Parce sepulto

di Carlo Prosperi, 16 giugno 2023

Sono infastidito, se non nauseato, da tutto il can can mediatico seguito alla dipartita di Silvio Berlusconi, all’insegna ora del “servo encomio” ora del “codardo oltraggio”. Con rare eccezioni. Tutto eccessivo. Resto del parere che il personaggio, per cui non ho mai nutrito particolare simpatia, resti nel bene e nel male il simbolo dell’imprenditore ganassa, spaccone ed esibizionista, geniale ma incurante spesso delle leggi e della morale, dotato di un ego straripante, talora ipertrofico, in grado di sedurre, blandire, corrompere. Da perfetto imbonitore, da istrione di razza, all’italiana. Non è un caso che abbia contribuito a rafforzare agli occhi degli osservatori stranieri i più classici e triti stereotipi dell’italiano: gli stessi da lui interpretati per conquistare il consenso, l’ammirazione e l’approvazione della gente comune, in particolare dell’italiano medio e di quanti, con le sue televisioni, ha trasformato da spettatori in consumatori. A beneficio soprattutto delle piccole e medie aziende, dei pubblicitari.

Parce sepulto 02Invece di preoccuparsi di elevare il livello morale e culturale dei suoi compatrioti, ne ha solleticato i bassi appetiti, le voglie insane, il mal costume, a scapito del buon gusto, della serietà, dell’impegno coscienzioso, della buona creanza. Finendo paradossalmente per prestare il fianco alla satira più scomposta e ridanciana, diciamo pure volgare, fino a divenire lui stesso il bersaglio privilegiato di comici e vignettisti senz’arte né parte che, grazie a lui, dall’oggi al domani hanno trovato modo non solo di campare, bensì di prosperare. Magari dileggiandolo, calunniandolo, nutrendosi di quella stessa volgarità cui aveva dato la stura, ovvero la possibilità di esprimersi, di salire alla ribalta, di trionfare. Alla faccia dell’arte vera, della vera cultura. Sì, perché lo spettacolo, spesso peraltro di modesta qualità, ha finito per surclassare la cultura, la riflessione pacata ha ceduto il posto al dibattito estemporaneo, il confronto civile e ponderato all’alterco e alla rissa tra sedicenti esperti, quando non alla chiacchiera, al pettegolezzo, al lazzo e al frizzo, all’insulto, alle scurrilità, a chi la dice più grossa. L’intrattenimento da bar, da salotto, da baraccone o da night-club ha tolto spazio all’educazione, ha distolto dall’approfondimento, dall’esame accurato delle questioni problematiche.

Parce sepulto 03È così mancata ogni stimolazione del pensiero critico ben vagliato e ponderato. Si è data l’impressione che l’opinione dello sprovveduto fosse equiparabile a quella dello studioso. Che l’arguzia, la battuta di spirito e finanche l’improntitudine valessero più del ritegno e del contegno, più dell’argomentazione rigorosa. Con riflessi devastanti sull’editoria, dove libelli e pamphlets hanno preso il posto dei grandi saggi, dove la brevitas e la levitas hanno scalzato la gravitas, e la superficialità è ormai sinonimo di brillantezza. Le stalle di Augia da allora hanno infestato e ammorbato l’aria del nostro Paese. Nani e ballerine, strimpellatori e cantanti da strapazzo, mimi e giullari, hanno così finito per diventare maîtres à penser. La sbracatura, il chiasso, la trivialità più becera sono assurti a costume, a moderni e quotidiani panem et c ircenses. Oppio per istupidire le masse.

È probabile che questa metamorfosi in peggio dell’Italia, da altri scambiata per modernizzazione, sarebbe comunque avvenuta: lui l’avrebbe solo intuita e anticipata. Non anche affrettata? Come si fa a dire: “Non ha cambiato la società con la televisione commerciale. Ha capito che il costume era cambiato e ha offerto un modo di fare televisione nuovo, eppure al passo coi tempi”? Poi è vero e non sorprende che il suo operato, soprattutto politico, non vada a genio “ai sinistri, per cui l’umanità non può essere come è. Dev’essere com’è giusto che sia, cioè come dicono loro. Le devianze, se ricorrono, sono per forza riconducibili a un fattore esogeno. L’idea si aggancia a quell’atavica e istintiva spinta a scaricare sul grande uomo, chiunque esso sia, ciò che siamo; a quella cultura popolare che rifugge dalle responsabilità” [PIER LUIGI DEL VISCOVO, Ha offerto una tv diversa a una società nuova, “il Giornale” del 14 giugno 2023]. Ma dov’era, allora, la responsabilità dei dirigenti del servizio pubblico che non tardarono ad assecondare il modello popolare e commerciale della tv privata? Berlusconi, dal canto suo, ha profittato di questo generale scanso di responsabilità, laddove nulla o ben poco ha fatto per raddrizzare il “legno storto” dell’umanità; anzi su quella innata “stortura” ha fatto leva per il proprio successo imprenditoriale. Col risultato di suscitare invidia, odio, rancore in chi si è visto strappare la platea abituale. Di qui l’accanimento giudiziario, i processi, le sentenze: accanimento che, alla luce del marcio imperante nella magistratura, nessuno dovrebbe più negare. L’homo novus di successo suscita sempre il sospetto e l’avversione dell’establishment. Il cane straniero in transito scatena la canea di quanti del canile si sentono i legittimi padroni.

Parce sepulto 04Berlusconi, per di più, era stato avvisato (cfr. la testimonianza di Fabrizio Cicchitto nell’intervista rilasciata a Massimo Malpica per “il Giornale” cit.): non gli bastò vincere, volle stravincere. Nella sua smodata intemperanza si credeva inattaccabile, al di là o al di sopra di ogni sospetto. Fors’anche al di là del bene e del male. Di qui la gogna mediatica e la vergogna del “bunga bunga”, frutto di un radicato trimalcionismo che lo induceva a circondarsi di sodali e cortigiani plaudenti con cui condividere il proprio libertinaggio. Dietro cui s’intravede la sindrome del dongiovanni, la volontà di esorcizzare la vecchiaia e la morte, gl’immancabili convitati di pietra, indossando la maschera, sempre più grottesca, di un giovanilismo a oltranza. O ridendoci su, tra una battuta e l’altra, in una disperata illusione di immortalità.

Per il resto, è indubbio che abbia fatto delle cose buone – per il mercato del lavoro, per la pace, per lo sport, per la semplificazione della politica col bipolarismo, per lo sdoganamento della destra ovvero, a detta di Tomaso Montanari (che evidentemente ha qualche problema con la storia), “dei fascisti al governo”, ecc. – e che gli avversari politici, negandole, insistano invece sul conflitto d’interessi, che loro peraltro si sono ben guardati dal cancellare, sulle leggi ad personam, che pure ci furono; nondimeno è altrettanto vero che l’unica legge ad personam letale fu quella che segnò la momentanea decadenza politica del “caimano”.

Si dice che l’attuale governo Meloni sia l’esito della sua lungimiranza: in realtà Berlusconi non apprezzava affatto la Meloni, come ha dimostrato scarabocchiando in Senato una serie di malevoli giudizi su di lei sùbito inquadrati dalle cineprese in agguato, ed apprezzava ancor meno di essere il terzo della compagnia al governo. Credeva e voleva essere l’ago della bilancia, il sale dell’alleanza. Fino al ridicolo. La vittoria della Meloni ha in realtà segnato la sconfitta del signore di Arcore. Che non era né un angelo né un diavolo, bensì un uomo con le sue qualità e i suoi difetti. Come tutti, se pur dotato di talenti superiori alla media, peraltro non sempre impiegati nel migliore dei modi.

Parce sepulto 06Ma il mio giudizio non pretende di essere insindacabile, né mi azzardo a considerare le più gravi accuse di collusione o di collaborazione con la Mafia sulle quali nemmeno l’occhiuta magistratura è riuscita a far piena luce. Personalmente, ritengo il concorso esterno in associazione mafiosa, fattispecie assente dai codici penali, un’aberrazione giuridica, frutto di quella creatività dei magistrati che mina la certezza del diritto. Non meno della retroattività della pena. E forse ha ragione Rosy Bindi a dire che “il berlusconismo va elaborato”, evitando santificazioni o demonizzazioni intempestive. Nel frattempo, però, del lutto nazionale e delle bandiere a mezz’asta, nonché dell’inqualificabile scialo televisivo avrei fatto volentieri a meno. Con tutto ciò, parce sepulto.

Parce sepulto 07

Commento di Paolo Repetto

Carissimo Carlo, ho letto il tuo pezzo e l’ho immediatamente girato a Fabrizio per la pubblicazione, corredandolo di qualche immagine (allego il risultato). Speravo vivamente che qualcuno dei Viandanti scrivesse un commento serio e pacato, non essendo io stesso nelle condizioni di spirito per farlo. Sono d’accordo su quasi tutto, ma ho qualche dubbio sulla genialità imprenditoriale. In fondo il nostro non è partito affatto dal nulla, ma dai soldi della prima moglie: forse rientra nelle abilità del self made men anche il trovare una consorte danarosa, perlomeno la prima della serie, ma non penso gli si possa ascrivere come una virtù. Anche se va concesso che i più si limitano a dilapidare il patrimonio della coniuge. Comunque, sul personaggio avrei avuto poco da dire, ha già detto tutto lui quel che serviva ad inquadrarlo: è piuttosto il contorno ad avermi schifato, la canea mediatica spudorata che si è scatenata, quasi che la morte, e il rispetto ad essa dovuto, abbia finalmente consentito di dare la stura a tutta una serie di piccole e meschine rivincite e rivendicazioni personali che pesavano da un pezzo sullo stomaco ad un sacco di gente. Non è stata tanto la beatificazione di un personaggio equivoco, quanto l’occasione per tutti i suoi clientes di emanciparsi, di immaginarsi veri e semoventi anche senza Mangiafuoco a tirare i fili. Credo balleranno una sola estate, ma lo spettacolo è stato comunque penoso.
Dall’altra parte, naturalmente, la sinistra si è istradata sulla solita geremiade del ritorno del fascismo. Nessuno sembra capire che il fascismo non c’entra nulla, se non nelle nostalgie antiquarie dei vari La Russa, e che il regime che va prefigurandosi (succedendo a quello instaurato, almeno sul piano culturale, settant’anni fa dalla “sinistra” – da quella irreggimentata come da quella “autonoma”), è qualcosa di completamente nuovo. È il peggiore dei regimi, che prescinde da ogni “lateralizzazione” ed è stato ormai già interiorizzato dalla maggioranza, per cui ogni opposizione non può più essere politica, ma deve trincerarsi sull’etica. Ovvero, è affidata singolarmente a ciascuno di noi, alla resistenza e all’esemplarità dei singoli: e la resistenza può essere opposta individualmente nei modi più svariati.
Per quanto mi concerne, mi rifugio al momento in cose piccolissime, che possono sembrare – ed effettivamente sono – estremamente futili. Ad esempio, sto buttando giù una mini-biografia di Sven Hedin, l’esploratore svedese, cancellato dai libri della memoria per le sue frequentazioni naziste. Sino a ieri in Italia trovavi tradotto uno solo dei suoi libri (ne ha scritto una cinquantina), e non erano state ripubblicate neppure le vecchie edizioni della Treves. Da quest’anno si trovano anche una sua seconda opera e una biografia (che non ho letto intenzionalmente, perché temo fortemente orientata). Bene, Hedin nutriva simpatie – ricambiate con gli interessi – per Hitler, lo conosceva personalmente, ma era in parte ebreo e rivendicava orgogliosamente questa appartenenza. Un libro nel quale compare questa rivendicazione, nel 1938, in Germania non venne pubblicato (ed Hedin era famosissimo e stimato proprio in Germania). Dopo la guerra non fu inquisito né condannato, non c’era materia per farlo, ma venne ostracizzato e morì nel ’52 dimenticato volutamente e ipocritamente dall’establishment culturale, sia in patria che fuori. Credo che il suo mancato recupero attuale, in un’epoca che rivaluta e riabilita qualsiasi scamorza, sia dovuto alla cancel culture, in quanto gli si addebita di aver saccheggiato, assieme ad altri, tesori artistici e letterari rinvenuti nel corso delle sue spedizioni nell’Asia Centrale. Da notare che quelli non saccheggiati sono andati poi perduti, per la violenza iconoclasta mussulmana, per quella semplicemente idiota delle guardie rosse cinesi o per l’ignoranza delle popolazioni locali. Ebbene, in Italia abbiamo avuto il caso di Ardito Desio, per citarne uno, strettamente colluso col fascismo, intimo di Italo Balbo, responsabile della totale fascistizzazione del CAI, che nel dopoguerra non è stato minimamente sfiorato dalle epurazioni ed anzi, si è visto affidare la conduzione della spedizione al K2, condotta con metodi a dir poco mafiosi e raccontata poi ufficialmente per quarant’anni con un mare di menzogne a danno del povero Bonatti. Desio è morto a 104 anni (confermando la mia teoria che la cattiveria e l’egoismo sono un elisir di lunga vita) e in un documentario passato in televisione un paio di mesi fa era presentato come un padre della patria e un pilastro della cultura. Non è l’unico caso, è solo il primo che mi è venuto in mente: per altri la collusione con lo stalinismo (anche attiva, operativa, come nel caso di Longo, Togliatti e co. in Spagna e altrove) non ha mai costituito una macchia sulla fedina umana e politica.
Allora: questo io chiamo regime, la negazione o la rimozione sfacciata della verità, e la sua riduzione a barzelletta quando è scomoda (vedi il caso Moretti). Per questo considero Montanari alla stregua di Borgonovo e di Capezzone: una volta si sarebbe detto ottenebrati dall’ideologia, ma in casi come questi si può solo parlare di malafede, come intelligentemente scriveva Chiaromonte. Io che sono molto grezzo la chiamo stronzaggine congenita, e questa non conosce distinzioni di destra o di sinistra.

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Commento di Marcello Furiani

1. Condivido sostanzialmente lo scritto di Carlo, con piccoli distinguo. Della genialità imprenditoriale di Berlusconi ha già detto Paolo, alle cui parole aggiungerei il mai chiarito il legame torbido con la mafia, l’oscura origine dei soldi con cui ha iniziato (vedi Banca Rasini, ovvero la Banca che riciclava denaro sporco per conto del Vaticano, della mafia e della massoneria deviata): vicende delle quali non ha qui senso scrivere. Ricordo solo che Berlusconi fu quello delle leggi ad personam, della compravendita di senatori, della corruzione e della normalizzazione dell’evasione fiscale, dei rapporti con la P2 e con la mafia, delle frodi fiscali, degli attacchi alla magistratura e delle olgettine, ecc. Ricordo inoltre che senza il potere politico, che gli ha consentito di cambiare i codici a suo vantaggio, Berlusconi sarebbe stato ripetutamente condannato.

2. Berlusconi e il fascismo. La Russa e compagnia avranno anche delle “nostalgie antiquarie”, ma quando fu eletto Presidente del Senato mi venne in mente un passo de “Le memorie di Adriano”: “Sapevo che il bene e il male sono una questione d’abitudine, che il temporaneo si prolunga, che le cose esterne penetrano all’interno, e che la maschera, a lungo andare, diventa il volto”. Voglio dire che ciò che Berlusconi ha sdoganato a destra è diventato “normale”, è stato lentamente assorbito, soprattutto a livello inconscio, al punto da non sollevare più alcuna indignazione. Detto questo, l’Italia di Berlusconi non è il fascismo. Il fascismo è stato essenzialmente violenza, è stato conquista violenta del potere, in esplicita eversione delle leggi, trovando terreno fertile nella complicità di settori cruciali dello Stato, e nell’acquiescenza di tutti gli altri. Ma Silvio Berlusconi ha traghettato la destra postfascista nelle stanze del potere – una destra che non è più fascista ma che non è disposta a dirsi antifascista – facendo diventare mainstream parole d’ordine e idee prima marginali nel dibattito pubblico, tra cui la diminutio delle colpe del fascismo nella promulgazione delle leggi razziali, e la persecuzione degli ebrei come macchia su un regime che tutto sommato aveva fatto bene fino a quel momento.

3. Durante i suoi Governi Berlusconi propose leggi che misero le basi per la manomissione dei diritti sociali e economici di questo paese. Governò il paese come si amministra una impresa, pensandosi come il padrone, svilendo il ruolo delle opposizioni e inventando il pericolo comunista. Legittimò la cultura politica del privilegio e dell’interesse personale, al quale tutto può essere piegato, persino le istituzioni. Chi pensa che il berlusconismo sia una moda destinata a scomparire col tempo e con il suo leader non si è reso conto del complesso sistema di potere che ha eroso tutti i sostegni delle istituzioni democratiche. Il berlusconismo è penetrato nel tessuto della politica e non solo, lo ha plasmato, diventando carne, sangue, pensieri, pregiudizi, stereotipi, disvalori.

4. Ha ragione Paolo: “ogni opposizione non può più essere politica, ma deve trincerarsi sull’etica”. Il berlusconismo ha corrotto la coscienza morale, incarna la sconfitta del primato dell’etica e sancisce il primato del successo a ogni costo, incurante di ogni scrupolo e di ogni merito. È la morte di Dio, e il pensiero senza Dio che ne scaturisce porta alla luce una volontà di potenza che null’altro vuole che se stessa. Il concetto di Dio ha rappresentato fino a un certo punto “l’emozione vitale” che trascende l’Io, il potere, il piacere, qualsiasi attribuzione venga operata nei suoi confronti. Il berlusconismo riproduce la disfatta di questa tensione morale, dove il denaro è l’unico generatore simbolico di valore, perché per il berlusconismo tutto si compra, poiché tutto è in vendita, tutti hanno un prezzo: una religione neopagana che ha azzerato il livello di indignazione etica e ha tumulato il valore della cultura svilendo tutto a seduzione, adescamento, corruzione.

P.S. Su Tomaso Montanari si possono avere opinioni differenti, ma mi risulta sia stato l’unico a disobbedire e rifiutarsi di abbassare a mezz’asta le bandiere.

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Commento “Ancora caldo” di Nicola Parodi

Caro Carlo, ho letto le tue considerazioni sulla scomparsa di Silvio Berlusconi. Se fossimo su una panchina del viale della stazione a confrontare le nostre opinioni in proposito ti direi che i primi tre capoversi del tuo Parce sepulto li sottoscrivo, ma già al quarto la sintonia entra in crisi. Da premesse condivise non arriviamo a valutazioni condivise.

Siamo in sintonia nel riconoscere i guasti che possono produrre i cattivi maestri, oggi identificabili soprattutto in coloro che tramite la TV (immagini e suoni sono molto più “invasivi” delle sole parole) solleticano le pulsioni più egoistiche, quelle che la chiesa definisce vizi capitali nelle intenzioni o peccati nella pratica. E anche sul fatto che esiste, indubbiamente, un pensiero “di sinistra” convinto di una “naturale bontà umana”, per il quale i comportamenti errati, i peccati, sarebbero frutto solo di questi “cattivi maestri”. C’è però anche un pensiero di sinistra che poggia su basi razionali, illuministiche, e non si avvale delle categorie religiose di “peccato/male, virtù/bene”, ma ragiona in termini di “funziona/non funziona”[1]: che non è un criterio prettamente utilitaristico, è semplicemente il più naturale da adottarsi per mantenere in equilibrio le società umane. Questo significa che il giudizio su Berlusconi dovrebbe prescindere, almeno in prima istanza, dai nostri convincimenti morali o dai nostri modelli etici, ma basarsi sulla concretezza dei portati, positivi o negativi, delle sue azioni rispetto a questo equilibrio. E qui direi che dubbi non ce ne sono: Berlusconi ha trovato una società immatura e confusa, ci ha nuotato dentro come uno squalo nel Pacifico, pilotando i suoi circhi mediatici in abissi di bassezza, e ha lasciato una società becera e assuefatta al peggio. Non sarà tutta opera sua, ma ha dato senz’altro un contributo sostanziale.

Convengo anche sul fatto che nella società ideale che vorremmo la TV pubblica non avrebbe dovuto perseguire il modello populista e commerciale: ma è evidente che quando i criteri di “efficienza” sono parametrati non sull’equilibrio sociale ma sul liberismo sfrenato la scelta di fronte ai bivi è già scontata. C’è ancora dell’altro. Berlusconi, come tu ammetti, ha approfittato delle “storture” umane per farsi gli affari suoi. A mio parere ha fatto di peggio: si è proposto come modello con un detto/non detto il cui significato era: i miei e i vostri non sono vizi, ma virtù.

Ora, le nostre società sono regolate da una sorta di codice comportamentale, da regole di convivenza riconosciute e osservate da tutti: il trasgredirle comporta la perdita della buona reputazione e l’essere esclusi/espulsi dalla comunità. È assodato che i valori ai quali queste regole fanno riferimento, quelli che definiamo valori morali, si sono evoluti e fissati, diventando innati, e sono fondati primariamente sui principi di uguaglianza ed equità. Naturalmente nelle società composte da migliaia o addirittura miliardi di individui al codice comportamentale deve aggiungersi, senza contraddirne le radici innate, un sistema di leggi che vengono fatte osservare, quando la riprovazione sociale non è sufficiente, dallo Stato, al quale spetta l’uso monopolistico della forza. Per questo nelle democrazie moderne il potere giudiziario deve essere distinto dagli altri due. Per evitarne, nella misura del possibile, la manipolazione e l’abuso.

Qui volevo arrivare. In questo sistema la narrazione della persecuzione giudiziaria può essere letta si come convincimento della “bontà” dei propri comportamenti, ma anche come tentativo di conservare una reputazione di ottimo cittadino anche quando la realtà racconta altro. O di scombinare l’ordine dei valori, “legalizzando” quelli che in precedenza erano considerati comportamenti devianti. Può essere che un ego straripante sia necessario per realizzare grandi imprese, ma un grande ego significa anche grandi appetiti, cosa che confligge con i principi di equità e uguaglianza su cui si reggono le società. E i giudizi negativi non è detto siano dovuti sempre a invidia o odio o a rancore: sono strumenti necessari per preservare l’integrità di una società la cui crisi creerebbe a ciascuno di noi enormi problemi di sopravvivenza.

Per questo, per districarsi meglio fra i processi di Berlusconi, oltre che Il Giornale può servire leggere anche Il Fatto Quotidiano.

Spero insomma tu convenga che mettere in crisi un meccanismo che ha radici evolutive e permette di garantire la sopravvivenza delle istituzioni rientra tra i “peccati capitali”, se vogliamo prendere a prestito la terminologia della chiesa. E comunque ti assicuro che i vizi che in questo tipo di società hanno fatto di uno come lui un uomo di successo sono gli stessi che mi fanno pensare che non l’avrei mai voluto come vicino di destra nello schieramento della falange[2].

[1] Cfr: https://viandantidellenebbie.org/2020/11/28la-morale-e-le-favole/

[2] “L’oplita … fianco a fianco con i compagni di linea, cercando protezione per il lato scoperto sotto lo scudo del commilitone di destra.” Giovanni Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Ed. Il Mulino.

Commentari a “Le regole del gioco”

di Lorenzo Solida, 26 aprile 2020

L’articolo di Marco, che ho apprezzato moltissimo, sia nella sostanza che nella forma in cui è scritto, con una prospettiva fresca e accattivante, prende lo spunto dal tema del gioco; trovo che questo parallelo sia molto appropriato. Il gioco è, infatti, per i bambini, ma più in generale per tutti i cuccioli di mammifero, una delle attività fondamentali tramite la quale conoscere il mondo intorno a sé e simulare, in un ambiente protetto e gestibile, una grande varietà di situazioni; osservando le conseguenze dei propri comportamenti e le reazioni degli altri partecipanti il gioco aiuta a sviluppare le relazioni causa/effetto e, in parte, anche il senso di giusto/sbagliato.

La prima delle condizioni individuate da Marco (conoscere le regole) mi ha condotto ad una riflessione sull’origine e sulla conoscenza delle leggi che ho deciso di condividere con l’autore.

tutti conosciamo le regole di base di una convivenza civile, […] sappiamo che non bisogna uccidere, pagare le tasse e poche altre regole fondamentali

Questo insieme di norme condivise in modo quasi implicito dalla maggior parte delle persone è ciò che generazioni di filosofi hanno definito “legge morale”. Una delle migliori spiegazioni della legge morale che mi vengono in mente, semplice e incisiva, è quella descritta nello sceneggiato televisivo “Mi ricordo Anna Frank” del 2010: in una scena, ambientata in un campo di concentramento nazista, un professore ebreo spiega ad un soldato tedesco: “Ognuno di noi, nel profondo della sua anima, sa bene cosa è giusto e cosa è sbagliato. È come se tutti avessimo una bussola dentro, una bussola segreta che indica a ognuno di noi la stessa direzione: è questa la legge morale di cui tanto parlano i filosofi”.

Sebbene la legge morale possa includere o meno determinati princìpi a seconda della cultura della quale rappresenta l’espressione, e dunque possa variare con il trascorrere del tempo o spostandosi geograficamente, molti dei valori sono ricorrenti e universali; che si parli dei comandamenti biblici, del diritto romano o della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani alcuni precetti sembrano riproporsi con regolarità.

È interessante osservare che la legge morale non è necessariamente legata ad una connotazione religiosa, è una definizione più filosofica. La tematica è infatti trattata sia da uomini di fede, come sant’Agostino, che fanno discendere la legge morale da un principio di ispirazione divina, sia da laici, come Cicerone e Kant, la cui visione è legata ad una dottrina del diritto naturale o giusnaturalismo.

La legge morale, tuttavia, soddisfa completamente il bisogno di direttive necessarie a regolare tutti gli aspetti delle interazioni umane? È evidente che la risposta è negativa, la presenza di molteplici punti di vista, oltre che la varietà della attività umane e l’aumento di complessità dei modelli sociali con il progredire della storia dell’umanità non possono essere gestiti da una manciata di precetti su cui abbiamo raggiunto (forse) una visione concorde.

Ecco dunque che nasce l’esigenza di una qualche forma di regolamentazione, di una fonte comune del diritto a cui attingere: a seconda del modello sociale può essere un sovrano che di volta in volta dirima le controversie, un consiglio di saggi a cui sono riconosciuti pieni poteri o, in tempi più recenti, un insieme di regole a cui attribuire il valore di legge.

Il patto sociale su cui si fondano le società democratiche si esplicita in una dualità diritti/doveri nei confronti delle leggi: da una parte il cittadino è tenuto a rispettarle, dall’altra esse costituiscono un baluardo contro il libero arbitrio di chi esercita il potere, sono la garanzia di poter essere chiamati a rispondere delle proprie azioni solo nei casi e nei limiti da esse stabiliti.

In merito a questo, la Costituzione italiana, all’articolo 54, recita (in modo un po’ autoreferenziale): “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi” e dispone inoltre, all’articolo 25 “[…] Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.

Questa importante garanzia fornita al cittadino, nota come principio di legalità formale, è ripresa anche dal Codice Penale (ripresa inteso come gerarchia delle fonti, non cronologicamente, poiché il Codice Penale attualmente in vigore, seppur modificato in alcuni aspetti, è stato promulgato nel 1930, antecedentemente alla Costituzione), che all’art. 1 prevede che: “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”.

Il rispetto di una legge è, tuttavia, intrinsecamente legato alla sua conoscenza da parte del cittadino, che potrebbe, in buona o mala fede, addurre come scusante l’ignoranza dell’esistenza di una disposizione normativa; proprio per questo, fin dai tempi del diritto romano, è stato stabilito il principio “ignorantia legis non excusat”, la mancata conoscenza della legge non discolpa. Questo celebre brocardo latino è esplicitamente ripreso nel Codice Penale italiano, che titola uno dei primi e fondamentali articoli, il 5°, “Ignoranza della legge penale”; ma è fisicamente possibile orientarsi nella babele di codici, norme, decreti? A riprova del fatto che il problema esista e che sia sentito non solo dalle persone comuni, ma anche dagli addetti ai lavori, è la presenza, all’interno del corpus giuridico, di norme in contrasto tra loro, magari a causa della mancata abrogazione di articoli di vecchia promulgazione e oramai dimenticati.

Guardiamo un po’ di numeri per renderci conto dell’ampiezza del fenomeno: a giugno 2018, secondo il sito giuridica.net, il numero di leggi in vigore si aggirava intorno alle 111 000, stima basata sui risultati del portale Normattiva gestito dall’Istituto Poligrafico dello Stato! Una cifra enorme, che tuttavia prende in considerazione solo gli atti pubblicati in Gazzetta Ufficiale, a cui si deve quindi aggiungere la corposa attività legiferativa delle regioni e le delibere comunali: il numero esatto è difficile da calcolare, ma alcune stime si aggirano tra le 150 000 e le 160 000 leggi in vigore.

La domanda appare scontata e un po’ demagogica: è davvero necessario un simile corpus normativo? Sembrerebbe di no, almeno a giudicare dal numero di leggi in vigore in Francia, circa 7000, o in Germania, circa 5000.

 

Per completare il quadro occorrerebbe anche domandarsi quanto le leggi, anche quando si sia a conoscenza della loro esistenza, siano scritte in modo comprensibile da persone non dotate di una specifica competenza giuridica; propongo un esempio, in cui mi sono imbattuto non molto tempo fa: non una norma attinente ad un settore molto specifico, magari una problematica molto tecnica di natura finanziaria, ma il semplice Codice della Strada.

Supponiamo di essere proprietari di una bicicletta (pardon, velocipede) e di voler sapere come comportarci quando cala il buio: la risposta, tramandata oralmente e conosciuta da tutti, è naturalmente di accendere le luci che devono essere obbligatoriamente presenti sul veicolo. Però, siccome siamo persone scrupolose, abbiamo il desiderio di controllare se non esistano altre azioni da intraprendere (ad esempio indossare un giubbotto riflettente, oppure se ci siano limitazioni alla circolazione in area extraurbana) e decidiamo di controllare. Dall’articolo 68, comma 1c, apprendiamo che la bicicletta deve essere munita “anteriormente di luci bianche o gialle, posteriormente di luci rosse e di catadiottri rossi; inoltre, sui pedali devono essere applicati catadiottri gialli ed analoghi dispositivi devono essere applicati sui lati”. Il comma 2, subito sotto, ci rimanda alle indicazioni d’uso dei dispositivi luminosi: “I dispositivi di segnalazione di cui alla lettera c) del comma 1 devono essere presenti e funzionanti nelle ore e nei casi previsti dall’art. 152, comma 1”. Diligentemente, individuiamo l’articolo indicato e troviamo scritto (mi si perdoni la lunghezza del testo riportato): “I veicoli a motore durante la marcia fuori dei centri abitati ed i ciclomotori, motocicli, tricicli e quadricicli, quali definiti rispettivamente dall’articolo 1, paragrafo 2, lettere a), b) e c), e paragrafo 3, lettera b), della direttiva 2002/24/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 marzo 2002, anche durante la marcia nei centri abitati, hanno l’obbligo di usare le luci di posizione, i proiettori anabbaglianti e, se prescritte, le luci della targa e le luci d’ingombro. Fuori dei casi indicati dall’articolo 153, comma 1, in luogo dei dispositivi di cui al periodo precedente possono essere utilizzate, se il veicolo ne è dotato, le luci di marcia diurna”.

Veicoli a motore? Ciclomotori, motocicli, tricicli e quadricicli, ma nessun cenno alle biciclette (ah già, velocipedi) e la situazione non migliora consultando la direttiva europea indicata. Dunque, se circoliamo con una bicicletta durante le ore notturne, magari su una strada non illuminata, dobbiamo essere muniti di impianto di illuminazione, ma possiamo tranquillamente tenerlo spento!

Quello che trovo interessante non è solo la mutua incompatibilità delle disposizioni riportate, ma la struttura stessa degli articoli, infarciti di riferimenti incrociati che ne complicano la leggibilità e che conducono, a volte, a vere e proprie cacce al tesoro all’interno di labirinti legislativi degni di Dedalo.

Il problema è, come al solito, di non facile soluzione: da una parte occorre semplificare il corpus giuridico, al fine di renderlo noto e comprensibile a tutti i cittadini; dall’altra, soprattutto negli ordinamenti di civil law (in cui, a differenza di quelli common law, è la codificazione delle disposizioni normative e non il precedente legale a costituire la fonte del diritto) è necessario prevedere la presenza di disposizioni che, almeno in via teorica, coprano tutti i possibili casi che si possono verificare. La semplificazione normativa è quindi una strada che è certamente necessario intraprendere (e non solo come promessa elettorale, ma con atti concreti!), ma con la dovuta sensibilità e preparazione, per non rischiare di ottenere un insieme di norme ancora più confusionario e sconnesso di quello attuale.

Solo così, con piena conoscenza e rispetto delle regole da parte di tutti, si potranno giocare con soddisfazione le “partite” che quel grande torneo che è la vita continuerà a proporci.

 

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Le regole del gioco

di Marco Moraschi, 19 aprile 2020

A quanti giochi sapete giocare? Giochi di carte, altri giochi da tavolo, giochi all’aperto, videogames, giochi di squadra, solitari. Sicuramente moltissimi e, se ve la cavate abbastanza bene, sapete anche che esistono alcune semplici regole, comuni a tutti i giochi, da rispettare:

  1. Tutti i giocatori devono conoscere le regole del gioco
  2. Tutti i giocatori devono rispettare le regole del gioco

Fine delle regole comuni. Perché il gioco funzioni è infatti necessario che tutti i giocatori ne conoscano le regole. Vi è mai capitato di “fare una mano” con le carte scoperte per insegnare a qualcuno come si gioca? O di accordarvi all’inizio della partita per sapere se gli altri giocatori usano il 3 o il 7 nella briscola? Bene, allora sapete cosa intendo. Se poi qualcuno bara, il gioco diventa molto meno divertente e probabilmente salta.

Inoltre sapete anche che in tutti i giochi alla fine qualcuno vince, mentre gli altri perdono, difficilmente vincono tutti. Il bello di questi giochi, però, è che esiste la possibilità di fare sempre partite nuove e quindi hanno tutti la possibilità di vincere e di giocare partite più fortunate e altre meno. Ora vorrei però segnalarvi un gioco al quale sto giocando da moltissimo tempo, diverso da tutti quelli di cui abbiamo parlato finora. Si chiama: società civile.

Anche in uno Stato, infatti, esistono delle regole specifiche e valgono sicuramente anche le due regole comuni a tutti i giochi di prima, ovvero:

  1. Tutti i cittadini devono conoscere le regole (leggi) dello Stato
  2. Tutti i cittadini devono rispettare le regole (leggi) dello Stato

Vivere “in società” con altri significa infatti darsi delle regole e rispettarle, per il bene di tutti, ovvero per fare in modo che, a differenza di tutti gli altri giochi, nel gioco dello Stato tutti possano vincere. La prima delle regole comuni è abbastanza rispettata: tutti conosciamo le regole di base di una convivenza civile all’interno dello Stato, magari non sappiamo bene cosa succede se non le rispettiamo, non conosciamo i commi o i codici del diritto, ma sappiamo che non bisogna uccidere, bisogna pagare le tasse e poche altre regole fondamentali. I problemi arrivano invece sulla seconda regola comune: non tutti infatti rispettano le leggi dello Stato. Ed è per questo che in tutti gli Stati esiste una magistratura, che vigila sul rispetto delle leggi e punisce i trasgressori. Con la nascita della magistratura a vigilare sul rispetto delle regole, ecco però che è nata una stortura nel gioco. Normalmente quando giochiamo a Monopoli, per esempio, sono gli altri giocatori che vigilano sul rispetto delle regole, e comunque noi tutti che giochiamo siamo coscienti che se decidessimo di imbrogliare toglieremmo tutto il divertimento del gioco a noi e ai nostri amici, perché la partita sarebbe truccata. In altre parole giocando con i nostri amici non imbrogliamo perché capiamo che è giusto così, non perché altrimenti i nostri amici se ne accorgono e ci facciamo una figuraccia. Ecco, nel gioco dello Stato purtroppo ci troviamo spesso davanti a questa situazione: rispettiamo le regole non perché siamo convinti della loro importanza o efficacia, ma perché altrimenti veniamo multati o processati. E ancora quando veniamo multati o processati, anziché prendercela con noi stessi che non abbiamo rispettato le regole, ci lamentiamo perché siamo stati beccati in fallo, che sarà mai per una volta, lo fanno tutti, perché non dovrei farlo anche io? La magistratura esiste quindi per fare in modo che la maggior parte dei cittadini non sia tentata di infrangere la legge e per punire i trasgressori, ma ovviamente non può vigilare costantemente su tutto e su tutti. Spetta quindi a noi rispettare le regole del gioco perché è giusto farlo, per i nostri amici e i nostri parenti, per tutti coloro che vivono in società con noi all’interno di questo gioco.

Bisogna pagare le tasse perché le tasse finanziano i servizi dello Stato (e non sono pochi) e sono fondamentali perché il gioco possa proseguire. Durante una pandemia non bisogna uscire di casa, non perché se mi fermano non so come giustificarmi, ma perché è giusto adottare un comportamento responsabile nel rispetto degli altri. Non bisogna rubare non perché altrimenti si va in prigione, ma perché in questo modo imbrogliamo e il gioco perderà tutto ciò che ha di bello. Eccetera.

Il bello del gioco dello Stato è poi che in ogni momento si possono cambiare le regole del gioco. Certo non possiamo cambiarle da soli e decidere, per esempio, che da oggi andiamo a lavorare nudi perché i vestiti sono una moda obsoleta, perché così facendo verremmo gentilmente accompagnati dai carabinieri in un ospedale psichiatrico. Ma pescando dalle carte della democrazia possiamo raccogliere firme, organizzare comizi e tavoli di discussione, portare una proposta in Parlamento e convincere gli altri che occorre cambiare una regola per rendere il gioco migliore e più divertente per tutti.

Vivere in uno Stato significa siglare un patto con chi “gioca” insieme a noi, aderire a delle regole comuni e decidere di rispettarle perché solo in questo modo il gioco dello Stato può funzionare. E voi avete mai giocato al gioco dello Stato?    

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