Archeologia del passato prossimo. Alberto Novaro, un fotografo dimenticato

di Fabrizio Rinaldi, 18 maggio 2024 – dall’Album “Archeologia del passato prossimo. Alberto Novaro, un fotografo dimenticato

Archeologia del passato prossimo Alberto Novaro, un fotografo dimenticato copertinaConoscendo la mia mania (perché tale ormai va considerata) per gli oggetti che raccontano storie e la mia passione per la fotografia, mesi fa un amico mi disse che doveva sgomberare una casa ereditata da una lontana zia e che avrei potuto trovarvi qualcosa di interessante. In particolare, il marito di questa lontana parente – morto decenni fa – fu pure un fotografo.

Al mio amico, quale parente più prossimo, toccava sobbarcarsi onori ed oneri dell’eredità, soprattutto questi ultimi, perché le quattro stanze non erano a Portofino ma in un paesino sperduto nella periferia di Torino. Il che significa che le grane superano di gran lunga gli utili.

1715226018601-3a0a1287-af9e-4308-b8ac-8d890143833b smallPassato un po’ di tempo, era ora venuto il momento di fare un salto in questa casa, prima di dare il via libera allo svuotatutto, per liberarla di una vita di accumulo e finalmente svenderla (perché questo è ciò che accade oggi).

(Una piccola parentesi personale. Non oso pensare al giorno in cui verrà a mancare mio padre. Ovviamente per la lacerazione affettiva, ma – non ultimo – per l’incombenza di dover liberare i tre garage, le due cantine e il capanno degli attrezzi nell’orto, dal momento che son poco interessato ai materiali che vi sono accantonati. Sono stipati all’inverosimile, una quantità tale di roba da colmare tutti i banchetti del mercatino dell’usato di Ovada.)

Eccoci qui, quindi – con famiglie al seguito –, a rovistare in casa d’altri per cercare un tesoro celato, qualsiasi esso sia. Perché è questo che si spera di trovare: l’oggetto che giustifichi il viaggio e la giornata, un ninnolo, un libro, un disco, un quadro che agli altri non dice nulla e che solo il cercatore scafato individua. Qualcosa che appaghi il desiderio di possesso e a cui ridare un nuovo ruolo, salvandolo dall’oblio o dalla distruzione.

Nella combriccola dei convenuti ci sono stati d’animo i più diversi: c’è chi non vede l’ora di disfarsi di quella roba stantia, punto e basta; chi vorrebbe portar via una dozzina di gonne in voga decenni fa; chi delle anfore e un tavolino da esterno, chi una elegante scrivania; c’è anche chi s’è già scocciata/o e vorrebbe andare a giocare a palla. È comprensibile che dei ragazzini pensino a far altro piuttosto che a ravanare fra cose impolverate e vecchie: non sono ancora posseduti dal germe del vintage. Purtroppo per le mie tasche, hanno quello del trendy …

Io, ovviamente, punto subito alla libreria. Mi trovo fra le mani l’opera completa di Cesare Pavese, in 15 volumi della Einaudi, con cofanetto (scoprirò poi – con una fitta al cuore – che manca La luna e i falò), alcuni volumi in una splendida edizione sempre Einaudi di storia del Novecento, una Storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia in quattro tomi, La Seconda Guerra Mondiale in sei volumi di Winston Churchill, diversi numeri rilegati di Conosci L’Italia del Touring Club Italiano, e persino biografie e libri fotografici dedicati ad Eros Ramazzotti (ho sentore che qui emerga qualche passione della moglie).

Nella camera da letto trovo invece un set con tinozza, pitale e specchio, utile per chi non aveva la “sala da bagno”; un paio di lampade da comodino anni ‘30; una radio degli anni ‘50 della Grundig; un enorme quadro astratto con campiture verdi, e nella parete di fronte un classico ritratto di famiglia, con Giuseppe falegname, Maria e pargolo al seguito (un abbinamento ardito).

Facendo un rapido calcolo volumetrico, capisco che nell’auto non potrà mai entrare tutto quel ben di dio. Medito anche di mollare moglie e figlie alla prima stazione ferroviaria, per poter abbassare i sedili e farci stare quanto più possibile, compreso uno splendido mappamondo da terra in legno (quello che si vede in molte raffigurazioni iconiche di esploratori intenti a progettare i loro viaggi). Ma niente, alla fine le ragioni familiari prevalgono e mi porto a casa le donne a scapito del mappamondo, di Churchill, del Risorgimento, del quadro e del set. Una ferita che porterò dentro per un bel po’.

Figure sulla balconata small

Fuori casa, attraversando un piccolo giardino, c’è finalmente il sancta sanctorum per il quale sono lì: lo studio (diventato da anni magazzino) del fotografo. Seminascoste in mezzo a vasi, cianfrusaglie e scatole di videocassette, trovo decine di cartelle zeppe di fotografie in bianco e nero, stampate su carta rigida e in grande formato.

Una veloce sbirciata mi dice subito che sono immagini di ottima qualità, risalenti agli anni ‘50-’60: ritratti di bambini e di anziani, di donne e di contadini, scorci di Francia, Spagna e Marocco, asini nei campi e musicisti in fiera: un’immersione in un tempo finito decine di anni fa.

Il fotografo si chiamava Alberto Novaro, classe 1922: era un disegnatore meccanico della FIAT con l’hobby della fotografia e cominciò ad esporre dai primi anni Cinquanta. Era iscritto al Gruppo Fotografi FIAT, un’associazione che riuniva gli appassionati del genere all’interno dell’azienda Agnelli, e nel 1958 venne insignito dell’onorificenza AFIAP, un titolo prestigioso conferito dall’International Federation of Photographic Art a coloro che si distinguevano per la qualità artistica a livello internazionale.

Montanaro della Val del Gesso (1) smallLe stampe recano sul retro il marchio dell’autore, quasi mai il titolo e la data, ma in molte ci sono i timbri di dove la foto venne esposta: Torino, Vincenza, addirittura Hong Kong. A volte I timbri riportano anche le date, ad esempio 1958 o 1963.

Non sono né un esperto, né e critico fotografico, ma posso azzardare alcune riflessioni. Dalle immagini emerge una grande versatilità nella produzione fotografica: i toni bianchi e neri presentano ampie sfumature di grigio, cui la digitalizzazione artigianale non rende pienamente giustizia. Ritraggono spesso scene di vita contadina e una povertà senza retorica; che si tratti del montanaro della Val del Gesso o del pastore marocchino, ciò che emerge è una parca timidezza nel gesto; sono figure dignitose nella loro autenticità.

Teresa smallLe giovani donne, alcune ritratte più volte nel corso della loro vita, sono di una bellezza ieratica: raramente sorridono. Sono composte, armoniose, non assumono artificiosi atteggiamenti seduttivi, la loro posa è del tutto naturale. Le mani, spesso sproporzionatamente grandi rispetto alla loro giovane età, rivelano la quotidiana fatica di un lavoro greve.

Numerose fotografie ritraggono bambini, forse commissionate dai loro genitori, o forse sono espressione di un desiderio mai realizzato. Mi piace pensare che Novaro cercasse in quegli sguardi un modo più genuino di osservare il mondo, quell’innocenza che, paradossalmente, ritrovo anche negli sguardi dei vecchi.

Virtù tentata small

Faccio ora un azzardo presuntuoso. Le modalità con cui sono state scoperte le fotografie di Alberto Novaro mi fanno venire in mente la vicenda di Vivian Maier, le cui fotografie furono scovate nel 2007 da John Maloof, un collezionista d’arte che ha avuto la capacità di comprendere il valore intrinseco di quegli scatti scovati ed è stato capace di farli conoscere al mondo.

1714927646995-b3ee1a39-87f2-4044-8f64-272ac8276e43 smallPosso trovare delle caratteristiche comuni: una vita vissuta nell’ombra, facendo altro (lei la bambinaia, lui il disegnatore), lontani dal bagliore dei riflettori, pur avendo avuto il secondo il piacere di vedere esposte alcune sue opere. Entrambi hanno catturato istanti di vita quotidiana con uno sguardo attento e sensibile, creando ritratti intimi di persone e luoghi comuni.

Il suo tipo small

Purtroppo è arrivata l’ora di andare, di lasciare lì ancora tanto materiale, anche se ho riempito l’auto all’inverosimile. Nello studio non ho trovato alcuna macchina fotografica, come neppure i negativi. Spero che prima o poi saltino fuori e che altri aprano ulteriori squarci sul velo d’oblio che è calato su Novaro.

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Collezione di licheni bottone

Arrivederci, maestro

di Paolo Repetto, 24 aprile 2020

Nei giorni scorsi è mancato, a settantaquattro anni, Mario Mantelli. La sua morte non ha nulla a che vedere con il coronavirus, ma le circostanze e le restrizioni attuali ci impediranno di rendergli l’ultimo saluto e di accompagnarlo, per l’ennesima volta, nella consueta passeggiata. Rimandiamo dunque a tempi meno calamitosi le manifestazioni più tangibili e sacrosante del nostro affetto. Per intanto, però, vogliamo cominciare da subito a ricordarlo (e anzi, avevamo già cominciato) attraverso le sue stesse parole, quelle che potete trovare nei saggi e nelle raccolte poetiche comparse negli anni su questo sito.

Il termine “mancato” si rivela nel caso di Mario quanto mai calzante, perché essendo la sua una scomparsa annunciata avevamo già cominciato a fare i conti con la sua assenza. E difficilmente riusciremo a farli tornare, perché Mario ci mancherà davvero moltissimo. Se ha un senso l’espressione “maître à penser”, lui per noi era tale, ma un maestro di quelli autentici, che ti illuminano con una domanda, con una osservazione, con il loro stesso modo di essere e di rapportarsi, in una parola col loro stile, e ti aiutano a scoprire sempre nuovi modi di guardare al mondo e di sorridere per come lo viviamo.

Ci auguriamo che anche la sua città, quell’Alessandria che ha tanto amato da dedicarle l’opera di tutta una vita, si accorga, almeno dopo la sua scomparsa, di aver ospitato per tre quarti di secolo un uomo che per garbatezza, lucidità di pensiero e raffinatezza del gusto, unite ad un pudore nel proporsi sin eccessivo, aveva ben pochi eguali, e non solo a livello provinciale.

Per non fare di queste righe un pesante epitaffio, pensiamo vadano chiuse con la voce stessa di Mario. Da una delle sue ultime missive, in risposta alla richiesta che gli avevamo rivolto per un suo profilo sul sito dei Viandanti.

Caro Paolo,

Ti invio questo Ritratto dell’autore da vecchio non senza un’ombra di compiacimento, grazie al tuo sostegno. Ad maiora, Mario

“Mario Mantelli, nato nel 1945, studi di architettura, si è occupato di identità urbana e di beni culturali della propria città, Alessandria, specialmente nel settore del moderno (il Palazzo delle Poste e i mosaici di Severini, la città di Borsalino e i Gardella).

Più in generale ha interessi per i luoghi e la memoria (Viaggio nelle terre di Santa Maria e San Rocco, Di che cosa ci siamo nutriti), per la “parola breve” (vedi gli haiku e le poesie delle presenti edizioni, oltre a Disciplinare dello haiku) e per l’immagine.

Si esercita nelle occasioni offerte dal ricordo e dalla quotidianità per approfondire la pratica e la teoria di un’estetica esperienziale (Discorso sul campo desiderante). Al proposito sta componendo Cinque gioie per cinque sensi. Esercizio di estetica tascabile. Come capita a quasi tutti i suoi scritti vi è contenuto un implicito invito al lettore a fornire la sua “versione dei fatti”: dite anche voi quali sono le vostre cinque esperienze fondamentali di vista, udito, tatto, olfatto e gusto, totale: venticinque. Vi farà bene: è pura “estetica di riconoscenza”, un genere letterario con cui è nata la poesia italiana. Francesco d’Assisi aveva dato il là con qualcosa del genere”.

E infine, aggiungiamo quello che può sembrare un presago augurio, rivolto a noi (da Stenografia emotiva. Centocinquanta haiku):

Pasà l’inver
Ui vén la stagiòn bòn-na
Ténti da cònt
(16/12/12)

 

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Visite guidate nei giardini della memoria

di Paolo Repetto, 25 marzo 2020 

Davanti a una cosa scritta da Mario Mantelli, qualsiasi cosa, si tratti di un libro, di un saggio, di una lettera, si rinnova in me ogni volta la stessa identica emozione: quella di un meravigliato riconoscimento. Continuo a ripetermi: ma si, è vero, ma certo …: e non mi riferisco agli oggetti, ai luoghi e ai gesti che riporta in vita, alle figurine, ai mottarelli, agli albi di El Coyote, ma alle atmosfere, alle sensazioni che il riaffiorare di quegli oggetti, di quei luoghi e di quei gesti immediatamente ricrea. Mario non mi accompagna in brevi immersioni in apnea, in fugaci passaggi davanti alle teche di un museo, ma in veri e propri inabissamenti in un parco archeologico sottomarino, in esplorazioni distese e minuziose, consentite dalla sua sapiente erogazione dell’ossigeno della memoria. Mi ritrovo allora a fluttuare in un mondo che davo per scomparso e invece sta ancora lì, sotto la superficie, dietro il velo del presente, nel profondo della mia coscienza. Mario direbbe: nel mio liquido amniotico.

Quella cui sono condotto per mano non è però una banale “operazione nostalgia”: è una immersione nell’immanenza. Nell’immanenza della Bellezza.

In tempi calamitosi (e questo ne ha tutti i requisiti) è più che mai necessario opporre allo sgomento, all’angoscia, all’assurdo che irrompe improvviso nelle nostre vite – o quantomeno si svela – una resistenza che vada al di là degli slogan e della retorica mielosa da rituale commemorativo o da salotto televisivo.  Sarebbe importante opporla sempre questa resistenza, ma in genere siamo troppo indaffarati, distratti dalle false urgenze che ci tengono sospesi per aria in un circolo vizioso, come nelle centrifughe da baraccone. In questi giorni però la ruota si è fermata, e ci sentiamo smarriti, inerti di fronte all’annullamento delle prospettive più immediate, incapaci di fare conti per quelle a lungo termine.  Abbiamo improvvisamente bisogno della riconferma che c’è qualcosa per cui vale davvero la pena vivere. E abbiamo bisogno che questo qualcosa già ci appartenga, senza attendere improbabili giorni del giudizio.

Bene. Mantelli è a dirci che questo qualcosa lo abbiamo già conosciuto, anche se qualche volta – troppe volte – non ce ne rammentiamo. Abbiamo conosciuto, in momenti magici della nostra vita, l’incanto della Bellezza. Alcuni, come lui, ne sono stati evidentemente segnati, non hanno mai accettato di rinunciarci e hanno mantenuto lungo tutta la loro esistenza la capacità di volgere uno sguardo stupito sul mondo: noi, altri, quell’incanto possiamo soltanto riconoscerlo, rievocarlo, se vogliamo recuperare un po’ di quel senso che sta al di là di ogni contingenza storica, del successo o del fallimento privati, del benessere o delle pandemie collettive.

E allora, se qualcuno si rivela capace di accompagnarci in questa riscoperta, e di mostrarci che quel senso sta ancora lì, se solo volessimo vederlo, cominciamo col riconoscere prima di tutto lui. Il sapore dei mottarelli o le copertine di El Coyote sono solo la chiave che Mantelli usa per farci accedere al suo mondo. Dentro, anzi fuori, tutt’attorno a noi, ci sono i quotidiani miracoli e le epifanie discrete di una natura e una cultura che proprio in questi drammatici momenti sommessamente ci suggeriscono: vale mille volte la pena.

 

Vaccinare la mente

Mentre preghiamo il cielo perché un vaccino efficace contro il coronavirus venga individuato il più velocemente possibile, non dobbiamo dimenticate che una infezione altrettanto grave minaccia, come effetto collaterale, le nostre menti. La tragedia in atto sta spazzando via tutto ciò su cui la nostra quotidianità si fondava, le abitudini, i progetti, le speranze, le certezze, fondate o meno che fossero. Corriamo il rischio di un tracollo psicologico collettivo. È bene allora attivarci subito per scongiurare l’epidemia. Un vaccino contro questo morbo non esiste, ma esiste una profilassi che prevede, tra le altre cose, l’esercizio delle buone letture. Come Viandanti abbiamo la presunzione di poter dare anche noi, nel nostro piccolo, un contributo: e cominciamo subito alla grande, proponendovi due libri altrimenti introvabili, perché editi a tiratura limitatissima, ma che riteniamo in questo momento i più indicati per una efficace difesa preventiva della salute mentale.

Viaggio nelle terre di Santa Maria e San Rocco (2004)

Nella mia città esistono territori che appartengono ad un’altra
dimensione. Essi sono sottratti al dominio del tempo e, parafrasando
il titolo famoso e felicissimo di un film, si trovano a sud-est
dell’infanzia. Ma: “A ovest di Paperino” dice il film, perché allora
mi è venuto in mente di dire sud-est? Perché suona bene e basta?
No, forse c’è qualcosa di più. …

 

Di cosa ci siamo nutriti (2010)

Tra i ricordi legati al gusto (al senso del gusto, intendo)
ha resistito stranamente al tempo quello che vi
racconterò. Io credo che sia rimasto nella memoria innanzitutto
per l’ambientazione protettiva e accogliente,
come se si fosse trattato di un antro, l’antro della
mia origine. …
IL BICCHIERINO DI PAPÀ – SCIROPPO DI VINO E ACQUA DI ULISSE
MANGIAR POVERO MANGIAR RICCO – IL PAESE DEL LATTEMIELE
LIQUORI PER BAMBINI – DROGHERIE FUTURISTE
IL MAROCCHINO DI ALESSANDRIA- NASCITA DEL CIBO – COLORE
GRANDI MARCHE- INTENZIONI NASCOSTE E COSE DIMENTICATE

 

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