di Paolo Repetto, da uno spunto (o da una spinta) di Nicola Parodi, 10 febbraio 2024
Con una sentenza del 2022, della quale sono venuto a conoscenza solo recentemente, la Corte Costituzionale ha stabilito che anche nei comuni con meno di cinquemila abitanti va rispettato l’articolo 51 della Costituzione, quello che recita “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. In realtà la sentenza fa riferimento ad una modifica apportata poco più di vent’anni fa al comma 1 dello stesso articolo, con una aggiunta nella quale si dice che “A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. La pronuncia della Corte risponde nella fattispecie a un quesito relativo alla composizione delle liste elettorali, e precisa che quelle nelle quali non è presente un adeguato numero di canditati di entrambi i sessi vanno escluse dalla partecipazione. Perfetto. Anzi, no. Alla luce degli sviluppi intervenuti negli ultimi vent’anni mi chiedo se non sarebbe il caso di introdurre al più presto un’ulteriore modifica, che garantisca pari opportunità (e quindi una quota) anche a chi non si riconosce in un’identità di genere definita. E volendo essere davvero pignoli, sarebbe da intervenire anche sul testo originale dell’articolo 51, perché parla solo di cittadini “dell’uno e dell’altro sesso”.
Ogni volta che leggo di pronunciamenti del genere mi chiedo se sono finito su questo pianeta per sbaglio. O se gli alieni sono i pronuncianti. Proprio non mi ci raccapezzo. Qual è la logica che motiva un’interpretazione di questo tipo? Certo, non il buon senso. Mi sembra più che evidente che fissare a priori in base al sesso, all’etnia, alla religione o a qualsivoglia altro criterio analogo il numero dei membri di un insieme, si tratti di un’assemblea, di un parlamento, di un consiglio di amministrazione o di un coro, è il sistema garantito per non avere il “meglio” possibile. Qui non si tratta di individuare un campione per sondaggi, ma di assicurare a quell’insieme un minimo di efficienza, di competenza rispetto alla funzione che dovrebbe svolgere. Il problema semmai sarebbe rimuovere tutti gli ostacoli economici e culturali ad una partecipazione libera, creare per tutti le stesse opportunità. E invece no. Anziché abbattere davvero gli steccati se ne costruiscono altri.
Come al solito, anche in questo l’Italia viaggia a rimorchio. Abbiamo importato il sistema delle quote dagli Stati Uniti, dove esisteva un problema storico di disparità dei diritti della popolazione di colore, ma dove comunque quella soluzione si sta rivelando fallimentare. Molte università, ad esempio, stanno facendo marcia indietro, e non per un rigurgito di razzismo o di sessismo, ma semplicemente perché le quote funzionano male e creano situazioni clamorosamente ingiuste. Da noi il problema storico al quale ci si appella riguarda invece la discriminazione di genere – che indiscutibilmente esiste, come in tutto il resto del mondo –, e l’introduzione di quote rosa è parsa il modo più spiccio (in realtà quello meno impegnativo) per dare una spallata al maschilismo radicato nel nostro costume. Il risultato è però lo stesso. Oggi sono proprio le femministe più consapevoli a chiederne l’abolizione e a denunciarne l’effetto ancor più sottilmente discriminante.
Gli unici a non averlo capito sono evidentemente i nostri legislatori e i nostri censori giuridici. Il fatto è che esiste “un combinato disposto” di estensori di regole eletti essi stessi con strani criteri, di superguardiani dell’ortodossia del politicamente corretto, di raffinati esegeti dei sacri testi fondanti la nostra convivenza civile, nonché naturalmente di bellicosi difensori del principio della parità a prescindere, brandito come una bandiera dall’avanguardia culturale ma interpretato senza un pizzico di buon senso e di realismo. Sono l’espressione di una classe dirigente (e non mi riferisco solo a quella politica) che ha esperienza soprattutto di salotti (televisivi e non), e nel caso in questione non ha la minima idea di come si amministra un piccolo o piccolissimo comune della provincia italiana, dove può capitare (e in effetti capita, sono situazioni che conosco personalmente) che il sindaco o gli assessori e i consiglieri non disdegnino di salire su un trattore per spalare la neve o per spargere ghiaia su una strada di campagna, o di effettuare le riparazioni degli acquedotti in prima persona. Certo, non dovrebbe essere compito loro, ma nella realtà il braccino corto dello stato nei confronti delle amministrazioni periferiche, il contenimento delle spese e la difficoltà di reperire personale con un minimo di voglia e di competenza li obbliga anche a questo.

Con ciò sto forse insinuando che le donne non abbiano i requisiti per amministrare un piccolo comune, perché in genere non guidano i trattori o non sono esperte in idraulica? Sono un patetico rudere della fortezza patriarcale? Ma per favore, non buttiamola in caciara. So benissimo che all’occorrenza le donne sanno fare come e meglio degli uomini, e volendo rimanere sul piano delle incombenze straordinarie cui accennavo sopra so anche citare il caso della sindaca di Fanano, Elena Tosetti, divenuta famosa per una tavola di Beltrame che la ritraeva mentre spalava la neve (ma è comunque significativo che sia finita sulla copertina della Domenica del Corriere). Sto solo dicendo che dalle mie parti nessun paese rifiuta la partecipazione alle donne che vogliono contribuire al bene della comunità. Anzi, ce ne fossero. Il problema è semmai quello opposto, di convincerle a partecipare. Per vari motivi, che vanno senz’altro dalla storica abitudine alla separazione dei ruoli per le generazioni più addietro fino alla scarsa compatibilità con gli impegni lavorativi o familiari per quelle più recenti. In questo momento, ad esempio, nessuno dei sedici comuni del comprensorio dell’ovadese è a guida femminile (a livello nazionale lo è il dodici per cento), e non per un ritardo del processo di emancipazione, considerato che dieci anni fa qui le donne sindaco erano un terzo del totale, o per un rigurgito reazionario di maschilismo. Evidentemente questa reticenza esiste, è un dato di fatto che nulla ha a che vedere con la difesa aprioristica del “patriarcato” e molto invece con una giustificatissima disaffezione per la politica, per quella locale soprattutto. E comunque, a proposito di modello patriarcale, credo sarebbe bene chiarire una volta per tutte che, per quanto possa sembrare paradossale, nelle società contadine vigeva molto meno che in quelle borghesi e urbane (per il semplice motivo che in quella economia le donne avevano un ruolo nella produzione e nella gestione del reddito pari se non superiore a quello maschile). Basterebbe a dimostrarlo il fatto che le prime dieci donne sindaco in Italia furono elette nel 1946 tutte in piccoli comuni rurali.
Ora, qualche sospetto di come procedano realmente le cose ai giuristi del supremo organo della magistratura deve essere venuto, se si sono premurati di inserire nel pronunciamento questo rilievo: «La diversità di trattamento riservata ai comuni minori non sarebbe giustificata dalla presunta difficoltà (che a quanto pare non è così “presunta”, dal momento che si deve ribadire quanto segue) di individuare donne candidate in contesti abitativi di piccole dimensioni, considerato che non vi è un obbligo di candidare persone residenti nello stesso comune e che comunque eventuali difficoltà derivanti dalla “carenza demografica” prescindono dal genere dei candidati». Tradotto in linguaggio corrente significa che qualora non ci siano indigene disponibili ad impegnarsi, si potrà pregare qualche “cittadina” amica di candidarsi per rispettare la lettera della legge. Che, si badi bene, è quanto in effetti già sta accadendo: è più facile infatti trovare disponibilità tra coloro che nei paesi vanno a villeggiare o hanno la seconda casa, che non tra i residenti (e questo vale sia per i maschi che per le femmine). Penso che tra gli altri motivi ci sia il fatto che attraverso l’IMU sono proprio i primi a contribuire maggiormente alle casse comunali, e se hanno scelto di vivere il tempo libero in un certo luogo si considerano particolarmente impegnati a difenderne o a promuoverne le caratteristiche. Resta poi da vedere se sono le stesse che stanno a cuore ai residenti.
Insomma, ciò che la Corte dice in sostanza è: “Ragazzi, se riuscite a convincere o a costringere qualche esponente dell’altro sesso a candidarsi, bene; in caso contrario fatevene prestare qualcuna da fuori e non rompete l’anima”. Direi che tutto questo con le pari opportunità c’entra ben poco. Ha a che fare invece con la riduzione semplicistica dell’emancipazione femminile a pura questione di numeri, cosa che si presta benissimo all’ipocrisia liquidatoria del sistema. Gli stessi criteri potranno essere adottati domani imponendo quote etniche, professionali, moltiplicando i generi “discriminati”, ecc… Quello che manca, dietro le “pari opportunità” che riempiono benissimo la bocca, è la domanda fondamentale: per fare che? A meno che si vogliano considerare conquiste femminili fondamentali la pratica del calcio o del rugby. Perché in questo caso dovremmo chiedere alla Corte Costituzionale l’esclusione delle squadre che non rispettano le quote.

Ninetta Bartoli, il primo sindaco donna in Italia





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Quasi mezzo secolo fa, negli “anni formidabili” in cui la mia generazione giocava a cambiare il mondo senza accorgersi che il mondo era già cambiato da un pezzo, per conto suo e nella direzione opposta, io ero molto impegnato a verificare le possibilità di una rappresentazione terrena di quel sogno: ma avevo anche già imparato a prendermi intervalli di istruttiva ricreazione. Avevo ad esempio scoperto che per capire qualcosa della vita era più utile frequentare le aule dei tribunali (come spettatore, naturalmente) che quelle universitarie, e che il banco degli imputati era un’ottima cartina di tornasole per ogni laboratorio di chimica sociale. Seguivo, al palazzo di giustizia di Genova, nelle pause tra un esame e un’assemblea e quando il lavoro part-time me lo consentiva, le cause più clamorose o le vicende più bizzarre. Un giorno mi trovai ad assistere ad un processo che vedeva alla sbarra un magnaccia di mezza tacca, accusato di aver ucciso a coltellate la convivente nei bagni di un cinema. L’imputato ad un certo punto, dopo aver ammesso il fatto …