principio tutto mio ma ho elaborato sei norme riguardanti la cena al ristorante che cerco di non trasgredire. Eccole:

  1. Mai cenare nei ristoranti che espongono le fotografie delle specialità. (E se lo si fa, mai credere alle fotografie.)
  2. Mai cenare nei ristoranti rivestiti con carta da parati ruvida.
  3. Mai cenare nei ristoranti dei campi da bowling.
  4. Mai cenare nei ristoranti dove si sente ciò che dicono in cucina.
  5. Mai cenare nei ristoranti che offrono intrattenimento dal vivo, il cui nome contenga una delle seguenti parole: Hank, Rhythm, Swinger, Trio, Combo, Hawaiian, Polka.
  6. Mai mangiare nei ristoranti che hanno i muri schizzati di sangue.

Nella fattispecie il ristorante del bowling risultò abbastanza accettabile. Attraverso le pareti si sentiva il rimbombo smorzato dei birilli che cadevano, le urla delle parrucchiere e dei carrozzieri di Elmira che si divertivano. Ero l’unico cliente del ristorante. Per cui ero l’unico ostacolo tra le cameriere e la fine del loro servizio. Mentre aspettavo di essere servito, le ragazze sparecchiarono gli altri tavoli, tolsero posacenere, zuccheriere e tovaglie, cosicché dopo un po’ mi trovai a cenare solo, in una grande sala, con una tovaglia bianca, una candela baluginante in una lampada rossa, in mezzo a un’arida distesa di tavoli di laminato.

Le cameriere, appoggiate alla parete, mi osservavano mentre masticavo. Dopo un po’ iniziarono a bisbigliare e ridacchiare, sempre senza togliermi lo sguardo di dosso, cosa che trovai francamente scocciante. Avrei dovuto immaginarmelo, ma ebbi anche la netta impressione che qualcuno stesse girando un interruttore, perché la luce della sala si abbassava gradatamente. Alla fine del pasto riconoscevo il cibo al tatto e, a volte, dovevo abbassare la testa sul piatto per annusare. Prima ancora di terminare, quando mi fermai un secondo per bere un bicchiere d’acqua ghiacciata, nel buio dietro il lume di candela, la cameriera mi sfilò via il piatto e mi lasciò il conto sul tavolo.

“Desidera altro?”, mi chiese, con un tono che suggeriva che sarebbe stato meglio rispondere di no. “No, grazie”, dissi gentilmente. Mi pulii la bocca con la tovaglia, dato che il mio tovagliolo si era perso nell’oscurità, e aggiunsi la settima norma alla mia lista: mai andare nei ristoranti dieci minuti prima dell’orario di chiusura. Tuttavia, un pessimo servizio non mi dà mai fastidio. Non mi fa sentire in colpa se non lascio la mancia.

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pag. 263 Sonora (California)

[…] D’umore perfido, presi l’auto e andai a cena in città in un ristorante da poco. Dopo un bel po’ arrivò la cameriera a prendere l’ordinazione. Aveva un’aria volgare e la fastidiosa abitudine di ripetere tutto ciò che le dicevo.

“Vorrei un petto di pollo impanato”, dissi.

“Desidera un petto di pollo impanato?”

“Sì. E un contorno di patatine fritte.”

“Desidera un contorno di patatine fritte?”

“Sì. E desidererei anche un’insalata ben condita.”

“Desidera anche un’insalata ben condita?”

“Sì, e una Coca Cola.”

“Desidera una Coca Cola?”

“Mi scusi signorina, ma ho avuto una brutta giornata e se non la smette di ripetere tutto ciò che dico, prendo la bottiglia di ketchup e gliela rovescio tutta sulla camicetta.”

“Prende quella bottiglia di ketchup e me la rovescia tutta sulla camicetta?” A dir la verità non la minacciai col ketchup; per il semplice fatto che la signorina poteva sempre avere un fidanzato grande e grosso che mi avrebbe picchiato. Inoltre, una volta conobbi una cameriera che mi disse che quando un cliente era maleducato con lei, andava in cucina e gli sputava nel piatto. Da allora non sono più stato sgarbato con una cameriera e non ho più mandato indietro un piatto poco cotto (perché in questo caso è il cuoco a sputare) ma ero così di malumore che appiccicai immediatamente la gomma da masticare nel posacenere, senza incartarla in un tovagliolino come mi ha sempre insegnato mia mamma, e la schiacciai col pollice cosicché non sarebbe caduta svuotando il posacenere, ma avrebbero dovuto staccarla con una forchetta. E sapete una cosa – che Dio mi perdoni – mi tolsi una piccola soddisfazione.

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Appendice bibliografica

Per dare una parvenza di “servizio pubblico” a questo articolo lo arricchisco di una breve e personalissima bibliografia, dedicata ai libri di viaggiatori che hanno percorso gli States alla maniera di Bryson, o anche in altri modi, e hanno comunque raccontato in epoche diverse quegli spazi e quelle genti. La bibliografia sull’argomento sarebbe in realtà sterminata. Io segnalo qui solo alcuni dei testi che conosco direttamente, scritti da indigeni o da viaggiatori provenienti d’oltreoceano, e del cui valore posso farmi garante.

Luigi Castiglioni – Viaggio Negli Stati Uniti Dell’ America Settentrionale, fatto negli anni 1785-1787 – Classic Reprint, 2019

Paolo Andreani – Viaggio in Nord America – Scheiwiller, 1994

René de Chateaubriand – Viaggio in America – Pintore, 2007

Washington Irving – Viaggio nelle praterie del West – Spartaco, 2013

Alexis de Tocqueville – Viaggio in America. Stati Uniti e Canada (1831-32) – Humboldt Books, 2023

Alexis de Tocqueville – Quindici giorni nel deserto americano – Sellerio, 1989

Giacomo Costantino Beltrami – La scoperta delle sorgenti del Mississippi – Biblioteca del Vascello, 1983

Xavier Marmier – Lettres sur l’Amérique, 2 vol. – Felix Bonnaire, 1851

Henry David Thoreau – Una settimana sui fiumi Concord e Merrimack – La Vita Felice, 2020

John Muir –Mille miglia in cammino fino al golfo del Messico – Ed.dei Cammini, 2015.

Mark Twain – La mia avventura nel West – Mattioli 1885, 2018

Rudyard Kipling – Oltre la porta d’oro. Un viaggio negli Stati Uniti da costa a costa – Muzzio, 1996

Maksim Gorkij – L’America – Mastellone Ed., 1952

Knut Hamsun – La vita culturale dell’America moderna – Arianna, 2009

Jack London – La strada – Elliot, 2015

John Steinbeck – Viaggio con Charley – Rizzoli, 1969 (o Bompiani, 2017)

William Least Heat Moon – Strade blu. Un viaggio dentro l’America –Einaudi, 1989

William Least Heat Moon – Nikawa – Einaudi, 2000

Bill Bryson – Notizie da un grande paese – Guanda, 2017

Alex Roggero – La corsa del levriero. In Greyhound da Pittsburgh a Los Angeles – Feltrinelli 2002

Alessandro Portelli – Taccuini americani – Manifestolibri, 1991

Emanuela Crosetti – Come ti scopro l’America. Da Sant Louis al Pacifico con i leggendari Lewis e Clark – Exòrma, 2016

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Lo stato dell’arte

di Paolo Repetto, marzo 2015

Carissimo Mario,

dì la verità, l’aspettavi. Ormai sei rassegnato al ruolo di corinzio. Non mi accade con tutti, anzi; la coazione a commentare gli ‘eventi’ scatta come un riflesso condizionato soltanto nelle occasioni che condividiamo. Un motivo ci sarà. (c’è senz’altro, e ne abbiamo già parlato).

Vengo subito al dunque. L’evento valenzano dell’altro giorno era di quelli che di norma lasciano il tempo che trovano. Solo in apparenza, però. Di fatto, proprio perché ci si alza da tavola tutt’altro che sazi, sono queste le occasioni che spingono a riflettere su quanto non è stato detto – nella fattispecie, per ciò che mi riguarda, su quello che tu non hai detto, perché al solito hai avuto l’urbanità di lasciare spazio agli altri (me compreso), che se lo sono preso tutto. Ora, come sai io rumino i miei pasti culturali sin troppo velocemente (e infatti poi li digerisco male), e per fermare un po’ le idee che scappano da tutte le parti ho bisogno di ancorarle alla carta, dando all’insieme una parvenza di percorso. O almeno, provandoci.

 

Bene. Parto dal ricordare che un paio di mesi fa abbiamo presenziato assieme ad un altro “Evento”, questo davvero con la maiuscola, che avrebbe dovuto stimolare ancor più la riflessione. Non dico che non sia stato così, e infatti abbiamo avuto il tempo di tornarci su lungo il viaggio, prima e dopo: ma la mostra di Casorati non ci ha posti brutalmente di fronte alla madre di tutte le domande, ovvero: cosa è, cosa non è arte? Entrambi eravamo tranquillamente coscienti di trovarci in presenza di opere d’arte, e il tema potevano essere semmai la bontà e l’efficacia dell’allestimento, il posto che compete a Casorati nella vicenda artistica del ‘900, come un territorio può essere coinvolto o meno dalla politica delle sue istituzioni culturali o da quella dell’imprenditoria economica. Credo che a nessuno delle centinaia di visitatori di quel pomeriggio sia passato per la mente di chiedersi ‘che cosa’ conferiva a quelle tele lo status di Arte.

L’altra sera, al contrario, il problema è venuto immediatamente fuori. Non per la qualità delle foto esposte, tutto sommato interessanti, ma perché era in ballo una modalità espressiva che con l’arte ha un rapporto ambiguo. Qualcuno ci ha girato attorno, altri, come il buon sindaco, l’hanno posto in maniera semplicistica (sdoganare o no la fotografia?), altri ancora hanno citato Mc Luhan o la discendenza diretta dalla litografia e dall’incisione: io stesso ho cercato di dire che non era quello il tema, ma probabilmente senza molta convinzione. Perché il tema è invece proprio quello. Non avevamo dubbi davanti ai dipinti di Casorati solo perché rientravano in un canone espressivo consacrato, per tecniche e strumenti e modalità? Non lo credo affatto. Deve esserci dell’altro. Ma quell’emozione, sarebbe stata la stessa se avessimo visto uno di quei quadri in casa di un amico? Se le opere ci fossero state offerte in un altro incarto? Per noi forse si; ma per palati “diversamente educati” – penso alle greggi di studenti (ed ex-studenti) condotte a pascolare in massa entro il sacro recinto dell’Arte? Ritieni che domani saprebbero distinguerle da un qualsiasi manifesto pubblicitario?

 

Questo ci porta lontano dal tema in cartellone per l’ultimo incontro (anche se ancora non ho ben capito quale fosse). Ma l’andamento dell’incontro stesso dimostra che nei confronti dell’Arte abbiamo tutti idee un po’ confuse. Io per primo, tanto che in me il rovello ricompare ogni volta che devo confrontarmi con qualche “prodotto”, evento, discussione che chiamino in causa lo statuto artistico. C’è qualcosa che non mi torna. E allora sento il bisogno non di darmi delle risposte, per le quali evidentemente non sono attrezzato, ma almeno di cercare di pormi correttamente le domande. Per questo chiamo te al soccorso: perché ho di fronte il libricino sui sagrati, e sulla scrivania il tuo disciplinare dell’haiku, e mi dicono che di lì qualche lume può senz’altro venire.

Mettiti seduto, perché la piglio larga. Dunque, tornando da Valenza accennavi al fatto che il problema di fondo è quello del corretto uso del linguaggio. Penso anch’io che il nodo sia questo, e infatti quando parlavo della madre di tutte le domande ero consapevole che in quei termini la domanda non può essere posta. Intendo dire che è insensato chiedersi cosa è, cosa non è arte, mentre ha un senso piuttosto stabilire preliminarmente di cosa parliamo quando parliamo di arte, che è faccenda ben diversa. Socrate l’avrebbe messa in questo modo: in assenza di un criterio universale ed oggettivo, e nella convinzione che non sia possibile definirlo, varrebbe almeno la pena, prima di iniziare il gioco, stabilire a che gioco si vuole giocare, e accordarsi su regole chiare e accettate da tutti. Cosa di cui nell’occasione si è avvertita subito la mancanza. Si fosse trattato di una partita di briscola, sarebbe andata a monte al primo giro.

 

Allora, vediamo se un accordo sul significato che intendiamo attribuire al termine ‘ArtÈ è possibile, senza far rientrare dalla finestra la domanda insensata. Etimologicamente l’ars è un’abilità, un talento. Se usiamo il termine in questa pura accezione rientrano nel territorio dell’arte tutte le espressioni di eccellenza di una qualsivoglia capacità, da quella culinaria a quella nel tennis o nella falsificazione di banconote. Non mi pare il nostro caso: penso che a dispetto del successo delle trasmissioni di cucina o delle banconote da trecento euro, e della facilità con cui viene attribuita oggi la qualifica di artista a qualsiasi canterino o imbianchino, noi intendiamo parlare d’altro. Di qualcosa che supera il valore d’uso (e di mercato) e che permane al di là dell’immediato consumo, perché esprime un valore simbolico aggiunto. Quindi potremmo dire che l’arte non è solo il frutto di un talento, ma il frutto di un talento intenzionato alla produzione di simboli. Questo restringe ulteriormente il perimetro, perché elimina anche la possibile identificazione dell’arte con ciò che suscita una emozione, un piacere immediato: mi piace il gelato alla crema e adoro il ciclismo, gli affogati e i gran premi della montagna mi procurano anche emozioni, ma penso non c’entrino nulla con l’arte. Quella relativa al valore simbolico non è forse la percezione più comune e diffusa, ma indubbiamente è la più universale, come dimostra per assurdo la furia iconoclasta dei militanti dell’Isis: per distruggere o assoggettare un popolo non è sufficiente sterminarlo, è necessario cancellarne la memoria, e la memoria è principalmente affidata alle espressioni artistico-simboliche della sua cultura. Il che ci dice anche un’altra cosa: nella percezione comune l’arte è identificata soprattutto con gli esiti dell’attività di produzione simbolica, non con l’attività stessa (anche se poi i fanatici e i regimi totalitari, che hanno una percezione molto acuta, accomunano nel massacro opere e autori), e si capisce anche il perché: noi ci confrontiamo normalmente con il prodotto, e non con l’atto creativo e con l’intento che lo muove. Faccio quindi riferimento soprattutto al primo, anche se è evidente che non si può prescindere da ciò che lo precede e lo informa. In questo senso il dominio dell’arte è comunemente inteso, e non solo in Occidente, come un ideale contenitore di oggetti (o atti) ai quali viene attribuita una valenza estetica, emozionale e simbolica particolare.

A questo punto dobbiamo stabilire se si vuol fare del contenitore un uso indiscriminato, privilegiando magari il fattore dell’intenzionalità (in virtù del quale sarebbero arte anche i disegni di mio nipote), oppure se intendiamo restringere e definire l’ambito al quale va riconosciuta una “dimensione artistica”, optando per la raccolta finale differenziata. A me pare che nel primo caso si potrebbe tranquillamente chiudere il discorso, perché se l’intenzionalità oltre che necessaria è ritenuta anche sufficiente finiamo nella notte in cui tutte le vacche sono nere; mentre nel secondo l’accordo va ulteriormente articolato. Ovvero: se riteniamo di riconoscere una “dimensione artistica” che va oltre gli intenti e attiene invece agli esiti, una volta ammesso che si tratta di una dimensione proteiforme e che i fattori sono quasi tutti variabili, così come il loro segno o il loro posizionamento, è ancora possibile individuare un qualche denominatore comune, tracciare dei confini, individuare dei criteri di inclusione?

Aspetta a lasciar cadere sconsolato le braccia. Non sto cercando la regola aurea: vorrei soltanto capire se la materia in gioco sfugge per sua natura ad ogni possibile “definizione”, sia pure convenzionale e temporanea. Tu mi conosci, vedo il mondo in bianco e nero e quanto a sfumature di grigio arrivo al massimo a due, chiaro e scuro. Per un discorso sull’arte non è certo la premessa ideale, e me ne rendo conto. Ma vorrei arrivare al prossimo appuntamento con le idee più chiare, e poter almeno dire con convinzione: non è di questo che siamo a parlare.

 

Torno dunque proprio all’altra sera, alle diverse posizioni che confusamente sono emerse e che mi sembrano alla fin fine confrontarsi in ogni occasione. Ad una ho in qualche modo già accennato. È quella che sostiene che la definizione dell’arte vada completamente storicizzata. Ogni epoca, ogni cultura, ne elaborano una propria, e quindi, all’ingrosso, “l’arte è tutto ciò che gli uomini – in una data epoca e in un dato luogo – chiamano arte”. Prescinde dal perché lo facciano, o meglio, ammette un numero tale di variabili da rendere l’equazione “x + y + z + ….= A” impossibile o indefinita, ricadendo nell’azzeramento di cui sopra, salvo il fatto di mantenere in vita una molto vaga “dimensione artistica a sé”. È insomma un “liberi tutti”, al limite della raccolta indifferenziata, che da un lato giustifica qualsiasi operazione, dall’altro si presta ad ogni possibile strumentalizzazione, ideologica e/o mercantile. Mi riferisco ad esempio alla funzione “provocatoria” che in quest’ottica viene oggi attribuita all’arte. Quando sorridevo ironicamente di fronte alla mostra dell’Arte per fede messa in piedi da mio fratello, che aveva raccolto dei massi lungo il Piota e li aveva esposti in pompa magna alla Loggia di Ovada, sostenendo che occorreva riconoscere in essi la mano modellatrice di un dio spinoziano, mi sono sentito giustamente obiettare che se è un’operazione artistica incartare un palazzo o un monumento lo è tanto più risvegliare una coscienza della profondità del tempo e della essenza minerale dell’universo. Avrebbe potuto dire qualsiasi altra cosa, e magari, conoscendolo, con altri lo ha fatto, e sarebbe stato comunque difficile contraddirlo. Era una burla, ma il muro di gomma di un sistema onnivoro e onnipervasivo gliel’ha ributtata in faccia. Mio fratello era partito per dissacrare il mondo fasullo dell’arte, ed è poi finito ad esporre a Cernobbio, nel parco della villa dove si incontravano i politici e big dell’industria, dei trogoli da verderame e dei pali da vigna, e a convincersi per qualche tempo di essere davvero entrato in quella dimensione che intendeva irridere. Non ha sfondato (in realtà ha sfondato il pianale della Panda) solo perché le pietre e i trogoli erano troppo grandi e pesanti, inadatti persino alla decorazione da giardino.

Lo trovo emblematico. A mio giudizio dimostra intanto che in un sistema “liquido” ogni provocazione fa aggio a ciò che vorrebbe combattere, in questo caso all’idea di un’arte-mercato o di un’arte-spettacolo; ma soprattutto denuncia i limiti del trucco messo in atto per ottenere l’effetto provocatorio: la decontestualizzazione degli oggetti (o delle azioni). Di più: evidenzia l’inconsistenza di una concezione dell’arte tutta di testa e poco o niente di mano, che rinnega uno dei fattori originari, quello dell’abilità, e prescinde quindi totalmente dal peso della componente tecnica e operativa. In questo caso il contenitore diventa inutile, a meno che non sia quello dell’Amiu, perché salta il presupposto sul quale pensiamo un ruolo e una storia dell’arte, ovvero la produzione e la sopravvivenza di “oggetti” (materiali e non) che trascendono un uso quotidiano e strumentale e si pongono fuori dello scorrere del tempo. Ma lo trascendono per una forza e una volontà interni, non perché vengono estrapolati e riproposti fuori contesto. Voglio dire, la Gioconda è in fondo una fototessera in formato gigante, e sarebbe un qualsiasi documento se l’artista avesse voluto semplicemente dipingere un ritratto; in realtà ha usato il ritratto come pretesto (letteralmente) per andare oltre. C’è riuscito, perché aveva in mente qualcosa, voleva esprimerlo ed era padrone di una tecnica che gli consentiva di farlo. Quella fototessera oggi ancora ci parla, tanto che qualcuno trova impertinente farle i baffi, o comodo utilizzarla come testimonial per l’acqua minerale, o ricamarci su misteri: tutti usi impropri, che testimoniano comunque della sua vitalità, ma che poi, chiaramente, li si consideri idioti o provocatori o furbeschi, con la dimensione artistica non hanno più nulla a che fare. O forse no?

Immagino una possibile obiezione. Come la mettiamo con quelle espressioni artistiche delle quali non rimangono documenti, se non il racconto e i giudizi di protagonisti e spettatori: ad esempio, non è una espressione d’arte il balletto? Mi trovi completamente spiazzato. In questo caso l’unico documento che rimane è la partitura, che costituisce la potenziale base per un gesto artistico, così come il libretto e lo sparito lo sono per un melodramma e il testo per una messa in scena teatrale. Ora, è possibile che da una base mediocre si origini un’esecuzione eccelsa, o viceversa: ma questo secondo momento, nel quale si dispiegano abilità interpretative e la componente tecnica e operativa è addirittura prevalente, e che è infinitamente ripetibile, ha domicilio nei territori dell’arte o piuttosto in quelli dello spettacolo?

 

Come vedi, non ho ben chiari i passaggi: mi rendo conto di cacciarmi in un paradosso, ma l’idea che decontestualizzare un oggetto o un’azione dia di per sé accesso alla dimensione artistica mi sembra solo uno dei tanti prodotti di risulta della “storicizzazione a tappeto” operata nel Novecento. Il paradosso sta nel fatto che in una declinazione corretta “storicizzare” significa leggere atti, idee, oggetti nel particolare contesto che li ha espressi, per acquisire tutti gli strumenti utili alla comprensione: fermo restando che l’attribuire una posizione non va confuso con l’esprimere un giudizio di valore, e nemmeno implica il sospenderlo. Posso capire per quali ragioni le povere vedove indiane fossero obbligate al suicidio, ma una volta che ho capito la pratica continua a sembrarmi aberrante (anzi, nel caso specifico riesce anche più odiosa). La “storicizzazione a tappeto” investe invece anche i valori, e questo significa cancellazione della storia, ovvero della possibilità di un racconto e di una lettura dei fatti secondo una linea di continuità – non necessariamente di progresso. Lasciamo perdere se questa linea di continuità poi esista realmente, anche solo all’interno della nostra risibile scala temporale, perché questo ci proietta nella metafisica, e ci mancherebbe altro: di fatto noi la cerchiamo, e possiamo poi leggerla in chiave ciclica o lineare o a spirale, ma per rintracciarla dobbiamo avere comunque in mente dei punti certi e obbligati.

Questo mi pare tanto più evidente nella storia dell’arte. La storicizzazione dei valori ha comportato che nel secolo scorso fosse liquidata ogni considerazione per la “tecnica artistica”, privilegiando un’astratta valenza “conoscitiva” (l’arte concettuale?). Ma a questo punto, di cosa stiamo parlando? Nell’assunto conoscitivo il fattore di maggior rilievo non può che essere la novità. Ma la novità è un valore per sé, o è un aggiornamento dei valori, non sempre e non necessariamente positivo? O piuttosto: non attiene forse ad una considerazione meramente strumentale dell’arte, che confonde l’esito con l’intenzione? A me pare che, venute meno la funzione religiosa, quella didattica, quella celebrativa o di creazione del consenso, si voglia caricare oggi l’opera d’arte del ruolo di detonatore della coscienza. Solo che le esplosioni sono soltanto fuochi d’artificio. Nel caso della provocazione l’idea di fondo è che spiazzando e irritando il fruitore lo si spinge a riflettere: ma nella realtà poi il tutto si risolve in un gioco ormai trito, nel mettere cornici alle finestre per dire che sono quadri (e magari venderli). Mi ripeto: decontestualizzare un tubo di scappamento arrugginito, separandolo dall’auto o dall’ammasso del rottamatore e piazzandolo in mezzo al salone di una mostra, avrà anche un significato simbolico, ma ha a che vedere con l’arte?

Lo stesso discorso vale quando ad essere decontestualizzato non è un elemento “povero”, tratto dalla quotidianità e cacciato a forza nella dimensione artistica, bensì qualcosa che già appartiene alla storia dell’arte. Mi sto riferendo, evidentemente, al citazionismo postmoderno, che da un lato parrebbe isolare ed evidenziare elementi e tratti del gusto perenni, a riprova dalla continuità nel tempo di taluni significati simbolici, dall’altro usa queste simbologie in contesti che non sono quelli che le hanno prodotte, e conferiscono loro significato non per aggiornare quel significato stesso, ma per stravolgerlo: per provocare, appunto. E finiscono per ridursi quindi ad un giochetto masturbatorio, tutto mentale ed autoreferenziale, spesso solo idiota. Non sempre, ma quasi. Posso infatti essere colpito dal trovare in un sequenza delle storie di Dylan Dog (come vedi, altro che confini e dogane: il mio concetto di ambito artistico è in linea di principio molto ampio) la citazione di un quadro di Hopper, che si incastona perfettamente in una atmosfera di buio e solitudine e deserto da provincia americana by night appena fuori le geometrie a luce fredda del bar e del bancone, perché questo mi significa che quella sensazione era già stata così perfettamente espressa in quel dipinto da non poter essere evocata meglio che da un rimando: mentre mi lascia perplesso il piazzare una miniaturale agorà, con tanto di frontoni e pronai e colonnati, ma accessibile al traffico delle automobili, perché quello pedonale tanto non c’è più, al centro della Zona Pista in Alessandria. Ci vedo la stessa filosofia che determina l’attuale successo del mercatino dell’usato: la ricerca della vecchia caffettiera da esporre sul caminetto con lastra di vetro o della ruota da carro da trasformare in lampadario per la tavernetta: oggetti che avrebbero un significato, quanto meno affettivo, se appartenuti ai bisnonni, non ne hanno alcuno in un contesto estraneo, e meno che mai in un utilizzo che ad essi è del tutto estraneo.

Ho superato da un pezzo il crinale della banalità. È meglio quindi che non mi spinga oltre e provi a stringere. Spero però si capisca ciò che intendo dire. Il rischio di una storicizzazione che di per sé, considerata come condizione preliminare, necessaria ma non sufficiente, risulterebbe più che legittima, è quello di attribuire un sei politico a qualsiasi puttanata. Dietro la presunta maggiore “democraticità” vedo solo la rassegnazione a rinunciare a qualsiasi educazione al gusto che non sia educazione al consumo (le grandi mostre, i grandi eventi, …, che parrebbero andare in direzione contraria, finiscono in realtà per atrofizzare quel sesto composito senso che è il senso estetico).

 

E andiamo alla posizione opposta, quella che si basa sul convincimento dell’esistenza di una costante di fondo nella dimensione artistica: sul che, come nel caso della corretta storicizzazione, non ci piove. A patto però di non farne “il” fattore unico e discriminante che circoscrive il dominio dell’arte. Questa costante può infatti essere intesa in vari modi: Croce parla ad esempio di una idea di bellezza innata e universalmente condivisa. È una posizione platonica, postula che le idee del vero, del buono, del bello, siano in noi congenite e che noi ne riconosciamo o meno l’impronta nella realtà esterna. Bada che non è affatto campata per aria: a Croce non sarebbe fregato niente, per come la metteva lui (a Platone invece si), ma i più recenti studi sul funzionamento del nostro cervello, e quindi sulle modalità della nostra appercezione, dicono che il gradimento, l’attribuzione di un significato, la collocazione stessa nel nostro quadro sensoriale prima e intellettivo-interpretativo poi avvengono in funzione dei modi in cui i nostri apparati sono strutturati: ad esempio, noi inquadriamo il mondo, lo spazio e gli oggetti che lo abitano, secondo precisi modelli e coordinate geometriche. Allo stesso modo, cogliamo le sfumature cromatiche e acustiche entro spettri di possibilità ampi ma limitati. Insomma, in realtà nulla di veramente nuovo: queste cose le aveva già dette Kant. Questo significa però che la nostra sensibilità verso un oggetto o un’azione cambia in ragione della sua corrispondenza ai parametri che la natura stessa ci impone. Gli ultrasuoni, che pure sappiamo esistere, nemmeno li percepiamo, almeno con l’apparato che sarebbe deputato a farlo. Così certe gradazioni di luce, ad esempio l’infrarosso. Sono quindi indotto a pensare che certe forme volumetriche, certi accostamenti cromatici, o acustici, ci siano più congeniali di altri, o magari, se portati al limite senza scadere in una cacofonica insensatezza, attivino una curiosità positiva. Ora, è difficile stabilire quanto di questo apparato sia geneticamente determinato e quanto sia epigeneticamente appreso: quanto cioè il nostro “gusto” sia fissato dalla nostra stessa fisiologia e quanto invece sia “storicamente” coltivato: e non sono certo io a poterne discettare, ma ho l’impressione che l’argomento lasci ancora larghissimi spazi agli orientamenti personali. Personalmente credo che le forme conoscitive dello spazio e del tempo dell’homo sapiens di mezzo milione di anni fa fossero molto diverse da quelle del sapiens-sapiens attuale, in termini non solo quantitativi, ma anche quantitativi. La percezione di una distanza, quindi della profondità di uno spazio, cambia in base ai mezzi e alla possibilità di superarla, ma anche della conoscenza o meno di ciò che sta oltre. Ciò non toglie che il fascino, l’inquietudine e l’orrore prodotti da quella distanza alla fin fine rimangano. In sostanza, penso ci sia del vero in questa posizione “idealistica”, a patto che la costante venga declinata di volta in volta, di luogo in luogo, in funzione delle modificazioni del gusto, delle tecniche diverse, del peso della religione, della politica e delle condizioni economiche, ecc… Sostanzialmente permane invariabile a difesa dei confini del dominio artistico, contro le invasioni barbariche, ma si annette i territori periferici che accolgano le stesse leggi.

 

Credo si possa individuare infine anche una terza posizione. In questo caso il perimetro della dimensione artistica non ha a che fare né con i criteri oggettivi (il bello, il brutto) né con le diverse declinazioni storiche. Il discrimine è la rilevanza simbolica: è arte ciò che riesce ad attingere ad un significato comunicativo universale, dove per universale non si intende ciò che più o meno arriva a tutti i contemporanei o dintorni, perché in questo caso si ricadrebbe nella storicizzazione, e nemmeno ciò che risponde a un canone estetico connaturato, ma ciò che mantiene la sua valenza significativo-simbolica a prescindere dalle interpretazioni attraverso il tempo e le modificazioni del gusto. Il che in fondo potrebbe risolverci la questione, ma fa rientrare nella dimensione artistica anche oggetti (pensa all’arte preistorica) che nelle intenzioni dei loro creatori avevano una funzione prettamente utilitaria, o al massimo decorativa (le ceramiche ad esempio, o le armature …), e che per un ennesimo paradosso diventano oggetti d’arte proprio nel momento in cui li percepiamo fuori contesto. Siamo quindi daccapo. Non sto mettendo in discussione la rilevanza simbolica di questi oggetti, ma la loro rilevanza “artistica”. Qui torna in ballo il fattore intenzionalità: è importante o no che il simbolismo sia intenzionale, per accedere al sopramondo dell’Arte? Mi sembra un distinguo non da poco.

 

Nella discussione dell’altra sera erano rappresentate tutte e tre queste posizioni. Più una quarta, la tua, che purtroppo è rimasta inespressa, mentre le premesse erano interessanti. Hai avuto appena il tempo di accennare a due fattori, l’aura e il contesto, che mi hanno fatto pensare che tu volessi correttamente spostare il discorso dalla produzione alla fruizione: e già questo avrebbe comportato un chiarimento. Ora, di contesto e decontesto ho sproloquiato sino ad ora, ma non credo nell’accezione cui facevi riferimento tu. Dell’aura ho provato a dire qualcosa nel corso dell’incontro, ma anche qui penso tu intendessi altro. Bene, è questo altro ad interessarmi. Sarò sincero: il libricino sui sagrati, ma anche tutte la altre cose tue, mi suggeriscono che del pippone di cui sopra e delle domande madri o zie che lo motivano ti importi in definitiva ben poco, nel senso che hai educato il tuo sguardo a cogliere segni e simboli essenziali di una cultura o di un’epoca là dove altri vedono solo vecchie insegne, etichette, portali, ringhiere, ecc… Il che consente di godere appieno i prodotti dell’alta cucina, ma anche di cogliere le suggestioni e apprezzare i sapori delle zuppe di cavoli o delle minestrine con l’uovo. Per questo, pur sapendo che non condividi affatto i miei rovelli, ti considero la persona più adatta ad aiutarmi a fare ordine. Forse devo rieducare il mio palato, o forse, più semplicemente, dovrei parlare e scrivere d’altro, di ciò che almeno un po’ conosco.

È vero, caro Mario: ma allora, dove sarebbe il mio nutrimento? E soprattutto, che gusto ci sarebbe?

 

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