di Vittorio Righini, 30 ottobre 2023
Stavo leggendo un interessante contributo scritto da Fabrizio sui Viandanti, Con-versare e Con-dividere, che alla fine cita sei righe di una bellissima poesia di Wislawa Szymborska. Non la conoscevo, si riferisce a un quadro del Vermeer, intitolato ‘‘La Lattaia’’, e dice:
Finché quella donna del Rijksmuseum
nel silenzio dipinto e in raccoglimento,
giorno dopo giorno versa il latte
dalla brocca nella scodella,
il Mondo non merita
la fine del mondo.
Mi è tornato alla mente Brian Eno, che sono andato a onorare a Venezia alla Fenice per il suo concerto del 21 ottobre 2023, e che il giorno dopo è stato premiato alla Biennale col Leone d’Oro alla carriera. Lo seguo musicalmente dalla metà degli anni settanta, è un uomo intelligente, corretto e umile, che rifiuta il titolo di genio e pure quello di musicista, ma accetta quello di manipolatore di suoni. In una bella intervista ha dichiarato (restringo la sintesi) che a dispetto di tutte le storture e di tutti gli orrori che contraddistinguono i nostri tempi riesce ancora a vedere un po’ di luce e di speranza in alcune cose, nell’arte ad esempio (pittura, poesia, etc.). Un po’ come Szymborska, se me la passate. E da queste due letture ho maturato che la poesia, come la pittura, riesce effettivamente a fare un po’ di luce in questi tempi bui, e ho pensato che era giunta l’ora, anche per uno come me, di leggere poesie.
Tutte le volte che la sera prima di partire per un viaggio riempio la borsa (sempre piccola, morbida, esente da tentativi di estorsione ai gates delle compagnie di bandiera low cost, Easy Jet su tutte) mi pongo il problema di cosa portare da leggere. Ci vogliono sempre due libri: sbagli il primo, ti appoggi al secondo e cerchi di farlo durare il più a lungo possibile. L’altro giorno leggevo un’intervista a Sylvain Tesson. Alla domanda: In viaggio la lettura ha un ruolo importante? rispondeva: Per me, solo se nella forma della poesia. Quando devi portare ciò che ti serve sulla schiena, fino a dieci chili, ogni grammo è decisivo e i romanzi sono proibiti. Ma la poesia è lettura necessaria perché inesauribile: può essere riletta all’infinito. È sufficiente una piccola antologia, leggerissima, per nutrirci profondamente.
Da questa risposta, e in base a quanto ho scritto all’inizio, ho cercato di trarre un’utile insegnamento: dei due libri consentiti uno sarà di poesia (dico due e non uno perché non arrampico in montagna, non porto 10 kg. sulla schiena a 5000 mt., nell’alta valle del Mekong o in Tibet alla ricerca del Leopardo delle Nevi, al contrario vago su un’utilitaria o una moto a noleggio per le strade meno note della Grecia continentale o di qualche isola nel Mediterraneo, o nel sud Italia con la suddetta borsa – quella anti-Easy Jet – Quindi due libri me li posso permettere comodamente).
Il problema è che di poesia proprio non mi intendo. E quindi non so se poi rileggerò più volte la stessa poesia, dipende da cosa ne ricaverò, da come mi sentirò in quel momento, da come mi funzionerà la mente (meglio se obnubilata da un po’ di retsina e di raki o, se fuori dalla Grecia, da altra bevanda alcolica), da come sarà l’umore, e se il carattere quel giorno tenderà al riflessivo o all’aggressivo. Bisognerebbe provare, ma fare le prove a casa non vale, ci vogliono tre giorni in un posto tranquillo per misurarsi al debutto con la poesia. Almeno, mi sono fatto questa idea.

Come posso leggere in casa la poesia, se poi mia moglie mi dice di chiamare il muratore, comprare i coppi che si sono rotti, e rifornire la casa di pellets, che lei lavora e giustamente non ha il tempo per farlo mentre io faccio il pensionato e mi gratto etc. etc.? Non posso mica darle torto, ma non mi metto nemmeno a leggere poesie se ho mia moglie vicino; leggo un noir, al massimo dieci pagine di Thesiger o di qualche altro viaggiatore, e sono certo che qualcuno di voi, sposato, mi capirà.
Da questo sofistico ragionamento nasce però una cosa buona: devo trovare un posto, da qui al grande freddo, in cui filarmela tre giorni, e data la stagione la soluzione è sempre a sud, a sud del nord intendo, cioè della pianura padana, che è l’estremo nord per me. Le isole sono un rischio per il vento sempre in agguato (avete fatto caso che quando guardiamo il meteo sul web controlliamo se c’è il sole, un’occhiata alla temperatura, ma mai al vento? sono arrivato una volta alle Azzorre con l’aereo che ha abortito due volte l’atterraggio, e abbiamo perso tutti – i passeggeri intendo – un anno di vita in quei minuti).
Le città sono caotiche ancor più che al nord, le zone dell’entroterra anche al sud sono fredde, insomma ci vuole un minuscolo borgo di pescatori dove, se hai la fortuna del tempo mite, anche in inverno riesci a sederti su una panchina fronte mare senza congelare, niente famigliole di bagnanti che ti disturbano, solo con te stesso e il tuo libro di poesie.
Una volta pagai 12 euro un’andata e ritorno a Trapani con Ryan Air; 53 euro Chania, Creta; 77 euro Pantelleria. Oggi sono solo bei ricordi, i prezzi dei voli sono lievitati (che brutto termine, mi fa pensare al pane, non ai soldi, e non posso nemmeno usare “levitati”, sebbene parliamo di aerei in volo, quindi mi rifugio su un comune “aumentati”) come molte altre cose, si può sperare di trovare a prezzo solo se si provvede tre mesi prima, e non fa al caso mio. Se decido di portarmi via tre giorni, lo faccio tre giorni prima, ma in questo modo i costi restringono di gran lunga la scelta della località. D’altronde, la ricerca della località è di gran lunga la parte migliore del viaggio, quindi non voglio lamentarmi troppo e soprattutto non esulare dal contesto di queste poche righe, tornando alla poesia.
Non ho libri di poesia, pochissimi, alcuni mai letti. Sono di una ignoranza abissale in merito. Per colmare la lacuna e cominciare un nuovo percorso, ho comprato a quattro soldi Quarantasette poesie facili e una difficile, di Vladimir Chlebnikov, invogliato nella scelta dal fatto che il libro è curato da quel simpaticone di Paolo Nori, grande amico di tutta la letteratura russa e, pur con un italiano tutto suo, abile istruttore di “volo letterario” russo.
Come libro di scorta ho preparato Viaggio in Cina e Giappone, di Nikos Kazantzakis, uscito da poco presso la stimatissima Crocetti editore.
Ora non mi resta che trovare a) una data utile b) un volo/treno economico c) una pensioncina accogliente. Quando partirò ve lo dirò; anzi, ve lo dirò quando torno, come è andata con le poesie.







I Viandanti delle Nebbie sono da sempre consapevoli della prevalenza del cretino, tanto da auspicare emendanti spedizioni di massa alla chiesa francese che ospita il sarcofago di San Menulfo, antico miglioratore delle sinapsi di chiunque introduca il capo nel suo apposito orifizio (rimando all’articolo “
In Kafka e in Svevo è presente una scena molto simile: due padri trattano con violenza il figlio un istante prima di morire. Ne “La condanna” di Kafka le ultime parole del padre al figlio sono: “Ti condanno ad essere affogato!”. Ne “La coscienza di Zeno”, con un ultimo sforzo papà Cosini schiaffeggia il figlio. È interessante osservare il modo diverso in cui questo estremo momento di violenta verità viene descritto dai due autori, perché questa differenza mi sembra rivelatrice di due sensibilità antitetiche, in eterna lotta tra loro. In Kafka il padre è “un gigante”, una “figura terribile” che condanna il figlio in modo ineluttabile. La sua sentenza, immotivata e assurda, trova infatti immediata attuazione, poiché il figlio si immola gettandosi nel fiume, gridando per l’ultima volta il suo amore verso i genitori. In Svevo lo schiaffo estremo del padre è invece attribuito da Zeno ad uno scherzo della forza di gravità piuttosto che a una chiara volontà (“alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso”). Zeno sopravvive alla sentenza del padre (nel suo diario ricorda l’evento assieme all’ennesima ultima sigaretta). Fa subito pace con il ricordo del genitore, si sposa, ha un amante, dei figli, diventa un ricco commerciante e infine il vecchio patriarca della famiglia. Sempre con l’eterna ultima sigaretta in bocca, sempre con la coscienza dell’incurabilità della sua malattia. Sempre con quello sguardo ironico su di sé e sul mondo che gli ha consentito di non prendere mai nulla troppo sul serio e di surfare sulle onde della vita anziché prenderle di petto (perché si rischiare di affogare). K. oppure Zeno, il sentimento tragico o quello ironico dell’esistenza? Ha ragione il vecchio Fichte: se si parla di filosofie la scelta dipende sempre dagli uomini e dalle donne che siamo.
Un mio amico, musicista dilettante, superati i 60 anni si è licenziato, si è sposato con entusiasmo, e ora pubblica regolarmente su YouTube fragili e delicate canzoni d’amore di sua recente composizione. Anche Stefano Bollani, il pianista dio della musica, non nasconde alle telecamere la sua felicità personale mentre canta canzoni d’amore con la sua mogliettina, la quale ricambia adorante. In entrambi i casi non sono mancati da parte degli osservatori (virtuali e reali) dileggi e sarcasmi su quelle che a molti sono sembrate ostentazioni gratuite (forse strumentali?) di sentimenti personali che è buon gusto lasciare confinati alla sfera del privato. E se invece si trattasse di casi autentici di amori felici? Ne parla la Szymborska e quindi non servono altre parole: “

Dunque: io nella natura ci sono nato, l’ho goduta e l’ho sofferta, e da quando avevo dieci anni ho anche lottato per addomesticarla, e mi sento raccontare da uno che non distinguerebbe un salice da un palo del telefono come devo approcciarla, e quanto sono felici coloro che hanno lasciato il posto da dirigente ministeriale o d’azienda per allevare pecore o coltivare zafferano. Sono cresciuto in una famiglia che non poteva permettersi la spesa di un gelato o di una gassosa, e devo sentirmi spiegare cos’è il proletariato e come si fa la lotta di classe da figli di papà stressati dal successo o dai soldi. O ascoltare gente che, a gettone, vuole convincermi di quanto sia importante superare l’attuale logica del profitto e opporsi alla mercificazione della cultura. Ne ho davvero sin sopra i capelli. Non ce l’ho con Cederna in particolare, è solo uno dei tanti che ultimamente percorrono le ville e i contadi, i festival filosofico-letterari e quelli scientifici, per dispensare anche ai poveri di spirito pillole del loro sapere. Non sopporto più questi marchettari ipocriti, ma non avendo né il tempo né la voglia di arrabbiarmi faccio l’unica cosa sensata che mi resti: li evito.