Sul riordino

luglio 2025

di Paolo Repetto, 21 novembre 2025

Ma bene, andiamo avanti così.
Si comincia facendo il pesto con le noci e si finisce a letto con i consanguinei!
da “Accoglienza ligure”

Quelli che non studiano la storia sono condannati a ripeterla.
E quelli che la studiano sono condannati a vedere come la storia si ripeta
per colpa di coloro che non la studiano.
George Santayana

Ho trascorso l’intera mattinata a mettere ordine in magazzino. In questa stagione la mattinata è lunga, inizia alle 6:30, quindi avevo grandi aspettative. Il risultato però non è all’altezza. Quando a mezzogiorno esco, volgendo indietro un ultimo sguardo per vedere l’effetto, stento a capacitarmi di aver trafficato per sei ore lì dentro, visto che non ho sistemato alcunché e il grande sgombero ha prodotto solo uno striminzito sacchetto di rifiuti.

Il problema è che il magazzino non è un vero magazzino: lo chiamo così per distinguerlo dal garage, ma in realtà è un deposito per tutti gli utensili, metà dei quali fuori uso, un ricovero per mobili che si tarlano in attesa di restauro e per imballaggi e materiali di scarto che “potrebbero sempre tornare utili”, un laboratorio per riparazioni, verniciature, bricolage, fantasiosi assemblaggi. Le pareti sono occupate da scaffalature e da armadi di varia natura, che nelle intenzioni avrebbero dovuto consentire la reperibilità al primo colpo di ciò che vai a cercare, ma nella realtà si sono andati stipando col tempo in maniera tutt’altro che sistematica. Così oggi mi capita quasi sempre di sapere che un dato oggetto ce l’ho, ma non avere la minima idea di dove cercarlo. Purtroppo è quel che comincia a capitarmi anche coi libri, malgrado per questi un certo ordine di collocazione l’abbia mantenuto.

C’è anche un altro settore nel quale inizio a perdere colpi. È quello della manutenzione della memoria. A volte gli amici si meravigliano del fatto che ricordi nomi e situazioni lontani nel tempo, che mi sovvenga di cose che ho vissuto o che ho letto o che ho visto al cinema sessant’anni fa; e aggiungo che mi meraviglio anch’io, soprattutto quando si tratta di roba di poca o nessuna rilevanza (il nome di un autore, di un personaggio, di un attore, il titolo di un film). Questo nel momento stesso in cui ad esempio non rammento il titolo del libro che sto leggendo, o mi accorgo che le pagine lette non mi si stampano affatto in testa.

Sto divagando, ma mica poi troppo. Il tema voleva essere quello dell’ordine, sul quale peraltro ho già scritto, anche recentemente (vedi Essere …). Solo che vorrei trattarlo da un altro punto di vista.

L’ordine di un magazzino, di un’officina, di un laboratorio, così come quello di una biblioteca, o volendo anche di un cervello, dovrebbe essere finalizzato a semplificare l’attività cui in quel luogo o con quello strumento ci si dedica. Non sempre però lo scopo è quello. Spesso l’ordine è fine a stesso, oppure ha una funzione di rappresentanza. In genere comunque è specchio della personalità dell’ordinante. Ne Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta Robert Pirsig identifica due tipologie di officina meccanica, quella “classica” e quella “romantica”.

Nella prima tutti gli strumenti sono ordinatamente disposti in sedi apposite, nella seconda sono buttati a casaccio sul carrello o sul piano di lavoro. Ma non per questo, secondo Pirsig, chi li usa ha maggiore difficoltà a rintracciarli: semplicemente ricorda a memoria dove avrebbe potuto riporli, e li trova subito. A queste due tipologie di meccanici corrispondono anche due diverse tipologie di motociclisti: quelli che apprezzano il vento in faccia e il senso di libertà che la motocicletta ti dona, e non si preoccupano e non hanno conoscenza degli aspetti tecnici; e quelli che invece auscultano le pulsazioni del motore, e godono della sua efficienza, per cui ad esempio hanno cura di regolare la mandata dell’aria quando devono affrontare dislivelli altimetrici importanti. Tutto questo, anche se sembrerebbe entrarci per nulla, è al contrario significativo di atteggiamenti diversi nei confronti della vita: il primo meno responsabile, più “anarchico”, e tutto sommato più egoistico, il secondo più apprensivo e responsabile. Poi c’è il mio, diviso tra la voglia di riordinare il mondo intero e una rassegnata pulsione a lasciare che il mondo si ordini da solo. Per cui passo la vita a riassestare la mia mente, per cercare di conciliare le due spinte opposte e capire quale è innata e quale acquisita.

Qui volevo arrivare. Nel pezzo postato mesi fa sul mettere ordine e sul mio atteggiamento quasi maniacale in proposito, non avevo indagato da dove questo atteggiamento discenda: o forse ho dato l’impressione di considerarla tutta una questione di carattere innato. Beh, non è proprio così. Certamente nella disposizione o meno all’ordine c’è una componente biologica, ma credo che a determinarla siano anche le condizioni ambientali in cui uno cresce. Il che è abbastanza ovvio, c’entrano sia la genetica che l’epigenetica: ma in genere il peso di questi fattori viene equivocato, e chiamato in causa a seconda dei casi per giustificare un comportamento o per stigmatizzarlo. Credo che la questione sia un po’ più complessa.

Intanto so bene che noi umani costituiamo un’anomalia nell’ordine “naturale” delle cose, e che siamo un’anomalia a termine: se credessi in un disegno superiore direi che siamo un esperimento della natura destinato a finir male. Ma so anche che ci siamo, e che per il momento l’esperimento sembra aver avuto successo, vista la velocità con la quale ci moltiplichiamo e abbiamo colonizzato ogni parte della terra. Un successo senza dubbio “quantitativo”, mentre sulla qualità si può ovviamente discutere. Penso dunque che dei due aspetti occorra prendere atto in maniera diversa, convivere con l’esperimento senza darci troppa cura del progetto. Cosa che oggi, a dispetto di quanto può sembrare, non facciamo affatto (ma su questo tornerò dopo).

Veniamo invece all’origine dei diversi atteggiamenti.

In casa mia ho vissuto, per tutto il periodo dell’infanzia e della prima adolescenza, una povertà dignitosa, ma sempre sul filo del rasoio: voglio dire che ogni minima sbandata poteva significare cadere nella miseria. (e qui sarebbe da riflettere su quanto sia cambiato in settant’anni il concetto di povertà, quando ci viene raccontato quotidianamente che sei milioni di italiani, la metà dei quali bambini, vivono sotto la soglia di povertà, ma il novanta per cento, bambini compresi, dispone di un cellulare molto più recente e performante del mio). Questa condizione tuttavia non mi pesava più di tanto. Ne sono diventato consapevole solo a posteriori, quando ho potuto accedere a uno stile di vita meno precario. Allora costituiva la normalità, e quando la rievoco non me ne compiango affatto, ne ho addirittura nostalgia.

Comunque. In quello scenario la possibilità del disordine non era nemmeno concepita: si tirava avanti con lo stretto necessario, non potevamo permetterci di perdere, di trascurare, di sciupare qualcosa. Nessun alimento aveva il tempo di scadere, ogni capo d’abbigliamento aveva una doppia o tripla vita, e anziché nel raccoglitore della Caritas finiva in pezze da rammendo o in stracci per la pulizia. Il raccoglitore d’altra parte non esisteva, e la Caritas credo nemmeno. L’attenzione non c’era alcun bisogno di inculcarmela: avevo davanti agli occhi i comportamenti dei miei genitori, e mi sembrava perfettamente naturale viverla. Anche quando mi confrontavo con situazioni diverse (quasi mai all’interno della nostra piccola comunità: piuttosto coi villeggianti estivi prima, poi con i compagni delle scuole secondarie: con quelli insomma che potevano permettersi di comprare i fumetti e i libri, di mangiare un gelato o bere una gazzosa) me ne facevo una ragione: tirando dritto avremmo forse potuto un giorno permettercelo anche noi.

In effetti col tempo anche la situazione nostra è cambiata, siamo usciti dall’economia di sopravvivenza: ma il mio atteggiamento nei confronti delle cose, e del mondo, è rimasto. Non ho certo atteso le mode mainstream e i guru televisivi dell’ecologia per praticare il riciclo. Ma soprattutto, non ho mai accettato l’idea che il mondo possa essere cambiato col disordine. Anzi, con gli anni e con l’approdo ad una razionalità più matura il legame tra vita ordinata e vita dignitosa nella mia mente si è rafforzato. Questo non significa che abbia poi sempre vissuto un’esistenza tranquilla e ordinata, per alcuni versi è stata disordinatissima: ma il concetto e l’aspirazione di fondo sono rimasti sempre quelli.

Mi chiedo allora: se fossi cresciuto in un’altra famiglia, in un ambiente diverso, sarei stato altrettanto fermo nei miei convincimenti, avrei scoperto comunque il mio imperativo categorico? Malgrado quanto ho detto sinora, tendo a credere di sì: sono in fondo un determinista, quasi un lombrosiano. E mi spiego soprattutto in termini di determinazione genetica la mia intolleranza o quanto meno il mio atteggiamento negativo nei confronti dello spontaneismo e del movimentismo, quando con questi termini si intendano azioni distruttive fini a se stesse, non mirate alla creazione di un ordine nuovo. O quando questo fine diventa solo un pretesto per scaricare frustrazioni, risentimenti, invidie, per cambiare non l’assetto di una società, ma la propria posizione all’interno di quell’assetto.

E tuttavia, ripeto, non sono così sicuro. Porto un esempio. Durante la prima occupazione dell’Università di Genova (nel dicembre ‘67) mi scontrai piuttosto bruscamente con alcuni “compagni” che, da brave “guardie rosse” nostrane, stavano devastando la biblioteca dell’istituto di storia moderna (a loro parere sentina della famigerata “cultura borghese”). Alla fine li costrinsi a rimettere ordinatamente i libri sugli scaffali dai quali erano stati strappati (ero molto “determinato”, anche in questo senso. E, per inciso: fu lì che capii che la mia lotta non era la loro, e che se dai “nemici” dovevo guardarmi io, dovevo farlo poi tanto più nei confronti di quelli che teoricamente avrebbero dovuto essermi amici). Ora, questa può sembrare una situazione estrema, significativa in fondo solo di una particolare contingenza e della mia ipersensibilità di bibliomane: in realtà ha continuato a ripetersi, complice anche una classe intellettuale che i libri li scrive e non ha ritegno a promuoverli in televisione o nei festival come un tempo solo i mobili di Aiazzone, ma “decostruisce” la tradizione culturale da cui discendono e asseconda ruffianamente la bovina ignoranza del proprio pubblico. Continuo a ripetermi, ma ritengo che l’atteggiamento degli odierni “maîtres à penser”, per fortuna effimeri, nei confronti della cultura “borghese” occidentale non sia mai sufficientemente smascherato.

Ebbene, ricordo chiaramente di aver pensato in quell’occasione: “Se li vedesse mia madre – che non avendo mai potuto permettersi di acquistarne uno, ma amando sinceramente la lettura, considerava i libri oggetti sacri – tirerebbe loro il collo come alle galline”. Ho agito io, ma dietro di me c’era un preciso ambiente che si indignava.

Il mio è dunque un atteggiamento complesso, quasi contradditorio. Perché può sembrare che per come lo concepisco io l’ordine comporti in fondo una rinuncia alla libertà. Ma non è affatto così. L’idea di fondo è invece che il massimo possibile di ordine sia la migliore garanzia per il massimo possibile di libertà. La mia libertà di spostarmi da un luogo ad un altro non può essere confusa con la libertà incondizionata di muovermi alla velocità e nella direzione e lungo la traiettoria che più mi aggrada. Questo può valere all’interno di uno spazio disabitato, non certo in un mondo sovraffollato e comunque condiviso con milioni o miliardi di altre persone. Ordine in questo caso significa un minimo comune accordo di reciprocità per cui la mia velocità e la mia traiettoria non interferiscono, non intralciano, non configgono con quelle di altri. È una limitazione, non una privazione di libertà.

Quel che mi si obietta a questo punto è che una società perfettamente ordinata è una società utopica, e come tale immobile, posta fuori dal tempo. Infatti: nessuno ha però parlato di società perfettamente in ordine, primo perché non esiste, non è mai esistita e non esisterà mai, poi perché ogni progresso, ogni cambiamento, non sono una rivolta contro l’ordine, ma evidentemente contro qualcosa che non funziona, quindi che crea disordine. Ogni avanzamento è un ripristino dell’ordine ad un livello più alto.

Ecco: io penso che oggi più che mai dovremmo avere chiaro in mente questo concetto. E invece dalla sinistra, dove mi ostino a collocarmi, ultimamente sentendomi sempre più disagio, l’ordine è visto come un attacco reazionario alle libertà: per cui, ad esempio, le forze dell’ordine, quando cercano di impedire il saccheggio dei supermercati o la distruzione dei beni pubblici come la segnaletica e i contenitori di rifiuti, diventano automaticamente forze del male. E il malinteso è avvallato quando non si prendono le distanze dalle bande di sciagurati che scandendo bovinamente slogan e ammantati di bandiere sempre diverse cercano di mettere il mondo a soqquadro.

Tutta questa tirata non voleva essere altro che una premessa per arrivare a parlare dell’oggi, per enunciare i miei prolegomeni ad ogni futuro scambio di vedute. Spero che un’operazione onesta di pulizia concettuale possa rimuovere qualcuno degli ingombri che rendono faticoso il cammino verso un minimo di “verità” condivisa.

Nelle quotidiane discussioni con gli amici mi trovo sempre a recitare la parte di chi pretende una conoscenza e un’interpretazione “ordinata” della materia di cui si dibatte, e non sopporta le argomentazioni passionali, fondate sulla simpatia e sull’emotività. Questo vale particolarmente per la storia: pur nella consapevolezza che non potremo mai conoscere tutti i fatti, e che quelli che conosciamo ci giungono filtrati da sguardi immancabilmente partigiani, sono convinto si possa arrivare, sia pure con molta approssimazione, a delineare un qualche ordine. Nella mia interpretazione l’ordine non sottende una finalità superiore, uno scopo ultimo: è solo un’ordinata sequenza. Che di per sé parrà non dire molto, ma è a mio parere la condizione necessaria per affrontare qualsiasi argomento. Partendo da ciò che è più attendibilmente documentabile si può infatti procedere a individuare e dipanare il filo. Non dico che si possa pervenire ad una “verità storica”, ma con un po’ di buona volontà, attraverso il confronto e la verifica di tutte le fonti possibili, si può comunque accedere ad un denominatore di lettura comune. E in questo processo non devono avere spazio la passionalità e la simpatia.

È chiaro che quando della storia di cui si è diretti testimoni, o addirittura attori non protagonisti, e di cui si discute (oggi ad esempio della questione ucraina o di quella palestinese) abbiamo una informazione immediata, e soprattutto una rappresentazione anche visiva, l’impatto emotivo è forte, e riesce difficile non assumere atteggiamenti pregiudiziali. Ma anche in questi casi, se ci si sforza un poco si è in grado di capire da dove arrivano le informazioni, e come sono gestite e manipolate, e perché.

Per spiegarmi meglio vado a ripescare nel passato due casi che permettono di esemplificare sia il modo in cui è prodotta, intenzionalmente o a volte magari per semplice omissione, la disinformazione storica, sia il perché mi sembri così importante “fare ordine” nella ricostruzione storica, a partire da quelli che possono sembrare “dettagli” puramente quantitativi.

Il primo riguarda la vicenda della resistenza opposta dai militari italiani all’ordine di resa impartito loro dai tedeschi, sull’isola di Cefalonia, dopo l’armistizio dell’8 settembre. Fino a un paio di decenni fa il numero degli uccisi in combattimento o fucilati dopo la resa era quantificato, sulla base delle frettolose e svogliate inchieste avviate nell’immediato dopoguerra dalla magistratura militare, in circa diecimila, comprensivi di oltre un migliaio di prigionieri annegati per l’affondamento (da parte degli alleati) delle navi che li stavano trasbordando verso l’Italia.

Solo agli inizi del nuovo millennio, a seguito di polemiche che si trascinavano da mezzo secolo, le inchieste sono state riaperte e diversi storici, sia italiani che tedeschi, hanno ricostruito attraverso una documentazione più solida e più ampia tanto i fatti quanto le motivazioni che li determinarono, ridimensionando tra l’altro il numero dei caduti e dei fucilati. Attualmente, a detta di uno studioso serio come Gianni Oliva, “le cifre su Cefalonia sono verosimilmente comprese fra un minimo di 3 500 e un massimo di 5 000”.

Quel che suona incredibile è che per arrivare a queste conclusioni, tutt’altro che precise e definitive, siano occorsi ottant’anni. E più incredibile ancora è che di fronte all’ammissione degli storici che per primi avevano affrontato l’argomento (è il caso di Giorgio Rochat) di essersi fidati di testimonianze poco attendibili, ci sia chi contesta gli ultimi dati in nome di una “sacralità” del sacrificio resistenziale dei nostri militari. Come se rivedere al ribasso le dimensioni dell’eccidio ne sminuisse la tragicità.

Una vicenda molto simile riguarda la narrazione della repressione del brigantaggio nell’Italia postunitaria, e nella fattispecie quella delle “stragi” di Pontelandolfo e Casalduni. Per un secolo e mezzo si è fantasticato di una carneficina con centinaia di vittime, compiuta dall’esercito piemontese per vendicare l’agguato in cui erano stati uccisi quarantacinque bersaglieri. Questa versione era stata fatta propria ad un certo punto da Gramsci e dalla storiografia marxista, nel quadro di uno schema interpretativo decisamente antirisorgimentale (Gramsci scriveva nel 1920: “Fino all’avvento della Sinistra al potere, lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio di briganti”).

Qui la comprensione della storia c’entrava poco: si trattava di creare una coscienza di classe fondata sulla divisione netta in buoni e cattivi, in oppressi e oppressori. E bene o male, sia pure immersa nell’oblio rapido che caratterizza tutta la nostra storia più recente, è rimasta quella la versione corrente della vicenda.

La cito perché ultimamente è stata ripescata e amplificata da un gruppo di intellettuali meridionali (i sedicenti neoborbonici, che predicano nostalgie pre-unitarie) che hanno fatto a gara nello sparare cifre esorbitanti (tra i seicento e i novecento trucidati) oltre che nel dare versioni romanzate dei fatti.

Fortunatamente altri storici, anch’essi meridionali, hanno opposto a questo delirio un lavoro di ricerca minuzioso e obiettivo, col risultato che i morti verificati a Pontelandolfo risultano essere tredici, e a Casalduni nessuno (non lo dico io, lo ha confermato il sindaco del paese vittima della repressione, in occasione del centocinquantesimo anniversario dei fatti)

Ora, la questione qui non è quella del ridimensionamento dei numeri: sotto un profilo morale, importa poco che i trucidati fossero diecimila o tremila, seicento o tredici. Fossero stati anche solo trenta a Cefalonia e cinque a Pontelandolfo l’orrore di quanto accaduto non sarebbe minimamente sminuito. Ad essere sminuita invece è la credibilità dei narratori, per cui riesce difficile poi dare credito a qualsiasi altro aspetto della loro versione, e soprattutto alla loro buona fede. Un confronto su questi temi diventa impossibile, fino a quando non si sono accertati con una certa verosimiglianza i dati di fondo, quelli materiali: numero dei morti, effetto delle distruzioni, proporzione delle forze in campo, ecc … Perché questi non sono dati freddi, ma cifre che anche attraverso le loro entità suggeriscono poi le cause, le motivazioni; e soprattutto perché tradiscono abbastanza l’apertamente l’uso che se ne vuol fare.

L’ordine che io esigo si chiama in questo caso chiarezza delle posizioni e correttezza e concretezza delle argomentazioni. Devo sapere che sto parlando con persone che cercano di fare il mio stesso percorso, che vogliono conoscere, e non essere confermate in ciò che già credono di sapere, che non hanno già scelto pregiudizialmente le fonti su cui fare affidamento, ma cercano di orientarsi tra tutte quelle che si ritrovano a disposizione. Esigo interlocutori che non dicano le mie stesse cose, ma parlino la mia stessa lingua. Come posso prendere sul serio, ad esempio, gente che non ha il minimo dubbio sui numeri delle vittime della guerra di Gaza, forniti tutti solo dalla fonte palestinese, mentre quel dubbio lo ha coltivato e continua a coltivarlo sulla possibilità che siano state le stesse autorità statunitensi ad orchestrare l’attacco alle torri gemelle, o quelle israeliane a guidare il raid sanguinario del 7 ottobre? Quando basterebbe ad esempio prendersi la briga di conoscerli, quei numeri, per accorgersi che le due uniche versioni esistenti, quella del Ministero della Salute e quella dell’Ufficio governativo per i media, presentano discrepanze enormi ma cifre finali sorprendentemente uguali (Per chi non abbia il tempo di andarsele a cercare: al giugno 2025 i morti maschi erano per il Ministero della Salute 24.618, le donne 9.790 e i bambini 15.613; per Ufficio per i media ( in pratica, il Ministero per la propaganda) sono invece rispettivamente 19.702, 12.365 e 19.954. Un quarto di maschi in meno, un quarto delle donne e 2.341 bambini in più. Per arrivare nel totale ad una cifra identica: 50.021).

Non è una questione di pignoleria maliziosa. Cosa mi cambiano quei numeri in termini di orrore, di sdegno, delle responsabilità di Netanyahu per la strage, e del popolo che lo ha eletto, e dell’esercito che se ne fa strumento? Niente, naturalmente: stiamo parlando di esseri umani, di decine di migliaia di vite stroncate, e comunque non c’è un limite al di sotto del quale la colpa sia veniale. Ma in termini di credibilità mi cambia, eccome. Comincio col pensare che le cifre siano state manipolate per puntare sull’effetto “innocenza”, sulla sensibilità particolare alla violenza praticata sui più deboli. E posso anche capire il motivo: la propaganda, soprattutto oggi, con le potenzialità offerte da una rete informativa che copre in tempo reale tutto il mondo, vale come arma di guerra quanto i missili e i carri armati.

Ma a questo punto è logico che qualche dubbio possa averlo anche sulla veridicità oggettiva dei numeri, buttati sul piatto per alzare la posta finale, e quindi su una qualche volontà di arrivare ad una soluzione che non contempli il vendicare quei morti facendo sparire completamente Israele. (Questi ultimi dubbi non dovrei nemmeno coltivarli, perché le intenzioni sono state chiaramente espresse in qualsiasi documento delle organizzazioni politiche palestinesi già da ben prima della nascita di Israele stessa).

Sono perplesso riguardo la possibilità di un confronto serio quando vedo che lo sdegno che dovremmo condividere ed esprimere per ogni massacro sembra risvegliarsi solo di fronte ad unica situazione. Non ricordo manifestazioni di piazza contro il massacro dei tibetani da parte dei cinesi (un milione di morti): quelli più informati lo hanno giustificato con la necessità di abbattere un regime sermi-feudale. O contro la pulizia etnica che si sta effettuando in Sudan, che dura da oltre mezzo secolo e che ha provocato oltre mezzo milione di vittime e cinque milioni di profughi; o contro quello che è accaduto in Cecenia, che ancora accade in Nigeria, in Birmania, in Medio oriente, lo sterminio degli Yazidi e dei Curdi, e potrei continuare per un’ora. Non si tratta di uscirne con la scappatoia del famigerato “benaltrismo”, ma al contrario di mantenere nei confronti dell’umanità intera lo stesso calore, di esprimere la stessa solidarietà. Invece la giustificazione dietro la quale si trincera questa freddezza è che certe vicende ci toccano meno, che rimaniamo indifferenti perché si tratta di situazioni lontane. E sarebbe già grave così, ma la verità è che i motivi sono molto più meschini.

Possiamo riscontrarlo anche nella vicenda ucraina. Ogni volta che si cerca di partire dall’unico dato di fatto inoppugnabile, e cioè che esistono un aggressore e un aggredito, scatta il meccanismo pavloviano delle obiezioni: le provocazioni della Nato, il presunto nazismo degli ucraini, la corruzione dilagante nel paese, ecc. Un meccanismo che applicato alla seconda guerra mondiale vedrebbe nei polacchi, rei di avere rioccupato nel precedente dopoguerra le terre che erano state loro sottratte un secolo prima con due successive spartizioni, i veri responsabili dello scoppio del conflitto e dell’aggressione nazista. Che l’Ucraina sia un paese corrotto (ma ne esiste uno che non lo sia?), che abbia fornito quattro divisioni alle SS durante l’ultimo conflitto (ma forse in questo c’entrano un po’ l’Holodomor, il grande terrore del ‘37/’38 e il genocidio dei Tartari di Crimea del ‘44), tutto questo lo so anch’io: ma mi trovo a discutere con gente che i precedenti non li conosce o non vuole prenderli in considerazione, e accusa l’Occidente di fare propaganda attraverso la falsificazione della storia, mentre dà credito all’offensiva di disinformazione intrapresa dalla Russia putiniana, senz’altro più subdola, più agguerrita e senza dubbio meno contrastata e denunciata dall’interno.

Ora, quando esponi le tue perplessità, i tuoi dubbi, le tue contrarietà, ti viene immediatamente ribattuto che dall’altra parte, diciamo da una generica “destra”, che ormai non ha più una connotazione politica e men che mai ideologica, ma comprende un’ampia maggioranza trasversale ai partiti, ai credi e alle classi, la manipolazione della storia e l’uso propagandistico della sua falsificazione sono da sempre lo strumento principe per la conquista o la conservazione del potere. E fin qui ci arrivo anch’io. Ma questo implica che ci si debba adeguare, prendendo per vero tutto ciò che arriva dalla nostra (quale?) parte e dubitando a prescindere di tutto ciò che arriva dagli “altri”? Al contrario: il fatto è che non dobbiamo competere coi nostri antagonisti su un terreno che loro hanno scelto, dove peraltro non toccheremmo palla, ma soprattutto l’adeguarsi a certe modalità rappresenterebbe una sconfitta in partenza. La vera vittoria sta semmai nel non porsi sullo stesso piano, nel tenere un atteggiamento che ci distingua. Che non significa “fare gli strani” o percepirsi élite, ma esigere da noi stessi innanzitutto, e poi dagli altri, una conoscenza conseguita col sudore dei nostri neuroni e un’onestà intellettuale che vale ben più dell’oro, anche se oggi è molto meno quotata.

Questi atteggiamenti li ritrovo però in merito a un sacco di altri temi, da quello del cambiamento climatico a quello dei vaccini, sino a quelli solo apparentemente meno urgenti dell’analfabetismo globale di ritorno o della interpretazione distorta dei diritti: ed è difficile di fronte a certi arroccamenti fondamentalisti evitare la resa, o non cadere a propria volta nella partigianeria. Ciò che mi riporta alla sensazione che avevo espresso all’inizio di questo scritto.

Insomma. Non presumo di avere in mano argomenti validi per suffragare ogni mia convinzione (perché immagino sia chiaro che le mie posizioni le ho – e anche i miei pregiudizi: ma almeno li riconosco e li dichiaro subito, e in questo modo li ripongo in un cassetto); vorrei solo poterne discutere con lucidità, con la massima obiettività possibile e senza condizionamenti emotivi: e magari rivederle, o addirittura, se mi si convince del contrario, prenderne le distanze. Non mi capita spesso, purtroppo. E il rischio è di arrivare a chiedersi se davvero ne vale ancora la pena, se le quattro ore che ho impiegato a scrivere questo pezzo o i dieci minuti che occorrono per leggerlo non siano buttati. Ma per rispondermi subito dopo che è la mia natura “ordinatrice” a impormelo, e che persino mia madre, per una volta, sarebbe d’accordo.

Allora ho deciso. Visto che il mio laboratorio mentale è ancora sottosopra, tornerò a riordinarlo. Nel frattempo però non ci voglio intrusi poco rispettosi. Per entrare, da domani, si bussa, si lasciano fuori le calzature pregiudiziali e si usano le pattine.

Fare le pulci

di Paolo Repetto, 30 maggio 2013

I motivi delle migliori azioni non devono essere ricercati troppo a fondo.
Si sa che la causa di moltissime azioni, buone o cattive, può essere
trovata nell’amore di se stessi. Ma l’amor proprio di certi uomini
li dispone a far piacere agli altri: e l’amor proprio di altri
è interamente impegnato nel far piacere a se stessi.
Jonathan Swift

In una storica puntata di “Bontà loro”1 (sto parlando di trentacinque e passa anni fa), schivando gli imbarazzi di un Costanzo visibilmente irritato Sergio Saviane riuscì a tessere un vero panegirico del pidocchio. Lo cantò come protagonista della storia patria, compagno dei nostri fanti nelle trincee della prima guerra mondiale, degli studenti nelle aule delle scuole elementari, degli emigranti sui piroscafi che traversavano l’oceano, di bimbi e adulti nelle povere cucine delle nostre campagne e dei suburbi industriali. Fu una performance epica, tanto che Saviane non venne più invitato in televisione e qualcuno dei suoi colleghi scrisse che si era bevuto il cervello (a quei tempi nelle pubblicità non c’era ancora spazio per le perdite vaginali o per i batteri fetidi di piedi e di ascelle). Saviane aveva invece aperto una finestra sul nostro passato più profondo, anche se il suo intento era solo quello di prendere per i fondelli il conduttore e i suoi ospiti. Riabilitando il pidocchio era andato all’origine della socialità umana e dei comportamenti che la caratterizzano.

Non ci crederete, ma in effetti nasce tutto di lì, dai pidocchi. Anzi, dallo spidocchiamento. Il primo gesto che possiamo definire davvero “altruistico”, e quindi sociale, è quello di liberare un proprio simile dai parassiti. Di per sé parrebbe una pratica molto diffusa in natura: ma lo è soprattutto nella forma simbiotica, quella ad esempio che assume nel rapporto tra i rinoceronti e le bufaghe (sono gli uccelli che nei documentari vediamo appollaiati sul dorso dei primi, a rovistare nelle pieghe della loro pelle) e che implica un vantaggio reciproco, alimentare per le une e igienico per gli altri. Io sto invece parlando della forma simpatetica, di un’attività apparentemente più ludica che utilitaristica: quella di prendersi cura di qualcuno per liberarlo da un disagio.

Come “pratica giocosa” lo spidocchiamento incontra un grande successo soprattutto tra i nostri parenti più prossimi, le scimmie antropomorfe, e viene esercitato tanto nei confronti della prole quanto tra gli adulti, indiscriminatamente e con evidente sollazzo reciproco. Tra i bonobo, quei simpaticissimi scimpanzé in formato bonsai che mandano in visibilio Piero Angela perché passano il loro tempo a fare sesso, costituisce l’attività “preliminare” per eccellenza. Quindi lo spidocchiamento giocoso non è un’attività specifica dell’uomo: lo precede e, come vedremo, prelude in misura significativa all’ominazione. Naturalmente non è nemmeno una pratica totalmente “ludica”. Nasce da una necessità, è la risposta ad un bisogno (nel caso dei bonobo, che i pidocchi se li mangiano anche, non si può però parlare di una motivazione alimentare: evidentemente sgranocchiare pidocchi è un valore ludico aggiunto, come quello del popcorn al cinema). Ma è una risposta che crea un rapporto di confidenza e di fiducia, e si traduce poi in un atteggiamento affettivo (nei bonobo molto affettivo), esteso ai più prossimi, ma anche all’intero gruppo. Nell’uomo col tempo questo rapporto si simbolizza, assume tratti diversi mano a mano che le sopravvenute abitudini igieniche e i modi di vita sterilizzano gli ambienti e diradano i parassiti. Da pratica naturale diventa pratica culturale, e una volta fatto il passo non si ferma più: nelle forme della compassione e della consolazione, della simpatia e della solidarietà, sia morale che pratica, invade tutti gli ambiti, da quello familiare e parentale a quello sociale, tanto da essere erroneamente letto alla fine come un prodotto specifico e precipuo della cultura (animale sociale è una definizione in cui l’attributo non consegue naturalmente al sostantivo, ma trae risalto proprio dalla contrapposizione).

L’empatia e la collaborazione all’interno di un gruppo non nascono naturalmente solo dalle pratiche giocose: concorrono altre necessità (la caccia, ad esempio, o la difesa) e altre risposte, ma in genere si tratta di comportamenti abbondantemente diffusi in quasi tutte le specie animali, dalle api ai castori, ai lupi, ecc …, sia pure con manifestazioni diverse. A noi in questa sede interessano invece quei comportamenti, riscontrabili solo a livello umano, che sembrano trascendere la determinazione istintuale, e ricadere in un campo diverso di riflessione: quelli cioè che riguardano un altruismo etico, ovvero “scelte” che non soltanto non appaiono immediatamente vantaggiose per l’individuo che le compie, ma in qualche caso risultano addirittura rischiose per sé e vantaggiose per gli altri.

Se ci mantenessimo nei termini della biologia evoluzionistica dovremmo chiederci: siamo altruisti in quanto animali, sia pure animali della specie homo, o siamo uomini in quanto altruisti? Andiamo veramente oltre il determinismo genetico, e quindi quella aggettivazione in noi prende altri significati, o rispondiamo semplicemente ad un determinismo più complesso? L’argomento è uno dei più controversi nello studio della evoluzione, e non ho certo intenzione di andare a cacciami in un simile ginepraio; non ho la minima competenza in proposito, ma soprattutto penso che al livello sul quale intendo sviluppare il mio ragionamento qualsiasi risposta potrebbe essere considerata ininfluente. Quindi sul piano scientifico non prendo partito per alcuna ipotesi. Ciò non toglie però che ritenga utile almeno ricordare quali sono oggi le posizioni, per avere comunque un riferimento.

Vediamo dunque di riassumere. Ad oltre un secolo e mezzo dalla pubblicazione de L’Origine delle Specie, nell’opinione comune il concetto evolutivo dominante è ancora quello della sopravvivenza dell’individuo più adatto. Tradotto in termini sociali questo concetto sembra suggerire che il successo arride sempre alle strategie egoistiche. Nella versione più aggiornata il “gene egoista” impone al suo temporaneo involucro-portatore, l’individuo, dei comportamenti che garantiscono la propria (del gene) salvaguardia e perpetuazione, procurandogli vantaggi riproduttivi: e dal momento che ogni vantaggio proprio ha un corrispettivo in uno svantaggio altrui, nella competizione di tutti contro tutti varrebbe il principio mors tua, vita mea.

Le cose però non funzionano proprio così. Già lo stesso Darwin prendeva atto che in natura esistono dei comportamenti in contraddizione con l’idea di un opportunismo egoistico assoluto: è quanto accade ad esempio nelle colonie di imenotteri, dove una parte degli individui non si riproduce e appare destinata alla schiavitù. Darwin si dava una spiegazione in termini di sopravvivenza della specie: “la selezione può applicarsi al complesso della famiglia, e non solo all’individuo”, scriveva ne “L’origine dell’uomo”. Era tutto ciò che poteva opporre, senza neppure troppa convinzione, dal momento che ignorava i meccanismi della genetica. Quando questi divennero noti, attraverso la riscoperta delle leggi mendeliane, fu possibile rivedere la questione sotto un’altra luce. E quando poi si cominciò a ragionare in termini di genetica delle popolazioni, introducendo nello studio dell’evoluzione la statistica, e a discostarsi dalla concezione ortodossa di una lenta gradualità evolutiva, per prendere in considerazione anche i fattori di discontinuità e le accelerazioni improvvise, i conti cominciarono a tornare.

Negli anni Trenta del secolo scorso J. B. S. Haldane faceva notare che se il parametro del successo fosse semplicemente quello del tasso riproduttivo i più adatti risulterebbero senz’altro i poveri, perché si moltiplicano molto più velocemente dei ricchi. Haldane è quasi più famoso per il suo sarcasmo e per le sue bizzarrie che per i fondamentali contributi dati alla “nuova sintesi” evoluzionistica, ma al di là del paradosso intendeva far capire che le leggi che regolano l’evoluzione sono ben più complesse e articolate. Ne “Le cause dell’evoluzione” (1932) inferiva quindi che deve intervenire qualche altro meccanismo. Alle stesse conclusioni era pervenuto un paio d’anni prima Ronald Fisher (La teoria genetica della selezione naturale, 1930). Entrambi si chiedevano a quali condizioni, in termini di economia genetica, il sacrificio “altruistico” di un individuo poteva vantare un “ritorno” vantaggioso: ed entrambi concludevano che ciò poteva accadere in presenza di gruppi compatti e strettamente imparentati, perché in questo caso il gene dell’altruista risulta diffuso nei soggetti che traggono beneficio dal suo sacrificio. Il calcolo è semplice, diceva Haldane: se muoio per salvare un figlio, che possiede la metà del mio corredo genetico, ho una fitness (è il parametro in termini di materiale ereditario) negativa, perché perdo il cinquanta per cento. Vado in pari se ne salvo due, raddoppio se ne salvo quattro. La cosa può essere estesa a nipoti, a fratelli e ad altri gradi di parentela, naturalmente con un progressivo dimezzamento percentuale del patrimonio genetico comune. In un gruppo abbastanza ristretto, dove tutti più o meno sono imparentati, la “convenienza” del sacrificio altruistico sarà sempre piuttosto alta. E non è tutto: la capacità di collaborare al di là di calcoli grettamente egoistici dà ai gruppi maggiormente coesi un vantaggio competitivo, e favorisce il loro successo.

Ma cosa succede rispetto a gruppi più grandi? Per questi bisogna attendere sino al 1964, quando William Hamilton rifà i conti inserendo il computo di tutti i possibili vantaggi (o svantaggi) che la fitness di un individuo può trarre dall’interazione con parenti e con estranei. Con una serie di modelli matematici complicatissimi, che fanno entrare in gioco alleli propri e altrui, dominanti e recessivi, egoisti o meno, e che vi risparmio non per bontà d’animo ma perché mi ci sono perso dopo la prima pagina e non ci ho capito nulla, Hamilton dimostra che il comportamento altruistico è, almeno statisticamente, sempre conveniente. I suoi modelli sono poi stati rivisti e perfezionati da altri (con la teoria dell’“altruismo reciproco” di Robert Trivers – L’evoluzione dell’altruismo reciproco, 1971 – ad esempio), ma la sostanza è rimasta quella: l’altruismo non è un portato “culturale”, ma uno stratagemma, o una strategia, “naturale”. Col che possiamo metterci il cuore in pace rispetto alla “eccezionalità” umana, e tornare al nostro tema di partenza: lo spidocchiamento.

Ciò che mi intrigava era infatti leggere l’altruismo alla luce dei comportamenti pratici diffusi, quelli che percepiamo nella quotidianità dei rapporti, e che spesso sono tutt’altro che in sintonia con i modelli matematici di Hamilton. Volevo insomma tentare una bozza di descrizione fenomenologica dell’altruismo umano, naturalmente senza alcuna pretesa di scientificità: raccontare semplicemente come lo vedo io.

Per farlo devo però necessariamente passare per quella che è stata la percezione “storica”, pre-evoluzionistica, dell’altruismo. In pratica si sono sempre contrapposte due scuole di pensiero, che per brevità riassumo nelle posizioni espresse dai maggiori filosofi inglesi agli inizi dell’era moderna: quella per cui gli uomini sono tenuti assieme dalla paura (Hobbes), e quella per cui sono spinti alla socialità da sentimenti di benevolenza e di simpatia (Hume, ma anche Locke e Smith). Nel primo caso evidentemente di altruismo non è il caso nemmeno di parlare; nel secondo, come dice Jonathan Swift nella frase che ho posta in esergo, è “l’amor proprio di molti uomini che li dispone a far piacere agli altri” (anche se non è così per tutti, perché “quello di altri è interamente impegnato nel far piacere a se stessi”). Swift, attraverso una considerazione apparentemente banale, ci fa entrare nel merito pieno della questione. Alla base, dice, c’è l’amore di sé (che è una maniera eufemistica per indicare l’egoismo, ma che introduce una sfumatura non trascurabile). Ora, dobbiamo chiederci, questo amore di sé porta inevitabilmente a sottrarre amore nei confronti degli altri? E l’amore per gli altri, comporta inevitabilmente un distacco da sé? Detto in altre parole, il vantaggio comune, quello che definiamo il bene generale, nasce per forza da una più o meno parziale rinuncia a sé?

La risposta “storica” a questa domanda è stata in genere univoca: la socialità nascerebbe da una serie di rinunce (relative alla libertà individuale) in vista di una serie di vantaggi o di garanzie (relativi alla sicurezza). Lo pensavano sia Hobbes che Hume e i suoi compagni della scuola scozzese. Quindi non si tratterebbe di una naturale disposizione altruistica. Questa convinzione informa tanto l’ottica cristiana (per la quale la capacità di rinuncia è infusa dalla grazia, quindi è voluta dall’alto ed è finalizzata alla salvezza) quanto la prospettiva laica, per la quale l’altruismo sarebbe in fondo solo una maschera dell’utilitarismo, una sorta di ipocrita tecnica di seduzione. Nell’uno e nell’altro caso, la motivazione è opportunistica. E tuttavia, afferma invece Hume, quasi rispondendo direttamente a Swift, “L’ipotesi che ammette una benevolenza disinteressata, distinta dall’amore di sé, ha realmente in sé maggiore semplicità ed è più conforme all’analogia di natura di quella che pretende di risolvere ogni sentimento di amicizia e di umanità nell’amore di sé”. Ovvero: gli uomini sono anche capaci di gesti e sentimenti che non possono essere spiegati con alcun tipo di vantaggio personale.

Ora, come Darwin anche Hume e Swift della genetica sapevano nulla, e in più non potevano nemmeno darsi una spiegazione di questi comportamenti in chiave evoluzionistica. Li analizzavano e li valutavano sulla scorta di una pura esperienza fenomenologica, come appunto vorrei fare io. E nel farlo confesso di trovarmi in una posizione un po’ confusa, perché penso che Hume abbia ragione a distinguere la benevolenza disinteressata dall’amore di sé, se di quest’ultimo diamo appunto una interpretazione opportunistica (egoismo); ci sono mille esempi che raccontano il contrario. Ma penso che abbia ragione anche Swift, quando dice che l’amor proprio di molti si esprime nel desiderare la felicità altrui, perché anche in questo caso è possibile portare un sacco di esempi a suffragio. Mi ha colpito, proprio mentre scrivevo queste considerazioni, la dicitura su una lapide dedicata ad un missionario alessandrino che ha operato ed è morto in Africa “… facendo si che la felicità altrui fosse l’unico obiettivo per il conseguimento della propria”. Non lo strumento, si badi bene, ma l’obiettivo: come a dire che l’una cosa non è possibile senza l’altra. Non so quanto la scelta del termine sia stata consapevole e ponderata: conoscendo gli amministratori pubblici nutro più di un dubbio. Ma certo la frase fa intravedere una possibile soluzione del problema. Possiamo infatti uscire dalla confusione riformulando così la domanda da cui siamo partiti: l’altruismo è una strategia o uno stratagemma, come dicono i biologi evoluzionisti, uno strumento, come dicono gli utilitaristi, o è invece un obiettivo, una forma “disinteressata” di amore di sé, come dicono con parole diverse Swift e Hume?

A questo punto, a dispetto della confusione di piani che ho creato, mi sembra che qualcosa, ad un livello teorico generale, si possa dare per acquisito: i nostri geni probabilmente non hanno coscienza del vantaggio altruistico, fanno la loro parte di geni e tirano a riprodursi il più possibile, senza perdersi nei calcoli di Hamilton. Ma noi, l’involucro, questa coscienza l’abbiamo, e sviluppiamo senza dubbio un sistema complesso e diverso di valutazioni di convenienza. Possiamo farlo in vista di un ritorno a breve termine, terreno, o di una ricompensa per il dopo, nell’al di là, ma in entrambi i casi la nostra è diventata una motivazione culturale, che nasce da una posizione religiosa o da una interpretazione “economica” dei rapporti umani.

Ora, stanti le premesse sul “significato etico” che stiamo cercando, potremmo chiudere qui il discorso e occuparci d’altro: ma la linea di confine sulla quale si situano taluni comportamenti è così labile e indefinita che mi sembra comunque opportuno renderne conto. Questo perché l’abito mentale costruito da millenni di cultura “umana” ha finito per aderire in maniera tale al nostro corpo da diventare una seconda pelle: ed è qui che si situa la terra di nessuno. Voglio dire che ci sono azioni, come quella di chi si butta in acqua per salvare persone che neppure conosce, e magari finisce lui stesso per annegare, che è difficile classificare come indotte dal determinismo genetico, ma anche leggere come gesti che abbiano una qualche giustificazione culturale opportunistica, religiosa o laica che sia. E non è nemmeno necessario arrivare al sacrificio della vita. Esistono diversi comportamenti “normali”, magari non comuni ma comunque diffusi, rispetto ai quali è opportuno fare un po’ di chiarezza.

Provo quindi a rispondere in base a quella che è solo una personalissima percezione. Molto all’ingrosso io distinguo tra due tipologie di altruismo: una “minimalista” ed una “massimalista”. Alla prima ascrivo coloro che applicano la formula “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. Di per sé questo precetto, malgrado la sua evangelicità, sembra rimandare ad una visione piuttosto pessimista dei rapporti interumani, ad un cupo sfondo hobbesiano. L’altruismo di questo tipo lascia intravedere un atteggiamento difensivo e guardingo, che anche senza esprimersi in termini palesemente egoistici persegue una finalità egoistica: la salvaguardia del diritto alla libertà individuale. È un modello che potremmo quindi definire “liberale”, perché postula un altruismo poco invasivo e molto garantista. Ora, se interpretato e applicato alla lettera è anche un modello passivo: non è necessario fare alcunché di particolare, è sufficiente non fare qualcosa che possa danneggiare gli altri. Questo lo porrebbe addirittura al di fuori dei comportamenti etici di cui ho detto di volermi occupare.

Ma solo ad una analisi superficiale. A volte infatti anche il non intervento ha i suoi costi: può significare non approfittare di quel vantaggio che sarebbe a portata di mano spingendo un po’ più in là gli altri, giocare pulito, per dirla in termini sportivi, accettando il rischio e le probabilità di una sconfitta che ogni gioco pulito comporta. Ed ecco che già il quadro cambia: perché scegliere di giocare pulito, pur se in ossequio al più categorico degli imperativi etici, svincolato da ogni considerazione di opportunità, significa comunque accettare l’idea che anche gli altri possano farlo, e quindi concedere loro un credito di onestà. Non solo: significa ritenere che siano in grado di giocare, e quindi accreditarli di una potenziale competenza. Risponde pertanto ad una concezione laica e realisticamente ottimista, se non della vita in generale, almeno degli uomini. È il modello di chi, per aiutare un uomo affamato, anziché regalargli un pesce gli insegna a pescare: un modello severo, certamente, perché offre all’altro una chanche ma lo chiama anche ad assumersi le sue responsabilità. Potremmo quindi definirlo un atteggiamento “illuministico”, kantiano nei modi e leopardiano negli auspici (ma potrebbe calzare benissimo anche a Camus).

Vediamo invece cosa succede col secondo caso, quello che applica la formula: fai per gli altri quello che vorresti gli altri facessero per te. Questo è decisamente un modello molto più “cristiano”; racchiude in sé anche il primo precetto, ma lo declina poi in azione positiva e propositiva. Di primo acchito, anche se per le aspettative usa il condizionale in funzione ottativa, sembra supporre uno sfondo radioso, la fiducia nella bontà naturale dell’uomo. Non sono però così sicuro che le cose stiano in questo modo: anzi, a dirla tutta sono convinto del contrario. Il modello cristiano (ma potrei meglio definirlo come “romantico”, o meglio ancora escatologico, facendogli in tal modo comprendere anche tutte le religioni “secolari”, prima tra tutte il socialismo) è decisamente invasivo, perché fondandosi sulla fiducia in una perfettibilità umana (che sia raggiungibile sulla terra o no poco importa) induce appunto una volontà di redenzione universale. L’altruismo massimalista non si limita a garantire e rispettare le regole del gioco, dà per scontato che tutti debbano giocare, e magari offre anche “un aiutino” per invogliarli. Il fatto è però che non sempre quel che tu vorresti gli altri facessero per te piace anche a loro. Anzi, magari non vorrebbero proprio che per loro fosse fatto, come nello sketch della vecchietta e del boy scout che insiste per aiutarla ad attraversare la strada. Questo atteggiamento è quindi passibile di una deriva pericolosa, quella di volere il bene degli altri identificandolo con ciò che è il bene per noi. È quanto hanno fatto da sempre i grandi riformatori, salvo poi trovarsi costretti a pensare, di fronte alle deludenti reazioni al loro “altruismo”, che gli uomini non sono capaci di rigenerarsi da soli, ovvero di responsabilizzarsi, e che è quindi necessaria una bella scossa e soprattutto qualcuno che li guidi e li tenga in riga. È un altruismo del quale il beneficiario è l’Uomo, o meglio ancora una certa idea di uomo, anziché gli uomini nella loro diversità e magari povertà spirituale. E rischia di lastricare di buone intenzioni un sentiero che conduce all’intolleranza.

Vediamo ora di calare questi due modelli di comportamento nella quotidianità. Negli ordinari rapporti interpersonali (per quelli straordinari, nei quali entra in gioco ad esempio un sentimento come l’amore, il discorso si complica – anche se il succo rimane lo stesso) io identifico l’altruismo “a bassa intensità” con l’attenzione a creare il minor disturbo possibile agli altri, nel senso tanto di chiedere aiuto solo in situazioni di necessità assoluta quanto di usare molta discrezione nell’offrirlo. Può sembrare una disposizione scontata, ma non lo è affatto: le soglie dell’assoluta necessità sono molto variabili da un individuo all’altro, e direi che prevale piuttosto la tendenza al coinvolgimento altrui, in entrambi i ruoli. Un’attitudine più discreta rischia quindi spesso di essere interpretata come specchio di un’indole fredda e asociale: in realtà non è dettata dal disprezzo e dall’insofferenza nei confronti degli altri ma, al contrario, da un totale rispetto, che a sua volta può nascere solo da una sensibilità sincera. Chi preferisce appartarsi come i gatti per leccare le proprie ferite, fisiche o morali, non lo fa sempre e solo per orgoglio o per difesa: è una questione di misura, come si diceva sopra, che varia anche nei confronti del tasso di sollecitudine “in ingresso” considerato da ciascuno accettabile e compatibile con la propria libertà. Che poi la sensibilità eccessiva possa dar luogo ad una vera e propria sindrome, e il timore di creare disagio possa diventare esso stesso un disagio, e il tutto rovesciarsi in un atteggiamento puramente difensivo, è solo una deriva patologica: l’origine e l’intenzione sono positive.

Considero invece “massimalista” l’offerta spontanea ma invadente di soccorso, che è tale nella misura in cui non è strettamente necessaria, e che sottintende sempre una reciprocità. Anche quando non ci siano dubbi sulla buona fede, e a prescindere dalla stessa, credo che il vero altruismo debba essere sobrio, contenuto e assolutamente disinteressato. Non ho nulla contro l’altruismo reciproco di Trivers, ma penso che come per tutte le cose preziose occorra dosarlo. E, ripeto, in tutto questo non trovo alcun indizio di misantropia. Anzi: sono convinto che se si dà con giusta parsimonia e si chiede solo quando è indispensabile si risparmiano energie positive, proprie e altrui, che possono essere spese in più direzioni. In queste condizioni si riesce molto più aperti e disponibili verso gli altri in generale di quanto lo siano coloro che concentrano troppe energie su pochi oggetti di attenzione. Non si creano dipendenze, e soprattutto il saldo del dare e avere viene mantenuto entro limiti che non umiliano nessuno. Siamo nuovamente al discorso del rispetto, di sé e degli altri, che è poi evidentemente la chiave di tutto.

Nei rapporti quotidiani noi identifichiamo spesso l’altruismo con la compassione. Questa identificazione ha un riscontro ad esempio nella precettistica cristiana relativa alle “opere di misericordia”, spirituale e corporale (dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, consolare gli afflitti, ecc …,); precettistica che è poi stata ripresa e secolarizzata dai vari socialismi e dalle politiche del welfare (per la parte corporale), dalla psicoanalisi e dalle rubriche di posta dei rotocalchi (per quella spirituale). Ora, non c’è dubbio che si tratti di ottimi precetti, ma io ritengo che il vero altruismo non sia rappresentato dalla “misericordia”, quanto piuttosto dal rispetto. E il rispetto non ha nulla a che vedere con la compassione. Quest’ultima infatti, a dispetto dell’etimo (cum pati), non nasce dalla considerazione dell’altro su un piano di parità: scaturisce piuttosto da un senso di superiorità, e ci gratifica due volte, perché ci rassicura sulla nostra condizione e ci consente di godere della riconoscenza altrui e del compiacimento con noi stessi. La compassione è quella che porta a regalare un pesce, o magari a moltiplicarli se gli affamati sono troppi, inducendo quindi questi ultimi ad aspettarsi che il miracolo si ripeta. È senza dubbio moralmente meno impegnativa, perché il rispetto imporrebbe invece di chiedere a tutti i convenuti come mai non hanno portato nulla da casa, di lasciarli a digiuno e di insegnare loro ad essere più previdenti la prossima volta. Allo stesso modo, la compassione è quella che ci porta ad assecondare o a giustificare le mattane di un amico in crisi sentimentale, mentre il rispetto è quello che ci induce a dargli una strigliata e invitarlo a non fare il cretino. Mi rendo conto che non è un atteggiamento molto popolare, e infatti le folle si radunano dove c’è promessa di miracolo, e gli amici dove c’è speranza di “comprensione”, mentre disertano chi li richiama alla responsabilità: ma non credo sia il successo la misura della bontà dell’altruismo.

Occorre anche distinguere tra altruismo etico e simpatia. Un altro scozzese, Adam Smith, sosteneva che gli uomini sono tenuti assieme dalla simpatia. “Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla”. Simpatia significa, etimologicamente (deriva dal greco sun pathein) mettersi nei panni degli altri. È un atteggiamento diverso da quello della compassione, malgrado l’identica origine etimologica, perché a differenza di quest’ultimo suppone un livello paritario tra l’agente e l’oggetto. Per un senzatetto che dorme su una panchina fasciato di cartoni possiamo provare compassione, difficilmente abbiamo un moto di simpatia. Proviamo simpatia di fronte a situazioni di sofferenza o di indigenza nelle quali in qualche modo almeno potenzialmente ci riconosciamo; ovvero quando riusciamo a immaginarci al posto degli altri. Questa identificazione ci induce a desiderare un mondo in cui situazioni del genere non si diano, e a sperare che se dovessero verificarsi per noi altri verrebbero in nostro soccorso. Ma difficilmente riusciamo a immaginare di vivere su una panchina, e meno che mai a confidare nell’aiuto di un barbone.

C’è anche un altro risvolto. Smith, da osservatore realista qual era, aggiungeva che noi in effetti siamo molto propensi a simpatizzare con le sfortune altrui, un po’ meno con le fortune. Malgrado la simpatia non siamo capaci di godere del tutto sinceramente della gioia degli altri, a meno che siano in gioco quei sentimenti che definiamo amore o amicizia (ma questo restringe di parecchio la rosa dei potenziali oggetti del nostro interesse). Sembra prevalere la sensazione che ciò che è dato loro in qualche modo sia sottratto a noi. Quindi, quando va bene rispettiamo i successi altrui, ma non ce ne sentiamo davvero partecipi, perché in realtà non siamo soddisfatti di noi stessi.

E questo in linea di massima è vero, vale per la maggior parte degli uomini e segna appunto il limite della simpatia. Non è nemmeno sufficiente il rispetto dell’altro, che nel caso della simpatia si professa ponendolo sul nostro stesso piano, a soddisfare i requisiti di un altruismo etico. Occorre salire un altro gradino, quello che attraverso il conquistato rispetto di sé conduce alla stima nei confronti dell’altro, e quindi al vero altruismo etico.

Io credo che questo livello esista. È quello in cui la simpatia si traduce in solidarietà: quello cioè in cui non solo si desidera il riscatto degli altri, ma si agevola il loro successo, perché la partecipazione è tale che lo si sente come proprio. Di qui la possibilità di un’attitudine disinteressata: non ci si attende alcun ritorno, alcuna contropartita, perché il ritorno è già implicito nella felicità altrui. Ciò che inconsciamente facciamo per diffondere o per salvaguardare un patrimonio genetico, attraverso la solidarietà lo facciamo per diffondere o salvaguardare un patrimonio etico. La solidarietà è dunque il livello al quale avviene davvero il distacco, lo sganciamento dalle ragioni del gene: la scelta si autonomizza e diventa totalmente “culturale”.

In questo senso leggo l’obiettivo del missionario alessandrino: la felicità altrui va intesa come presupposto, condizione necessaria, e non come strumento della propria. Non fatico a credere nella sincerità di questo intento: ho conosciuto più di un missionario, e in nessuno di loro ho mai trovato prevalenti le ragioni del proselitismo, l’impegno a realizzare conversioni e a salvare delle anime; erano motivati da una solidarietà molto concreta, dall’impegno a rendere più tollerabile la vita per i loro simili, appunto perché sentiti come simili. E a nessuno passava per la testa che quello fosse un modo per guadagnarsi il paradiso. Semplicemente, dopo aver conosciuto certe realtà sentivano che non avrebbero mai più potuto essere in pace con se stessi se non intervenendo in qualche modo per alleviarle; erano coscienti della quasi inutilità del loro sforzo, ma anche e prima di tutto dell’imperativo categorico a provarci, a qualsiasi costo.

Questa non è affatto compassione: in questo caso metti l’altro sul tuo stesso piano, anzi, sei tu che si poni sul piano suo, e non lo soccorri a distanza, donando un euro ad ogni campagna umanitaria, ma lo tratti da persona nella quotidianità, condividendone piccole gioie, grandi paure, spaventose povertà. I missionari che ho incontrato, religiosi o laici che fossero, erano la testimonianza vivente di quanto asserisce Hume, ma anche di quello che scrive Swift: il loro amore di sé era diventato amore degli altri. E non mi si venga a raccontare che c’è dietro il narcisismo, la necessità di sentirsi buoni, l’ambizione alla santità, ecc…. No, dietro stanno le stesse ragioni per le quali, al vedere qualcuno che sta annegando, ci si butta a soccorrerlo senza calcolare la velocità della corrente o la temperatura dell’acqua: per le quali molti si sono giocati la pelle per soccorrere un commilitone ferito e cercare di portarlo via da sotto il fuoco; per le quali molti alpinisti non avranno mai il coraggio di tagliare la corda alla quale è appeso un loro compagno, anche a rischio di precipitare insieme a lui. Perché uno, dopo, non riuscirebbe più a vivere, non potrebbe più rimanere un attimo solo con se stesso se non fosse corso in soccorso, se avesse visto il proprio simile precipitare, annegare o agonizzare per ore. E questo indipendentemente da vincoli particolari, di amicizia, di amore, di parentela, senza alcun calcolo di condivisione dei geni.

Ma, come dicevo, non è necessario arrivare a questi gesti estremi. La quotidianità offre tutta una vasta gamma di esempi e di situazioni eticamente altruistiche, dallo studente che non sopporta di vedere vessato un compagno, e lo difende contro l’idiozia altrui, al donatore di midollo che si sottopone ad un delicatissimo prelievo per salvare uno sconosciuto. Anche le scelte di adozione a mio parere ci rientrano, malgrado si tenda a pensare (soprattutto da parte di chi non ha avuto il coraggio di farle) che siano motivate da un egoistico bisogno di essere amati. Ma, al di là del fatto che il bisogno di essere amati è connaturato in tutti, e quindi sta sotto, in qualche modo, a qualsiasi nostro gesto, il meccanismo non è affatto quello. Qui il determinismo naturalistico alla perpetuazione del gene non c’entra. Se qualcosa si mira a trasmettere è semmai una continuità culturale, e si sceglie di farlo. L’investimento dal punto di vista genetico è tutto a perdere: a motivare è la ricerca di un senso per la propria esistenza, e il senso (ovvero la felicità propria) viene identificato nella felicità altrui.

Non credo sia il caso di dilungarsi ancora. Gli esempi che ho proposto, sia pure in ordine sparso, mi sembrano sufficienti a confermare che l’altruismo, quand’anche fosse geneticamente determinato, assume poi nella complicazione dei rapporti interumani una curvatura tutta particolare. Diventa il prodotto di quella cultura che nella versione “misericordiosa” era aborrita da Nietzsche e in quella solidaristica era affermata da Camus, e che tutto sommato ha contribuito al successo della specie in maniera sin troppo efficace. Siamo dunque eticamente altruisti perché uomini, e siamo diventati uomini perché animali eccezionalmente altruisti.

Ciò non significa naturalmente che tale disposizione sia universalmente diffusa. Così come è evidente, a volerla cogliere, l’esistenza di un altruismo etico, non occorre un grosso sforzo per vedere quale parte preponderante abbia l’egoismo nei comportamenti collettivi. Ma il mio assunto era cercare di capire (contravvenendo in ciò al monito di Swift) quanto in queste attitudini sia frutto di natura e quanto di cultura. Bene, sono arrivato a realizzare che una disposizione genetica all’altruismo c’è, ma viene poi enfatizzata (o in qualche caso repressa) dalla “cultura” nella quale si cresce, fino al punto da farle dimenticare o sconfessare la propria origine biologica. Quel punto coincide con il traguardo della consapevolezza, che una volta digerita e accettata diventa coscienza; e se anche non segna una emancipazione totale dal determinismo, ne limita assai la portata. Varcato quel traguardo siamo liberi di scegliere, ma siamo altresì obbligati ad assumerci la responsabilità delle nostre scelte.

Mi sembra che, dopo quella delle lucciole, l’eclisse (parziale) del pidocchio sia un altro segnale forte della trasformazione ecologica e antropologica in atto. Ma le lucciole piano piano stanno tornando, segno che si sono adattate al nuovo ambiente. E se l’ombra della crisi che stiamo attraversando dovesse allungarsi, cosa più che probabile, presto torneranno anche i pidocchi2. Sarà quella la rivincita della natura sulla cultura? o sarà forse la ripartenza della socialità perduta e dell’altruismo?

Saviane ne sarebbe entusiasta. E non vi dico i bonobo!

1 Bontà Loro fu il primo talk show della televisione italiana. Era condotto da Maurizio Costanzo, all’epoca celibe e ancora lucido, andava in onda ad ore tardissime, sulla seconda rete nazionale, e prevedeva un solo ospite per ogni puntata.

2È da rilevare, per inciso, che la riabilitazione del pediculum incontra oggi un’accoglienza molto più entusiasta di quella ricevuta nel salotto televisivo di Costanzo: un certo integralismo naturista, legato alla cultura new age, vede nello spidocchiamento un felice momento di coesione familiare, da contrapporsi all’atomizzazione prodotta dalle serate televisive. Persino la profilassi ufficiale non lo demonizza più, e fa buon viso al fatto che non si riesce comunque ad evitarne la periodica ricomparsa. L’isteria da pidocchio sembra ormai confinata nel mondo delle madri ansiose, e legata più ad un problema di immagine sociale che di preoccupazione igienica.

Mi concedo anche una notazione lessicale. Nel dialetto lermese esistono due termini derivati da “sgöggiu” (pidocchio): “sghigiùn”, che significa pidocchioso, ma nell’accezione più spirituale che materiale di persona limitata e testarda, o anche avara, e “sghigìn”, che sta per schiacciatore maniacale di pidocchi: quello fastidiosamente puntiglioso, che fa letteralmente le pulci a tutti e a tutto. A dimostrazione di quale potenza e varietà di significati consenta il dialetto, anche attraverso alterazioni leggerissime dei suoni.

 

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Come alcuni primati persero la coda

di Paolo Repetto, dicembre 2001

Caro Dino,

metto per iscritto le considerazioni, gli spunti e i dubbi che mi sono stati suggeriti dalla tua conferenza perché spero che questo mi aiuti a fare un po’ d’ordine in nozioni e convincimenti piuttosto superficiali e confusi. Premetto che le mie conoscenze nei campi della paleontologia, della paleoantropologia e della biologia tendono allo zero, sono assolutamente dilettantesche nel senso più restrittivo del termine, quello che include il diletto ma esclude la competenza almeno generica e la continuità di interesse che caratterizzano il buon dilettante. E tuttavia non reputo che questo sia particolarmente grave, almeno nel mio caso, perché considero il mio interesse per questi ambiti solo “strumentale”, finalizzato a quelli dominanti per la storia, e segnatamente per la storia delle idee. Nel momento stesso in cui scrivo queste cose mi accorgo di dire una stupidaggine, perché in realtà la mia idea di storia è decisamente quella di una “storia naturale”, rispetto alla quale la paleontologia e la biologia non sono solo “strumenti”, ma fondamenta; e quindi quanto ho detto sopra è solo un riflesso condizionato da una malintesa impostazione “umanistica”. Ma vedo che mi sto perdendo per strada, nei meandri pretestuosi e assurdi degli ambiti e delle competenze disciplinari, e questo è proprio ciò che in assoluto non mi interessa e voglio evitare. Vengo al dunque.

Dò per scontato tutto il percorso evolutivo che tu hai delineato, illustrando gli ultimi sviluppi delle conoscenze paleontologiche e paleoantropologiche, e non solo perché non avrei argomenti e competenze per contestarlo, ma soprattutto perché risponde perfettamente a quella traccia, sia pure confusa e appena abbozzata, che io stesso avevo cominciato a distinguere. In maniera molto semplicistica ti ricostruisco quello che è il mio schema evolutivo:

  • conquista della stazione eretta (quali che siano le condizioni, ambientali o prettamente biologiche, che l’hanno favorita);
  • modificazione dell’innesto cervicale, con conseguente modifica degli angoli che hanno il vertice sulla connessione mandibolare (apertura di quello del cranio, restrizione di quello mandibolare – Leroi-Gourain, Il gesto e la parola);
  • aumento volumetrico dello spazio cerebrale, perdita parziale della funzionalità prensile delle mandibole, comparsa, o meglio sviluppo, di apparati atti ad una fonazione complessa;
  • liberazione degli arti anteriori dalla funzione locomotoria, acquisizione da parte degli stessi delle funzionalità compensatrici rispetto a quelle mandibolari recedute (prensile, dilaniatoria, ecc..) e al tempo stesso di uno spettro amplissimo di potenzialità manipolative;
  • aumento esponenziale delle connessioni neuronali implicate dalle nuove abilità, quindi delle possibilità di risposta, quindi dei margini di scelta comportamentali (in altre parole, comparsa di una libertà, sia pure parziale, ma in costante aumento, rispetto al condizionamento biologico);
  • constatazione, memorizzazione, emulazione e trasmissione dei risultati (temporaneamente) vincenti in termini adattivi di alcune scelte, ma soprattutto della possibilità di intraprenderne, tentarne altre, sempre (o almeno, spesso) più efficaci. Nascita cioè della cultura.

Da questo conseguono, in età storica:

  • riflessione sul percorso fatto, sulle scelte operate e su quelle scartate, in sostanza sul passato, che automaticamente diventa un trampolino per tuffarsi nel futuro (senso della storia);
  • angoscia, dettata tanto dalla velocizzazione delle trasformazioni e dal conseguente venir meno di riferimenti duraturi, quindi di elementi di conoscenza e di anticipazione del futuro, quanto dall’aumento degli elementi di conoscenza del passato, che spazzano via ogni ipotesi di finalizzazione o progetto specifico per il genere umano;
  • atteggiamenti possibili di fronte all’angoscia: di fuga, nell’escatologia, nell’ideologia, nella new age, in tutto ciò che consenta di sottrarsi al confronto (per intenderci, alla Fornaro); o di responsabilizzazione (quello che io chiamo atteggiamento etico). Può darsi un’etica solo se esiste una reale possibilità di scelta, e questa possibilità è concessa soltanto dalla consapevolezza dell’origine dei nostri (parziali) margini di libertà rispetto alla determinazione biologica. Tale consapevolezza ci ricaccia ad un punto zero: da qui noi dobbiamo assumerci l’enorme responsabilità non di scoprire, ma di inventarci un’etica. Che ha naturalmente dei presupposti biologici (è giusto tutto ciò che assicura la migliore sopravvivenza possibile al maggior numero di esseri), ma che è etica proprio perché può scegliere di andare in direzione opposta.

Ma sono già uscito dal seminato. Torno al processo evolutivo. Come puoi constatare è uno schema decisamente rozzo, ma è solo la sinopia di un mosaico del quale intravedo a grandi linee il soggetto, ma per il quale mi manca il 99 per cento delle tessere. E quelle che ho faccio una gran fatica ad inserirle al punto giusto, sono in realtà fogli sparsi di appunti disordinati e mal digeriti. Te li partecipo solo nella speranza di ricevere delucidazioni, integrazioni, consigli d’uso (o di cestinamento).

Procedendo senza alcun ordine, parto proprio dagli stimoli che mi sono venuti dalla tua esposizione:

  1. il tema della simulazione (e dell’inconscio). In pratica, se ho capito bene, la tesi cui accennavi è che la cultura è abitudine e costrizione alla reciprocità, disciplinamento dell’egoismo biologico istintuale. Riusciamo a convivere socialmente perché per ottenere i nostri scopi riusciamo a dissimularne la vera natura, e ci riusciamo tanto meglio quanto più siamo in grado di ingannare noi stessi, di convincerci di volere quello che intendiamo far credere agli altri che vogliamo. Di qui il rimosso, che sarebbe il nostro totale e distruttivo egoismo. Di qui l’inconscio. Mi sembra che fili perfettamente. È in linea non solo con la psicoanalisi (l’es freudiano ) ma con l’esperienza che ciascuno di noi, per quanto ipocrita, ha in realtà di se stesso. Io però aggiungerei qualcos’altro. L’inganno non concerne, a mio giudizio, solo il sistema della reciprocità. Non nasce solo dalla necessità di rapportarci in modo vincente agli altri. Nasce anche dalla consapevolezza, tutta individuale, tutta rivolta all’interno, della morte. In questo senso la cultura è l’inganno che elaboriamo per difenderci dalla conoscenza (conoscenza della morte, ovviamente), per esorcizzarla. Questo è molto “umanistico”, lo so, attinge molto ai Sepolcri e a Leopardi, ma mi sembra anche molto palese. Un doppio inganno, dunque, nei confronti degli altri e di noi stessi. Con la differenza che nel primo caso la risultante “culturale” è dettata da una strategia biologica, evolutiva; nel secondo da un fattore che definirei “impazzito”, sfuggito al controllo delle strategie naturali. E, pur essendo convinto che le due azioni si combinino, non mi è affatto chiaro come e in quale misura questo avvenga.
  2. In quanto animali biologicamente deboli e poco attrezzati leghiamo la nostra sopravvivenza all’acquisizione di molta “cultura” (nel senso che nasciamo prematuri, abbiamo bisogno di cure parentali protratte prima di arrivare all’autosufficienza e questa relazione di reciprocità induce strategie “culturali”). Il nostro cervello rimane duttile, per quanto concerne le strutture fondamentali del comportamento, molto a lungo dopo la nascita, è influenzato cioè significativamente anche a quel livello dal rapporto con un ambiente “esterno”, ricco di input comportamentali non geneticamente trasmessi, ma culturalmente appresi. Ci “formiamo” quindi, letteralmente, secondo i dettami di una cultura ambientale, che è naturalmente quella specifica di uno spazio e di un tempo determinati (in sostanza, di una determinata “società”). Questa cultura, che per il passato era molto specifica, frutto di una lunga e particolare storia di interazioni con un ambiente limitato (al più, con le modificazioni naturali e storiche intervenute rispetto a quell’ambiente, che erano comunque di piccola entità o agivano in tempi molto lunghi) tende oggi a diventare sempre più instabile nel tempo e sempre più universalistica, indifferenziata nello spazio, a risolversi in un minimo e sfuggente denominatore comune che da un lato la depaupera (non è più in grado di elaborare risposte specifiche di adattamento), dall’altro la complica, perché somma una complessità tecnologica in crescente polluzione con la necessità di una interazione sempre più ravvicinata con culture altre. Ora, anche senza spingerci troppo in là nelle problematiche sociali, politiche ed economiche create da questo fenomeno, non sarà che il nostro cervello incontri difficoltà ad assimilare comportamenti ed idee-guida sganciati da un “correlativo-oggettivo” genetico ed ambientale? In altri termini: stimoli eccessivamente contraddittori, in successione troppo accelerata, in che modo e in che misura possono essere assimilati? Multiculturalità – dobbiamo avere il coraggio di chiedercelo – non significherà in fondo, e prima di tutto per ragioni biologiche (e non etniche, sia chiaro), nessuna cultura?
  3. Sulla sessualità, e sulla sua combinazione con l’invecchiamento e con la morte. Come viene spiegato ad usum profani da William Clark (Sesso e origine della morte), gli organismi microcellulari – tipo amebe – non conoscono la morte geneticamente “programmata”, ma solo quella accidentale (mancanza di nutrizione, predatori, ecc…). Si riproducono per fissione, si dividono in due cellule con DNA identico a quello di partenza, non c’è cadavere. Negli unicellulari evoluti, invece, c’è la suddivisione del DNA in due compartimenti, macronucleo, che ospita il DNA per la codifica dei messaggi da inviare ai ribosomi che producono le proteine indispensabili alle attività cellulari quotidiane (nutrizione, respirazione, locomozione, ecc…), e micronucleo, contenente il DNA deputato allo scambio “sessuale”. Nei pluricellulari il DNA riproduttivo è isolato in apposite cellule, le germinali, che hanno l’unica funzione di trasmettere il DNA stesso da una generazione all’altra per riproduzione sessuale. Le altre cellule corporee, le cellule somatiche, hanno identico DNA, che è utilizzato però per l’ordinaria amministrazione della sopravvivenza, e si riproducono per fissione sempre uguali a se stesse. Ciò implica che “dal punto di vista della natura l’unico scopo delle cellule somatiche è quello di ottimizzare la sopravvivenza e la funzionalità dei veri custodi del DNA, le cellule germinali”. In termini semplici, la gallina è solo lo strumento che consente ad un uovo di produrne un altro.

Ora, il DNA trasferito dalle cellule germinali alla generazione successiva si ricombina con quello dell’altro partner, quindi risulta diverso, e nella ricombinazione vengono eliminati o compensati, quasi sempre, gli errori contenuti nei due set originari; mentre il DNA delle cellule somatiche, che non viene ricombinato, mantiene le mutazioni accumulate da innumerevoli generazioni, fino a ridursi ad inutile “spazzatura genetica”. Le prime pertanto, ricombinandosi, diventano potenzialmente immortali; le altre, permanendo immutate, sono condannate ad invecchiare e a morire, secondo un programma genetico, paragonabile a quello dell’apoptosi, che limita il numero delle possibili scomposizioni cellulari – in quanto la riproduzione del DNA somatico risulterebbe operazione troppo problematica e onerosa, in termini di “economia genetica”. (volendo, ci sarebbe da leggerci una facile metafora delle civiltà e delle culture).

Tutto questo noiosissimo discorso ci conduce, forzando di molto i passaggi, al rapporto diretto tra la riproduzione sessuale e la morte “programmata”. E fin qui tutto torna. Le complicazioni nascono quando si passa alla sessualità specificamente umana, e al suo (parziale) autonomizzarsi dalla funzione riproduttiva. Ti confesso che molte tappe di questa autonomizzazione mi sfuggono, e che tanto meno mi è chiara la direzione e il “senso” (biologicamente parlando) di questo percorso. Nella tua trattazione hai toccato, in verità, anche questo tema, e hai fornito le indicazioni di fondo per affrontarlo. Provo a riassumerle, sperando di non travisarle troppo.

La sessualità umana si caratterizza per una permanente disponibilità sessuale femminile, non più limitata ai soli periodi dell’estro riproduttivo. Ciò va rapportato alla necessità, da parte della femmina, di assicurarsi il sostegno del partner in maniera continuativa, stanti i tempi lunghi dello svezzamento e il ritardato raggiungimento dell’autosufficienza dei piccoli. Questo è perfettamente coerente, e di converso spiegabile, con le leggi e i meccanismi dell’adattamento evolutivo. Ma apre nel contempo una serie di interrogativi che, nella mia particolare ottica, sono poi quelli fondamentali.

  1. come avviene il passaggio da una funzione “rituale” – nel senso pre-culturale, istintuale del termine – delle pratiche di corteggiamento ad una funzione ludica, che converte lo scopo da riproduttivo ad edonistico, e assume a fine quello che in termini naturali è mezzo – cioè l’eccitazione e il godimento? Che ordine e che modalità hanno, ad esempio, le varie modificazioni conseguenti l’assunzione della postura eretta (occultamento dei genitali femminili, necessità di manifestare la disponibilità sessuale attraverso altri segnali, accoppiamento frontale, allargamento della funzione erogena ad altre zone del corpo, diverse dagli organi riproduttivi)? È proprio questa postura, con i problemi che comporta di adeguamento delle dimensioni e della struttura del bacino alle diverse modalità di deambulazione, e quindi di espulsione prematura del feto, a originare la trasformazione?
  2. in che modo, e in che misura, questo passaggio incide sulla globalità dei comportamenti istintuali, sulla “psicologia” umana, sulle scelte in una direzione “culturale”? Voglio dire, ad esempio: quanto e come la particolarità della sessualità umana incide sui modi dell’organizzazione sociale, sui rapporti di gruppo? È evidente che qui si sconfina in un sacco di altri campi disciplinari, ma sai già in quale conto io tenga questi confini.
  3. Quanto incide ancora nei comportamenti sessuali umani – ma forse sarebbe meglio specificare, in quelli delle popolazioni dell’Occidente – la strategia “economica” riproduttiva, in quali termini si è modificata, quanto appartiene ad una elaborazione “culturale” successiva e cosa è intervenuto ad orientare quest’ultima (cfr. ad esempio il bel libro di Elisabeth Badinter L’amore in più, sulla storia dell’amore materno). Per scendere su un piano più concreto: sulla base di una valutazione in termini di economia evolutiva, la famiglia – intesa nell’accezione occidentale – è davvero una (l’unica?) struttura imprescindibile? Oppure, fino a che punto le “perversioni” sono mutazioni negative rispetto al parametro evoluzionistico, e fino a che punto invece la loro negatività è di matrice culturale (per la Chiesa è ad esempio perversione già una sessualità non intesa alla riproduzione, paradossalmente in accordo con le leggi evoluzionistiche)?
  4. Infine (per ora): sopravvive nell’essere umano una qualche consapevolezza “biologica” del rapporto tra la riproduzione sessuale e la morte? Il leopardiano connubio (ma di ogni epoca, di ogni letteratura: o forse è specificamente di quella occidentale?) tra amore e morte arriva di lì, sia pure con un giro tortuoso, o ha altra origine? Nasce da una nebulosa reminiscenza naturale, o da una acquisita consapevolezza culturale?

Come vedi, la carne che ho messo al fuoco è moltissima, il disordine è grande e, soprattutto, l’interesse non è rivolto solo all’arrosto, ma anche al profumo, o al fumo, che ne esala. D’altro canto, negli antichi riti sacrificali proprio quest’ultimo era riservato agli dei, mentre i sacrificanti si spartivano umilmente (e in genere inegualmente) la polpa. Evoluti sino ad un certo punto, ma non scemi.

Caro Dino, non posso che tornare a ringraziarti per l’occasione che mi hai dato di riflettere in maniera un po’ meno superficiale sulle mie (le nostre) origini. Un bel bagno di consapevolezza ogni tanto (non troppo spesso) è salutare, aiuta a tenere sotto controllo la nostra “innaturale” immodestia e a darci ragione di questo inesorabile trascorre dei tempi, dei regimi, degli anni scolastici e di noi con essi. O almeno, lo rallenta un po’. A presto.

 

P.S. Non amo le domande retoriche altrui, e tanto meno sono portato a farne io. Vorrei fosse chiaro che gli interrogativi che ho formulato sono per me realmente tali, cioè postulano la ricerca di risposte. Spero che vorrai aiutarmi a trovarle, o quanto meno a impostare correttamente le domande.

 

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