L’Emilio dei semplici

di Paolo Repetto, 28 febbraio 2025

La prima lettura de l’Emilio di Rousseau (portata avanti con molta fatica, perché avevo forse diciassette anni, e il libro è di una noia mortale: ma all’epoca divoravo qualunque cosa potesse aiutarmi a crescere) mi lasciò francamente deluso. Cercavo un’educazione alla libertà e avevo di fronte uno che la concepiva così: “Non deve voler fare altro che quel che vogliamo che faccia: non deve muovere un passo senza che noi l’abbiamo previsto: né aprir bocca senza che noi sappiamo quel che egli sarà per dire”. E che riteneva diseducativa prima dei vent’anni la lettura di qualsiasi altro libro che non fosse il Robinson Crusoe. Va da sé che ho cancellato Rousseau dall’elenco dei miei maestri (l’ho riletto solo per cercare conferme negative). Oggi, sessant’anni dopo, mi rendo conto che ho potuto sottrarmi alle seduzioni della sua falsa rivoluzione pedagogica perché avevo già in saccoccia la lettura di ben altro Emilio, maestro nostrano misconosciuto, e anzi, vilipeso, tanto dalla critica letteraria quanto dalla pedagogia più “innovativa”: l’Emilio Salgàri (accento sulla penultima sillaba) da Verona.

Nelle migliaia di pagine che ho scritto negli ultimi trent’anni il nome di Salgari compare però raramente, e solo di sponda. L’ho ingiustamente trascurato, forse perché continuo a darlo per scontato, mentre anche per i lettori più attempati non lo è più da un pezzo. Eppure, se volessi indicare il pilastro portante della mia educazione dovrei fare riferimento proprio a lui.

L’incontro con Salgari non ha celebrato il mio rito di passaggio dall’infanzia all’adolescenza: prima erano già venuti Kim e Capitani coraggiosi, e anche I ragazzi della via Paal. Ma a partire dagli otto-nove anni ho iniziato a ricevere da Genova, mittente un cugino di una decina d’anni più anziano, i primi tomi dell’inesauribile saga salgariana. La fornitura è andata poi avanti sino alla piena adolescenza. Erano volumetti in genere piuttosto consunti e gualciti (anche mio cugino li leggeva già di seconda mano, la gran parte erano stati pubblicati prima della guerra), edizioni povere, in brossura, stampate su carta grossolana e in caratteri piccolissimi, per economizzare sul numero di pagine. Ma avevano magnifiche copertine, e alcuni erano anche arricchiti da illustrazioni, dentro o fuori testo, che non potevano non farti sognare. Prima di approdare alle medie mi ero già ripassato per intero tutto il ciclo della jungla nera e quello dei corsari, nonché quello della prateria. E alla fine delle medie avevo collezionato (anche materialmente) più di cinquanta titoli, la maggior parte dei quali conservo tuttora, e ai quali voglio pagare qui un piccolo e purtroppo inadeguato tributo.

Niente paura: non intendo fare un’analisi critica delle trame o della scrittura, ma solo rievocare l’effetto che le letture salgariane potevano avere su un ragazzino di quell’età. E per farlo prescindo dai titoli e dai cicli più conosciuti, quelli che ho citato sopra. Salgari ha infatti scritto moltissimo altro (più di duecento tra racconti e romanzi) e ha spaziato con le sue storie in ogni angolo della terra e in ogni epoca della storia. Si va da Le figlie dei faraoni e Cartagine in fiamme a Le meraviglie del Duemila, passando per le guerre anglo-spagnole, la rivoluzione americana, la rivolta dei boxer, la guerra russo-giapponese, e saltando dai deserti africani alla steppa siberiana, al Siam e alla Cina, dall’Artide all’Antartide, dal Perù allo Yucatan e all’Alaska, dall’India alla Persia, e naturalmente solcando tutti i mari e gli oceani che ci stanno in mezzo.

Potrei già fermarmi qui. Qualche anno fa ho chiesto ad un allievo dell’istituto che dirigevo se sapeva dove si trovasse l’Atlante, e mi ha risposto “Probabilmente in biblioteca”. Aveva le sue brave ragioni, non dovevo fargli una domanda del genere, era come chiedergli dove si trovano Tomsk e Irkutsk, o lo Xi Jiang, ma a me sembrava naturale lo sapesse: sono i luoghi dove si svolgono le vicende de Sull’Atlante, de Gli orrori della Siberia e de La scimitarra di Budda. Sono convinto che pochissimi – o forse nessuno – tra gli studenti liceali di oggi possiedono conoscenze geografiche pari a quelle che avevo io all’uscita dalle elementari. A casa leggevo Una sfida al polo e Al Polo australe in velocipede, e a scuola andavo poi a rintracciare i luoghi delle vicende sul grande planisfero e sulla fantastica carta murale delle esplorazioni (quella che fa bella mostra di sé oggi al capanno) che hanno mitigato la mia noia per cinque anni. Per non parlare della storia. Non ho mai avuto il coraggio di chiedere cosa i miei studenti sapessero della rivolta dei boxer che mi aveva tanto intrigato ne I sotterranei della morte, temendo di sentirmi rispondere che erano una razza canina o un intimo maschile di Calvin Klein.

Basterebbe questo, dicevo. In realtà, non basta. Perché queste conoscenze, che peraltro non avrei potuto attingere a nessuna altra fonte, perché in casa non c’erano atlanti o enciclopedie o libri di storia, e che ho poi imparato ad affinare leggendo Verne e London e Dumas (perché a scuola, persino alle superiori, si guardavano bene dal trasmettermele), non erano affatto fini a se stesse, non si riducevano a un arido sapere enciclopedico, ma si traducevano immediatamente in modelli etici e in progetti di vita. All’epoca, un dodicenne che avesse visto i film di John Ford, letto i libri di Salgari, frequentato una scuola elementare nella quale ti insegnavano la calligrafia e un oratorio dove ti inculcavano il rispetto, aveva già appreso i fondamentali. Quel che veniva dopo erano variazioni sul tema. E intanto, per l’immediato, quelle conoscenze erano adrenalina cerebrale, tracce e fondali per i giochi collettivi nel bosco o al fiume e per quelli solitari in soffitta, con i soldatini mutilati (anch’essi eredità del parente genovese).

Salgari sgrossava alcune coordinate etiche, le stesse d’altra parte che si ritrovavano nei film di Ford e nei fumetti dell’Intrepido e del Vittorioso (e si, anche in quelli di Tex). Mostrava un’umanità divisa in buoni e cattivi, in persone oneste e leali e in farabutti infidi e malvagi, aggiungendo però che quasi mai le etichette e le immagini ufficiali corrispondono alla realtà: tanto che i suoi eroi sono o diventano nella quasi totalità dei ribelli, dei proscritti, dei perseguitati. Diceva insomma quello che gli uomini hanno sempre saputo, ma che la cultura dell’ultimo secolo sdegnosamente rifiuta in nome di un buonismo deresponsabilizzante e di un relativismo mal declinato, e che solo timidamente qualcuno comincia oggi ad accettare: che cioè l’indole di ciascun individuo non è forgiata dall’ambiente o delle contingenze storiche, ma determinata dalla natura, e l’ambiente e le contingenze possono al più accentuarne i tratti. Che la consapevolezza di questo dato di fatto è pienamente compatibile con il desiderio di vivere una vita più responsabile e di battersi per realizzare una società più giusta (non certo perfetta), e ne è anzi la condizione imprescindibile, perché consente di attrezzarsi spiritualmente, con sano realismo, contro gli scacchi e le disillusioni, e di perseverare. Le esperienze e le conoscenze maturate nei successivi sessanta e passa anni mi hanno aiutato a cogliere anche le sfumature, a leggere la storia e la società con criteri meno grossolani, ma direi che la sostanza è rimasta quella. Del resto, le conseguenze della lettura “politicamente corretta” le abbiamo quotidianamente sotto gli occhi.

Questo modo di pensare oggi non è affatto “mainstream”, collide decisamente con le tendenze della cultura dominante. Ne circola invece una versione stravolta, per la quale ciascuno si sente depositario di una sua “verità”, di una sua etica, di una sua memoria e di suoi diritti da opporre alle verità, ai diritti, alla memoria degli altri.

Salgari è stato naturalmente accusato dalla cancel culture di avere un approccio imperialista, quando basterebbe il ciclo della Malesia, l’eroe del quale è un asiatico mentre il perfido nemico è il colonizzatore inglese, a smentire questa accusa. Di essere razzista, mentre in realtà i protagonisti positivi dei suoi romanzi appartengono alle etnie più diverse, e spessissimo i loro antagonisti sono dei bianchi malvagi (vedi Le aquile della steppa, La favorita del Mahdi, La perla sanguinosa); e mentre ne I predoni del gran deserto il protagonista, un aeronauta che maneggia disinvoltamente tutte le tecnologie, sceglie alla fine di vivere con i tuareg del Sahara e di abbracciarne la cultura. Gli viene imputata anche la misoginia, senza considerare che in più di un’occasione sono le protagoniste femminili a condurre il gioco e a risolvere le situazioni (vedi Capitan Tempesta, o Jolanda, la figlia del corsaro Nero, o anche La scotennatrice).

Ora, questa mia difesa varrebbe tanto quanto le accuse che sono state mosse, se non si tenesse conto del clima intellettuale nel quale il veronese scriveva, e delle circostanze specifiche per cui lo faceva. Salgari scriveva all’epoca dei maggiori successi dell’imperialismo occidentale, celebrati con entusiasmo, salvo pochissime eccezioni, dal mondo della cultura, e in sostanza positivamente condivisi anche dai ceti popolari: e cercava di star dietro al gusto del pubblico, e di rispondere alle aspettative di chi finanziava le riviste sulle quali comparivano i suoi racconti. Scriveva cioè per sopravvivere, cosa che gli riusciva a stento, e quindi non ha senso attendersi da lui chissà quale spirito “alternativo”, anticapitalistico e anti-imperialistico. Oltretutto non sono sicuro che un Salgari meno anarcoide, più allineato agli odierni parametri della correttezza politica, mi sarebbe altrettanto piaciuto, e nemmeno mi interessa. So che mi ha raccontato un mondo tutt’altro che ideale, e che mi ha insegnato almeno che non bisogna mai arrendersi: io mi sono divertito, mi sono appassionato e ho continuato comunque a pensare con la mia testa.

Se invece la mettiamo sul piano della “qualità” letteraria il discorso certamente cambia. A cercare di rileggerlo oggi, infatti, fatta la tara alle suggestioni che una reimmersione nell’infanzia può evocare, Salgari riesce quasi indigeribile. E immagino lo sia tanto più per un nativo digitale, abituato a concentrarsi solo per lo spazio di un tweet. Non è Stevenson, e nemmeno Verne, non ha retto al tempo. D’altro canto, non ha mai ambito al Nobel, anche se come testimone dei temi della cultura popolare lo avrebbe meritato più di Dario Fo.

Anche sotto questo aspetto quindi le accuse che gli vengono rivolte dimostrano che non si è capito nulla dello spirito col quale scriveva e delle condizioni nelle quali lo faceva. Era pagato un tanto (in realtà, molto poco) a pagina, e questo spiega perché tirasse in lungo le vicende con ogni pretesto: così come si spiegano con la pubblicazione a puntate le molte incongruenze nelle quali cade. A volte era impegnato a scrivere due o tre storie contemporaneamente: è già molto non trovarne i protagonisti sballottati dall’una all’altra. Gli vengono imputate anche numerose imprecisioni o approssimazioni storiche (che volendo si possono trovare però persino in Tolstoj), la scarsa scorrevolezza, perché introduce continuamente lunghe dissertazioni di botanica, di zoologia, di geografia, di antropologia, e il ricorso massiccio al taglia e incolla, praticato pescando direttamente dalle enciclopedie dell’epoca, dai libri altrui o dal Giornale Illustrato dei Viaggi. La spiegazione è sempre la stessa, la necessità, il fiato degli editori costantemente sul collo (e del resto, la pratica del taglia e incolla è diffusissima negli ambienti culturali: con altri mezzi e con altro talento l’ha adottata anche Umberto Eco).

Chiarito ciò, la mia riconoscenza nei confronti di Salgari non muta di una virgola. Riguarda ciò che ha rappresentato, nella formazione mia e in quella di due o tre generazioni precedenti, non ciò che può rappresentare in assoluto nell’ambito della letteratura e della pedagogia. Riguarda il fascino che i suoi romanzi, a dispetto di tutti i loro limiti, esercitavano, il piacere immediato e i sogni e soprattutto la voglia di continuare a leggere, che sarebbe durata per tutta la vita, che riusciva a trasmettere. Per questo il mio tributo si ferma qui.

Piuttosto, vorrei aggiungere un paio di postille e di riflessioni che ho maturato proprio mentre stendevo questo pezzo.

•     La prima riguarda José il peruviano, che all’epoca era uno dei miei romanzi preferiti (anche perché sembrava lo avessi letto solo io). Bene, ho scoperto ultimamente che si tratta di un’opera postuma, pubblicata dal figlio Nadir sviluppando una trama già abbozzata dal padre. Avevo intenzione di provare a rileggerla, ma questa scoperta mi ha frenato. Preferisco lasciare intatta, anche se molto sbiadita, l’impressione che ne avevo riportato all’epoca.

•     Mentre leggevo Tra noi e la libertà, il racconto autobiografico di Sławomir Rawicz sulla fuga sua e di un gruppetto di compagni da un campo di lavoro sovietico in Siberia (ne è stato tratto anche un bel film, The Way Back, di Peter Weir), mi è parso che l’odissea dei fuggitivi ricordasse molto da vicino quella descritta ne Gli orrori della Siberia. Dubito che Rawicz abbia mai potuto leggere Salgari, ma in alcuni punti sembra che lui e gli altri cinque disperati abbiano seguito proprio lo stesso itinerario, incontrate le stesse difficoltà. Il che testimonia della preparazione del nostro, che la Siberia la conosceva solo sulle carte e dai giornali di viaggi. A meno che … L’unico precedente di narrazione di un’evasione dai gulag che io conosco è nelle Memorie di un rivoluzionario di Kropotkin, pubblicato nel 1899. Dal momento che il romanzo salgariano è stato pubblicato l’anno successivo, mi piace pensare che sia stato ispirato dalla conoscenza delle opere dell’anarchico russo.

•     C’è una indubbia attenzione di Salgari nei confronti delle nuove tecnologie emergenti, anche se è rivolta più agli aspetti emozionali che a quelli funzionali. Al polo australe in velocipede e Una sfida al polo rispondono naturalmente alle suggestioni e alle curiosità create dalle ultime grandi imprese di esplorazione, quelle polari: ma ciò che le rende particolari è il fatto che questa sfida si gioca coi mezzi tecnici più avanzati dell’epoca, le biciclette e le automobili, in realtà del tutto inadatte a quegli ambienti naturali.

Allo stesso modo, nel dittico dell’aria (I figli dell’aria e Il re dell’aria), che ricalca per molti aspetti le storie di Verne aventi come protagonisti Nemo e il Nautilus, e più ancora le vicende di Robur il conquistatore, si introduce una fantastica macchina volante, lo Sparviero, con la quale i protagonisti sfuggono dapprima ad una esecuzione in Cina e poi alla detenzione in un lembo estremo della Siberia. A differenza di Verne, però, Salgari non sembra affatto interessato ai dettagli tecnici e alla verosimiglianza del mezzo. Lo Sparviero evoca piuttosto le immagini di draghi preistorici che popolano gli odierni racconti fantasy.

•     Sui titoli e sulle copertine. Una parte della mia fascinazione per i romanzi salgariani va riconosciuta anche alle scelte dei titoli e alle copertine. Molte di queste ultime le ricordavo ancora, anche prima di riprendere in mano i volumi per scrivere queste righe. Non mi ero mai preoccupato però di verificare chi fossero gli illustratori. Ho trovato i nomi di Albertarelli, di D’Antona, di Della Valle e di altri maestri che avevo conosciuto negli stessi anni soprattutto attraverso i fumetti. Ho anche realizzato che lo stile delle immagini era esattamente lo stesso di quello dei manifesti cinematografici dell’epoca (e probabilmente erano gli stessi anche gli illustratori), il che contribuiva senz’altro a moltiplicare esponenzialmente le possibilità di fantasticare.

Quanto ai titoli, ne ho sperimentato la particolare forza evocatrice continuando a desiderare invano per anni Le selve ardenti, e fantasticandoci sopra. Quando finalmente sono arrivato a possederlo, ho atteso a lungo prima di leggerlo: un po’ perché avevo ormai parcheggiati in attesa un sacco di altri libri “più adulti”, ma soprattutto perché temevo che la storia si rivelasse non all’altezza di quelle che nel frattempo ero andato mentalmente costruendomi sollecitato da quel titolo straordinario. In effetti andò poi così, le aspettative furono un po’ deluse, ma il potere evocativo comunque rimane. Per rendersene conto è sufficiente fare il confronto con l’omologa titolazione di un altro libro che mi è rimasto carissimo, La foresta in fiamme, scritto da James Oliver Curwood. Questo mi dice di una foresta che brucia, l’altro di un mondo che può spaziare dalla fantasia di Dante a quella Tolkien, anche se il modello linguistico è in questo caso probabilmente D’Annunzio.

Con buona pace di Curwood, e dei non devoti di Salgari, almeno nei titoli non c’è confronto.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte?

Cronaca di un viaggetto dicembrino (con 14 foto dell’autore)

di Vittorio Righini, 6 gennaio 2024

Una domanda tipo ‘‘che ci faccio qui’’, enunciata da un famoso scrittore, fa il paio con ‘‘cosa sto a casa a fare, accidenti’’. Cosa caspita ci faccio a casa a menarmela in questi mesi gelidi? perché non faccio un viaggetto, breve ed economico, certo; mia moglie non ha nulla in contrario e lei lavora ancora, non è in pensione come me, i figli sono autonomi, quindi perché non andare? mi consenta, come diceva il Cavaliere.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 02

La parte più bella del viaggio è l’idea. Poi segue la preparazione, che comprende la consultazione dello scibile informatico che ormai è alla portata di tutti. Però, attenzione: se ci basiamo su quello che leggiamo oggi sul web rischiamo cocenti delusioni, errori, imperfezioni varie, superficialità e ogni altro tipo di banalità. Se ci appoggiamo ai libri, come faccio spesso io, anche libri come si deve, beh, siamo obsoleti, perché probabilmente ci presentano situazioni che nulla hanno a che vedere col presente (io leggo spesso libri non proprio recenti, su certe destinazioni almeno).

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 03

L’ho fatto di recente con un brevissimo viaggio dicembrino; sono andato fino all’isola di Madeira, cinque ore di aereo con scalo a Lisbona, con la scomodissima e tremenda compagnia low cost che non nomino per evitare ripercussioni, che sì, ti fa spendere poco, ma ti tratta come bestiame. Ci hanno imbarcato delle hostess con alti stivaloni in pelle nera e frustini di bambù, guai a sgarrare nella fila. Ci hanno fatto fare il check, poi ci hanno ammassati in un tunnel in piedi per venti minuti, ad aspettare la pulizia dell’aeromobile e il rifornimento (non potevamo stare seduti al gate, dovevano liberare l’area per il volo successivo, ci hanno spiegato, spaziren!); ci hanno pregato di non fumare per via del rifornimento (ho mai visto nessuno fumare nel tunnel in vita mia, bah …) e naturalmente prima di salire misuravano i bagagli col calibro, e quelli che sgarravano pagavano una cifra extra generalmente superiore al costo del viaggio. Io mi muovo con una sportina morbida con dentro uno spazzolino, il dentifricio, due mutande e due calzini, e finora l’ho scampata. I libri li tengo sotto il braccio, la fotocamera al collo, addosso ho maglietta+polo+felpa+gilet+giaccone, e quando entro, come la cipolla, mi spoglio.

Madeira è nell’oceano Atlantico, a nord dell’Equatore, a ovest del Meridiano di Greenwich. Più a nord delle Canarie, gode di un clima temperato, difficile scendere in dicembre sotto i 15°, difficile salire oltre i 22°. In linea d’aria è all’altezza circa della bellissima città marocchina di Essaouira, 400km. a est.

Eppure, avevo trovato, nello stesso mese negli anni scorsi, un clima molto più gradevole alle Isole Azzorre, ma anche a Tenerife, nelle Canarie. Forse è solo un caso, devo essere capitato qui in alcuni giorni in cui il vento si faceva sentire e il clima non era quello così invitante che l’isola solitamente offre, mentre il sole era velato sempre da uno strato di nubi.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 04

Non avendo idea delle temperature che mi attendevano, avevo già stabilito di affittare uno scooter, ma non la sera dell’arrivo. Era tardi, avrei aspettato il giorno dopo e avrei ritirato lo scooter sul lungomare in tarda mattinata, dopo una bella dormita. Perché cinque ore di aereo, il viaggio da casa alla Malpensa, l’attesa in aeroporto e poi allo scalo sono comunque tempi lunghi, noiosi e sfiancanti, e ti salvi con un libro, uno spuntino, ma viaggi quasi un giorno nelle ore diurne; e quando arrivi ti prendi un bel taxi, e tranquillo ti fai portare nel bed & breakfast che hai scelto sulla collina di Funchal, e il premio è una splendida vista della baia. Si, ma 38 euro di taxi per fare 14 km. non li spendi neanche a Milano nell’ora di punta, per cui comincio già a incazzarmi. Grazie al fuso orario che mi fa guadagnare un’ora, arrivo al B&B in un orario decente per cenare. Chiedo alle gentile ostessa, che mi indirizza al “Rustico”, una vicina trattoria, e ben felice mi incammino: sono solo cinquecento metri, mi dice. Il problema è che se vado a sinistra scendo a precipizio verso il porto e il centro, e ci sono oltre due chilometri, se salgo a destra ho cinquecento metri di salita semplicemente folle, tanto è ripida (scoprirò il giorno dopo, dal frastuono, che il mio B&B è sul percorso dei carretti a ruote in paglia che esperti guidatori locali precipitano giù da Monte verso il porto, con sopra turisti scesi dalla nave da crociera di turno e arrivati fin lassù con la funivia che parte dal porto e sale a Monte).

Se volete andare a Funchal prenotate sul lungomare, fidatevi.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 05

Comunque, fatti i cinquecento metri verticali fino alla trattoria Rustico, entro col respiro affannato, il cuore a mille (non sono allenato in questi ultimi tempi) e, data l’ora, chiedo se posso cenare; nessun problema, sono gentili, mi accomodo. Ordino un polpo con salsa. Spiego loro di mettere poca o nessuna salsa, solo di portarmi un morbido polpo e basta, e una birra locale, con un pezzo di limone dentro. Stramazzo sulla sedia in legno e sul vecchio e rustico tavolaccio, tanto sono rimasto solo io a quell’ora. Dopo poco, mi arriva la prima birra che prosciugo con lo sguardo … poi arriva il polpo. Una bestia da almeno un chilo, tutto intero con la testa, eviscerato, ovvio. Una piovra. Morta affogata in tre dita di olio e centinaia di verdure varie sminuzzate. Mi impongo e mi faccio portare un grande piatto pulito, dove, dopo ampia scolatura, depongo la bestia, e me lo mangio tutto, ma proprio tutto. Non so il sugo che gusto avesse, io mi sono goduto solo la bestia. Pago una sciocchezza, e mi riavvio verso il B&B, ma ora la strada è in discesa, e la birra aiuta, scendo che neanche Messner al campo 1 dell’Everest … Svengo semivestito nel letto e faccio una dormita colossale, con sogni che riguardano Cassin, Shipton e Bonatti e io ultimo in cordata sulla parete nord dell’Eiger.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 06

La mattina mi alzo con calma, scendo a fare colazione nel gradevole giardino del B&B, in mezzo a fiori e piante di ogni genere, simpatici canarini in gabbia, e stranieri vari che hanno già sbafato il 90% del cibo disponibile, ma a me va bene così (io fuori casa a colazione prendo un caffè e una brioche, se a casa un caffè e un pezzo di focaccia), quindi mi comporto in modo sobrio (dopo la piovra, ci mancherebbe, direte voi), ma la gentile titolare del B&B si preoccupa per il mio scarso appetito. La tranquillizzo, e mi avvio al lungomare, a ritirare lo scooter. Sono due chilometri e mezzo, in discesa, tipo KL, il kilometro lanciato a Cervinia. Riesco ad arrivare in fondo senza cadere ma ho le ginocchia che fanno giacomo-giacomo, per usare un vecchio modo dire. Quando, finalmente, ritiro la Honda 125 PCX, mi sembra di essere Tony Cairoli che parte in un MXGP di quelli vittoriosi. Mi avvio verso il B&B, per recuperare la fotocamera e partire per un giretto nell’entroterra, e mi perdo … Sì, perché la via del mio B&B è a senso unico in discesa, è lunga più di due chilometri e mezzo e io non riesco a capire come fare a salire e provo a intersecare da diversi lati, niente, non riesco. Credetemi, non sono scemo completo, ma è veramente complicato, soprattutto a causa di una quattro corsie che attraversa la collina e ti disorienta completamente. Lo so che è difficile da credere, ma spero che capiti anche a voi, così vi renderete conto che la viabilità in quell’area è estremamente laboriosa. Non ho mappe cartacee, l’unica è il GPS sul cellulare, ma non ho un posto dove fissarlo sul manubrio, allora mi fermo in continuazione. Dopo mezz’ora, leggendo Google Maps, mi accorgo che parallela alla mia via che scende (Camino do Monte), ce n’è una che sale (Combojo). Logico, penserete voi. La imbocco, due chilometri e otto di rampa verticale senza curve, lo scooter (125cc lui, 95 kg io) arriva in cima con l’ultimo hp residuo, svalico verso destra (all’altezza dell’ormai noto Rustico) poi scendo cinquecento metri e sono al B&B.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 07

Recupero le mie cose e parto per una visita dell’interno, che presenta la salita totale al Monte, poi fino a Riberio Frio (Torrente Freddo), salgo a 1400, scendo a 900 mt., sono mezzo congelato e mi fermo in un bar. A fianco uno shop da turisti che vende maglioni tradizionali portoghesi in lana, pesanti e poco costosi. Sono tentato ma il proprietario è talmente stronzo che mi dico: al diavolo, piuttosto che darti soldi resisto fino al mare della costa nord, e così faccio, perché in meno di dieci chilometri sono sulla costa, dove il clima torna gradevole. Questa zona, Faial, Santana, Porto da Cruz, non è nulla di che, e riparto in direzione di Machico, sulla costa sud, poco distante dall’aeroporto. Anche Machico non è assolutamente nulla di che, in particolare una bellissima (!?!) spiaggia di sabbia finissima (portata con le navi dal Sahara) dove alcuni bagnanti sguazzano nell’acqua bassa. Suppongo siano lapponio inuit, perché io quando parcheggio lo scooter mi tolgo il Barbour, la felpa e, rimasto con la polo maniche lunghe, rimetto subito la felpa perché non trovo che faccia così caldo. Mi fermo a mangiare in un posto dove fanno un piatto di lapas (patelle di mare) che è la specialità locale; buone, ma non rifarei cinque ore di volo per mangiarle. Buone invece le vongole, da mangiare in zuppetta, una delle poche cose digeribili che ho gustato.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 08

Rientro nel tardo pomeriggio al B&B e mi concedo un the caldo (buono, lo producono sull’isola oppure lo importano dalle Azzorre; le Azzorre sempre Portogallo sono). A cena al Rustico, prendo uno stufato di carne di vacca (meglio la fassona ma non voglio fare troppo il difficile, se era per mangiare piemontese potevo restare a casa, che diamine). Assaggio il vino locale ma torno alla birra, ottima, leggera e fresca. Mi propongono una bottiglia di Mateus rosè, che ho bevuto l’ultima volta nel 1974 in Italia per la cena della maturità, ma rifiuto categoricamente. Stavolta segue una bella e sana dormita, senza sognare scalate o passeggiate improbabili, con la finestra aperta e una temperatura ideale.

Al mattino mi sveglia un fischio tremendo e intensissimo: è una delle tante navi da crociera che richiama il gregge al reimbarco. Li mando solennemente a fare in quattro, mi lavo e faccio la solita colazione. La gentile oste, slovacca di origine, taglia 54 (potremmo scambiarci i vestiti, se non fosse donna) si preoccupa di nuovo della mia modesta colazione, e le spiego che in Italia (non è vero) non si usa fare colazione, anzi è segno di arretratezza e miseria, le persone à la page bevono al massimo un caffè. Intanto di italiani non ce ne sono intorno, così spero che lei non mi rompa più le palle con ‘sta storia della colazione. Mi avvio verso Camarados Lobos, che forse è il posto che ho gradito di più, sebbene parecchio turistico. Una bella baia, colorata di barche da pesca, ben protetta dai marosi, con una bella statua di Churchill che dipinge uno dei suoi quadri in tarda età (in effetti Churchill si fermò dieci giorni all’hotel Reids, e oggi quella zona la chiamano anche Churchill’s bay). Pranzo molto male in un ristorante osannato da Trip Advisor (altro luogo comune da evitare), e parto poi per una gita sulla costa sud, rocciosa, alta e spesso lontana dal mare, priva di località particolarmente interessanti.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 10

Il terzo ed ultimo giorno lo dedico alla visita di Funchal, la capitale, complice una fine pioggerellina, quella che io chiamo confidenzialmente pioviggine, che non disturba poi più di tanto, finche non rientri e ti accorgi che sei bagnato fino al midollo. La città mantiene qualche angolo ancora interessante, ma quello che ho visto non mi ha entusiasmato. Come d’abitudine visito il mercato del pesce, interessante più per la quantità che per la varietà, e finalmente pranzo come si deve al ristorante del mercato Peixaira No Mercado, dove ad uno splendido seviche di branzino segue un ottimo pesce alla griglia (una dorada, mi pare), e finalmente bevo due bicchieri di vino bianco… edibile! Una passeggiata sul lungomare (davvero lungo) nella zona del porto, ma evito accuratamente il Museo dedicato a Cristiano Ronaldo. Anche l’aeroporto si chiama così, ma quello non posso evitarlo e, dato il maltempo, rinuncio a fare una corsa andata e ritorno con la funivia (la teleferica), perché le nuvole sono basse, e fotografare dall’alto è improbabile. Salto la cena, per paura di guastare il primo pranzo buono del viaggio.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 11

Il giorno dopo arrivo con largo anticipo in aeroporto, questa volta con l’autobus, cinque euro a tratta: se fossi stato più attento l’avrei scoperto anche all’andata. Il fatto di arrivare molto prima in aeroporto a voi non dirà nulla, invece per me significa che ne ho le palle piene e non vedo l’ora di rientrare. Ma perché? perché questo viaggio non mi è piaciuto, come avrete notato.

L’isola, dal punto di vista panoramico, è bella; ci sono dei punti, detti miradouro, che consentono delle viste spettacolari su vallette nascoste e sulle frastagliate catene montuose del centro dell’isola, che raggiungono anche i 1820 metri col Pico Ruivo. Grandi panorami sull’oceano, che poi, visto uno, visti tutti. Le strade sono in ordine, l’asfalto è sicuro e lo scooter il mezzo ideale per girare l’isola, che è 60 km. circa di lunghezza e 25 di larghezza. E poi niente altro; se vi piacciono i fiori, direi che il Jardim Botanico è bello, proprio vicino al B&B dove ero io, ma io non sono un gran cultore. Se vi piace fare trekking, bello tosto si intende, ci sono vari sentieri estremamente ripidi da seguire, e anche in questo caso non sono un cultore. Se vi piace la cucina, e di questa sono invece un cultore, restate pure a casa; anche perché la cucina portoghese continentale è un’altra cosa. Qui è tutto stracotto, stracondito, unto e bisunto. Per quanto riguarda i musei, l’unico per me interessante è il “Universo de Memórias João Carlos Abreu”; Abreu, poeta e scrittore, ha donato circa 14.000 oggetti di ogni genere a Madeira, raccolti nella sua lunga vita e nei suoi viaggi, e ci sono delle stanze veramente interessanti, sarebbe piaciuto molto anche a Paolo e agli assidui frequentatori dei mercatini dell’antiquariato.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 12

La cosa peggiore è che su tutta la costa sud ci sono decine di migliaia di ville, villoni e villette, appartamenti, loft, mansarde, più o meno grandi. La maggior parte è di proprietà di europei (alcuni sono portoghesi, ma soprattutto domina il centro-nord europeo) che le occupano pochi mesi l’anno. Queste seconde case hanno creato un’atmosfera da turismo totale, e i prezzi ne hanno risentito. Nelle Azzorre, sempre isole portoghesi ma più a nord, si trova ancora la tranquillità del villaggio di pescatori o di contadini, senza troppe contaminazioni, con gente più calma e paziente, e consiglio mille volte le Azzorre rispetto a Madeira.

Il problema delle Azzorre è che sono tante isole (9), quasi tutte distanti una dall’altra, non facilmente raggiungibili. Se c’è vento forte, l’aereo non parte da Lisbona, difficile atterrare in quei piccoli ed esposti aeroporti. Però se vi capita andateci, magari partendo da Horta, poi Pico infine Ponta Delgada, e vi assicuro che non ve ne pentirete.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 13

Ecco perché mi faccio la domanda del titolo: perché non me ne sto a casa, a volte? ora devo pentirmi e espiare, soprattutto pensando che in Sicilia, in quei giorni, c’erano 18/20 gradi e io in Sicilia vado sempre molto molto volentieri, magari a Catania, a farmi un giretto intorno alla Muntagna.

Ma perché non me ne sto a casa, a volte 14

Ad venturam

di Paolo Repetto, 31 ottobre 2018, da sguardistorti n. 04 – ottobre 2018

Vivere “ad venturam” significa buttarsi a capofitto nel futuro. Non aspettare che le cose arrivino, ma andare a stanarle. Anche perché, se non si fa così, hanno la tendenza a non arrivare mai. Simbolo della “non-avventura” è il capitano Drogo del Deserto dei Tartari. Aspetta per una vita che siano le cose a decidersi, non osa mai superare quelle montagne, il confine che lo separa da ciò che desidera.

Si può obiettare che questa è una visione esasperatamente vitalistica dell’esistenza, e dell’avventura stessa. È vero, forse è troppo legata ad una funzione narrativa. L’avventura non può essere identificata solo con la lotta contro la tigre, o contro i Thug o i pellerossa. Un matrimonio può essere un’avventura, con tutte le emozioni, le delusioni, i rischi e i dolori di una spedizione in mezzo agli Irochesi. E può esserlo anche una vita trascorsa tra le mura di una scuola, con le vittorie, le sconfitte, le delusioni. O un percorso di studio e di letture, con le scoperte, le sorprese, le emozioni, ecc … Probabilmente è solo una questione di intensità. Chi ha vissuto anni di guerra ti dirà che, con tutto il dolore di cui è stato testimone, sono quelli che hanno maggiormente segnato la sua vita, qualche volta anche quelli che le hanno dato un senso. Era una sensazione comune tra i reduci della guerra partigiana, ad esempio (vedi l’Ettore de La paga del sabato). In piccolo questo si ripete per ogni situazione nella quale si esca dalle righe delle sicurezze quotidiane, si producano scariche adrenaliniche particolarmente intense. Sono i momenti e le vicende di cui ci si ricorda perché incidono delle cicatrici nella nostra memoria. Ma, ripeto, l’intensità non va necessariamente misurata a picchi. Nella vita non può esistere l’alto continuo, ma un basso continuo si. L’intensità non è quella della percezione, ma quella dell’intenzione.

Il vero significato dell’avventura sta infatti nell’intenzionalità. L’avventura è tale in quanto la scegli: anche quando, come appunto nel caso della guerra partigiana, sei quasi costretto a scegliere: oppure quando sembra che sia l’avventura a scegliere te, magari sotto forma di sventura. Sei tu, comunque, a decidere se e come viverla. Il senso glielo dai a posteriori.

Non sto parlando a caso. Quando gli amputarono una gamba, a tredici anni, mio padre aveva davanti due possibilità: fare il mutilato a vita, vivendo della compassione altrui (all’epoca non esistevano né un’assistenza pubblica né una particolare sensibilità per gli sfortunati, un disabile era considerato solo una zavorra), oppure trasferire sull’unica gamba che gli era rimasta tutta la voglia di una vita indipendente e libera. Scelse la seconda, e ne venne fuori l’uomo più libero ed eccezionale che abbia mai conosciuto.

Ora, si potrebbe sollevare una seconda obiezione. Uno dei maggiori antropologi culturali italiani, Alessandro Manzoni (l’altro è Leopardi), in un suo saggio in forma di romanzo fa dire ad un intervistato: “Il coraggio, uno, non se lo può dare”, aggiungendo tra l’altro che l’intervistatore parla bene, dall’altezza della sua condizione “ma bisognerebbe essere nei panni di un povero prete, e trovarsi al punto!”. Questa è la sintesi di una concezione fatalistica della vita, o se vogliamo tradurla in linguaggio odierno, deterministica: Manzoni anticipava la teoria del gene egoista. È evidente che da questa concezione l’ipotesi dell’avventura è totalmente esclusa. Del resto, anche tutti gli altri intervistati sembrano concordare sul fatto che la vita è piuttosto una serie di sventure, e sopravvive chi meglio sa fare lo slalom tra di esse. Ma appunto, sopravvive.

L’altro antropologo (segnalo il suo attualissimo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani) la mette un po’ diversamente. Il passante che compra un almanacco per l’anno ‘venturo’ chiede al venditore il più bello, il più ottimista: Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce. È consapevole che si tratta di un puro gioco di credulità, ma volendo darsi un parametro ideale sceglie il più positivo: sa che credere in qualcosa è già un modo per cominciare ad avverarla. E quando si poi tratta non di un destino individuale, ma di quello collettivo, dell’umanità, dopo aver fotografato impietosamente il presente l’autore trova ancora la forza di invitare ad opporre a qualcosa che è peggio del destino, all’insignificanza assoluta, il senso di solidarietà.

Ciò non garantirà all’umanità la sopravvivenza, ma un’esistenza dignitosa, quella si.


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Mano di ferro

di Paolo Repetto, 2011

Siamo prima di tutto dei decouvreurs, anche se è dura
abbandonare il fuoco del proprio camino […] per dormire
sulla nuda terra e talvolta senza neppure quella possibilità,
accucciati nell’acqua, la paura che manda brividi su
per la schiena, la pancia vuota, la debolezza nelle viscere
e la sonnolenza nel cuore.
Pierre-Esprit Radisson, coureur de bois

Nell’estremo lembo nord-occidentale dell’Arkansas (lo stato di Bill Clinton e delle noccioline) c’è una cittadina di nome Tontitown. Fossimo in Italia si potrebbe pensare a un toponimo nato dall’irrisione campanilistica dei villaggi vicini, ma qui siamo negli USA, e gli statunitensi sono seri: consacrano i loro luoghi a gente in gamba, che per un motivo o per un altro abbia ben meritato.

È così che troviamo città intitolate a Humboldt o contee dedicate a Garibaldi (manca stranamente Darwin, che si è guadagnato invece una grossa città sulle coste australiane). Per gli esploratori, poi c’è un trattamento preferenziale: accanto a Carson City, a Freemont e a Bridger Town, esiste addirittura una contea che si fregia del nome di Beltrami e c’è anche, appunto, Tontitown, intitolata a Enrico Tonti immigrato benemerito di primissima generazione (mi risulta ci siano anche diverse scuole e associazioni sportivo-patriottiche a lui dedicate).

A dispetto del cognome, Enrico Tonti – in Francia e in America è conosciuto come Henry de Tonti, o de Tonty – è un personaggio talmente avventuroso da sembrare uscito dalla penna di Salgari. Vive in un secolo, il XVII, già di per sé sin troppo “interessante”, e ci mette poi molto del suo, nel senso che non perde occasione per complicarsi la vita.

Segue ancora in fasce il padre Ludovico, costretto a lasciare di corsa l’Italia (è un banchiere napoletano e ha appoggiato la rivolta antispagnola di Masaniello) per rifugiarsi in Francia. Le fortune della famiglia, un tempo ricca e nobile, in terra francese declinano rapidamente, ma Enrico (e come lui i suoi numerosi fratelli) è portato alla vita avventurosa e la politica di Luigi XIV gli offre un sacco di opportunità per sperimentarla.

Tra i venti e i venticinque anni combatte in sette diverse campagne militari, imbarcato come guardiamarina, guadagnandosi sulla tolda il grado di capitano: paga però la carriera con la perdita della mano sinistra, che gli è strappata via dall’esplosione di una granata. Nell’occasione viene anche catturato dagli Spagnoli e trascorre in carcere sei mesi, prima di entrare in uno scambio di prigionieri e tornare in Francia. Qui si fa applicare una protesi in metallo, che copre con un guanto, ed è immediatamente pronto a ributtarsi nella mischia.

Noi lo prendiamo in carico a questo punto, per seguirlo in una girandola di avventure che avrebbero meritato le matite di Hugo Pratt. Ed è proprio così che provo a raccontarlo, ricostruendo una vita a fumetti da quei pochi stralci di notizia che si possono ricavare qui e là.

Dunque, troviamo Tonti a ventisette anni, alto e magro, con baffetti sottili e lunghi capelli scuri, monco di una mano (ricorda un po’ capitan Uncino), ricco di una grande esperienza di navigazione e di battaglie, ma praticamente al verde, quindi intenzionato a cercar fortuna a ogni costo. Si è già fatto una reputazione, e quando nel 1678 incontra René Robert Cavelier de La Salle trova anche una causa.

La Salle è un altro gran bel personaggio. Dieci anni prima aveva lasciato l’Europa per la Nouvelle France, abbandonando la Compagnia di Gesù presso la quale aveva studiato (e che non glielo perdonerà mai). Ha cominciato a battere la regione dei Grandi Laghi insieme ai marchands voyageurs (che sono i trafficanti di pellicce di castoro “autorizzati”) e ai coureurs de bois (che sono quelli indipendenti, considerati come una sorta di bracconieri), ma preferibilmente da solo, a volte sparendo dalla circolazione per anni interi.

Coltiva il sogno di trovare la via d’acqua che dalla regione dei laghi porti fino al Pacifico (il famoso passaggio a nord-ovest). Per un certo periodo si ostina in questa idea, alimentata dal fatto che tutti i corsi d’acqua più importanti in cui si è imbattuto nelle sue peregrinazioni (l’Ohio e l’Illinois) viaggiano verso ovest e che le voci raccolte tra gli indiani parlano di una grande acqua occidentale (in realtà si riferiscono al lago Winnipeg).

La Salle è quindi tornato in Francia alla ricerca di sponsor per una grande missione esplorativa e per ottenere tutte le autorizzazioni e le patenti reali del caso. È in questa occasione che avviene l’incontro, e per il giovane italiano si tratta di un vero colpo di fulmine. La Salle è un uomo imponente, dotato di una forza straordinaria, parco di parole e persino scorbutico, ma emana il fascino del condottiero e dell’uomo d’azione. Enrico lo farà oggetto d’ora innanzi di una amicizia devota e incondizionata, anche se mai gregaria.

Le ambizioni della spedizione organizzata da La Salle sono decisamente sproporzionate rispetto alle forze che riesce a mettere in campo: ha trovato in patria molti incoraggiamenti, ma scarso credito economico. A sbarcare con lui in Canada, dopo una traversata tempestosa, sono una cinquantina di uomini, tra soldati e artigiani, ma quando arrivano attraverso la via dei laghi alla foce del fiume Niagara, dove La Salle ha deciso di impiantare il primo campo base, sono solo quattordici. Tra questi il sacerdote francescano Louis Hennequin, destinato a ricoprire un ruolo di rilievo nella vicenda.

Lo scenario naturale e storico nel quale si immergono è quello raccontato nel bel libro di Brian Moore, Manto nero (e nel film omonimo, altrettanto bello) e rievocato da Pratt, sia pure con uno scarto di mezzo secolo, in Ticonderoga: foreste, laghi, pellicce e indiani. Questi ultimi sono in parte tiepidi alleati, come gli Uroni e gli Algonchini, in parte ferocissimi nemici, come gli Irochesi.

Dagli inizi del Seicento, da quando Samuel de Champlain ha fondato Quebec sulle rive del San Lorenzo e ne ha fatto un centro di scambio e di raccolta, la regione attorno ai Grandi Laghi è divenuta teatro di una guerra sanguinosa e persistente. I primi a prendere contatto con i francesi sono stati gli Hurons (i Calvi), tribù semi-nomadi che già prima dell’arrivo degli europei svolgevano un ruolo di intermediari commerciali, e che ne diventano ora gli interlocutori privilegiati.

Con l’introduzione delle nuove merci, prime tra tutte le armi, il quadro dei rapporti viene completamente destabilizzato: gli Uroni allargano di molto l’area dei loro traffici e creano un vero e proprio impero commerciale, andando inevitabilmente a pestare i piedi ad altre popolazioni.

La più agguerrita e la più potente di queste ultime, gli Iroquis, termine sotto il quale sono raccolte cinque grandi “nazioni”, non accetta questo monopolio che garantisce attraverso la maggior disponibilità di armi da fuoco anche una superiorità militare, e parte al contrattacco con una serie di sanguinose incursioni, interrompendo a più riprese la rete dei traffici. Ciò induce i francesi a schierarsi dalla parte degli Uroni, e di qui nasce una rivalità che si trascinerà sino alla Guerra dei Sette Anni. Dopo essere stati tenuti a bada bene o male per mezzo secolo, quando troveranno l’appoggio e le armi degli inglesi gli Irochesi procederanno a uno sterminio quasi sistematico dei loro rivali.

All’interno di questo scontro si inseriscono altre vicende: le rivalità già accennate tra la compagnia ufficiale delle pellicce e i liberi cacciatori, da un lato, e quella tra la Compagnia di Gesù e i francescani dall’altro. Sono i recollets, francescani di stretta osservanza, a mettere per primi i piedi nella regione, ma alla fine saranno i Gesuiti, molto più potenti e ricchi, a ottenere il monopolio delle anime: questo, tra l’altro, avrà un effetto devastante per gli Uroni, resi meno aggressivi dalla cristianizzazione.

Ma non è finita. Se allontaniamo ancora un po’ lo zoom, troviamo che a est gli inglesi si sono ormai saldamente impiantati sulla costa atlantica e cominciano a guardare verso l’interno, anche se per il momento rimangono fermi al di là degli Appalachi, e che a sud gli spagnoli rivendicano il possesso di tutti i territori percorsi dai conquistatori Hernando de Soto, Pánfilo de Narváez e Francisco Vázquez de Coronado tra il Rio Grande e la Florida, anche se nella realtà possono far conto solo su effimere e sperdute postazioni militari. Insomma, una situazione estremamente mossa, nella quale una sola cosa è certa: la conoscenza geografica e antropologica di tutta l’area è in pratica quasi nulla.

Torniamo ora a La Salle, e soprattutto a Tonti. Una volta arrivati sul Niagara, il piano prevede di impiantare un forte e di costruire un vascello per esplorare le rive dei Laghi e cercare la via fluviale di sbocco verso l’ovest. A Tonti spetta il primo compito, ma i guai cominciano subito. Enrico si becca, infatti, la peste, una delle esportazioni europee di maggior successo nell’interscambio con le colonie del nuovo mondo. Arriva sino in punto di morte, ma ha una fibra eccezionale e ne esce in tre mesi, sempre più magro e pieno tuttavia di anticorpi che gli garantiranno per anni una sorta di immunità. Si affretta quindi a completare la costruzione dell’avamposto (che prende il nome beneaugurante di fort Crèvecoeur, forte Crepacuore), mentre La Salle torna in Canada per organizzare la seconda fase, e il vascello, battezzato Le Griffon, dopo un primo viaggio sino alla Green Bay, sul lago Michigan, scompare col suo equipaggio (probabilmente affondato, ma secondo un’altra versione venduto con tutto il carico ai mercanti di pellicce). Il forte viene terminato appena in tempo, perché deve poi essere difeso per un anno intero dalle incursioni degli Irochesi, con i pochi uomini che sono rimasti di guarnigione. Tonti è in pratica in balìa degli avversari, ma allorché questi si presentano con dei doni per ammorbidirlo li butta fuori a calci, chiarendo subito di che stoffa è fatto. Alla fine, quando La Salle non arriva e tutto ormai sembra perduto, dà fuoco alle fortificazioni e con una sortita disperata rompe l’assedio indiano e porta in salvo i suoi compagni.

Dopo il ricongiungimento con La Salle comincia, nel 1680, la grande stagione delle esplorazioni: i due, insieme o con gruppi separati, battono le foreste dell’Ontario e del Michigan, e intraprendono poi la ricognizione dei bacini dell’Ohio e dell’Illinois. Il tutto in mezzo a imboscate, assalti, sanguinose ritorsioni, tradimenti, dai quali l’italiano esce sempre indenne e nei quali sembra trovarsi perfettamente a suo agio.

Lo capiscono anche gli indiani, che cominciano a loro modo a rispettarlo e soprattutto a temerlo. Mano di ferro è per loro un diavolo dotato di poteri magici, la sua fama corre per i sentieri delle foreste e Tonti non fa niente per smentirla: risponde alla ferocia degli indiani con una ferocia e una determinazione ancor maggiore. Una volta abituatosi alla vita della foresta, ha su di loro tutti i vantaggi di una educazione militare europea e in più uno sguardo sfuggente che non permette mai di far capire i suoi veri sentimenti. Sembra di raccontare la saga di Kinowa, il diavolo scotennato dei fumetti della mia infanzia.

Nel 1680 è comunque incaricato di costruire un altro forte a Starved Rock (Rocca della fame) nell’Illinois (dove oggi c’è un magnifico parco naturale; ma all’epoca c’erano anche, e soprattutto, gli indiani). Viene presto abbandonato dai suoi uomini che temono di finire al palo ed è costretto a rientrare nel Wisconsin da solo, sfuggendo alla caccia degli Irochesi. Ha imparato a sopravvivere con quello che il territorio offre, dal granoturco alle ghiande e agli animali selvatici, a essere invisibile, a muoversi e uccidere in modo silenzioso e veloce. «È più indiano degli indiani», dirà di lui un commilitone: tanto che questi non riescono a braccarlo e la leggenda di Mano di Ferro diventa epopea.

Tornato presso La Salle e inflitta una punizione spietata agli ammutinati che lo avevano spacciato per morto, riparte con lui nel 1682 per l’esplorazione del bacino del Mississippi. Lungo il percorso La Salle prende possesso, in nome del Re di Francia e con una serie di cerimonie simboliche e trattati con le esterrefatte popolazioni rivierasche, di tutte le terre sulle due sponde. In pratica taglia la strada alla possibile espansione delle colonie inglesi verso le grandi pianure.

La vista di quei territori (e quella di alcuni grandi villaggi con costruzioni in fango e paglia, ciò che di più simile a una città ha mai incontrato in America) lascia stupito Tonti che scrive: «è il più bel paese del mondo, e contiene le più belle terre che mai sian state viste». E convince sempre più La Salle nel nuovo progetto che gli sta maturando in testa: una linea di avamposti fortificati dai Grandi Laghi scenda sino al Golfo del Messico, uniti tra loro attraverso la rete fluviale, lungo la quale fare correre il commercio in verticale e dare il via alla colonizzazione della Luisiana.

La spedizione oltrepassa i limiti toccati dieci anni prima da quella di altri due esploratori, Louis Jolliet e Jacques Marquette (che avevano comunque stabilito, in base alla direzione del fiume, che il suo sbocco non poteva essere né nelle acque della California né in quelle dell’Atlantico, ma solo nel Golfo del Messico), e il 9 aprile del 1682 arriva al mare. È la prima discesa testimoniata del Mississippi sino alla foce. Con una solenne cerimonia, culminata nell’erezione di una colonna di legno iscritta e di una croce, alla presenza di venti francesi e di trentun indiani del nord-est, La Salle rivendica per il Re Sole il dominio su tutte le terre di cui il Mississippi raccoglie le acque (vale a dire, oltre la metà del territorio degli Stati Uniti).

Nell’autunno successivo, sulla via del ritorno, Tonti è incaricato della costruzione di un nuovo forte, Fort St. Louis, che nasce su uno scoglio roccioso sopra il fiume Illinois. Diventa quindi governatore e comandante della “città” di St. Louis, un agglomerato di poche baracche e di tende degli indiani Illini (quelli appunto che danno nome all’Illinois e che si estingueranno completamente durante le guerre del Settecento), mentre La Salle rientra in Francia per convincere Luigi XIV della ricchezza dei territori conquistati e delle incredibili prospettive economiche della sua impresa.

Tonti naturalmente non sta con le mani in mano: cerca alleanze con nuove tribù indiane e appena può organizza spedizioni contro gli Irochesi, tanto per ricordare loro che c’è e che non li dimentica. Di questo periodo sappiamo poco, perché non c’è nessun altro a raccontarlo e lui liquida le operazioni belliche con una glaciale laconicità: «Li abbiamo respinti e ne abbiamo fatti fuori parecchi» oppure «Ci hanno assediati per sei giorni, ma se ne sono andati a mani vuote».

Viene poi a sapere, nel 1686, che La Salle è tornato in America e intende risalire il Mississippi dal mare. In realtà La Salle è già approdato nel nuovo continente un anno e mezzo prima, dopo essere partito dalla Francia con due fregate e trecento persone, ma le cose si sono messe subito al peggio. Metà degli imbarcati non ha nemmeno toccato la costa continentale, in parte per le malattie scoppiate sulle navi, in parte per le diserzioni avvenute durante uno scalo ai Caraibi. La spedizione ha mancato poi clamorosamente l’approdo, finendo oltre duecento miglia a ovest delle foci del Mississippi, e si è impantana nella zona paludosa e inospitale di Matagorda Bay. Qui è stato creato un nuovo Fort St. Louis, ma dopo quasi due anni di stentata sopravvivenza i superstiti non sono più di quaranta. A questo punto, agli inizi del 1687, La Salle tenta di raggiungere via terra la foce: ma nel corso di una marcia divenuta ben presto un calvario viene assassinato dai suoi compagni.

Di tutte queste vicissitudini Tonti non è a conoscenza, ma quando si tratta di La Salle non ha bisogno d’altro: parte con una trentina di uomini per andare a dare man forte al suo vecchio comandante. Mentre è in viaggio viene però richiamato urgentemente indietro dalla guarnigione che aveva lasciato a St. Louis, attaccata dagli Irochesi appena lui se n’è andato.

Torna indietro, dà una lezione agli indiani e riparte in esplorazione, arrivando alla foce del fiume Arkansas. Di La Salle nemmeno l’ombra. Chiede e ottiene dal governatore canadese la signoria del territorio e fonda immediatamente una nuova città, che sorge attorno al forte di Arkansas Post. A questo punto ha raccolto attorno a sé anche le famiglie dei suoi soldati, cede ai coloni una parte del territorio e la colonia diverrà ben presto una delle più ricche del sistema francese.

Ma Tonti non è fatto per la vita sedentaria: nel 1687 è già al fianco del marchese di Denonville per una spedizione contro i Seneca, una delle cinque nazioni Irochesi. Fa la sua parte nella carneficina e rientra a Fort St. Louis, dove l’anno successivo viene a conoscenza tramite gli indiani della morte di La Salle: quello che non sa è che il marchese è stato ucciso dai suoi stessi uomini.

Si mette immediatamente in moto, sperando di trovare qualche superstite (in realtà, dopo l’uccisione di La Salle sono stati quasi tutti massacrati dagli indiani Karankawa). Manda in giro esploratori in cerca di notizie e sulla base di qualche vaga indicazione della presenza di prigionieri bianchi parte nel 1689 per i territori delle tribù Caddo, oltre il Red River.

Attraversa l’Arkansas e si spinge sino al Texas. Qui ha la conferma che dei francesi sono trattenuti (o si sono nascosti) tra gli indiani Tonkawa, ed è sempre più determinato a cercarli. Non sono dello stesso parere i suoi uomini, ormai stanchi del lungo inseguimento, che lo abbandonano ancora una volta quasi in massa (ma almeno non lo uccidono, come era successo a La Salle).

È già trascorso un anno dalla partenza ma Tonti non demorde e arriva anche al villaggio Tonkawa, solo per scoprire che i francesi non sono più lì. Questa volta la ricerca è davvero finita e inizia un lungo e travagliatissimo viaggio di ritorno, perché gli indiani non sono per niente disposti a fargli da guida, il territorio gli è sconosciuto ed è molto meno ricco delle foreste del nord, i pochi compagni sono sfiniti e demoralizzati. Tonti rischia la morte per fame, perde tutti i suoi ricchissimi appunti di viaggi, ma alla fine salva ancora una volta la pelle e a metà del 1690 è di ritorno per l’ennesima volta a St. Louis.

E qui anche noi ci fermiamo, perché il suo decennio d’oro è finito e il resto della vita di Tonti è relativamente meno agitato. Sposa una donna indiana, (sembra fosse bellissima), si invischia in imprese commerciali che vanno regolarmente buche, partecipa con i suoi devoti Illini alla guerra contro gli Irochesi, discende ancora il Mississippi per procedere alla colonizzazione di quella Louisiana che aveva contribuito tanto attivamente a fondare, fa anche un breve ritorno in Francia, dove riceve onorificenze, ma non i prestiti che cercava e infine muore, a cinquantacinque anni, nel 1704, durante una nuova esplorazione, divorato dalla febbre gialla. Anche la pazienza degli anticorpi ha un limite.

Aggiungo solo un’appendice su padre Hennepin. Anche se è stato assegnato alla prima spedizione di La Salle come cappellano, Hennepin è in realtà al momento del suo sbarco nella Nuova Francia un eretico convinto (ha frequentato ambienti giansenisti). Lascia perdere ogni intento di evangelizzazione e si dedica immediatamente a esplorare il corso del Niagara, del quale fornirà la prima descrizione data a stampa, mostrando ottime qualità di geografo. Partecipa poi al viaggio del Griffon sino alla Green Bay, nel lago Michigan e sverna con Tonti a fort Crèvecoeur.

Nel 1681 viene incaricato da La Salle di compiere una ricognizione del corso superiore del Mississippi, in compagnia di due voyageurs, ma dopo un paio di mesi è catturato da una banda di Sioux, che se lo porta appresso come schiavo nelle sue scorrerie. È una schiavitù piuttosto morbida, ottiene persino di poter compiere una serie di esplorazioni da solo, dando la sua parola agli indiani. Viene poi liberato da un altro esploratore, Daniel Greysolon Duluth, che è in cerca del passaggio a nord ovest e gode di un grande ascendente sui nativi. A questo punto ritiene di aver visto abbastanza, rientra a Montreal e si reimbarca per la Francia.

Dalla sua esperienza trae tre successivi libri, che conoscono un grande successo e sono preziosi per la ricostruzione della prima parte della vicenda di La Salle, anche se il racconto è condito di molta fantasia (e di fandonie spudorate, come quando afferma di aver esplorato non solo il corso dell’alto Mississippi, ma il fiume intero, scendendo sino alla foce e scoprendola quindi prima ancora di La Salle). La sua Description de la Louisiane, dove da ogni pagina traspare lo stupore della scoperta, avrà l’effetto di calamitare agli inizi del Settecento verso le regioni della Nuova Francia una folla di avventurieri e l’attenzione del nuovo spirito libertino.

La parte del protagonista Hennepin la riserva naturalmente a se stesso, e non mostra grande considerazione per le qualità altrui, ma quando parla di Henry de Tonti, pur senza lasciarsi troppo andare, non riesce a nascondere il rispetto e l’ammirazione per l’uomo dalla mano di ferro.

Che dire? Quella di Enrico Tonti non è una vita esemplare ma è senza dubbio avventurosa. Ci racconta un’epoca in cui il termine “avventuriero” aveva un significato quanto mai aderente all’etimo: ad venturam.

Tonti si butta a capofitto dovunque sente odore di avventura. Lo fa anche per sete di ricchezza e per ambizione, ma visti i risultati non sembrerebbe molto portato in questo senso. Piuttosto, lo fa per amicizia, o almeno per un alto senso di lealtà. Spende anni a cercare La Salle e quando realizza che ormai è morto cerca di ritrovare e portare in salvo almeno gli ultimi suoi compagni. Sarebbe capace di ammazzarli con le sue mani, all’occasione, ma non può accettare di abbandonarli nel pericolo.

Non voglio farla troppo lunga, perché la vicenda si commenta da sola. A volte mi dico che ho avuto una gran fortuna a vivere la maggior parte della mia esistenza nella seconda metà del secolo scorso, che almeno dalle nostre parti non è stata particolarmente “interessante”, e credo che razionalmente si debba pensare proprio così. So benissimo che vista “da dentro” la vita di Tonti sarebbe molto meno affascinante di quanto appare in questa fumettistica ricostruzione. Sarebbe piena di pidocchi, di freddo, di zanzare, di fame, di ferite curate alla meglio, di sporcizia, di violenza, e poi di malattie e di morti atroci e di fatiche disumane. Tonti è inoltre un colonialista, uno che va a imporre con la violenza le leggi, i costumi, la religione e gli interessi degli europei alle popolazioni indigene. Questo non lo dimentico. Ma nemmeno voglio ipocritamente raccontarmi che vada a distruggere un paradiso di armonia, perché la guerra di tutti contro tutti, e degli Irochesi in particolare contro tutte le altre tribù, era già la norma molto prima che i francesi mettessero piede in America. E poi, non è questo che mi interessa.

Mi piace invece immaginare cosa avrebbe potuto raccontare il nostro Enrico ai nipoti, se ne avesse avuti, davanti al camino o al fuoco di un bivacco, e paragonarlo a quanto potremmo essere in grado di raccontare noi, sempre che la concorrenza di televisione e videogiochi e l’assenza di caminetti e bivacchi ce lo consentissero. Certo, il senso della vita non è dato dalle imboscate sventate, dalle marce forzate, dalle lotte corpo a corpo, ma dal momento che non è nemmeno infuso da qualche divinità o idealità trascendente, forse una qualche relazione con la molteplicità e la concretezza delle esperienze, con l’intensità delle sensazioni, con la forza e la genuinità dei sentimenti potrebbe averla.

Non è un caso che oggi, in una società che più o meno assicura un ricovero a tutti, ci sia gente che affronta bivacchi in parete, al gelo e sotto la tempesta. Che in un mondo dove chiunque possiede almeno un motorino ci siano dei fachiri che affrontano a piedi, e di corsa, percorsi di centinaia di chilometri, nei deserti, in alta montagna, in mezzo alle foreste, con sforzi disumani. Che in una cultura che pone al primo posto la sicurezza ci si butti col parapendio o con l’elastico, e qualche volta anche senza. Che persino nell’universo del virtuale gli spettacoli di maggior richiamo televisivo siano quelli in cui si parla di natura selvaggia, e nei quali si vanno a prendere i cobra o i leoni per la coda. Tutte queste esperienze sono dei surrogati di qualcosa che, in effetti, ci manca e di cui la nostra natura evidentemente non può fare a meno.

Per Mano di ferro questa adrenalina era pane quotidiano e ad un certo punto deve essergli parsa anche una condizione normale. Gli sembrava normale anche mettersi a repentaglio, senza un secondo di esitazione, quando si trattava di soccorrere gli amici ed essere assolutamente leale nei loro confronti. Questo, ho l’impressione che oggi funzioni un po’ meno. Forse non fa parte della natura umana (anche se io sono convinto di sì), ma senz’altro dovrebbe far parte della nostra cultura. Se così non è, temo che abbiamo proprio buttato qualche milione di anni.

Per saperne molto di più sull’America di Tonti, e su Tonti stesso:
CARTER, R. – L’Europa alla conquista dell’America – GARZANTI, 1963
DE VOTO, B. – La corsa all’Impero – IL MULINO, 1963
MAFFI, M.– Mississippi. Il grande fiume: un viaggio alle fonti dell’America – RIZZOLI, 2004
MEISSNER, H. O. – La Louisiana per il mio re – PAOLINE, 1970
PIERONI, P. – Sulle piste dei cacciatori di castori – MURSIA, 1989
In queste opere vengono date delle imprese di Tonti versioni discordanti su diversi punti, anche se la sostanza rimane poi quella. La mia non sfugge alla regola. In assenza di un vero e proprio diario redatto dal protagonista le notizie sulla sua vita devono essere desunte infatti da poche lettere e dall’incrocio delle testimonianze di alcuni commilitoni, alcuni dei quali, come padre Hennepin, tutt’altro che attendibili.
Una biografia sufficientemente plausibile ed esauriente si trova comunque nel DICTIONARY OF CANADIAN BIOGRAPHY, VOL II (1701–1740) (edizione online). – UNIVERSITY OF TORONTO PRESS (esiste anche in versione francese, come “DICTIONNAIRE BIOGRAPHIQUE DU CANADA”)

 

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