La felicità oltre il quotidiano acufene

di Fabrizio Rinaldi, 26 ottobre 2024

C’è un’ape che se posa
su un bottone de rosa:
lo succhia e se ne va …
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa.
Trilussa, Poesie scelte, Mondadori 1985

Accade – per fortuna o per scelta – che ci si allontani dalla routine quotidiana per concedersi di fare altro, di pensare diversamente. E meno male, altrimenti sai che strazio!

Recentemente ho partecipato a un incontro ispirato ad un brano dei Negrita, Che rumore fa la felicità? Non era un convegno di filosofi o letterati in qualche blasonato festival o salotto televisivo, ma una riunione tra colleghi della mia cooperativa, provenienti da settori molto diversi – coordinatori di strutture educative, operatori dell’inclusione sociale, responsabili del personale – che avevano percorso anche un bel po’ di chilometri (io più di 200) per ritrovarsi a Torino e tentare di rispondere a questa semplice ma insidiosa domanda.

S’è partiti alti, dalla Costituzione americana del 1776: “Tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, tra questi diritti vi sono la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità”. Beh, mica poco. Salvo che poi, per ottenere quest’ultima, gli Stati Uniti hanno agito in modo tale che il loro credo venisse imposto (con la forza) e diffuso (con i media) per una buona parte del globo. Nella nostra Costituzione, quella definita “la più bella del mondo”, alla felicità non si fa alcun cenno, e nessuno ha mai fatto una proposta di legge per introdurre un articoletto in cui si miri al suo raggiungimento. Forse perché è già stracolma di principi ideali a cui ispirarsi e ai quali sembra piuttosto difficile conformarsi (due articoli, così, a caso: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”). O forse perché in effetti pare impossibile trovare un accordo su cosa si debba intendere per “felicità”. Eppure è uno dei termini più ricorrenti e abusati anche nel nostro quotidiano.

La felicità oltre il quotidiano acufene 02La pubblicità, ad esempio, sfrutta il “desiderio di felicità” proponendo una sterminata gamma di prodotti che dovrebbero consentire di raggiungerla: da “Le pastiglie Leone. La fabbrica della felicità” a “La felicità è andare in bagno con Fave di Fuca“; da “Pasta, integratore di felicità” a “Fiat, grande Panda” (con il brano Felicità di Albano). Fatevi un giro in rete e ne uscirete frustrati, quasi colpevoli per non esservi ancora procurati quegli infallibili generatori di felicità! A me è venuta voglia di comprare un’altra Panda; poi, per fortuna, ho dato un’occhiata al catorcio guidato da mia moglie e m’è passata la smania.

La felicità oltre il quotidiano acufene 03Al di là degli usi biecamente commerciali e propagandistici del termine, e andando su un terreno meno inquinato, resta il fatto che definire la felicità, anche con molta approssimazione, è davvero un’impresa ardua. Da sempre ci hanno provato poeti e filosofi (per i politici il discorso è più recente), senza venirne a capo. È una condizione cui tutti tendono, ma che nessuno riesce non dico a realizzare, ma neppure a mettere chiaramente a fuoco. Questo perché i parametri che ciascuno adotta sono incredibilmente diversi: è come se ogni individuo possedesse una personale ricetta, con gli ingredienti più svariati, ma questa è realizzabile quanto la trasmutazione del metallo comune in oro.

Mi accorgo che di questo passo rischio di impantanarmi nei luoghi comuni e nell’inconcludenza. Provo dunque a riformulare la domanda, procedendo per gradi. Parto naturalmente dalla più banale: siamo convinti che si possa essere felici, se non qui e ora, da qualche parte e in qualche momento? Messa così, la questione pare più semplice, anche se la domanda fa emergere dubbi e incertezze: alcuni (io fra questi) ammettono di non essere sicuri di averla mai provata quella condizione, distinguendola dalla gioia, che invece appare più accessibile, anche se meno durevole.

La felicità oltre il quotidiano acufene 04Ciò non significa negarne la possibilità, ma semplicemente ammettere di non averne mai goduto. E questo può essere accaduto per vari motivi, tutti comunque riconducibili alla soggettività: al carattere, alla disposizione genetica, alle aspettative verso la personale esistenza, alla condizione ambientale e sociale (in una situazione di guerra, miseria e fame, quale felicità è possibile?). Quindi, una prima risposta c’è: forse non esiste “la Felicità”, ma senz’altro esiste in tutti l’aspirazione ad “esser felici”.

Cosa significa però “esser felici”? Anche qui, c’è da sbizzarrirsi, ma solo per arrivare a concludere che non c’è un denominatore comune da ricondurre a questo sentimento. Alcuni, ad esempio, lo considerano un premio meritato per l’impegno profuso, mentre altri al contrario lo percepiscono come un dono gratuito ed effimero, una grazia che sfugge alla logica della meritocrazia. Anche perché ciò che per qualcuno è fonte di felicità, per altri può essere irrilevante o addirittura una tortura (vedi l’amore per i figli o l’angoscia che comporta crescerli). All’incontro di Torino c’era chi associava una grande felicità ad una vincita alla lotteria, a me non smuoverebbe proprio nulla. Ma ammetto d’esser strano.

Per assaporare la felicità occorre accettarne la natura effimera, ammettere che è costituita da una somma di attimi la cui durata e intensità sfuggono dal nostro controllo. Un godimento breve ma intenso che deve essere accolto con la consapevolezza che è destinato a finire. O meglio ancora, che si tratta solo del “promo” di un film che non sarà mai proiettato, perché in fondo noi non “desideriamo la felicità”, che è appunto qualcosa di indeterminato, ma aneliamo costantemente l’“esser felici”. In sostanza: non siamo mai felici, ma desideriamo costantemente esserlo. È questa tensione perpetua che ci spinge a reggere e ad andare avanti.

La felicità oltre il quotidiano acufene 05D’altra parte, è pur vero che i momenti di grazia ci sono e non arrivano casualmente, che anche quando ci stupiscono siano il frutto di una autoconsapevolezza: avviene quando soppesiamo le emozioni positive del presente e le mettiamo a confronto col nostro strapazzato io. Per molti parrebbe valere esattamente il contrario con l’abbandono totale a ciò che accade. Credo invece che sia possibile riconoscere e associare un momento vissuto alla felicità solo quando si è consapevoli dei propri desideri più intimi, delle inevitabili paure, degli onesti e franchi limiti e del personalissimo concetto di benessere.

A questo punto, risulta evidente che la felicità è un concetto indefinibile e che di per sé non esiste, con buona pace dei costituenti americani. Tuttavia, possiamo ammettere che ciascuno ha il proprio modo di sentirsi o reputarsi (non è la stessa cosa) “felice” a modo suo. La felicità, infatti, non è un diritto, ma uno stato d’animo: non può essere sancita da una legge, ma solo resa possibile attraverso la consapevolezza, l’etica e l’intelligenza orientata al positivo.

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Possiamo allora tornare al titolo dell’incontro, che chiedeva una riflessione sul “rumore” della felicità: ed è questo che intendo ora indagare.

Alcuni associano la felicità al canto degli uccelli, al fruscio delle foglie, alle onde del mare, alla risata della persona amata o al sorriso di un bambino: sono le associazioni più scontate, assolutamente legittime, ma ne esistono altre, più inconsuete, che meritano di essere considerate.

Ad esempio, nel brano 4’33” di John Cage l’orchestra, anziché suonare, osserva un silenzio totale, costringendo l’ascoltatore a percepire, nella durata del “brano”, i suoni accidentali dell’ambiente e i rumori interiori. Nel silenzio assoluto, l’orecchio umano è indotto a porsi in ascolto di ciò che resta di sé. Di conseguenza il dialogo si sposta inevitabilmente dal mondo esterno a quello interiore. Non so cosa Cage si proponesse, forse quel silenzio dovrebbe essere liberatorio, ma ammetto che dal mio interno arriva invece un fracasso che non sopporto, che mi urta: forse non riesco a sintonizzarmi sulla giusta lunghezza d’onda, certamente non lo associo alla felicità.

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All’opposto, la felicità trova espressione nella potenza della Nona Sinfonia di Beethoven, con l’Inno alla Gioia di Schiller. Composta quando il musicista era ormai sordo, questa sinfonia è un paradosso: una celebrazione della felicità scritta da qualcuno che non poteva più udirne le note. Forse proprio per questo, la sua opera è così emblematica del concetto di felicità come esperienza interiore, capace di superare le barriere fisiche. Il “suono” che sentiva non passava per le orecchie, ma da una vibrazione dentro di lui, una melodia immaginata che trascendeva i limiti del corpo, risuonando persino nel silenzio della sua sordità. La felicità, allora, diviene una propensione interiore che vibra anche quando il mondo esterno tace.

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Umberto Eco, ne Il nome della rosa, parla di un’estasi simile, derivante dalla contemplazione e dal superamento dei limiti fisici attraverso il potere creativo della mente. Adso, descrive così la felicità di Guglielmo da Baskerville: “Stavo osservando il mio maestro in quell’arca di scienza, in quel tempio della saggezza, e non potevo fare a meno di pensare che nemmeno la città celeste avrebbe mai potuto procurargli estasi più grande della seduzione della conoscenza![1]. Per Eco, la felicità non è un traguardo statico, ma un processo dinamico (appunto quello della ricerca, del “desiderio”), una continua seduzione che nutre la mente con domande e riempie il cuore di meraviglia. È il fruscio delle pagine sfogliate, la colonna sonora del pensiero in azione, dove ogni nuova scoperta aggiunge un tassello al nostro essere e si traduce in pensieri differenti e difformi.

La felicità oltre il quotidiano acufene 09 John-Berger-1980-by-Jean-Mohr

John Berger, in Capire la fotografia, ci invita invece a riflettere sul tempo della felicità stessa: “Non credo proprio che la felicità sia uno stato. Può esserlo l’infelicità, ma la felicità è, per sua natura, un momento. Il momento può durare qualche secondo, un minuto, un’ora, un giorno e una notte, ma credo che in quanto tale non possa durare neanche una settimana. L’infelicità somiglia spesso a un lungo romanzo. La felicità è molto più simile a una foto! Ed è intimamente legata a quel che dici tu: il senso della meraviglia”. La felicità, dunque, non si presenta come un suono prolungato, ma come una singola nota o una sequenza di suoni che può durare anche istanti, minuti, ore, giorni, ma è comunque destinata a svanire. È quindi paragonabile ad un’istantanea fotografica, nella quale si coglie la bellezza dell’istante vissuto in modo irripetibile. Quindi la felicità ha il suono di un click fotografico su un singolo momento, che svanisce mentre inquadro la realtà successiva. La precarietà diviene un carattere distintivo della felicità.

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Devo ammettere che, personalmente, un persistente acufene mi ostacola nella percezione del “suono” della felicità, nonostante viva una situazione familiare, sociale e lavorativa relativamente serena. Tuttavia, la serenità non coincide con la felicità: può essere paragonata ad un romanzo – come scrive Berger –, con il suo andamento ondulatorio, fatto di alti e bassi, di piaceri, di attimi al cardiopalma e altri di monotona quiescenza. La felicità, invece, se devo definirla almeno per analogie, la immagino più simile a una poesia: breve, intensa, condensata di significati ed emozioni, capace di irrompere improvvisamente e di travolgere i sensi con la sua intensità.

La felicità oltre il quotidiano acufene 11Il fatto è che il baccano della quotidianità rende difficile percepire gli esili suoni che potrebbero essere associati alla felicità. Tuttavia, fare pace col proprio acufene e accettare questa “semisordità”, impone una maggiore sensibilità verso i rumori di fondo del quotidiano, nel tentativo di cogliere tra di essi frammenti di note felici. È un esercizio perenne di ascolto selettivo della realtà, di ricerca della meraviglia nel caos, durante il quale ci si concentra su una realtà a volte distopica, cercando di estrarne le singolarità che sconquassano per le loro felici armonie.

La felicità oltre il quotidiano acufene 12 BeethovenLa classica raffigurazione di Beethoven come figura corrucciata non riflette necessariamente il suo carattere, ma piuttosto la sua concentrazione assoluta, la sua capacità di ascoltare anche il minimo sussurro del mondo. È questa attenzione profonda che permette di cogliere la bellezza nell’istante, di praticare l’arte della meraviglia nel caos. La felicità, come una nota breve ma intensa, può essere trovata anche nel silenzio, se solo siamo disposti a cercarla nel rumore che abita dentro di noi.

Forse anche il semplice scrivere questo pezzo è per me una forma di felicità. Forse.

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[1] La scena, tratta dal film di Jean-Jacques Annaud del 1986, in cui Guglielmo finalmente entra nella biblioteca è perfetta nella rappresentazione di questa felicità intellettuale.

Collezione di licheni bottone

La ferrea legge del mercato

di Paolo Repetto, 2014

Il mercato è implacabile. Non fa sconti a nessuno.

Me lo conferma un giro estivo tra i banchi di piazza Assunta, dai quali grossi cartelli scritti a mano gridano: tutto a 3 euri, tutto a 5 euri! Tra le signore che frugano nervosamente nel mucchio, dragando improbabili canottiere trasparenti e casacche di finto lino indiano, una si volta, mi guarda e sorride: “Buongiorno professore, come va?”.

È vero, è un’ex-allieva, mi sembra di riconoscerla ma non so metterla a fuoco. Mentre balbetto un: “E tu? Cosa fai di bello?”, che è tutto quel che mi riesce di dire, una ragazzina la tira per la maglia, le mostra un’altra canottiera coi lustrini. “Mia figlia” si scusa. Faccio un cenno, come a dire: “Capisco”, e mi congedo. In realtà non ho capito niente, me ne vado senza sapere chi cavolo fosse.

Solo a metà di via Cairoli, quando ormai non ci pensavo più, arriva il lampo: ecco chi era! Ma non è possibile! L’ho lasciata una ragazzina smilza e simpatica, di quelle che capiscono al volo e sanno dove vogliono arrivare: prometteva faville. La ritrovo vent’anni dopo già imbolsita, con l’aria spenta di chi gira ormai tra i banchi al rimorchio della figlia, e non sembra attendersi altro.

Il mercato è impietoso. Ma, come dicono i teorici del liberismo selvaggio, è indispensabile. Offre un sacco di opportunità. A me offre quella di rispolverare le foto di volti e corpi che avevo messo in archivio, e di ritrovarle ora gualcite, sbiadite, qualche volta deformate, come riflesse in uno specchio da baraccone. Tanto più grottesche quando conservano forti i tratti che mi avevano indotto a scattarle.

Incrocio ad esempio l’ex collega che un tempo illuminava l’aula insegnanti e rendeva care le ore a disposizione, stretta ancora in quei vestitini attillati che allora ne esaltavano la grazia ma che ora raccontano una storia diversa da quella del volto rifatto. Rivedo il tizio col quale gareggiavo al fiume per le traversate in apnea, trascinato innanzi da una pancia straripante e sorridente da un volto paonazzo e un po’ inebetito. O il biondo gigolò che quarant’anni fa sbancava nelle rotonde di paese, e mi aveva soffiato una ragazza cui stavo facendo un pensierino, e adesso gira in tondo, sempre solo, sgusciando tra la gente come se avesse un appuntamento importante, e pare imbalsamato, una statua mobile di cera.

Che malinconia! È normale che il tempo passi, ma riesce difficile accettare che imprima orme così profonde. Vorrei una cosa dolce, una patina lieve che si deposita sulle cose e sulle persone, conferendo loro addirittura il fascino del seppia, e invece mi trovo di fronte a trasformazioni devastanti, a membra, torsi e, ho l’impressione, anche cervelli inflacciditi. E il fastidio aumenta quando balza agli occhi che la foto è ritoccata, quando il ricorso all’artificio è sbandierato, o quando l’immagine dei Kiss copre seni sconfitti dalle leggi newtoniane o addomi a mongolfiera; dal malinconico si scade nel patetico. Infine arriva lo sgomento, quando realizzo che gli altri guardano me e leggono lo stesso processo. Mi chiedo che foto stanno vedendo, se do anch’io l’impressione degli orologi di Dalì, se appaio loro come la caricatura dell’uomo che ero.

A questo punto ho già appreso la prima legge fondamentale del mercato, il cui preambolo recita più o meno così: è inutile guardarsi ogni mattina allo specchio per rintracciare i segni del tempo che passa. Le modificazioni sono impercettibili, impiegano giusto il tempo per permetterti di abituarti e di illuderti. Non valgono nemmeno le rimpatriate con gli ex compagni di scuola, gli incontri a convegni, matrimoni, cerimonie ufficiali, gare di danza latinoamericana, perché in tali occasioni tutti si ingegnano di dare l’immagine migliore di sé, e a volte fanno veri miracoli. Come dice la prima legge, invece, l’unico efficace ed obiettivo strumento di rilevazione della condizione umana è il giro annuale, rigorosamente estivo, sulla piazza del mercato. L’inciso è fondamentale: nelle altre stagioni si è tutti più o meno tappati, se non altro per difendersi dal freddo o dal maltempo, e ci si muove contratti e frettolosi. Si incrociano occhi un po’ meno brillanti, ma i corpi e i visi sfuggono all’analisi. D’estate invece i soggetti si mostrano in piena luce, inermi, rilassati, semivestiti e lieti di esibire i frutti di una settimana al mare e pantaloni arancione al polpaccio.

Questo avvalora la seconda legge, per la quale l’estate al mercato è l’esame finestra del restringersi e dell’infeltrirsi dei sogni, di quelli di ciascuno per la propria vita, come di quello in cui ciascuno ha collocato gli altri. Rivela le macchie e le smagliature prodotte dal tempo. Dice come abbiamo vissuto e come stiamo vivendo. Di alcuni racconta la tenuta e la progressione, di altri, di troppi, racconta la resa. Perché alla fine è questo il punto: non si tratta di negare il tempo, ci mancherebbe altro, si tratta di viverlo con dignità. Questo è ciò che vorresti vedere, e che speri gli altri vedano in te. Si può crescere, e non solo di peso: anzi, si deve crescere. Ciò che dà fastidio è incontrare gente che sembra aver smesso di crescere dall’ultima volta in cui l’hai vista, e che da allora pare essersi limitata ad allargarsi.

Crescere significa imparare a distinguere tra i propri sogni, riporre nell’armadio quattro-stagioni quelli che non possono essere indossati ora, e che forse non lo potranno mai, ma che è giusto tenere a disposizione per eventuali, improbabili occasioni, e coltivare quelli realizzabili nella quotidianità, che hanno comunque bisogno di una cura costante. Significa avere magari progettato a vent’anni di trasferirsi in Canada, e ritrovarsi a quaranta a ristrutturare la casa dei nonni a Trisobbio, e non considerarla una sconfitta: senza tuttavia chiudere per sempre la finestrella sul Canada, almeno per darci ogni tanto un’occhiata. Nel frattempo si può imparare l’inglese.

La terza legge è dunque solo un corollario “tecnico” della seconda: Il mercato è il borsino delle ambizioni, racconta di investimenti, di guadagni e di perdite. Il listino lo fanno non solo i corpi o i volti, ma soprattutto gli atteggiamenti. I segnali sono inequivocabili. Il fatto stesso che qualcuno ti guardi in attesa di essere riconosciuto, invece di venirti incontro sicuro, è già un indicatore significativo: ma ce ne sono infiniti altri.

Se ad esempio rivedi la conoscente che tre anni fa si trascinava avvizzita da una bancarella all’altra, e ti era sembrata parecchio imbarazzata dall’incontro, ora tirata a lucido, pimpante, sicura nel gesto di scegliere tra le magliette e sorridente senza imbarazzi mentre rovista tra l’intimo un po’ cafone, pensi subito che abbia lasciato il marito, o che sia stata lasciata (a medio termine non fa differenza): ha nuovi progetti, si è rimessa anche lei in corsa. Segno positivo. Sta crescendo.

Se invece l’ex compagno di scuola che a diciott’anni invidiavi perché era disinvolto con le ragazze, e che aveva continuato ad aggiornarti a cadenza decennale sulle sue trasferte di lavoro in mezzo mondo, nell’intervista di quattro minuti che ti rilascia con moglie sbuffante ti parla solo di ristoranti per una improbabile rimpatriata di classe, sei di fronte a un tracollo.

Ma un’identica conclusione puoi trarre se si aggira tra i banchi in canotta e pantaloncini da atletica, tirato e abbronzatissimo, la lunga chioma candida raccolta a coda di cavallo, in compagnia di una ragazza che potrebbe essere sua nipote (ma non lo è) e che lo ascolta con lo sguardo assente quando ti magnifica come intellettuale di grido e cerca di tirare il discorso sui comuni trascorsi culturali. Tu mastichi il più educatamente possibile il pezzo di focaccia che avevi appena addentato, che non puoi deglutire pena lo strafogamento e non ti consente nemmeno un sorriso di modestia, e pensi: ma questo, quando cresce? Segno negativo, in gergo tecnico si chiama recessione o, volendo, regressione.

Insomma. Pensavo di concedermi un tranquillo bagno di folla, in attesa di quello pomeridiano al fiume, e mi ritrovo invece a leggere il grafico in discesa delle quotazioni della vita, mia e altrui. E mi è rimasta sullo stomaco anche la focaccia.

Nel risalire in auto, rimpiangendo di non aver dedicato quelle ore al giardinaggio o alla lettura, rifletto allora sulla quarta legge del mercato, che in realtà è precondizione e fondamento delle altre: al mercato non si va per acquistare ciò che serve. Quando hai bisogno davvero di qualcosa ti rivolgi da un’altra parte. Nel mondo del mercato non vige la legge della domanda e dell’offerta. Vige solo quest’ultima, ed è sfacciatamente svincolata dalla prima. La regola vale indistintamente per qualsiasi tipo di fiera, da quella del libro al mercatino dell’usato, dal mercato rionale alle appendici di sagre e feste varie. Quando vaghi tra le bancarelle non stai cercando nulla di specifico, anche se poi, al momento, qualche scusa la inventi. Come potresti altrimenti spiegare il bisogno di una rana di ghisa fermalibri? Stai rispondendo ad una infantile compulsione al possesso, svincolata da ogni considerazione utilitaristica. Ma soprattutto stai rispondendo all’obbligo della revisione periodica, del bilancio sul tuo stato di conservazione o di evoluzione, e questo lo puoi leggere solo negli sguardi, negli atteggiamenti, nei corpi di chi non condivide quotidianamente il tuo percorso. La verità la si incontra solo agli incroci.

Per questo vieni via con qualcosa, il clone della maglietta griffata, il giubbotto senza maniche da cacciatore di cinghiali, o addirittura il coppo decorato a mano, quasi a giustificare il tempo che hai perso. Ma in realtà non il tempo non lo hai perso: lo hai visto anzi in faccia, sin troppo bene, e ora non sai se ti basterà un altro anno per dimenticarne l’espressione.

 

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Il piacer vano

di Giuseppe Schepis, da Sottotiro review n. 4, giugno 1996

Nella società contemporanea il mercato sembra essere rimasto l’unico sistema economico possibile. Al centro di esso – protagonista assoluta – la merce. Val la pena allora di tornare ad analizzare l’essenza della regina incontrastata del nostro tempo, rispolverando la teoria marxiana sul feticismo delle merci. Questa, a grandi linee, è nota a tutti, ma anche a rischio di essere pedanti è bene riprenderla brevemente per vedere se si siano verificati cambiamenti economici da quando è stata formulata ad oggi. Si parta dal fatto che la realizzazione di ciò che, in maniera molto generica, possiamo definire merce, è nata dalla necessità di soddisfare i bisogni che la specie umana, lungo la sua evoluzione fisica e culturale, si è trovata ad avere. Questi bisogni – i più svariati – possono essere sia di natura materiale che di natura intellettuale: non faremo da qui in poi differenze di merito dato che l’uomo, animale il cui intelletto è enormemente sviluppato, ha comportamenti appetitivi nei confronti di ambedue le categorie di “cose”.

Un oggetto dunque, qualunque sia la sua natura, ha un certo valore correlato alla sua possibile utilità per i membri della specie umana. Il suo valore è così legato alla capacità di soddisfare delle esigenze, ma si verifica – spesso – che oggetti capaci di uguali prestazioni abbiano un valore di mercato profondamente diverso. Possiamo lambiccarci più e più volte il cervello, senza riuscire a trovare nulla che li differenzi se non il valore di mercato e la complessità produttiva; nasce così il sospetto che queste ultime due grandezze siano strettamente correlate tra di loro e solo minimamente dipendenti dall’oggettivo valore della merce. Ma allora cosa dà alla merce il suo valore di mercato, se non direttamente la sua capacità di soddisfare bisogni come logica imporrebbe, e perché due oggetti con analoghe possibilità di utilizzo devono avere uno un dato valore di mercato e l’altro un valore magari superiore? L’arcano è facilmente risolto: per realizzare il primo occorrono meno ore di lavoro, si hanno minori scarti di lavorazione, necessitano un numero inferiore di Kwh di energia e simili. Il secondo oggetto, quindi, vale più del primo solo perché è stata necessaria alla sua foggia una maggiore quantità di “lavoro di produzione”. Così il feticcio del lavoro speso nella produzione diventa una delle qualità dell’oggetto e lo segue nel suo viaggio attraverso il mercato. Così la merce viene caricata di un significato sociale che nulla ha più a che vedere con il reale valore legato all’utilizzo e che esiste solo all’interno della società stessa. Senza le convenzioni sociali borghesi questo secondo valore sparirebbe di colpo, non essendo intrinseco agli oggetti. È già stato detto da voce ben più autorevole dei danni provocati dal verificarsi di questo, di come così l’uomo diventi funzionale ai bisogni della produzione e non viceversa – come sarebbe auspicabile e logico – la produzione funzionale al soddisfacimento dei bisogni umani. Si aggiunga che esiste un altro aspetto: il valore feticistico spesso riesce a nasconderci le qualità reali delle cose; il primo, che è semplicemente involucro, ci nasconde ormai l’essenza, aggiungendo inganno ad inganno e facendo sì che non si riesca nemmeno a cogliere appieno i benefici che un oggetto – fisico o intellettuale – può darci.

Tutto questo è reso poi ancora più devastante dal fatto che, massimamente nella società contemporanea, oltre ai bisogni reali se ne manifestano altri indotti dal sistema – che così tenta di autoalimentarsi – sempre in quantità crescente. Così la pubblicità veicolata in tutti i mezzi di comunicazione di massa è come ossigeno per il mercato: lo vivifica arrivando ad ogni cellula elementare (il cosiddetto consumatore), fino a far prosperare questo tumore maligno che con le sue metastasi sta sostituendo completamente quelle che dovrebbero essere le cellule sane – ben differenti – di un organismo degno del nome di società umana. È bene sottolineare che anche le risorse economiche spese nel pubblicizzare un prodotto diventano, schizzofreneticamente, valore feticistico aggiunto di questo.

Forse se riuscissimo a togliere le lenti deformanti che il mercato ci ha messo davanti agli occhi, apprezzando così solo l’essenza di ciò che ci circonda, potremmo arrestare il moto dell’ingranaggio in cui siamo presi e da cui rischiamo di essere dilaniati; spinti verso l’autodistruzione da un sistema per sua natura non regolato, rischiamo di far scomparire la nostra civiltà e di arrecare seri danni al pianeta che ci ospita.

Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni.
GIACOMO LEOPARDI

 

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