Alla ricerca di un impero

dicembre 2025

di Paolo Repetto, 8 dicembre 2025

Per valutare la qualità della vita in un luogo, sia esso una nazione o una singola città, si sommano e si incrociano diversi criteri, che vanno dal tasso di istruzione a quelli di occupazione o di criminalità, dal reddito pro-capite all’aspettativa di vita, dalla qualità dell’aria e dell’acqua all’efficienza dei trasporti: ma alla fine le graduatorie che ne risultano vedono nelle primissime posizioni sempre gli stessi nomi. Ora, è evidente che queste valutazioni possono essere considerate “oggettive” solo fino ad un certo punto, perché il peso e la rilevanza dei vari parametri dipendono da chi le graduatorie le stila, e qui entrano in gioco un sacco di interessi, (dagli operatori turistici alle compagnie di bandiera, agli enti promozionali, persino alle pressioni politiche, ecc…); ma soprattutto perché sono espresse a partire da un particolare punto di vista (nella fattispecie, quello del modello culturale “occidentale”).

Al netto di tutte le obiezioni “politicamente corrette”, dobbiamo comunque ammettere che offrono un quadro abbastanza realistico della situazione, senz’altro più attendibile di quello che possiamo trarne soggettivamente da visite in genere frettolose (e compiute magari in condizioni non ideali di salute o di compagnia, o disturbate da inconvenienti di varia natura). Anche se poi il quadro di cui conserviamo il ricordo, e che trasmettiamo ad altri nel racconto delle nostre esperienze, è proprio quest’ultimo.

Verrebbe però da chiedersi a chi e a cosa servano queste graduatorie. Io credo rispondano alla sempre crescente necessità del mondo moderno di sterilizzare, amalgamare e ricondurre tutto entro tassonomie matematiche (per ogni singolo fattore di valutazione è assegnato un punteggio, e il risultato è una sommatoria), oggi si direbbe algoritmiche, tali da consentire la pianificazione e il controllo di ogni attività: e naturalmente, per ricaduta, a influenzare ad esempio le nostre scelte di viaggio. Ma non possiamo negare che siano anche specchi nei quali si riflette in definitiva la natura umana più profonda: perché seppure di norma pensiamo di essere attratti da ciò che trasmette emozioni forti, dal “sublime” romantico per intenderci, in realtà quel sublime lo apprezziamo solo come gli spettatori di lucreziana memoria che dalla riva assistono a un naufragio. Non è più tempo di avventurieri, ma di turisti. Per questo finiamo poi per preferire in genere mete “sicure”, che garantiscano un certo livello di ordine, di tranquillità e di razionalità; per questo difficilmente prendiamo in considerazione Haiti o Mogadiscio, che di emozioni ne riservano a bizzeffe; e per questo, tra l’altro, ci indispettiamo e recriminiamo quando ai primi posti nelle graduatorie di merito non troviamo menzionata alcuna città italiana.

Al di là di tutto ciò, comunque, ciascuno di noi, in base al suo carattere e alle sue esperienze, elabora più o meno consapevolmente un suo sistema di valutazione, i cui criteri potranno mutare col trascorrere dell’età e con l’accumulo delle occasioni di incontro e di confronto, oltre che degli acciacchi, ma che sostanzialmente lo accompagnerà per tutta la vita.

Io, ad esempio, sono sempre stato propenso almeno in teoria alle esperienze più tranquille: anche se di fatto più per sbadataggine e superficialità che per averle veramente cercate, ho poi finito per viverne sin troppe del primo tipo. E ho adottato per le mie valutazioni della qualità della vita e dei livelli di civiltà (si, sono politicamente molto scorretto) alcuni peculiarissimi criteri, meno freddi di quelli numerici e in qualche caso altrettanto o più significativi. Sono criteri diciamo così “turistici”, desunti in genere da soggiorni brevi, ma che un’idea di massima la possono dare.

Vediamoli. Se c’è qualcosa che parrebbe non offrire elementi per una gerarchizzazione, questa sono gli aeroporti e in genere tutti i non-luoghi, dagli autogrill ai grandi magazzini. In linea di massima differiscono solo per le dimensioni, e anche se oltre un certo livello la “quantità” diventa necessariamente “qualità” la funzione di transito veloce cui assolvono (a meno di rimanerci intrappolati come Tom Hanks in The Terminal) li rende in qualche modo ai nostri occhi identici. Ma se con gli occhi non seguiamo soltanto le indicazioni per l’uscita o quelle per l’imbarco le cose non stanno proprio così.

Gli aeroporti, ad esempio, sono il tramite per eccellenza e il simbolo stesso della globalizzazione seriale. Eppure anche già al loro interno qualche sfumatura di differenza la si può cogliere, a partire dalla maggiore o minore pulizia delle toilettes, e prima ancora, dalla facilità di reperirle. Quello delle toilettes è un mio chiodo fisso. Il grado di civiltà di un paese lo puoi già intendere alzando gli occhi in qualsiasi via o piazza, ma persino in prossimità di spiagge o scogliere deserte, come accade nel Devon, o nei villaggi più sperduti: se scorgi subito l’indicazione con l’omino e la damina stilizzati il livello è molto alto.

A Vienna poi, perché lì sono sbarcato più recentemente e proprio lì voglio portarvi, nella segnaletica compare anche un terzo pittogramma, quello che indica il terzo sesso (lo riferisco per informazione, non perché abbia a mio giudizio una particolare rilevanza: in realtà non ho capito bene a che serva, le sezioni interne essendo sempre due).

Per raggiungere le toilettes, o subito dopo, ci sono le scale mobili. Un altro modo per percepire al volo la qualità della vita di un luogo è scendere o salire le scale mobili. Capisco che un integralista dell’efficienza fisica possa disdegnarle, ma uno psicologo sociale in pectore come me, soprattutto se parecchio avanti con gli anni, non può farsi di questi problemi: e poi ormai sono molti gli snodi in cui le scale normali nemmeno esistono.

Comunque: arrivando da una giornata trascorsa a Milano, dove avevo rischiato più di una volta di essere travolto da gente che le saliva o scendeva di corsa, neanche avesse la polizia alle calcagna, e sembrava non aver ancora introiettata l’idea che sono quelle a doversi muovere, ho trovato all’aeroporto austriaco (così come poi ovunque nella città) una grande compostezza; nessuno che smaniasse per farsi largo o ti guardasse storto se ingombravi col bagaglio o non ti tenevi rigorosamente appiccicato alla fiancata scorrevole destra. Ne ho immediatamente ricavato l’impressione di una vita meno frenetica, più rilassata e ordinata. Mi sono anche dato una spiegazione del fatto che le scale siano quasi verticali, cosa che in un primo momento mi aveva lasciato perplesso: con quella inclinazione a salirle di corsa ti becchi un infarto, se le scendi a precipizio rischi seriamente di volare di sotto (l’altra spiegazione, più banale, sarebbe che stratificate ad imbuto fino a trenta o cinquanta metri sottoterra occupano molto meno spazio). Mi hanno ricordato l’equivalente inglese delle nostre strade statali e provinciali: piste a doppio scorrimento ma a carreggiata unica, larghe giusto poco più di un’auto e chiuse lateralmente non da cunette ma da muretti a secco, senza alcuna indicazione di limiti di velocità: quelli li impone il buon senso – che sembra funzionare, e si capisce il perché.

Dall’aeroporto le prime scale danno accesso direttamente alle linee ferroviarie, scendendo ancora conducono a quelle della metropolitana. E qui, per le une e per le altre, nuova sorpresa. Non ci sono i tornelli, si accede liberamente a qualsiasi linea. Posso tranquillamente riporre il biglietto acquistato on line. Tutto procede sulla fiducia. La sensazione immediata è che tutti abbiano in tasca, come me, il loro documento di viaggio. Penso comunque che poi, una volta sul treno, ci sarà un controllo. Macché. Non ne ho visto uno in quattro giorni, trascorsi in buona parte a saltare da un vagone all’altro. Anche qui, mi è tornata in mente la scena di quella volta che a Torino, salito su un tram, sono andato immediatamente a obliterare il biglietto. Il click dell’obliteratrice ha richiamato l’attenzione sorpresa e infastidita di tutti gli altri passeggeri: mi guardavano in tralice come fossi un marziano, non con derisione, ma con una malcelata ostilità. Stavo infrangendo una norma consuetudinaria.

Mi chiedo come sia possibile che quella società si regga sulla fiducia, come ci si sia arrivati e se per l’avvenire questo rapporto potrà continuare. Gli austriaci non sono nemmeno luterani o calvinisti, sono cattolici come noi, non si può far risalire alla matrice religiosa il senso del dovere civico: forse li hanno educati a bastonate, o forse semplicemente hanno introiettato un forte senso di responsabilità nei confronti della cosa pubblica perché almeno in passato sono stati bene amministrati. Non credo comunque si tratti di indole, la causa è senz’altro esterna, è culturale, è storica. Probabilmente è la somma di tanti fattori tutti molti lontani dalla mentalità vigente dalle nostre parti, e va al di là della nostra capacità di comprensione.

Intanto, percorrendo sulla linea di superficie il tratto che separa lo scalo aeroportuale da Vienna, sono già immerso nell’Art Nouveau. La rete ferroviaria viennese, oltre ad assicurare un servizio puntuale al secondo, una estrema pulizia e una informazione precisa sulle fermate, costituisce di per sé un’opera architettonica di grande pregio. L’ha curata in ogni dettaglio un architetto “secessionista”, Otto Wagner, che per un ventennio fu sovrintendente alle costruzioni ferroviarie, uniformando nello stile e nei colori stazioni, ponti, ringhiere, tutto ciò insomma che offre un impatto visivo immediato. Può piacere o meno, ma è indubbiamente simbolo della volontà di armonizzare arte e vita quotidiana, di far entrare la prima come elemento costante nella seconda, educando un gusto alla bellezza che deve poi esprimersi in ogni aspetto della quotidianità. Gli integralisti della concezione dell’arte come provocazione non saranno d’accordo, ma per me è una forma alta e dignitosa di resistenza alla pervasione del grigiore e del piattume indotti dalla modernità, senza peraltro sacrificare nulla dell’efficienza.

La ferrovia offre un’anteprima, volutamente pensata e proposta con estrema discrezione, di quel che troverai a breve in città. Non vuole provocare uno shock, ma consentire un pre-riscaldamento delicato, una prima dolce assuefazione al bello diffuso.

Quando accedo alle linee metropolitane ho dunque già inforcato senza accorgermene occhiali diversi. Mi si è abbassata la pressione da viaggio, non stringo più spasmodicamente il manico retrattile del trolley. Appena riemerso dal sottosuolo, poi, con una semplice occhiata buttata in giro durante i quattro passi che mi separavano dall’albergo (perché la copertura offerta dalla rete sotterranea è davvero capillare, non c’è una meta in città che disti più di centocinquanta metri da una stazione), sono confermato nella percezione di un’atmosfera piacevolmente rilassata, desumibile già dalla camminata dei passanti, e ho un primo contatto con spazi verdi diffusi, con strade molto ampie, percorse da un traffico estremamente scorrevole e disciplinato. Tutte cose che concorrono alla sensazione di una estrema “respirabilità”, favorita anche dall’altezza uniforme di costruzioni che si succedono compatte e che non superano mai il quarto o il quinto piano.

Quest’ultima caratteristica soddisfa un’altra mia sindrome particolare: ho bisogno di vedere il cielo senza tenere troppo il naso per aria. Se poi quei palazzi sono anche belli, se mostrano una coerenza architettonica senza stranezze eccessive, se testimoniano una concezione urbanistica che ha resistito alle sirene della iper modernità, si compie la quadratura del cerchio.

Non è la prima volta che visito Vienna, ma l’ultima risale a oltre trent’anni fa, e allora per vari motivi non avevo avuto modo di riflettere su queste cose. C’ero arrivato in macchina, e nei giorni successivi me l’ero percorsa tutta a piedi (all’epoca avevo un’autonomia di quaranta-cinquanta chilometri al giorno, e soprattutto avevo una concezione piuttosto penitenziale del turismo), per cui non avevo mai usato la metropolitana. Le volte precedenti guidavo gite scolastiche, per le quali facevo valere i miei convincimenti odeporici e non avevo nemmeno il tempo di guardarmi attorno o per aria.

Una volta completata la sistemazione logistica mi muovo per un primo approccio esplorativo. So di avere il cielo aperto sopra di me, respiro tranquillo e mi dedico a ciò che mi circonda. Non posso non apprezzare l’eleganza raffinata, mai cafona, dei negozi, la perfetta manutenzione di bellissimi palazzi risalenti a un secolo e mezzo fa, la pulizia di strade e marciapiedi, che non si capisce da chi e quando venga effettuata, la cura delle diffuse aree verdi. Come mi disse una volta Franco Vallosio, reduce da un lungo viaggio in Svizzera: “Vai a sapere quanto sfruttamento c’è dietro tanta pulizia e tanto ordine: ma almeno là l’ordine c’è, mentre da noi c’è solo lo sfruttamento”.

Solo dopo un po’ comincio ad avere la percezione di un’assenza, e mi accorgo che nel panorama manca una componente ormai diffusa in tutte le altre grandi città, da Londra a Parigi e a Milano (ma anche in quelle piccole). Non ci sono in giro homeless. Non ne incontrerò nemmeno nelle escursioni serali. Visti i precedenti (mi riferisco a quanto accadde più di ottant’anni fa) verrebbe da pensar male: ma l’atmosfera non è affatto quella. Non credo li abbiano fatti sparire, penso semplicemente che ci siano luoghi che la notte li ospitano, ma anche di giorno. Questi luoghi esistono anche da noi, e in gran parte d’Europa, ma semplicemente qui funzionano, e chi ne ha bisogno viene convinto con una certa fermezza ad utilizzarli. Può sembrare una concezione che sacrifica al decoro urbano la libertà individuale, da noi senz’altro verrebbe considerata tale, ma in realtà è solo lo smascheramento di un libertarismo peloso, quello per il quale ciascuno può fare ciò che gli pare, dalle nostre parti molto praticato.

Potrei andare avanti per pagine ad elencare i fattori che concorrono alle mie valutazioni, ma credo che quanto ho scritto finora basti a rendere l’idea. In pratica il criterio è molto banale: quando si parla di qualità della vita i numeri non bastano, anche se non guastano: ti dicono quali possibilità sono offerte, non necessariamente quanto e come e con quali esiti vengono colte. Questo è poi affar tuo scoprirlo. E in tal senso nella qualità della vita faccio rientrare anche un altro fattore, difficilmente computabile: la consapevolezza del sostrato storico sul quale si cammina.

Nei pochi giorni che avevo a disposizione ho fatto il pieno di Secessione e di Klimt e di Schiele, ma soprattutto sono riuscito a intravvedere i fantasmi dell’epoca d’oro della città, di quella fetta iniziale del Novecento nella quale Vienna esprimeva, prima come capitale di un impero fondato sulla giustapposizione tra culture diverse, e non sullo scontro, e poi come sopravvissuta nostalgica di tanta grandezza, il meglio della cultura europea: molto più di Parigi, a mio giudizio, perché nella capitale francese erano soprattutto gli stranieri, esuli volontari (come gli anglosassoni) o meno (come italiani, tedeschi o spagnoli), ad esprimerla.

Come per tutti gli altri aspetti, a Vienna anche la vita culturale risulta più discreta. Quando si parla di cultura pre e post primo conflitto mondiale la gran parte delle figure (e dei movimenti) di riferimento nella letteratura (da Karl Kraus, a Schnitzler, a Zweig, a Musil) nella filosofia (da Carnap a Wittgenstein e a Freud), nella musica (da Mahler, a Schönberg, a Berg, a Webern), nelle scienze (da Mach a von Mises, a Gödel), oltre a quelle naturalmente che ho già citate per l’arte, arrivano da lì: ma non sono mai state strombazzate quanto ad esempio il futurismo italiano o il surrealismo francese (provate a chiedere in giro chi conosce la Secessione Viennese, l’Art Nouveau, lo Jugendstil o l’opera architettonica e urbanistica di Otto Wagner) e anche all’epoca non si sono mai esibite in manifesti o manifestazioni spettacolari, ma nella realizzazione di opere. Ancora oggi rimangono essenzialmente patrimonio locale, anche se non mancano di concedersi ogni tanto in prestito allo spaccio dilagante di mostre e convegni e ricorrenze anniversarie.

Qui credo comunque di aver perfettamente capito a cosa si riferiva Benjamin quando parlava di “aura”. Se entri al museo del Belvedere dopo aver attraversato mezza città ti trovi in assoluta continuità con quanto hai visto o percepito sino a quel momento, scendi solo più in profondità. Fuori da quel contesto, dell’opera di Klimt o di Schiele puoi solo ammirare la bellezza esteriore, se ti piace il genere, puoi contemplarla stupito o perplesso, ma non puoi assolutamente comprenderla. E lo stesso vale per i romanzi di Musil e i memoires di Zweig, o per la musica di Mahler e di Berg. Persino la logica di Gödel ha la sua naturale dimora e intelligibilità in quel luogo e in quel tempo.

Più in generale, stante che il contesto storico cui faccio riferimento non va oltre gli anni Trenta del secolo scorso, anche la storia dell’Impero asburgico si distingue per l’essersi mossa quasi in sordina, senza eccessi e senza infamie particolari. In fondo è l’unica istituzione politica dell’Europa occidentale, a parte la Svizzera, a non essersi ritagliata appendici coloniali fuori del continente. Certo, l’Africa e l’Asia degli Asburgo erano nei Balcani, ma il sistema amministrativo consentiva a ben nove diversi popoli soggetti larghe autonomie, e il controllo veniva esercitato con mano leggera. Teniamo presente che nell’ultimo secolo di esistenza l’amministrazione imperiale è stata osteggiata all’interno non da rivendicazioni sociali (non erano tali neppure quelle del 1848) , ma da un montante spirito nazionalistico, quasi sempre alimentato da interessi politici ed economici esterni. In questo senso il modello imperiale asburgico può essere considerato l’ultimo tentativo di tenere assieme almeno una parte di quell’Europa che avrebbe finito nel giro di un trentennio e di due spaventosi conflitti successivi per suicidarsi. Ora, visti i recenti fallimenti degli sforzi per avviare una nuova riunificazione, varrebbe forse la pena di andarsi a rivedere come funzionavano al suo interno le cose, almeno per trarne una qualche ispirazione. Da quello che è il ricordo lasciato in Italia, nelle regioni rimaste sotto il suo diretto dominio fino al 1866, e per quello che è accaduto nei Balcani dopo la disgregazione, direi che ci sarebbe molto da imparare.

Non deve sorprendere allora che prima di rientrare abbia dedicato mezza giornata alla ricerca di una grande carta geopolitica, possibilmente d’epoca, dell’impero austro-ungarico, da affiancare nel mio studio a quella dell’Europa antecedente il 1848. Non l’ho trovata, e quando ho chiesto a un negoziante antiquario particolarmente fornito se dipendesse dal fatto che agli austriaci non interessa il loro passato, mi sono sentito rispondere che, al contrario, come quel tipo di carte gli arrivano spariscono in un baleno. Anche questo significa qualcosa, e non può essere tabellizzato in alcuna graduatoria.

Tirando tutte le somme (in senso figurato, s’intende: ma in fondo anche quelle concrete, delle spese sostenute) si è trattato di una esperienza decisamente positiva. Mi rimane il rimpianto per la carta: nello studio avrebbe ben figurato, e avendola costantemente sotto gli occhi avrei potuto ogni tanto staccare e volare con la mente oltre le Alpi. In Italia mi sarà difficilissimo, se non impossibile, rintracciarne una. Dovrò limitarmi a vedere ogni possibile film ambientato a Vienna, come già faccio per quelli girati in Islanda (ma di questa una bella carta d’antan la possiedo), e gioire ogni volta che mi sembrerà di riconoscere un luogo che ho frequentato, e di poter entrare di soppiatto nell’azione. È l’unico modo, alla mia età, per illudersi di viaggiare ancora da protagonisti.

Culture diverse e reputazione

di Nicola Parodi, 19 maggio 2022, da un colloquio con Paolo Repetto

Per mantenere vitale e coesa una comunità, funziona meglio un meccanismo di esclusione o uno di inclusione? Ce lo siamo chiesti davanti ad un caffè, partendo dallo sfogo di Paolo (cfr. Rifiuti), dalle più recenti e allucinanti notizie di cronaca spicciola (donna che uccide i vicini di casa perché il loro cane abbaia, genitore che riduce in fin di vita l’arbitro di una partita di calcio tra ragazzini, ecc… ) e da una riflessione che portiamo avanti da un pezzo sulle norme riguardanti la “Privacy”.

L’argomento potrebbe sembrare marginale rispetto ai fenomeni citati da Paolo, ma in realtà è ad essi strettamente connesso. Le norme sulla “privacy” limitano infatti giustamente la diffusione di notizie riguardanti il singolo, ma hanno anche l’effetto di rendere difficile farsi un giudizio corretto sulla onestà e affidabilità dei propri concittadini. E non è un problema di poco conto, se è vero che tanto gli psicologi che i sociologi ritengono che la necessità di conservare una buona reputazione sia fondamentale per spingere gli individui a comportarsi in modo collaborativo, evitando il rischio di essere isolati ed esclusi dalla società.

Il controllo dei comportamenti dei singoli in una società, grande o piccola, non può essere ottenuto soltanto attraverso le leggi e con l’uso della “forza” per imporne il rispetto. Sappiamo, se non altro per esperienza diretta, che nei rapporti interpersonali quotidiani, ad esempio all’interno di un condominio, le nostre azioni sono regolate da una sorta di codice comportamentale riconosciuto da tutti (o almeno dalla gran maggioranza) che possiamo definire “buone maniere”. Il mancato rispetto di queste regole di comportamento, anche quando non è punibile dalla legge, comporta la riprovazione degli altri componenti del gruppo.

Occorre naturalmente distinguere tra le leggi, che hanno carattere vincolante per tutti i membri di una comunità, e a garantire il rispetto delle quali provvede l’istituzione, e le norme comportamentali non vincolanti che la comunità ha elaborato nel corso del tempo, che pur non essendo vincolanti necessitano comunque di una condivisione e determinano una forma di coesione. Ai fini del nostro discorso, però, la distinzione tra le norme vincolanti (le leggi) e quelle puramente consuetudinarie (i costumi) non è poi così importante. Importante è avere chiaro che in entrambi i casi si tratta di meccanismi che determinano esclusione o inclusione.

Inoltre, il “codice comportamentale” non va inteso come una serie di regole fissate una volte per tutte, ma come un criterio al quale queste regole devono ispirarsi nella evoluzione imposta dalle trasformazioni che progressivamente intervengono, per svariati motivi, all’interno di una società. Per fare un esempio, il “cedere la destra”, che era nel Seicento un costume di cortesia legato al riconoscimento di differenze gerarchiche, è divenuto nel Novecento una norma obbligata per regolamentare il traffico delle automobili (con l’eccezione scontata degli inglesi, che fanno storia parte, e fino all’avvento delle rotonde agli incroci). Il criterio sotteso a questo comportamento è quello della sopravvivenza del gruppo, ed è fondamentale che esso venga condiviso universalmente, pena il caos. Ciò vale naturalmente per tutti gli altri comportamenti sociali.

Quindi, in una società civile le regole vanno rispettate da tutti, e le consuetudini vanno quanto meno condivise, e possono essere cambiate solo se quelle che vanno a sostituirle risultano più funzionali alla coesione e alla sopravvivenza del gruppo. Ciò significa che un gruppo può permettersi gli innovatori, al di là delle resistenze opposte da quelle sue parti che dall’innovazione potrebbero ricavare svantaggi, ma non può tollerare i puri e semplici trasgressori.

Ci sono però dei problemi. Le società moderne hanno infatti codificato non solo le leggi da osservare, ma anche i diritti di cui l’individuo gode, che sono garantiti dallo stesso stato che impone il rispetto delle leggi. Questo avviene naturalmente là dove lo stato funzioni, quindi non sempre, o anzi, piuttosto raramente: ma in linea teorica le cose dovrebbero andare così. Il ragionamento teorico non tiene però conto del fatto che in alcune teste (ultimamente, in moltissime) sia maturata più o meno inconsapevolmente l’idea che i comportamenti positivi e cooperativi degli altri nei loro confronti siano “dovuti” (siano appunto considerati “diritti”), mentre i propri sono legati all’opportunità e ai vantaggi che possono derivarne. Ciò fa saltare il meccanismo della “reciprocità”, favorisce gli egoisti e sfavorisce gli altruisti, e mette in crisi processo di “auto-addomesticamento”. Il problema non sono dunque i diritti, ma l’ interpretazione in termini prettamente egoistici che dei diritti viene data da alcuni. Se questi alcuni diventano la maggioranza, finiamo nello stato in cui ci troviamo oggi.

La cosa è resa poi tanto più complessa in una società “globalizzata”. Il progredire delle scienze e dei commerci spinge verso la semplificazione e l’unificazione delle unità di misura, delle valute monetarie, dei linguaggi, mentre le dinamiche interne ai gruppi sociali spingono verso l’uniformità dei comportamenti e delle norme. In uno scenario di questo tipo la valutazione della “bontà” di un comportamento sociale suppone dunque un’unità di misura “comportamentale” il più possibile unica e condivisa, che compendi i valori funzionali alla sopravvivenza del gruppo espressi dalle diverse culture che sono a confronto. Questa valutazione non fa riferimento a valori presunti “assoluti”, ma a quelli attorno ai quali, in base alla loro funzionalità, si è coagulata la coesione del gruppo. In natura la scelta non è “morale”, tra il bene e il male, ma è strumentale, tra ciò che è utile alla sopravvivenza e ciò che non lo è.

Ora, le culture che vengono oggi a stretto contatto fino a ieri erano separate spazialmente da migliaia di chilometri e temporalmente da sfalsamenti di secoli (in alcuni casi, di millenni). Queste culture hanno fatto necessariamente riferimento, stanti le differenti condizioni ambientali e i singoli e distinti processi di “civilizzazione”, a valori diversi: di conseguenza anche i comportamenti che facevano acquisire buona reputazione erano diversi. Cerco di spiegarmi. Mentre non ci sono molti dubbi sulle differenze fra le condotte che creano buona reputazione per un camorrista e quelle che fanno di un contadino del Trentino un cittadino stimato, è molto più arduo stabilire cosa sia accettabile o meno quando le differenze non sono legate a comportamenti “delinquenziali”, ma attengono a prassi considerate normali in alcune culture. L’esempio che un tempo veniva più frequentemente citato è quello della immolazione sacrificale delle vedove in India, ma per rimanere nella nostra quotidianità e nei pressi di casa nostra potremmo considerare quello delle giovani figlie di immigrati pakistani uccise per non aver sottostato alle scelte matrimoniali loro imposte.

Che atteggiamento dobbiamo assumere di fronte e situazioni del genere? In fondo, per le famiglie pakistane si tratta di conservare una “reputazione sociale” in seno alla loro comunità. Queste pratiche se valutate in termini di coesione del gruppo, paradossalmente riescono socialmente “funzionali”. Lo cementano con la paura e la soggezione imposte al genere femminile (ma nel caso specifico dei matrimoni, vale anche per i maschi). E allora, per quanto schifati, dobbiamo, sia pure senza condividerle, almeno giustificarle?

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Qui vengono fuori le laceranti contraddizioni nelle quali si dibatte il pensiero occidentale. Se dobbiamo riconoscere pari dignità ad ogni cultura, il problema non si pone neanche. Accettiamo l’idea di società multiculturali, e finiamola lì. Il fatto è, purtroppo, che questo modello di società, là dove si è già spontaneamente realizzato, e mi riferisco a tutto l’occidente, compresi gli Stati Uniti, sta facendo acqua da ogni parte, perché la pari dignità è riconosciuta in realtà solo in una direzione.

Dobbiamo per questo giustificare tali situazioni, sia pure obtorto collo? Assolutamente no. Anche a prescindere anche dall’orrore morale del gesto (e questo rimane, quale che sia il valore che si vuol dare al termine “morale”), non possiamo farlo perché rispetto alla comunità più ampia che la globalizzazione va configurando oppongono una resistenza discriminatoria, e perché di fatto negano tutta la cultura del diritto individuale sulla quale la nostra civiltà si fonda.

Insomma, la scomparsa di un codice comportamentale condiviso determina in automatico lo sgretolamento del gruppo, che non dispone più dello strumento di controllo che ne garantiva la compattezza, e quindi la sopravvivenza.

E a questo punto entra in ballo anche la controversa questione della privacy. Tra i diritti cui facevamo cenno sopra quello alla privacy è il più recente e il più ambiguamente rivendicato, e va in direzione totalmente opposta rispetto al meccanismo di controllo sociale dal quale abbiamo preso lo spunto per queste righe.

È un argomento delicato: i confini fra l’interesse pubblico a conoscere per farsi un’opinione sui concittadini e il diritto di questi ultimi alla riservatezza sono difficili da tracciare. Ci limitiamo quindi ad alcune osservazioni spicciole.

Ultimamente, davanti alle misure ipotizzate per contrastare la diffusione del Covid-19, si è sbandierata da più parti la preoccupazione che tali misure non rispettassero le norme previste per la protezione dei dati personali, ovvero il diritto alla riservatezza. Non sto a mettere in dubbio tale diritto per i dati riguardanti la salute e le relazioni personali, o comunque per tutti i dati che, se divulgati, possono umiliare persone in situazioni di disagio, o peggio, se finiscono nelle mani sbagliate, possono essere usati in modo fraudolento. Voglio dire che siamo perfettamente consapevoli dei rischi comportati da una intrusione così profonda nel nostro privato, ma cerchiamo di inquadrare la situazione dal punto di vista più generale del funzionamento di ogni società animale, compresa quella cui volenti o nolenti anche noi umani apparteniamo.

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Davanti ad un’emergenza globale come quella creata dalla pandemia (a meno di voler credere che la pandemia sia un trucco escogitato dai “poteri forti”, ma qui si sconfina nella paranoia) le istituzioni demandate a salvaguardare la sopravvivenza di un gruppo (e a farlo letteralmente, nell’occasione specifica) e la sua compattezza non possono andare tanto per il sottile in tema di riservatezza. In un conflitto tra il diritto individuale e l’interesse collettivo chi si trincera dietro il primo in automatico si auto-esclude dal gruppo. Tutto ciò a prescindere dal fatto che in realtà i dati più sensibili, senza attendere l’occhio del Grande fratello istituzionale, già volano liberamente nell’etere attraverso il circuito dei social.

Ma forse una riflessione di questo genere è davvero prematura: non siamo ancora usciti dal Covid, non sappiamo quando e come ne usciremo, e meno che mai come ne usciranno i nostri diritti e i nostri meccanismi di inclusione-esclusione. Veniamo invece a situazioni più prosaiche, meno complesse e già definite, che pongono comunque il problema di quali altre informazioni riguardanti i nostri concittadini devono essere riservate.

Dopo l’alluvione che colpì Alessandria nel 1994, l’amministrazione comunale decise di non rendere accessibili i dati relativi ai rimborsi ottenuti dai cittadini che avevano subito danni. All’epoca (ricorda Nico) criticai dai banchi della minoranza quella scelta, sostenendo che rendere pubblici tali dati non equivaleva a pubblicare l’elenco delle elargizioni ai poveri fatte dalla Caritas; trattandosi di rimborsi statali era giusto che i concittadini fossero in grado di sapere e di farsi un opinione. Mi sembrava assurdo esigere che tutto ciò che ci riguarda non sia conosciuto dagli altri membri della comunità, quando poi da essa pretendiamo solidarietà e protezione. Forse che ci sentivamo meno liberi quando i giornali pubblicavano i nomi dei promossi nelle varie scuole, o l’elenco dei contribuenti con i dati delle somme pagate per le imposte comunali? Naturalmente l’amministrazione andò per la sua strada. Non solo: negli ultimi vent’anni sono anche scomparsi gli elenchi coi nomi dei promossi e quelli dei contribuenti.

A noi il dubbio rimane: il fatto che tutti potessero sapere quanto un vicino pagava di tasse e spettegolare in proposito aiutava a combattere l’evasione? Non lo sappiamo, non abbiamo una risposta certa, ma riteniamo che qualche riflessione in proposito andrebbe fatta. Forse dovremmo chiederci se tutte le soluzioni normative che egoisticamente ci sembrano “giuste”, perché rafforzano i nostri diritti, in realtà non mettano in crisi i meccanismi che hanno contribuito alla creazione di comunità “morali”. Il che non può che preludere al disfacimento di quelle comunità.

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