Giorni perfetti

di Paolo Repetto, 14 gennaio 2024

Ho visto l’ultimo film di Wim Wenders, Perfect days (da non confondere col quasi omonimo A perfect day diretto nel 2015 da Fernando León de Aranoa). Non sarà una notizia da prima pagina, ma per me che non entravo in una sala cinematografica dallo scorso anno, quando per vedere il film di Moretti avevo interrotto un aventino iniziato ben prima del Covid, si tratta di un avvenimento significativo. Ero convinto (e La grande bellezza prima e Il Sol dell’avvenire poi mi avevano rafforzato nella mia convinzione), che il cinema non avesse più nulla da dire – a tutti in generale ma a me, ex-cinefilo entusiasta, in particolare. Pensavo che, soggetta come tutti gli altri prodotti della modernità all’obsolescenza rapida, la magia coinvolgente del grande schermo si fosse ormai dissolta, avesse esaurito il suo ruolo culturale, senza peraltro riuscire a conservare quello del divertimento (e questo, a dispetto di quanto sto per dire, continuo in linea di massima a pensarlo). Per uscire di casa ho quindi dovuto vincere, oltre la pigrizia senile, anche una giustificatissima diffidenza. Ora però sono contento di averlo fatto.

Perfect days è stato un bel regalo di Natale, assolutamente inaspettato, perché prima di entrare in sala del film sapevo nulla. Non sapevo che aveva già vinto la palma d’oro per il protagonista (ne avrebbe meritate altre sei o sette, dalla fotografia alla colonna sonora) all’ultimo festival di Cannes, che è in corsa per i prossimi Oscar e che viene considerato dai critici il miglior film in assoluto di Wenders. Neppure sapevo che era stato commissionato come documentario da The Nippon Project, per dare visibilità ai ritocchi architettonici e urbanistici operati nella capitale giapponese in occasione delle recenti olimpiadi, e in particolare per evidenziare l’attenzione all’accoglienza e al benessere dei visitatori (leggi: servizi igienici pubblici da fantascienza). Nessuna di queste informazioni mi avrebbe comunque schiodato dalla mia poltrona, anzi: ho un cattivissimo rapporto con i festival, con i premi, con i critici e con le opere realizzate su commissione. In realtà mi sono mosso da casa solo perché sollecitato da una coppia di amici affidabili, coi quali nel caso di una boiata avrei potuto prendermela e massacrare il film: ma in fondo anche perché mi andava di tenere viva una vecchia tradizione natalizia.

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Dunque ho visto Perfect days, e mi è piaciuto sotto tutti gli aspetti, a partire da quello che è definito lo “specifico filmico”, e che in letteratura sarebbe la “forma”. Vuol dire che per due ore consecutive non ho staccato gli occhi dallo schermo, cercando di fermare ogni fotogramma, perché da tempo non ricordavo immagini così elegantemente pulite. Si tratterà pure di uno spot promozionale per Tokyo (del resto, è nato proprio come tale), e la fotografia nitida e luminosa, sul tipo di quella usata per pubblicizzare le auto di lusso, risponde certamente anche alla destinazione originaria: ma rispetto a ciò che Wenders vuole trasmetterci attraverso l’esilissima traccia di storia che corre sotto (o forse sopra) le immagini, la cosa non crea alcun fastidio. Produce anzi un effetto straniante, di scrittura “sopra le righe”, quella che si addice giusto ad una parabola. E spingono verso questa dimensione atemporale e in qualche misura anche extra-spaziale sia il ritmo di svolgimento dell’azione, che non subisce mai accelerazioni o rallentamenti, sia l’essenzialità degli effetti sonori. Il silenzio ostinato nel quale si muove il protagonista è rotto solo ogni tanto, nei cambi di sequenza, dal brusio regolare del traffico sullo sfondo, oppure da brani pop ultracinquantenni che vengono educatamente proposti, e non sparati, o da spiccioli di conversazione che raccontano più di qualsiasi dialogo serrato.

Insomma, in due ore non ho sofferto la minima sbavatura: nessuna inquadratura superflua, non una immagine ridondante o una presenza o un suono estranei all’economia asettica del racconto. E di rimando, neppure ho percepito in sala un sospiro di noia, un mugugno, la battuta stupida di uno spettatore. Una gioia per gli occhi e per le orecchie. E soprattutto, per la mente.

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Esprimendo un giudizio prima ancora di venire alla sostanza del film ho volutamente invertito l’ordine del discorso. Questo perché intendevo parlare della storia, se così la si può chiamare, prescindendo dal valore artistico. Ma è chiaro che ritengo strettamente connesse le due cose. La storia colpisce perché è ben raccontata, e conferma che a spiegare un concetto vale più una metafora centrata che centinaia di pagine di disquisizione filosofica. Quando si è capito questo, che non stiamo parlando di verosimiglianza ma di una voluta simbolicità, l’immediatezza e la pulizia della narrazione si traducono in un valore etico, e viceversa.

La vicenda è felicemente semplice. Il protagonista è un addetto alla manutenzione e alle pulizie dei gabinetti pubblici di un quartiere di Tokyo. Svolge la sua mansione con estremo scrupolo: non è solo coscienzioso, ma è orgoglioso del suo lavoro, lo sente e lo vive come un servizio doverosamente reso alla comunità. Di questo atteggiamento abbiamo una spiegazione culturale ascrivibile a un sentire sociale diffuso, perché è un giapponese (fosse un italiano, intanto non avrebbe neppure l’opportunità, perché i servizi pubblici in Italia praticamente non esistono: e se pure l’avesse, non la coglierebbe, perché percepirebbe la sua occupazione come umiliante: e se anche fosse animato da buona volontà si scoraggerebbe subito, stanti la maleducazione e la maialaggine degli utenti). Ma c’è anche un’altra condizione, questa strettamente individuale e immaginata ad hoc per consentire alla storia di scorrere lineare e diventare “esemplare”, di diventare appunto metafora. Hirayama è un solitario che la solitudine l’ha scelta, e sa riempirla facendo ricorso a un bagaglio di interessi ridotto ma non leggero (libri, musica, cura delle piante, fotografia): vive in una casetta minuscola ma indipendente, senza condomini e senza vicini chiassosi o invadenti, e si è organizzato le giornate in una routine di gesti che non vengono compiuti in automatico, ma sono assaporati, come il primo caffè del mattino. Si è guadagnato col suo silenzio e la sua presenza discreta il rispetto e la stima delle persone con cui intrattiene quotidianamente i contatti essenziali: si è lasciato alle spalle un tipo di esistenza ben diversa (la sorella con l’autista), ma per quella condizione non prova né nostalgia né risentimento. Insomma, nella sua vita non ci sono interferenze, né familiari (quando ci sono, come nel caso della nipote in fuga da casa, riesce con dolcezza ad attenuarle, ad affrontarle senza lasciar turbare i suoi equilibri) né sentimentali, non sembra avere problemi economici, anche perché vive spartanamente, non nutre ambizioni che possano essere frustrate. Per intenderci, sarebbe l’uomo ideale per i vagheggiatori di grandi utopie. Che detto così, e da me, non parrebbe un gran complimento.

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Eppure, mentre seguivo il film non ho mai avvertito in quel tipo di esistenza un vuoto, l’assenza di calore. Ho piuttosto pensato per un attimo a come avrebbe potuto essere la vita del protagonista se ad attenderlo a casa avesse trovato una moglie e dei figli. Non potevo fare a meno di immaginare che gli avrebbero riversato addosso le loro contrarietà quotidiane, i loro malumori, e nel migliore dei casi un’affettività invadente. Non l’ho invidiato, perché conosco le mie debolezze e perché ho capito subito che si trattava di un esemplare da laboratorio, ma certamente mi ha fatto riflettere su un sacco di cose.

Ciò che credo di avere bene afferrato è che il film non propone un modello di vita radicalmente alternativo a quello attuale, non ne ha alcuna intenzione. Tutto si svolge a Tokyo, una delle metropoli più moderne del pianeta, mica su un’isoletta del Pacifico o in un eremo di montagna. Propone invece una sorta di esperimento in vitro, per il quale era difficile trovare un vitro più appropriato di Tokyo quanto a modernità, razionalità, efficienza e asetticità. Hirayama è il topolino che sopravvive dopo aver ridotto al minimo i suoi bisogni essenziali. Ma non si limita a sopravvivere, vive attingendo benessere da quelle risorse interne che ora ha il tempo di esplorare e gli riempiono i giorni: la meticolosità nei particolari (quando pulisce), la concentrazione sull’efficienza (quando aggiusta), l’attenzione a ciò che lo circonda (quando guida con prudente sicurezza e si guarda attorno ai semafori, o fotografa le piante del parco), la moderazione nei rapporti (quando recupera bambini dispersi senza far piazzate alle madri e senza attendersi riconoscenza, o quando rivede dopo anni la sorella): e poi la pazienza, la discrezione, la comprensione …. Non è un automa ben programmato, ha le sue piccole inoffensive passioni (la musica anni Sessanta, la fotografia analogica) che lo legano a un’epoca presumibilmente meno riservata e che coltiva persino nel rispetto (non maniacale) per una strumentazione obsoleta (il mangianastri). In definitiva, un amore misurato e non esibito per il prossimo, che si traduce in urbanità, e per il proprio lavoro, che si traduce nel piacere di farlo bene, indipendentemente dal fatto che gli altri lo riconoscano.

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Hirayama è il vero anarchico conservatore, come lo erano Orwell e Camus e altri prima di loro che non si sono mai definiti tali, e a differenza di quella torma di imbecilli che rincorrono l’effetto spiazzante dell’apparente contraddizione interna senza avere la minima idea di cosa implichi il termine anarchia e di cosa valga la pena davvero conservare. È un anarchico perché ha ripreso il controllo della sua vita, sottraendolo ai veri poteri forti, quelli del condizionamento quotidiano, e perché mette questa libertà al servizio degli altri, senza sacrificarsi e senza pretendere ad una esemplarità, ma traendone un delicato piacere. È un conservatore, e non un reazionario, perché ha scelto i valori che vale la pena difendere e rispetta le proprie scelte con responsabilità e coerenza, senza farle pesare sugli altri.

Tutto qui: ma sufficiente a farci apparire Hirayama come un alieno. E infatti lo è, anche se sullo sfondo patinato (ma anche freddo) sapientemente fotografato da Wenders il contrasto risulta meno violento. Figuratevelo in un contesto italiano, cessi compresi, dove l’unico suo corrispettivo sino ad oggi espresso veste i panni e le pelli di Mauro Corona. Ora, io non so in che misura Hirayama rispecchi delle caratteristiche del sentire giapponese, la storia mi racconterebbe altro: ma almeno, piazzato lì, come modello per una auspicabile transizione psicologica riesce credibile. In fondo sembra volerci suggerire soltanto che per cambiare davvero registro non sono necessarie grandi rivoluzioni, basta poco: è sufficiente rinunciare senza troppi rimpianti a ciò che non è indispensabile (e che non comprende i film di Wenders e le canzoni di Patti Smith).

In realtà non è poco, è quel tanto sufficiente a rendere questa transizione impensabile: ma potremmo intanto cominciare a scaricarci degli alibi che accampiamo per non cambiare: “non sapevo” e “sapevo, ma non potevo farci nulla”. E ad assumerci almeno la responsabilità di tener puliti i nostri servizi, visto che quelli pubblici qui non ci sono, e di usare quelli, anziché i bordi delle strade. Sarebbe già qualcosa.

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Lettera dal confine

di Marcello Furiani, 21 febbraio 2019

Sono per natura, per pigrizia, per snobismo, per presunzione, per elitarismo, per discrezione e per mille altre ragioni decenti o indecenti uno di passaggio, che cammina ai margini, che c’è e non c’è, intento più a pratiche solitarie – quali bere vino, leggere o ascoltare requiem e dies irae – che a marcare un territorio squadernando le sue ideuzze come un cane che entra in un giardino.

Il sentirsi ai bordi – anche quando apparentemente si vive un’esistenza integrata e appagante – credo sia una predisposizione, una vocazione con cui poco hanno a che fare gli eventi che segnano una vita: è un’inclinazione dell’animo, una pendenza del sangue che scorre lento, uno stare obliquo in mezzo a rette ortogonali.

Questo scarto e questa distanza hanno caratterizzato come un’impronta la mia vita, in un movimento pendolare e oscillatorio che, se da una parte mi tratteneva dall’aderire compiutamente a qualcosa con fede e pienezza, dall’altro conservava sempre dentro di me una radura vacante, un margine disponibile all’imprevisto e alla tentazione verso il discorde e l’inatteso. E ho sempre confusamente preservato questa possibilità, a rischio di apparire indeciso e irresoluto, se non addirittura svogliato e incapace di innamoramento. Il mio sentire si è appagato di sbocconcellare frammenti di idee e ideologie, di spilluzzicare schegge di principi e dottrine – ogni volta critico e diffidente verso ogni entusiasmo massimalista e ogni festosità fondamentalista – sempre re-stando sulla soglia, mai varcandola del tutto, come un ospite con il cappotto ancora sulle spalle indeterminato se partire o rimanere. Come chi è sempre di passaggio, il mio modo verbale non è stato la certezza o l’evidenza dell’indicativo, ma il dubbio o la possibilità del congiuntivo: beccheggiavo tra distanza e condivisione in cerchio a compagnie, fazioni, circostanze, episodi, amori, senza che mi si potesse assegnare una parte distinta nella sceneggiatura. Dove molti si muovevano per fede, apostolato, narcisismo o condanna, io – astro periferico – bordeggiavo, navigavo di bolina, cabotavo e strambavo, attratto e incerto, senza mai appendere il cappello a un qualsivoglia chiodo.

Ho sempre disertato ruoli di potere: assecondare il desiderio di dominio è come portare una divisa, annullarsi, dimettere libertà, dimissionare dignità, entrare in una parte dove ci si illude di possedere un senso e invece ci si asservisce solamente a un potere più grande. Figuriamoci – per penuria di talento – insinuarsi come un agglomerato di miceli spugnosi nelle fenditure dell’autorità, nelle crepe di ogni struttura di controllo, germinando se stessi attraverso spore. Insomma, aderire come un micète al potere dominante, all’opinione imperante, alla viltà prevalente: diventare fungo, farsi muffa.

E invece una falange mucida di mediocri tutti uguali, una schiera ma-leodorante di staffieri spersonalizzati, uno sciame appestante di ciambellani foggiati da identica matrice, uno stuolo lutulento di maîtres à penser rozzi e primitivi si sta riproducendo dissennatamente e si avvicenda intercambiabile come gli antechini, quei roditori che prolificano e muoiono in massa nella stagione dell’accoppiamento – dopo un’impennata dei livelli di ormoni dello stress e il collasso del sistema immunitario – o come i fuchi che sciamano intorno all’ape regina, per morire subito dopo l’accoppiamento a causa di un’eiaculazione esplosiva che gli distrugge il pene.

E, come branciconi, occupano ogni posto chiave del potere, tutte le sedie disponibili nella stampa, nella politica, nell’istruzione e nella cultura: dallo scanno alla destra del Padre al poggiapiedi sito nell’ultimo sottoscala o nella stanza di sbratto. Pronti a svaginare il politicamente scorretto per delegittimare ogni etica, stabbiando il terreno della mediocrità più dozzinale, sono portatori malati di un sapere rozzo e ridotto ai minimi termini, accattivante e demagogico, che ha l’unica funzione di livellare la coscienza e lo spirito critico e di uniformare gusti e pseudo opinioni per fare di quel che resta di ogni mente un perfetto ingranaggio dell’apparato.

Si muovono grevi e bercianti come scimmie urlatrici, ingarbugliano in un intrico sfigurato, in un groviglio maleodorante bene e male, morale e opportunismo, interesse e coerenza, onestà d’intelletto e mistificazione. Manipolano e rimestano tra gli istinti meno decorosi di chi li ascolta, come stercorari intenti a trasportare la loro pallottola di escrementi, coltivando un’accidia frivola che disconosce desiderio, senso di colpa, legge e castigo, legittimando ogni miseria intellettuale e ogni infamia morale.

Servitori di qualsiasi padrone, spesso più di uno per volta, questi Truffaldini proteiformi senza umanità sono più realisti del re, ben sapendo che la virtù dei servi è inversamente proporzionale al mantenimento della posizione eretta.
In un mondo appena decente occuperebbero i marciapiedi della Porta Pinciana di Roma a chiedere l’elemosina ai viandanti, come Belisario accecato da Giustiniano.

Per questo non sarò mai un uomo (o scrittore, o amante, o leader, fate voi) di successo. Mi manca la convinzione, la faccia di merda, l’impertinenza, l’ingenuità, il candore o la spudoratezza, la beata o colpevole inconsapevolezza.
Mi mancano tutti questi attributi per diventare un Mauro Corona che da alpinista veste la maschera da giullare in tv mettendo in scena la caricatura di se stesso o un Massimo Recalcati, che da studioso serio ha virato verso una tuttologia da guru, da maestro, da precettore spirituale, da sacerdote applicando categorie della psicanalisi a ogni cosa che si muova, che sia la scuola o Renzi, con esiti da commedia ridicolosa del Cinquecento. Per non menzionare personaggi alla Diego Fusaro – che per il solo merito di aver cucinato un uovo in camicia e aver pubblicato alcuni libri, viene insignito del titolo di filosofo – abile solo a ripetere meccanicamente i soliti slogan, tradendo l’oggetto dei suoi studi. Un esempio per tutti: Antonio Gramsci. Il Gramsci di Fusaro – che rende pappetta per sdentati le parole di Costanzo Preve – è anti-scientifico e nazionalista, è una filiazione diretta del gramscismo di destra teorizzato negli anni settanta da Alain De Besnoit: un Gramsci fascista, se teniamo fede alla definizione che lo stesso Besnoit fornisce al fascismo come, appunto, “variante del socialismo avversa al materialismo e all’internazionalismo”. Insomma, il marxismo di Fusaro è “immaginario”, per citare Raymond Aron.

L’elenco del bestiario è infinito, ma mi fermo qui per indulgenza e sfinimento.
Perché, forse, non è nemmeno saggio – né divertente – occuparsi della servitù.

Quello che maggiormente è irritante e ignobile è la mistificazione che passa attraverso il linguaggio.

Oggi le parole non dicono più nulla, perché nulla vogliono dire: in un mondo che non distingue, non discerne e non riconosce tutto ha lo stesso valore, cioè nessuno: borseggiando le parole e depredando il linguaggio si smercia fiele di vacca per salsa di gambero.

Ma la parola è “all’inizio”, è fondativa. E ognuno di noi è responsabile della propria parola, il cui valore è nella versatilità, nella premura, nell’accuratezza e nella potenza di pensiero che elargisce. Dalla qualità delle parole che pratichiamo dipende la qualità della vita.

Io vorrei una lingua precisa, esatta, variegata, screziata e cangiante. Anzi, voglio una lingua che inchiodi, che imbulloni, voglio parole che mettano alle strette, che mettano alle corde, capaci di imprimere, di radicare, di marchiare, di urticare. Voglio una lingua di parole rifondate, da maneggiare con cura, affilate e acuminate, arrotate e molate dall’etica e dalla fatica, parole da sudare, da espugnare, da guadagnare come un approdo, come un ormeggio, come la cima di una scalata.

Sì, io sono per la violenza della parola, visto che la parola dei poeti è esiliata, e quella dei visionari, degli allucinati, dei congedati, degli indifesi, degli intimiditi e intimoriti e sgomenti, tra manganelli e sfollagente, tra nuovo medioevo terminale e libero mercato imperante in odore di catastrofe.