di Fabrizio Rinaldi, 23 ottobre 2023
“Ah, ho dimenticato di dirti che questo pomeriggio ci vediamo per parlare delle trame della conoscenza. Vieni”?
Mi ha convocato così, Paolo, per questo terzo incontro nel cortile del Santuario della Rocchetta di Lerma. Alla spicciolata, senza troppa enfasi (gli squilli di tromba non fanno parte del suo bagaglio), come per un’improvvisata fra amici: ma in realtà era un’altra cosa. E lo sapevo, perché avevo già partecipato in precedenza a un “pomeriggio della Rocchetta”.
Seduti su comuni sedie da chiesa, in metallo e plastica marrone, in cerchio attorno ad un ideale fuoco, coloro che hanno risposto al tam tam possono parlare (ma non straparlare) e ascoltare guardandosi negli occhi, avendo come unico diktat quello di contenere il proprio intervento nei cinque minuti scanditi da una immaginaria clessidra.
In questi colloqui, lontano dagli obiettivi di telecamere, di webcam o di cellulari, un gruppo di persone – molte delle quali estranee fra loro – si incontrano semplicemente per confrontarsi su un tema di volta in volta differente. Il tema si rivela poi immancabilmente un pretesto, perché la voluta genericità dei “titoli” consente di spaziare in ogni direzione: ma il tutto risulta comunque alla fine perfettamente coerente.
Per spiegarmi meglio faccio un esempio: il “tema” del primo incontro era “l’infinito”. Difficile trovarne uno meno generico e apparentemente presuntuoso. L’invito non era però a “definirlo”, a “spiegarlo”, ma a darne una propria definizione, a rispondere alla domanda: cosa pensi, cosa provi, quando parli o ti si parla dell’infinito? E messa così la cosa è ben diversa.
L’astenersi dall’essere detentori di verità è diventato ormai un gesto sovversivo, o almeno desueto: così come il mettersi in un atteggiamento genuino di confronto, che presuppone la voglia di imparare piuttosto che quella di insegnare, e di con-versare senza pregiudizi, godendo anche del privilegio di astenersi dal parlare quando non si ha altro da aggiungere a ciò che già è stato detto.
I convenuti possono cambiare di volta in volta, ma chi tira le fila è il titolare dell’eremo, che dà un duplice contributo: quello di ospitante (con tanto di caffè) e di motivatore, e quello di pensatore libero (a dimostrazione del fatto per essere tali non conta da dove parti, ma come e in che direzione ti muovi). Gli altri poi fanno la loro parte, individuando uno magari le coordinate storiche/filosofiche, un altro quelle scientifiche, ma più semplicemente portando testimonianza delle loro esperienze individuali. Tutti rispettano il loro turno, nessuno interrompe o prevarica gli altri, e ciascuno è libero di arrivare e partire secondo i propri impegni e interessi. C’è di tutto: il chimico, il fisico, il liutaio, l’avvocato, l’insegnante, la bancaria in pensione, più tanti altri di cui non so proprio nulla: uno spaccato di “gente comune” un po’ diverso da quello che ci viene presentato dagli inviati televisivi sui luoghi dei delitti o delle proteste. Persone normali, in tutti i sensi, e di tutte le età.
Nella selva pullulante di dibattiti mediatici autoreferenziali e fasulli, ecco un esempio di concreta agorà, rigorosamente in presenza, che non pone al centro delle conversazioni gli squallori della quotidianità e le spacciate emergenze, ma si interroga sul qui e ora, sul “che ci faccio io qui”. Si pone domande per le quali non ci sono risposte definitive, ed è bene così. L’importante è interrogarsi, confrontarsi, affrontare gli argomenti con una comune disposizione all’ascolto dell’altrui opinione. Se mi chiedo cosa ho imparato da questi incontri, posso rispondermi che ho imparato che si può fare, si può stare assieme così, alla faccia di internet, dei cellulari e degli “eventi” culturali a gettone.
Il tutto assomiglia molto alle serate dei Viandanti delle origini. Circola naturalmente meno vino, non ci sono i piatti caldi e il Capanno, ma nulla è scontato per il futuro.
É però da perfezionare la comunicazione: se Paolo non si fosse ricordato all’ultimo momento (eventualità tutt’altro che remota), avrei perso questa opportunità: e tuttavia l’improvvisata è parte integrante della sperimentazione.
Oggi questi “dialoghi” si potrebbero definire come dei flashmob di tipo lessicale anziché artistico. Viene anche da pensare (o almeno da sperare) che occasioni di confronto e di dialogo come queste siano più diffuse di quanto i sondaggi e le mappature di prossimità rilevabili dai cellulari accesi riescano ad intercettare. Perché no! Forse in questi pomeriggi in altre parti d’Italia o del mondo altre persone, anziché scannarsi o sballarsi di tweet o di calcio o di anfetamine, hanno pacificamente dialogato su temi leggermente meno stupidi delle vicende familiari della Meloni. Non bisogna mai smettere di sperare.
Il governo comunque può stare tranquillo: per queste cose non si raggiungono mai numeri che configurino il reato di “rave party”.
Post Scriptum: Guidando verso casa, rifletto sulle parole dette ed ascoltate. Alla fine, ciò che è corroborante avviene dopo l’incontro (questo vale in molti altri casi in cui c’è un genuino scambio di idee): ragionare fra sé per elaborare altro. La mente torna su uno dei concetti emersi poco prima: la perpetuata stabilità della materia sostenuta dal bosone di Higgs potrebbe durare miliardi di anni, oppure decadere in ogni istante, provocando la fine immediata dello spazio e del tempo. Eh, beh, mica cotiche! Il qui e ora assume un’importanza relativa, ma unica.
Nel frattempo mi viene in soccorso la radio sintonizzata sulla trasmissione Panteon di Radio3. Stanno leggendo la poesia “Vermeer” di Wislawa Szymborska, una poetessa a me cara (come a milioni di persone):

Finché quella donna del Rijksmuseum
nel silenzio dipinto e in raccoglimento,
giorno dopo giorno versa il latte
dalla brocca nella scodella,
il Mondo non merita
la fine del mondo.
Ecco un buon motivo per andare avanti: fino a quando si avrà voglia e si potrà con-versare e con-dividere il pensiero, con amici o anche con estranei, il latte che nutre il dubbio non terminerà mai.
Con buona pace della “particella di dio”.






