Confessioni di un anglomane

di Paolo Repetto, 13 dicembre 2024

Chiacchierando con Vittorio (si parlava della mini-serie sui giallisti inglesi che ha postato recentemente su questo sito), abbiamo messo a confronto i nostri rispettivi rapporti con l’Inghilterra, con la sua storia, la sua cultura e i suoi abitanti. Il risultato era scontato, siamo entrambi anglofili ferventi, anche se con approcci diversi. E non è neppure una novità: ci conosciamo da tempo. Solo, non ne avevamo mai parlato diffusamente prima.

È nata di lì quindi l’idea di trasferire sulla carta le mie impressioni: una modesta dichiarazione d’affetto per la piccola grande isola, che mi accomuna peraltro a diversi connazionali illustri, come ad esempio – si parva licet – Luigi Meneghello o Beppe Fenoglio, o a coetanei d’oltreoceano, come Bill Bryson, professatisi inglesi d’elezione.

Una dichiarazione d’affetto non è una dichiarazione d’amore. L’amore è cieco, mentre il mio è un sentimento più controllato, che permette di rilevare gli aspetti di quella cultura che non mi piacciono, e di criticarli, ma di considerarli alla fin fine meno significativi di quelli che mi attraggono. Questo dovrebbe prevenire le obiezioni: ma la Brexit, ma gli hooligans, ma questo, ma quello … Certo, lo so, e non dico che me ne freghi niente, ma qui almeno ho come contropartita qualcosa di più della pizza e della canzone napoletana (non tiriamo in ballo le rovine classiche e i tesori d’arte che i nostri antenati hanno prodotto secoli fa, sono eredità non possono essere fatte pesare nel confronto – semmai testimoniano la nostra odierna decadenza). E poi, mica intendo stilare delle classifiche di cultura o di civiltà: semplicemente vorrei spiegare a me stesso – perché agli altri giustamente interesserà ben poco – cosa mi attrae di quella cultura e di quella civiltà, sapendo che il modo migliore per fare una cosa del genere è obbligarmi a mettere il tutto per iscritto.

Mentre ne parlavamo mi è venuto comunque in mente che io quel sentimento l’ho già espresso in più occasioni, è sparso nei vari pezzi che ho scritto, e che quindi potrò cavarmela con un’antologia di stralci dalle cose postate sul sito o dalla mia corrispondenza. Non è solo questione di pigrizia (anche se, insomma …), di autoreferenzialità o di insofferenza a ripetere cose che ho già detto. Credo davvero che solo le impressioni a caldo, e così pure quelle buttate giù a margine di altri argomenti, possano rendere con la giusta immediatezza un’attrazione difficilmente traducibile in argomentazioni lucide.

Devo premettere inoltre che nel mio caso il sentimento non nasce da un’assidua frequentazione, anzi: sono stato in Inghilterra cinque o sei volte, ne conosco solo una piccolissima parte, non ho mai avuto amici inglesi, non solo non parlo correntemente, ma conosco poco anche a livello elementare, la lingua. Il perché di questa affezione lo lascio alle pagine che ho raccolto di seguito, credo lo spieghino sufficientemente. Mi limito pertanto a pochissimi dati sulla frequentazione.

Ho vissuto a Londra per poco più di un mese cinquantacinque anni fa, nel 1969. C’ero finito al seguito di un amico conosciuto all’università, che vantava conoscenze nella capitale inglese, ragazzi italiani che ci avrebbero ospitato e “introdotto”. Già il viaggio, su una scassatissima cinquecento, si era rivelato un’avventura. All’arrivo la cosa si fece anche più interessante, perché gli amici erano naturalmente dei morti di fame come noi, che si barcamenavano alla meno peggio in sistemazioni e relazioni assurde. Sbarcammo a Londra come gli emigranti italiani di fine Ottocento a Long Island, e per tutto il tempo della nostra permanenza fummo occupati a trovare un tetto per la notte e qualcosa da mettere sotto i denti durante il giorno.

Un giorno dovrò raccontare tutto questo: per ora basti sapere che ero partito con sessantamila lire in tasca, che al cambio odierno sarebbero trenta euro, ma rivalutate in base all’inflazione corrisponderebbero a cinque-seicento euro. Coi quali però dovetti sostenere anche la metà delle spese di viaggio (benzina, traghetto, forature e inconvenienti vari), per cui al netto disponevo dell’equivalente di meno di trecento euro. Insomma, nelle ultime settimane ho fatto la fame e sono tornato a casa letteralmente senza una lira in tasca, dimagrito di cinque o sei chili.

In quelle condizioni confesso che l’impressione lasciatami dalla città non fu particolarmente positiva. Forse per questo non ho più messo piede in Inghilterra fino al nuovo secolo. Preferivo continuare a conoscerla attraverso i libri e i film, rispondevano meglio all’idea che mi ero fatto e non mi costringevano a diete ipocaloriche.

L’occasione di un ritorno è arrivata quando Chiara, la maggiore delle mie due figlie, si è trasferita per lavoro sull’isola, prendendovi casa e cittadinanza. È accaduto poco più di vent’anni fa, e da allora come dicevo sono tornato quattro o cinque volte (senza mai però toccare Londra, se non per il transito aeroportuale). Ho visitato il Somerset, il Devon e la Cornovaglia a sud, la Cumbria e il Lancashire al nord, ho solo sorvolato la Scozia e le Shetland. Che significa in pratica aver visto poco o nulla. In compenso ho conosciuto i colori della natura inglese in tutte le stagioni. E quelli qualcosa mi hanno aiutato a capire.

Nel buttare giù queste cose (e rileggendo quelle che ho scritto in più occasioni precedenti) mi chiedo se nella inossidabilità della mia anglofilia non ci sia qualche motivazione più profonda, magari inconscia, o subentrata di recente, che vada al di là delle giovanili suggestioni letterarie (per quanto queste continuino a ripetersi). E credo di poter individuare questa motivazione nel fatto che vedo ormai nell’Inghilterra l’ultimo baluardo della cultura e della civiltà occidentale.

Può sembrare paradossale, per un paese che ha il numero più alto in Europa di abitanti originari di altre parti del mondo, ma è così. In altri tempi l’Inghilterra è stata salvata dalle invasioni dal suo essere un’isola: oggi le sue difese non sono più quelle naturali, ma quelle culturali. La lingua, ad esempio: la maggioranza di coloro che sono migrati in Inghilterra nell’ultimo secolo non si è scontrata con una barriera linguistica, essendo ormai l’inglese una lingua universale: e questo non li ha indotti a fare gruppo solo con i propri connazionali o correligionari, ma ha consentito loro di integrarsi con relativa facilità, di assorbire costumi e mentalità dell’isola. Al contrario di quanto accade da noi, ma anche in Francia, in Germania, in Olanda, dove si sono insediate culture diverse che tendono a preservare gelosamente le loro differenze e a sviluppare una propria autonomia, in Inghilterra diventano bene o male tutti inglesi. E questo malgrado poi ottenere la cittadinanza inglese sia tutt’altro che semplice e a buon prezzo: mia figlia, che risiede là da quasi vent’anni, parla la lingua meglio degli autoctoni, ha un lavoro stabile e una casa di proprietà, ha dovuto sborsare più di mille sterline e superare due esami, uno di lingua e uno di cultura, due prove serie e non due ridicoli pro-forma, per essere accolta.

Questo produce un ulteriore paradosso: gli inglesi, che proprio attraverso la diffusione o l’imposizione della propria lingua (e della propria cultura) a livello mondiale sono stati tra i principali artefici della globalizzazione, risultano essere oggi uno dei popoli meno “globalizzati”, almeno nel senso che sono ancora tenacemente attaccati alla loro storia e alle loro tradizioni.

Ecco, sto naturalmente semplificando al massimo, ma credo che la differenza stia proprio lì: gli inglesi hanno stabilito delle regole. Non hanno nemmeno avuto bisogno di scriverle, le hanno sempre date per scontate: volevano imporle a casa degli altri, figuriamoci nella propria: se vuoi abitare qui, devi adeguarti alle leggi e alla consuetudine locale. Per il resto sei libero di pensare, credere, vestire e mangiare come vuoi.

Queste regole sono state fatte rispettare e hanno funzionato sino ad oggi, e se non hanno necessariamente favorito l’instaurarsi di relazioni d’amicizia (la fonte informata è sempre mia figlia) tra gli immigrati e gli “indigeni”, hanno quanto meno consentito una pacifica convivenza. È possibile che per il futuro le cose si complichino, i segnali già ci sono, ma al momento l’Inghilterra sembra ancora determinata a difendere il ridotto occidentale.

Ho cercato di scegliere, tra le centinaia di pagine che ho scritto in proposito, quelle che della cultura e della civiltà britannica coglievano le sfaccettature meno scontate. Naturalmente non mancheranno le ripetizioni, giustificate comunque dal fatto che quanto ho recuperato è stato scritto in tempi e in occasioni diverse, ed era destinato a differenti interlocutori.

Sono anche consapevole che tanto ripetute manifestazioni di “affetto” possano apparire esagerate e far sorridere. Ma corro il rischio volentieri, perché nel miglior spirito anglosassone nutro la pretesa che mi legge sia anche in grado di capirmi.

da Mr. Psmith nella Grande Mela (2018)

[…] Io sono malato di anglofilia, sono a tutti gli effetti un anglomane. Ma la mia è un’anglomania “povera”, coltivata per moltissimo tempo solo a tavolino, sulle letture in traduzione dei libri di Stevenson, di Kipling, di Wilde, di Conrad e di infiniti altri. Nemmeno oggi parlo l’inglese, lo leggo e lo capisco a stento. È anche un’anglomania selettiva: non sono mai stato un fan dei Beatles o dei Rolling Stones, e meno che mai di Elton John. E non è totalmente acritica: sono convinto che gli inglesi siano affetti da una incredibile spocchia e abbiano sempre guardato al resto del mondo come se avessero qualcosa da insegnargli (tra l’altro, sempre presumendo che gli altri non fossero comunque in grado di imparare). Quindi, in realtà ci sarebbe ben poco da amare: a meno di essere convinti che abbiano ragione.

Ebbene, non posso negare che una qualche idea del genere la coltivo, a dispetto anche dell’opinione della mia prima figlia, che in Inghilterra ci vive ed è cittadina inglese e dei suoi connazionali dice peste e corna. È una convinzione che viene rafforzata da ogni breve permanenza nell’isola (e lo è ulteriormente ogni volta che ne vengo via). Vedo qual è la realtà inglese attuale, e come gli inglesi si siano ridotti, ma continuo ad amarli, con tutti i loro difetti di ieri e di oggi. Cosa che non mi succede, ad esempio, coi romani.

Forse dovrei dire piuttosto che amo la “civiltà” inglese: ma quella civiltà è appunto il prodotto di uno spirito, di uno stile, di una cultura che mi appaiono straordinari, e che appartengono (o forse appartenevano) solo a loro. Posso affermarlo con cognizione di causa perché i miei interessi, che occupano uno spettro piuttosto ampio, hanno fatto sì che li incrociassi continuamente. Dovunque mi abbia portato il mio disordinatissimo percorso culturale, li ho trovati. Magari non erano approdati per primi, ma una volta arrivati c’erano rimasti. Ora, non è questione di qualità, non penso cioè (a differenza degli inglesi stessi) che nascano in Inghilterra intelletti “superiori”. Quelli possono nascere ovunque. È invece una faccenda di quantità, e un numero eccezionale di personaggi fuori dal comune: e il numero è tale che agli inglesi tanto straordinari poi non sono mai parsi. Lo sembrano a noi, dal di fuori. A me, senz’altro.

Sul perché di questa eccezionale fioritura ho le mie teorie, fondate sulla storia e non sulla biologia, delle quali ho già parlato in Due lezioni sulla storia inglese: ma per farsene un’idea è sufficiente leggere ad esempio, in Tour de France, di Richard Cobb, il racconto dell’adolescenza e del percorso di studi di uno storico anglosassone.

da Elisa nella stanza delle meraviglie (2003)

Letterature: gli inglesi

[…] Mi accorgo solo adesso che la letteratura inglese è quella che occupa il maggior numero di ripiani. Così su due piedi non saprei dartene una spiegazione. È evidente che gli inglesi hanno scritto molto di più rispetto ai rumeni o agli estoni, proporzionalmente e in assoluto: ma qui sono rappresentati in misura doppia anche rispetto ai francesi, ai russi, ai tedeschi e agli americani. E questo non è più un rapporto proporzionalmente oggettivo, dice di preferenze e di interessi soggettivi.

La mia consuetudine con la letteratura inglese è indubbiamente remotissima, dura ormai da cinquant’anni. Come già ti dicevo i classici per la gioventù me li sono fatti tutti (tranne Peter Pan, ora che ci penso: chissà perché nessuno ha mai pensato a regalarmelo. O forse ci hanno pensato, e poi han ripensato bene?) e probabilmente la spiegazione sta proprio lì. Nessun’altra letteratura offre tanti spunti e occasioni diverse per fantasticare (e per innamorarsi quindi dei libri) ai fanciulli e agli adolescenti. Ma c’è dell’altro. Con gli inglesi sei da subito in bilico tra la letteratura giovanile e quella adulta, anzi, entri immediatamente in quest’ultima perché leggi cose scritte per adulti ma facilmente riconducibili alla misura di un ragazzo. Uno dei primi libri che ho letto si intitolava Racconti da Shakespeare, erano riduzioni a novella delle sue tragedie. I contemporanei italiani di Shakespeare si chiamano Tasso e Marino: al di là del fatto che sfido chiunque a ridurre l’Adone per i ragazzi, se mai lo si fosse fatto per la Gerusalemme liberata (e comunque sarebbe risultato altrettanto difficile) si sarebbe gridato allo scandalo. Non parliamo poi de I promessi sposi!

Confessioni di un anglomane 03Gli inglesi invece scrivono Kim e Alice nel paese delle meraviglie, che puoi leggere con eguale soddisfazione a dieci o a sessant’anni, o le storie dei cavalieri della Tavola Rotonda, o le avventure di Robinson Crusoe e di Oliver Twist. Sono libri che non ti senti in dovere di nascondere, appena accedi alla letteratura adulta, come accade invece con Salgari, perché non sono bollati come appartenenti a generi “minori” o marginali. Fanno parte integrante della letteratura di quel paese, ti accompagnano nella tua maturazione lungo un percorso ininterrotto sui sentieri della fantasia. Nelle scuole inglesi degli anni Cinquanta e sessanta i miei coetanei leggevano Kipling, Conan Doyle, Stevenson: a me, se mi trovavano sotto il banco un romanzo di Scerbanenco, mi cacciavano dalla scuola.

Vedi Elisa, torna in ballo la questione che abbiamo già affrontato a proposito della poesia: ci sono popoli che hanno saputo coltivare il piacere della cultura, del farla come del consumarla, ed altri che ne hanno invece sempre riverito e sofferto il “peso”. C’entrerà la religione, o il clima e gli inverni lunghi, non lo so: sta di fatto che l’ultimo libro di poesie di Tom Hugues ha venduto in sei mesi seicentomila copie, mentre Ossi di seppia non le ha vendute in ottant’anni.

Confessioni di un anglomane 04 Oscar WildeNei confronti della letteratura inglese non c’è stata quindi una vera e propria “scoperta”, ma un passaggio graduale e conseguente. Forse potrei far coincidere l’ingresso nella fase totalmente “adulta” del rapporto con la lettura de Il ritratto di Dorian Grey, che mi ha preso a dispetto dell’inconsistenza della storia, per puro innamoramento dello stile e dell’arte del paradosso. Non so quanto abbia retto il romanzo a questi ultimi quarant’anni: ogni tanto c’è qualche studente che me lo chiede, forse perché intrigato dalla fama di libro un po’ “scandaloso”, ma quando lo riportano non vedo brillare nei loro occhi nessuna scintilla di entusiasmo. Io ormai non lo ricordo nemmeno più, ma ricordo che lo snobismo di Wilde, il suo culto dello stile, una qualche impressione deve avermela fatta, se mi ha spinto a leggere poi con gusto anche tutto il suo teatro, nonché i saggi (tra i quali è godibilissimo, e quanto mai attuale, La decadenza della menzogna).

Questa dello stile, di vita intendo, oltre che letterario, è una fissazione comune un po’ a tutti gli autori inglesi, non solo a Wilde. E forse questa è l’altra spiegazione del primato della presenza inglese nei miei scaffali. Vedi, io ho vissuta nella fanciullezza un’intensa militanza da chierichetto, precettata da tua nonna ma anche in parte sentita. Per cinque o sei anni ho sbaragliato la concorrenza nelle classifiche a punti del servizio, per poi, quando la superiorità era ormai manifesta e schiacciante, perdere inesorabilmente la fede. Non è stato facile, non tanto resistere alle pressioni materne, quanto imparare a convivere con principi che ormai si erano radicati, ma che non avevano più nessuna giustificazione in un quadro morale ben definito. Dovevo costruirmi un’etica, non mi bastava più De Amicis e non potevo certo chiedere soccorso a Pellico o Manzoni. Quelli giusti erano Conrad e Kipling, insieme magari a London. L’etica del dovere e della solidarietà, e l’orgoglio della solitudine. Guarda che non so scherzando: probabilmente sono state più che altro delle conferme, trovavo lì la perfetta corrispondenza con ciò che sentivo, ma è indubbio che hanno contribuito a rafforzare le mie inclinazioni (e diciamo anche le mie manie: dopo aver letto Lawrence d’Arabia spegnevo i cerini e le candele con i polpastrelli delle dita, per temprarmi a resistere alla tortura).

Sono molti, in effetti, gli autori inglesi che vale la pena conoscere: praticamente tutti quelli che trovi qui, più gli altri distribuiti nelle sezioni “speciali”. Messi assieme occuperebbero un intero scaffale, da cima a fondo (ma è anche da dire che quattro o cinque come Dickens o Conrad, o come Kipling e Stevenson, per non parlare di Shakespeare, portano via da soli tre quarti dello spazio, soprattutto se si ha la pretesa di raccogliere praticamente tutto quel che è stato tradotto). Non è certo il caso che te li presenti uno ad uno: quando arriverà il momento incontrerai quelli giusti, si faranno avanti da soli. Al più posso segnalarti qualche lettura particolare, di quelle meno scontate. Ad esempio questo libretto di Kipling, Qualcosa di me, dove viene rievocata un’infanzia prima favolosa (è nato in India) e poi tristissima (è stato spedito a sei anni a studiare in Inghilterra), ma dove si capisce soprattutto perché un poeta inglese che canta l’imperialismo rimane un poeta, mentre un italiano che fa altrettanto (pensa a D’Annunzio) diventa un trombone. Anche Stevenson ha scritto cose “minori” simpaticissime: il suo Viaggio nelle Cevennes in compagnia di un asino mi aveva quasi convinto a recuperare un mulo dell’esercito per farne un compagno di escursioni. E poi c’è Jerome, Tre uomini in barca. Una volta era considerato un classico dell’umorismo, oggi, per palati educati alla comicità demenziale, potrebbe avere un sapore di stantio. Ma non è così: prova a godertelo nelle condizioni giuste, sotto un albero in aperta campagna, lontano da televisione e walkman, e riassaporerai il gusto perduto della finezza (anche qui, è questione di stile).

Confessioni di un anglomane 05 Virginia WoolfNaturalmente, le donne. Ci stavo arrivando. Nella letteratura inglese non si può prescindere dalla scrittura al femminile, nemmeno io ho il coraggio di farlo. Sono passato per la Mary Shelley, per le Bronte, per Jane Austen, per la Barrett, su su fino ad arrivare alla Mansfield e a Virginia Woolf (e poi basta, però. Le voci femminili importanti sembrano fermarsi agli anni Venti. Deve essere accaduto qualcosa alle donne inglesi). Beh, queste devi leggertele tutte, non si scappa. Magari scegliendo, Senso e sensibilità ad esempio, o Jane Eire, se vuoi farti un’idea. E per entrare in argomento puoi iniziare con Flush, della Woolf, e proseguire subito dopo con Una stanza tutta per me, che della scrittura al femminile è un po’ il manifesto.

Io non credo di essere il lettore più adatto a cogliere tutte le sfumature di una sensibilità femminile (te n’eri già accorta? Meglio così), per cui se mi chiedi cosa mi attiri veramente in queste autrici temo di darti delle spiegazioni deludenti. Ho l’impressione che tutte queste storie, anche quelle apparentemente più pacifiche della Austen, siano in realtà tese come corde di violino, giocate su un minimalismo dei fatti e un massimalismo della loro interpretazione che nella scrittura maschile sono assenti. Le storie al maschile sono più piane, più distese, anche quando sono infarcite di massacri e violenze e peregrinazioni: in quelle femminili il massacro è continuo, sottile, apparentemente incruento, la tensione non cade mai. E questo mi piace, lo capisco fino ad un certo punto, cioè capisco fino ad un certo punto come si possa vivere e pensare così, ma letterariamente mi piace.

Per questo mi piace molto anche un autore come E.M. Forster, perché ha una sensibilità molto prossima a quella femminile, ed è uno dei pochi (assieme a Flaubert e ad Henry James) in grado di rappresentare uno sguardo femminile sul mondo (se poi ci riesca davvero, ripeto, non lo so. A me pare di sì). Prova a leggere Camera con vista, tra qualche anno, e magari ne discuteremo. Ma mi rendo conto che sono le chicche quelle che aspetti. Allora, salta quei venti volumi di Conrad (nel senso non di “scàrtali”, ma di “acquistali in blocco”), mettendo magari da parte per un primo assaggio I duellanti (di là c’è anche la videocassetta del film che ne hanno tratto, può essere interessante, dopo) ed estrai quel libricino azzurro. Si, sono poesie, il titolo è Grazie nebbia, il poeta è W.H. Auden. Scegline una a caso, e prendi a metà: “Ma il Tempo, il dominio dei Fatti / richiede una Grammatica complessa / con molti Modi e Tempi / e in primo luogo l’Imperativo. / Noi siamo liberi di sceglierci la strada / ma scegliere dobbiamo, non ha importanza / dove conduca, e le storie che raccontiamo / del passato hanno da essere vere”. Hai capito? Via, non pretendiamo troppo, intendevo dire se hai capito perché mi piace: perché dice le cose più vere con le parole più semplici. Lì accanto ci sono gli altri volumi delle sue poesie La verità, vi prego, sull’amore e una raccolta antologica. Quando dovessi chiederti se esiste e cos’è la poesia, aprine uno.

Confessioni di un anglomane 06 George OrwellAuden ha combattuto in Spagna, al tempo della guerra civile, nelle Brigate Internazionali. C’era anche Orwell in quelle brigate, come militante anarchico, mentre Auden era comunista. Orwell è famoso per La fattoria degli animali, che puoi leggere anche subito, e per 1984, che ti consiglio di affrontare più in là. Ma qui ci sono anche i suoi saggi, Sul leggere, Sullo scrivere, Sul chiedere e sul non chiedere, Sul vivere e sul morire, raccolti sotto il titolo Nel ventre della balena. In realtà non sono veri e propri saggi, sono raccontini autobiografici di fattura squisita e di eccezionale sostanza etica, come l’autore, del resto.

Io in genere non riesco a fare distinzione tra l’autore e l’opera. Dicono che non è giusto, che occorre leggere senza condizionamenti biografici, che se la mettiamo così anche Leopardi era un golosone e Foscolo uno sciagurato e Salgari si perdeva se usciva da Verona: ma non è a queste stupidaggini che mi riferisco, anzi, le trovo gustose. Voglio coerenza nelle cose importanti. Se uno scrive l’Emilio e manda cinque figli a morire al brefotrofio, ho delle difficoltà a dargli credito. Se uno (come Sartre) che non ha mosso un dito per gli ebrei durante l’occupazione nazista si riscatta, dopo la guerra, con un saggio sull’antisemitismo, e dopo aver attaccato nella maniera più feroce Koestler e Camus perché antistalinisti si scopre libertario nel ‘68, quale obiettività è possibile? Si salta a piè pari. Bene, Orwell è tra quelli che dimostrano che la coerenza è possibile, e che è quindi giusto pretenderla.

Confessioni di un anglomane 07 Bruce ChatwinUn’eccezione però riesco a farla. Per Chatwin. Come uomo Chatwin doveva essere di un’antipatia unica, l’ultima persona che vorresti avere come compagno di viaggio. Ho dovuto interrompere la lettura di una sua biografia (tra l’altro, scritta da un certo Nicholas Shakespeare) per eccesso di avvilimento. Ma come scrittore, di viaggio e non, è superbo. Utz e Sulle colline nere sono due gioiellini, il secondo non sfigura accanto ai libri di Thomas Hardy. È possibile che io non sia granché obiettivo nel giudizio, ma in senso favorevole all’autore, perché c’è di mezzo anche un mio diritto di prelazione: credo di essere stato uno tra i primissimi a leggere in Italia il libro che lo ha reso famoso, In Patagonia, subito dopo l’editore e i correttori di bozze, e per qualche mese ne ho tenuto l’esclusiva. E sai quanto godo di queste cose!

Sono arrivato piuttosto tardi invece a Il signore degli anelli. Tardi, ma sempre con largo anticipo sulla cultura di sinistra, che per anni lo ha ostracizzato o ignorato e poi ne ha conteso il culto alla destra. Tardi, ma d’un fiato. Neppure tu, con le tue innate doti di pervicace rompiballe, saresti riuscita a distrarmi quando ho cominciato il viaggio con Gandalf e Frodo Baggin. Spero che l’aver visto il film non ti dissuada, come mi sembra stia accadendo ad un sacco di ragazzi. Sono millecinquecento pagine, ma quando arrivi in fondo avresti solo voglia che fossero il doppio.

Confessioni di un anglomane 08 TolkienTra l’altro, sempre a proposito di coerenza, nello scaffale opposto, dove arriveremo più tardi, c’è un librone di Humprey Carpenter, Gli Inklings. È una sorta di biografia collettiva di un gruppo di amici, tra i quali lo stesso Tolkien, C. S. Lewis, Charles Williams, tutti docenti ad Oxford negli anni Venti e Trenta, raccolti in circolo informale sotto il nome appunto di Inklings, che invece di cacciarsi le dita negli occhi a vicenda come in genere avviene nell’ambiente universitario si trovavano tutti i giovedì sera per discutere, leggere ciò che avevano scritto in settimana, farsi qualche bicchiere di Porto o di scotch. Quando uno di loro doveva tenere qualche conferenza nelle città vicine era una festa collettiva: partivano a piedi nel weekend, arrivavano a farsi anche cento chilometri, con frequentissime soste nelle osterie sul cammino, tornavano alla stessa maniera e riprendevano il loro lavoro accademico. Dove sta la coerenza? Nell’amicizia Elisa, nella capacità di non sacrificare l’amicizia alla loro professione o alla loro vocazione di scrittori. Non sapevo nulla di tutto questo quando ho letto Il signore degli anelli, ma non potevo fare a meno di accorgermi che chi scriveva conosceva davvero il valore dell’amicizia.

Gli Inklings sono diventati anche il modello per un’esperienza personale di questo tipo. Per qualche anno, poco prima che tu nascessi, è esistito un gruppo di amici che si ritrovava a cenare ritualmente, quasi ogni settimana, al nostro capanno, e tirava tardi discutendo di cinema e di politica, facendo pettegolezzi e progettando escursioni, mettendo in cantiere mostre e redigendo riviste. L’unica cosa in comune con gli Inklings era probabilmente il tasso alcolico, ma i Viandanti delle Nebbie hanno corrisposto ad uno dei periodi più autentici della mia vita. Il gruppo, come motore di iniziative, non esiste più, ma gli amici sono rimasti: e a tenerli legati è, ancora e sempre, il comune amore per la letteratura.

E adesso chiudiamo, perché bisogna pur arrivarne ad una e perché ho bisogno di una pausa per il caffè. Non prima però di averti fatto notare questo libretto di racconti di Alan Sillitoe, La solitudine del maratoneta. Negli ultimi vent’anni credo lo abbiano letto solo i miei studenti, non lo trovo citato in alcuna antologia o bibliografia sulla condizione adolescenziale. Ma è perfetto, nella sua secchezza, nella capacità di evocare il peso di una condizione carceraria senza ricorrere a trucchi granguignoleschi, nel gesto finale autolesionistico di dignità e di coerenza. Malgrado il traino di un film altrettanto bello che ne è stato tratto, qui da noi non ha avuto una grossa fortuna nemmeno negli anni della contestazione. Troppo inglese, troppo elegante, troppo aristocratica come etica, evidentemente.

Libreria Paolo 05 b&n

da: I regali di un tempo (2013)

Confessioni di un anglomane 09 FermorHo sentito la voglia di raccontarlo [ndr: Patrick Leigh Fermor] quindi per quattro ragioni, e direi che ce n’è d’avanzo: perché era un uomo coraggioso, perché era un intellettuale raffinato, perché era un grande camminatore e perché era uno snob quale solo gli inglesi sanno esserlo. Fermor appartiene alla dinastia dei Byron, George ma soprattutto Robert, quello de La via per l’Oxiana, e risalendo più in su ancora, del bucaniere Dampier, e allungando indietro lo sguardo, dei cavalieri della Tavola Rotonda. E anche di Orwell o di Auden, pronti a combattere per quella che ritengono la causa giusta, e a fermarsi appena hanno l’impressione che tanto giusta non sia, o che comunque non sia più la loro causa. Individualisti, per nulla disposti a sacrificare la loro autonomia di pensiero agli interessi di un’idea che, nel momento in cui non garantisce la massima libertà individuale, non riesce più accettabile.

Ecco, credo che stia lì la radice di tutto: crescendo nella lettura di Malory fin da ragazzino, in quella dei classici nell’adolescenza (ed è da notare che per gli inglesi i classici per eccellenza sono i greci, e non i latini, e l’autore classico più popolare e letto in assoluto è Plutarco. Col risultato che gli studenti italiani conoscono soprattutto Cicerone e Seneca, e per essi la classicità rimanda paradossalmente all’esistenza di uno stato, o comunque di una ragione esterna superiore, alla quale poi in realtà non credono perché se ne sentono vittime, e non protagonisti: mentre al contrario gli inglesi hanno il senso dello stato proprio perché esso sembra esistere apposta per garantire in primo luogo la loro libertà) e con i libri dei viaggiatori e degli esploratori, o comunque di gente che ha girato il mondo in lungo e in largo nella giovinezza (si pensi a Stevenson, a Kipling, a Conrad), se uno poco poco è permeabile si imbeve di un’idea della vita tutta particolare. Quella del mondo viene di conseguenza, ma direi che nella prospettiva inglese è secondaria. Mentre noi ci trinceriamo dietro il Fato, e ci arrendiamo senza troppe resistenze al condizionamento delle contingenze esterne, gli inglesi sono persuasi di poterle tranquillamente governare. Questo spiega perché la nostra letteratura veda come protagonisti di norma degli anti-eroi, inetti, sconfitti o annoiati, e perché il personaggio letterario che forse meglio rispecchia il nostro sentire sia Don Abbondio, mentre già un secolo prima gli anglosassoni si identificavano in Robinson Crusoe.

Fermor era un uomo libero, e questo lo iscrive di diritto nella galleria dei personaggi che vorrei contribuire a tenere in vita. In quanto libero, e intendo libero “dentro”, era di conseguenza coraggioso: al limite della temerarietà, ma non dell’incoscienza. Questo non perché dovesse provare a se stesso, o agli altri, il proprio coraggio: semplicemente, si divertiva. È un atteggiamento che non appartiene alla nostra cultura mediterranea, a dispetto della “solarità” che accampiamo e che gli stessi nordici ci attribuiscono. Noi crediamo di essere allegri, invece siamo solo poco seri e melodrammatici. Recitiamo costantemente una parte della quale non siamo convinti: e nemmeno sappiamo giocare lealmente. Gli inglesi in fondo chiamano “grande gioco” tutta la complicata vicenda che li vede contrapposti ai russi nel Medio Oriente nella seconda metà dell’Ottocento. E sono coloro che hanno inventato il concetto moderno di sport, da non confondere con quello postmoderno di industria dello sport. In sostanza, per loro la vita è una cosa seria, e appunto per questo va valorizzata: ma è anche una cosa molto breve, e appunto per questo va presa con il giusto distacco – l’ironia – e con divertimento. Il divertimento nasce solo dal gioco leale, dal concordare delle regole e poi rispettarle. Quindi, gli inglesi prendono la vita come un gioco, e qui sta il loro snobismo, ma sono seri nel gioco, e qui sta la loro forza. (Non sto tessendo il panegirico dello stile britannico, anche se di fatto risulta tale: negli intenti è un panegirico di quello stile che vorrei permeasse qualsiasi atteggiamento esistenziale. Che, chiaramente, non appartiene solo agli inglesi: ma mentre inglesi lo apprezzano, dalle nostre parti – si veda il caso di Berneri – sembra addirittura dare fastidio).

Confessioni di un anglomane 10 Fermor

da: Tom Barnaby, antropologo (2018)

I telefilm di Barnaby non hanno la pretesa di documentare una realtà sociale, e meno che mai di denunciarne il degrado, ma propongono in compenso un campionario interessantissimo di materiale antropologico. Un repertorio sterminato di costumi, di manie, di riti sociali, di istituzioni non ufficiali ma investite di autorità dalla tradizione locale: tutto ciò insomma che dovrebbe caratterizzare nel profondo l’Old England.

Provo a farne un elenco a memoria, che sarà chiaramente molto difettoso, perché in effetti ogni singolo episodio ruota attorno ad un mondo particolare, a riti e a tradizioni diversi. Si va dagli appassionati di birdwatching ai coltivatori di orchidee, dalle gare dei cori a quelle dei campanari, dai club letterari alle bande musicali con majorettes, dagli ufologi alle sette sataniche o naturistiche, dai tassidermisti dilettanti ai micologi, fino ai collezionisti di monete, di punte di frecce preistoriche, di libri antichi e d’arte; e poi via via, i club sportivi, di canottaggio, di tiro con l’arco, di cricket, di pugilato, di equitazione, i passeggiatori a piedi o in bicicletta, gli amanti del mistero e dei fantasmi, delle visite ai cimiteri o alle case stregate, fino alle associazioni di ex-combattenti e ai patiti dei giochi di guerra. A fare incontrare tutta questa gente sono soprattutto le feste paesane, tutte uguali, con le gare di lancio del ferro di cavallo o di tiro con l’arco, la musica della banda sullo sfondo e Barnaby che si aggira fingendosi moderatamente divertito (è stato trascinato lì dalla moglie o dalla figlia) tra i quattro banchetti per l’assaggio delle torte e del sidro: fino a quando il primo omicidio non gli consente di rimettersi in azione. Ai nostri occhi di inveterati sagraioli queste feste di paese inglesi possono sembrare noiose e povere, soprattutto per l’assenza di caciara: in realtà sono molto più sentite e genuine di quelle nostrane, hanno alle spalle una reale tradizione, alla quale rimangono il più possibile fedeli, e soprattutto mirano a far incontrare i paesani, non a richiamare e a spolpare i turisti (questo l’ho constatato personalmente).

I telefilm di Barnaby mostrano in definitiva un’Inghilterra rurale che forse non c’è più (ma nemmeno è del tutto scomparsa), volutamente miniaturizzata in tante oleografiche cartoline, e capace di suscitare un velo di nostalgia. Intendiamoci: è l’Inghilterra che ha votato la Brexit: anzi, è l’immagine che quella Inghilterra ha di se stessa, o aveva sin quasi alla fine del secolo scorso. E che, questo è il punto, vorrebbe conservare. Ma qui scatta un primo paradosso. In effetti la serie quella immagine gliela rimanda, ma nel suo contesto Barnaby ha il ruolo di chi alza la pietra: sotto, appena rovista un po’ più in profondità, vien fuori di tutto: antichi rancori, faide secolari, vendette, invidie, livori, meschinità, cupidigie, drammi familiari, tradimenti, perversioni, superstizioni e manie religiose, insomma, una catena di piccoli viperai. In uno dei primi episodi l’ispettore commenta: “Questo paese sembra il paradiso terrestre: ma non lo è”. Una considerazione che potrebbe essere posta in esergo ad ogni puntata.

Questo aspetto del messaggio certamente piacerà poco a Farrange e alle destre fascistoidi: ma in realtà è perfettamente funzionale a raccontare il gioco complesso e delicato di equilibri sui quali si regge la vita di contea, quelli che l’ispettore è chiamato appunto a difendere e a ripristinare, e a suggerire perché non dovrebbero essere sconvolti. Un manifesto conservatore sottile e accattivante, che mescola abilmente mezze verità e ambigue suggestioni: tanto da non farti neppure vergognare di condividerlo.

lispettorebarnaby

da: Mr Psmith nella Grande Mela (2019)

[…] L’uso che Wodehouse fa della lingua non denuncia solo uno scarto temporale. Evidenzia anche la distanza che prima della definitiva globalizzazione mediatica correva tra la cultura inglese e tutte le altre, occidentali e no. Non esiste altrove il corrispettivo di un Jerome o di un Wodehouse.

Prendiamo il caso dell’Italia. Accennavo al fatto che tra le mie letture giovanili c’era Achille Campanile (che non la pensava come Psmith, perché riteneva che “In certi casi alla stretta d’un ragionamento ineccepibile non si può rispondere che con una bastonata”). Successivamente sono arrivati altri umoristi, da Marchesi a Guareschi a Benni. Ora, la differenza rispetto ai loro colleghi d’oltremanica è palese. Gli italiani, anche quelli più raffinati, usano sempre il linguaggio in una funzione urticante o demolitoria. Scombinano le architetture, giocano sui doppi sensi. Il loro sorriso è amaro, spesso cattivo, e quando forzano la mano può tradursi in uno sghignazzo. La cosa è più evidente ancora se si guarda al cinema, da Fantozzi ai cinepanettoni. La comicità (?) nostrana nasce dalla esasperazione dei caratteri e delle situazioni, e anche quando non è apertamente volgare è comunque sempre urlata.

L’’umorismo inglese è invece contenuto e distaccato: non esaspera le situazioni, ma le legge anzi sottotono, e si esercita prima di tutto sul narratore stesso (Jerome in questo è un maestro). Non è mosso dal sentimento pirandelliano del contrario, ma da quello del bizzarro. Il contrario lo si combatte, sul bizzarro si ironizza, al più si fa del sarcasmo. Mentre da noi Garibaldi voleva impiccare tutti i preti e con le budella dell’ultimo il papa, il lord cancelliere Disraeli, a proposito del suo più accanito avversario, diceva: “Se il signor Gladstone cadesse nel Tamigi sarebbe una disgrazia, ma se qualcuno lo riportasse a riva salvo sarebbe una calamità”. Questo intendo: fossi stato Gladstone, prima di cominciare a pensare a come ribattere avrei sorriso, e probabilmente lui lo ha fatto.

Non so cosa abbia poi risposto.

Confessioni di un anglomane 11

da: Thalatta! Thalatta! (2024)

Confessioni di un anglomane 12 StevensonHo sempre nutrito una grande ammirazione per lo spirito inglese, a dispetto di quanto ne dice mia figlia, che vive sull’isola, ne è cittadina, ma non ha dei suoi connazionali una grande opinione. La mia ammirazione ha una matrice letteraria, senz’altro, perché la letteratura inglese è quella cui ho maggiormente attinto sin da ragazzo e che ha alimentato alla grande la mia fame giovanile di viaggi e di avventura. Il riferimento obbligato in questo caso è naturalmente Stevenson. “Per un ragazzo di dodici anni traversare la Manica è come cambiare cielo; per un uomo di ventiquattro traversare l’Atlantico significa appena un lieve cambiamento di alimentazione. Ma io ero ormai uscito fuori dall’ombra dell’Impero Romano, che ci ha dominato dalla culla con le rovine dei suoi monumenti, le cui leggi e la cui letteratura ci assediano da ogni parte, piene di divieti e di costrizioni.” Schmitt avrebbe visto in queste parole una conferma della sua analisi.

Confessioni di un anglomane 13 ConradNaturalmente parlo dell’Inghilterra di ieri, o perlomeno dell’immagine di sé che quel paese fino a ieri riusciva a trasmettere. Mi son fatto l’idea (e quando mi faccio un’idea rimane ben radicata) che quello inglese sia un popolo che ha saputo mediare tra la volontà di fuga e di rottura e l’attaccamento alla terra e alle convenzioni. Ha attraversato gli oceani non per dimenticare la sua isola, ma per espanderla, per portarne un pezzo altrove, e magari per rigenerarla. Credo anche che il suo rapporto col mare sia stato in gran parte determinato dalle condizioni di temperatura e di violenza di quest’ultimo. Il mare inglese, lo dico per esperienza diretta, non è fatto per starci ammollo ma per essere affrontato: le sue onde, le sue correnti e le sue maree vanno conosciute e rispettate. Conrad ne era consapevole, tanto da scrivere che “Il mare non è mai stato amico dell’uomo. Tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza”. Ma questo non implica un rifiuto, anzi: “Scoprii quanto ero uomo di mare, nel cuore, nella mente e, per così dire, nel corpo: un uomo esclusivamente di mare e di navi; il mare, l’unico mondo che contasse, e le navi, un banco di prova di virilità, di carattere, di coraggio, di fedeltà e d’amore”. Anche qui mi riconosco.

Confessioni di un anglomane 14

dai: Carteggi a Lucia Barba (2018)

[…] Sono nuovamente reduce dall’Inghilterra, dove ho trascorso le feste con la mia figlia maggiore (c’erano anche Elisa e Mara), e mi viene di buttare lì alcune considerazioni spicciole. Intanto gli inglesi sentono le feste molto più di noi. Per essere un paese protestante, non l’avrei pensato. Ma devo dirla meglio: non è che festeggino di più, “sentono” proprio di più. Non si limitano alla compulsione da shopping pre-natalizio o da saldi post-epifania: cercano davvero di credere che le feste abbiano un significato interiore, e non solo vacanziero. Quanto poi ci riescano non lo so, ma almeno ci provano. È difficile spiegare da cosa lo si percepisca, è un’aura particolare che non ricordavo più e ho invece ritrovato passeggiando nel parco di Bournemouth e nelle vie del centro, o osservando gli amici di Chiara che passavano in visita. Non capivo nulla di quello che dicevano, ma sentivo che lo dicevano bene.

Forse riesco a farmi intendere meglio raccontandoti della programmazione televisiva. Nel pomeriggio di Natale il canale principale della BBC trasmetteva Sette spose per sette fratelli, che non rivedevo da quasi sessant’anni e che è davvero il capolavoro che ricordavo. La sera un documentario sulla Lapponia di due ore, il viaggio di due donne e tre slitte trainate da renne lungo una sterminata pianura innevata, macchiata solo qua e là da qualche albero, nella penombra della giornata boreale. Il tutto filmato in tempo reale, con immagini che arrivavano alternativamente da una camera fissa puntata sulla schiena della prima donna e su una chiappa della renna e da un’altra camera puntata sulla slitta di coda, sulla quale sedeva la seconda donna. Nessun commento musicale, nessuno scambio di parole tra le due, solo un brevissimo dialogo (in làppone, che somiglia all’abbaiare di un cane) a metà, quando arriva il momento di accendere le torce per proseguire. Nel primo quarto d’ora sono rimasto esterrefatto, credevo ad uno scherzo. Poi non ho potuto cambiare canale perché Elisa va matta per queste cose e ha sequestrato il telecomando. Infine, poco a poco, tutti abbiamo cessato di mugugnare e borbottare e fare dell’ironia, siamo come saliti sulle slitte e abbiamo atteso di arrivare, sempre nel silenzio totale, o meglio, col solo rumore dei pattini sulla neve.

Non so quanto posso aver reso l’idea, ma è stato bellissimo, incredibilmente natalizio, per come intendo io il natalizio. Mi obietterai che si tratta pur sempre di televisione, e che evidentemente i programmatori inglesi sono un po’ più furbi dei nostri. Ma è proprio questo che volevo dire. I programmatori televisivi sono probabilmente furbi né più né meno dei nostri, e quindi danno al pubblico quello che pensano il pubblico si aspetti: e il pubblico inglese si aspetta quelle cose, le sette spose e il viaggio nella tundra, anziché le vacanze di De Sica sulla neve, e questo vorrà pur dire qualcosa.

Intendiamoci, non sono un esterofilo da diporto. Non credo che gli inglesi, o i francesi, o i tedeschi, presi singolarmente, come individui, siano meglio di noi. Mia figlia poi me ne fa dei quadri ben poco edificanti. E tuttavia, non posso, ogni volta che valico le Alpi, non venire via col magone, al constatare quanto poco basterebbe per essere anche noi civili, e come quel poco non ci sia verso di ottenerlo. Che c’entra questo col Natale?, mi dirai. C’entra eccome. Perché è un discorso di sensibilità. Sette spose per sette fratelli è uno spettacolo che ancora oggi può tenere unite, strette sul divano, tre generazioni. Ci fosse stato mio nipote, l’avrebbe visto anche lui, invece di rintanarsi in un angolo a giocare con lo smartphone. E magari si sarebbe divertito anche con le renne.

Qui immagino invece un cicaleccio ininterrotto di cretini a gettone, ospiti a turno in tutti i diversi studi, o la sessantesima replica annuale dei film di Totò, a fare da sfondo alla delusione per i regali inutili e pacchiani ricevuti e al rammarico per averli contraccambiati al rialzo. Stiamo smarrendo la sensibilità, e questo è un fenomeno collettivo, prima e oltre che individuale. Là almeno sembra solo individuale, e il collettivo cerca di metterci una pezza. Mi spiego meglio. Il giorno dopo siamo usciti per un giro nei dintorni: che sono una splendida sorpresa. Lasciamo andare i paesaggi naturali, le fantastiche falesie, per le quali gli inglesi non hanno alcun merito, se non quello di non aver lasciato costruire per un chilometro almeno all’interno (ed è comunque già qualcosa). Ci imbattiamo ad un certo punto nei ruderi di un antico castello normanno (il Corfe Castle): dico ruderi ma è una costruzione imponente, che abbraccia un’intera collina. Ai piedi c’è un minuscolo villaggio, nato per ospitare chi lavorava all’edificazione del castello, quindi mille anni fa, e rimasto praticamente intatto: voglio dire che le case e la chiesa e le locande, malgrado il villaggio abbia continuato ininterrottamente ad essere abitato, sono state conservate per tutto questo tempo nella loro struttura originaria. Conservate, e non restaurate da una qualche soprintendenza che odia gli intonaci, anche quelli originali, o adempiendo a una normativa che impone comunque due metri e ottanta per i soffitti, e impianti a norma, e tutte quelle cagate lì. I soffitti sono alti quanto un uomo medio, e se sei un po’ fuori misura dopo un paio di capocciate ti adegui. Lo stesso vale per le strade, a doppio senso ma larghe quanto un’auto, così non si devono neppure indicare i limiti di velocità, si impongono da soli.

A questo mi riferisco, al fatto che un po’ di regole questa gente le ha introiettate, con le buone o con le cattive, e adesso non le subisce, ma le sente sue, a dispetto della maggiore o minore credibilità di chi le ha dettate e di chi è deputato oggi a farle rispettare. Questo significa, in linea di massima e almeno per ora, sentirsi responsabilmente coinvolti.

Confessioni di un anglomane 02

dai: Carteggi a Mario Mantelli (2018)

[…] Il mio, di resoconto, te lo anticipo invece, almeno in parte, per iscritto. Sono stato nei luoghi di Wordsworth, di Coleridge, di De Quincey e di Ruskin, nel Distretto dei Laghi insomma, e a dispetto di un colpo d’aria da low coast che mi ha lasciato rigido come un busto romano per tutto il viaggio ho ammirato uno dei luoghi più belli del mondo. Talmente bello da essere alla lunga insopportabile, credo, e questo spiegherebbe perché i suoi illustri abitatori non facessero altro che camminare in lungo e in largo, anche se alcuni solo nelle pause concesse dall’oppio. Ma di questo riparleremo.

Quella che voglio invece trasmetterti a caldo è un’impressione che non ha atteso certo il viaggio per nascere, ma che dal viaggio è stata decisamente e definitivamente confermata. Siamo un paese allo sfacelo, anzi, nemmeno siamo più un paese, siamo solo lo sfacelo. Fino ad ora, a dispetto del disgusto crescente avevo in qualche modo continuato a truccare le carte, trincerandomi dietro paragoni tutt’altro che significativi (gli ultimi viaggi li avevo fatti in Grecia e in Turchia, e già rispetto a quest’ultima il passivo era pesante). Ma appena sali oltre il quarantaseiesimo parallelo la verità è lì, evidente, spietata: stai attraversando un paese, stai incontrando un popolo, sei tra gente che in maniera più o meno fredda o anche rozza ha comunque introiettato l’idea di un qualcosa che appartiene a tutti, non nel senso italiano che tutti possono rubarne un pezzo, ma in quello per cui tutti ne sono responsabili. Thackeray in Italia non avrebbe scritto “La fiera delle vanità”, ma quella delle pretese. Un paese dove tutti pretendono e nessuno è mai responsabile e disponibile (non raccontiamoci palle sul fiorire del volontariato e compagnia bella: io parlo di qualcosa di più serio, non della vanità di fare “qualcosa in più”, ma dell’umiltà di fare semplicemente ciò che va fatto, senza attendere ricompense divine o ritorni in autostima).

Tutto questo, mi dirai, come lo percepisce uno che non biascica una parola di inglese? Proprio dal paesaggio. Ti guardi attorno e constati che le cose sono state fatte come dovevano essere fatte, che nulla stona, nemmeno, per dire, le pale eoliche. Le vedi stagliarsi lì, e pensi che prima di piazzarle hanno fatto due conti, di quelli veri, e non gli studi sulla compatibilità con eventuali colonie di chirotteri, non hanno dovuto fronteggiare cariche di integralisti della wilderness a casa altrui, semplicemente hanno usato il buon senso. E le pale sono entrate allora discretamente, senza protervia, nel paesaggio, e ci stanno benissimo. Oppure gli alberghi. Prospiciente il Dove Cottage, la casa di Wordsworth (nove euro per visitarla, nessun rimpianto. Altrettanto per quella di Ruskin, ma li vale solo il giardino) è stato costruito un albergo che a prima vista pare più antico del Cottage stesso. Hanno solo ripreso il modello degli edifici di fine Settecento, e parrebbe persino le tecniche costruttive. È un falso che non disturba affatto, perché senti che non è falso (a differenza dei recuperi nei nostri centri storici). Senza offesa per la categoria, ma verrebbe da dire: beati quei paesi che non hanno bisogno di grandi e innovative scuole architettoniche. Per non parlare poi dei giardini: danno l’idea di una natura appena appena addomesticata, tanto da conviverci: non le fanno indossare una livrea che presto sarà lercia per la trascuratezza di chi dovrebbe occuparsene e la preventiva, ma anche conseguente, maleducazione di chi li frequenta. In questo caso le scuole di architettura dei giardini ci sono eccome: ma prima di liberare la creatività educano evidentemente alla disciplina, alla serietà.

Vedi, si prova una sensazione totalmente diversa rispetto a quella suscitata dai luoghi pur bellissimi che ancora esistono, a dispetto di tutto, da noi: ti accorgi che gli inglesi queste cose non le esibiscono sfacciatamente (anche se paghi persino l’aria che respiri) ma le concedono, bontà loro e con riservata sufficienza, al tuo sguardo. Tu paghi, ma non hai mai l’impressione di quella smaccata e onnipresente marchetta che ti porti dietro dalle nostre parti. Per dirne ancora un’altra, prendiamo le feste di paese: là sono fatte dai e per i paesani, se passi di lì hai diritto a una o più birre, ma poi togliti dai piedi o stattene da una parte, perché non sei tu il destinatario di quei balli e di quelle musiche.

Insomma, la mia anglofilia è nuovamente esplosa. Ho perfettamente presente la spocchia degli inglesi, non sono un affezionato da diporto alla famiglia reale, ma non mi è mai capitato di pensare “Che bello questo paese: peccato che ci siano gli inglesi”, come invece mi capita quotidianamente da noi, e come pensava Jack Nicholson dell’America in Easy Ryder. Anzi, penso che l’Inghilterra sia bella proprio perché ci sono gli inglesi, che l’hanno fatta (perché di quella originale credo ci sia quasi più nulla) così.

dai: Carteggi da Vittorio Righini (agosto 2018)

Ho letto Barnaby, con piacere. Ricordo che l’ho visto, per intero, una volta sola, per il resto quando iniziava una puntata cambiavo canale. Il motivo è presto detto: io sono stato traumatizzato da Doc Martin, e ogni volta che comincia un telefilm (una volta li chiamavamo così) che si ambienta in Inghilterra con facce, panorami e colori di ripresa totalmente inglesi, vado in paranoia. Io mi auguro tu non abbia mai visto la serie di Doc Martin, e se lo hai fatto male te ne incorrerà! Se non l’hai fatto, ti spiego di cosa si tratta: Doc Martin è un medico chirurgo inglese, che siccome soffre alla vista del sangue, con scene di panico, vomito, fughe e altro, si è trasferito in un tranquillo villaggio di mare della Cornovaglia del nord. Lui è alto, bruttissimo, con due orecchie alla Dumbo, ed è la persona più antipatica che uno possa temere di avere soprattutto come medico, ma ha indubbie capacità nel suo lavoro. Il villaggio, invece di essere bello e attraente, non lo è affatto. Gli abitanti del villaggio hanno una media neuronica, cadauno, inferiore a due. Rarissime eccezioni. L’unico poliziotto è cerebro-leso. Il piccolo basso ciccione che gestisce l’unico ristorante (dopo aver fatto malamente l’idraulico per tutta la vita), è il paziente ideale per un buon vecchio manicomio, e cucina schifezze incommensurabili. La segretaria di Doc Martin sembra scesa dal pianeta delle scimmie, mentre la farmacista sembra uscita da un romanzo dell’orrore. I bambini sono tutti cattivi, rognosi, malaticci e pieni di paturnie.

Quindi, ti chiederai: ma perché lo guardi? non lo so, l’ho guardato per una decina di puntate, poi, come con la grappa, mi sono detto basta: il primo mi rende demente, la seconda mi dà troppa acidità di stomaco. Ma la mia rinuncia (a Doc Martin, non alla grappa), si è concretizzata solo pochi mesi addietro, allora non sono ancora del tutto disintossicato. Capisco perché mentre noi (con tutto il mare di difetti che abbiamo) costruivamo il Colosseo, loro si tingevano la faccia di blu. Ho anche pensato con ammirazione a Mario Appelius… e per tirarmi fuori dalle sabbie mobili prendevo in mano Sir Patrick, Robert Byron, Dalrimple, Hopkirk, Gerald Russell, i fratelli Durrell e così via, e ristabilivo i contatti con una nazione (pardon, un Regno), che, circa una volta all’anno, mi vede curioso viaggiatore al suo interno. Mi dirai: non sono mica tutti ebeti come quelli del villaggio di Doc Martin! certo, ma una gran parte del pubblico inglese è quello che vuole vedere, i suoi simili, temo. In Fantozzi lo sfigato è lui, mica il mega direttore galattico Balambam, e nemmeno la Sig.na Silvani o il Geom. Calboni sono idioti. Noi godiamo dei casini di uno sfigato, non del villaggio intero di smidollati. E questa differenza mi fa pensare, giuro. Tu, con la tua cultura enciclopedica, potresti meglio spiegare l’arcano.

L’uomo non mangiato dallo squalo.

dai: Carteggi a Vittorio Righini (2018)

Sono stato affetto anch’io dalla sindrome meridiana di Doc Martin. Era tassativo non perderne una puntata, e ancora oggi non mi capacito del perché. È rimasto uno dei grandi interrogativi della mia vita – ti lascio immaginare gli altri –, perché francamente era difficile identificarsi nel personaggio, o sognare di vivere a Portwenn (anche se adoro la Cornovaglia). Non so, forse sotto sotto il messaggio che si recepiva è che c’è speranza per tutti, anche per i meno adatti: e la cosa funzionava perché il protagonista era immerso in un mondo dove tutti o quasi erano dei disadattati. Mia figlia, che in Inghilterra abita ormai da quindici anni ed è anche cittadina inglese, assicura che la realtà è Portwenn, non Midsomer, e che in Doc Martin se ne vede solo il lato buono. Ma non è attendibile, perché è una donna in carriera e i suoi competitor sono tutti inglesi. In effetti, però, se ripenso alle amene disavventure che mi sono occorse nell’ultimo viaggio inglese, un paio di anni fa, nel distretto dei laghi (ubriachi che si manifestano in camera, completamente nudi, alle tre di notte – colpa mia, perché ho il maledetto vizio di non chiudere mai la porta, nemmeno quando sono in giro), battellieri non perfettamente sobri che litigano via radio coi colleghi o con la moglie e invertono la rotta di colpo, ecc…), devo ammettere che un po’ di ragione ce l’ha. Ma la cosa strana è che queste cose, che in Italia e sul continente mi farebbero incazzare a morte, lì mi paiono note di colore. Potenza della letteratura. Hanno saputo vendersi molto bene, da Shakespeare in poi, e ci hanno indotto una soggezione culturale. L’esatto contrario di quanto accade con gli americani. E ti dirò di più: è una sudditanza che mi piace, come in fondo mi piaceva Doc Martin. Varrà la pena tornarci un po’ su. Al più presto.

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Bene, a questo punto penso che dell’Inghilterra, di quella mia, ne avrete sin sopra i capelli. Posso capirvi, ma questo non cambia una virgola di tutto ciò che ho proposto. Ci tenevo da un pezzo ad un’operazione del genere, e ho dovuto contenermi per non renderla ancora più pesante. Ora di questi materiali potete fare due usi differenti: dimenticarli il più rapidamente possibile o metterli a confronto col vostro sentire rispetto alla cultura inglese. Non trarrete alcuna utilità dal farlo, ma potreste anche divertirvi.

Contro l’educazione al femminile: le ribelli del Romanticismo

L’educazione al femminile: Tre conversazioni

di Paolo Repetto, aprile 2010

Le opinioni che Manzoni esprime sull’educazione femminile, in positivo e in negativo, attraverso le vicende parallele ed opposte di Gertrude e di Lucia, sono di fatto comuni a tutta la società occidentale della sua epoca. La convinzione di un’inferiorità intellettuale femminile, e quindi dell’inutilità di qualsiasi progetto educativo serio e paritetico, è altrettanto diffusa nel mondo protestante come in quello cattolico, nell’Inghilterra della rivoluzione industriale come nella Francia illuminista e rivoluzionaria, nel Romanticismo tedesco come in quello italiano. Sono innumerevoli gli scrittori contemporanei di Manzoni che manifestano apertamente il loro pregiudizio antifemminista, e l’elenco comprende tutti i maggiori, da Coleridge a Byron e a Keats, da Chateaubriand a Stendhal e ad Hugo: tutti costoro insistono particolarmente sullo pseudo-intellettualismo femminile, e volgono i loro sprezzanti attacchi soprattutto contro le donne colte. Questo atteggiamento rispecchia un modo di pensare senz’altro scontato, che è stato proprio di tutte le classi sociali, e quindi anche di quella intellettuale, in ogni epoca: ma testimonia anche, per l’insistenza sul tema della cultura e per il tenore particolare della polemica, dell’esistenza di qualcosa di nuovo e di come questo qualcosa venga avvertito come elemento di disturbo, o addirittura come un pericolo, per una società maschile fondata su una presunzione di superiorità.

In realtà il dibattito sull’opportunità o meno di un’educazione femminile, o “al femminile”, si è aperto in Europa già da diverso tempo, almeno dall’età della Controriforma. Risale infatti a questo periodo la creazione delle prime congregazioni che avevano come scopo specifico l’educazione femminile, ad esempio le Orsoline, e che formulavano progetti educativi particolari. La novità è costituita, a dire il vero, più dall’attenzione rivolta al problema che dalle soluzioni: il modello proposto è infatti quello dell’educazione alla modestia, alle virtù domestiche, alla sottomissione coniugale. E tuttavia già il fatto che venga riconosciuta l’opportunità, anche per una donna, di un regolare corso di studi, è un elemento di rottura, al quale si aggiunge il fatto che la cultura è un virus difficilmente controllabile, che una volta inoculato, in qualsiasi forma, ha poi sviluppi imprevedibili.

Questi sviluppi cominciano ad essere avvertiti già nel ’600 e provocano reazioni diverse: da un lato c’è infatti l’attacco feroce e sarcastico, quello contenuto ad esempio nella satira di Molière; dall’altro c’è un’attenzione sempre più profonda che porta, ad esempio, Fenelon in Francia e il dottor Johnson in Inghilterra a scrivere specifici trattati sull’educazione femminile, nell’intento di sottrarla al controllo esclusivo della Chiesa e di fare prevalere i caratteri laici, economici e sociali su quelli religiosi. Su quest’ultimo aspetto si concentra ulteriormente il dibattito nell’età illuministica. L’affermazione delle idee di diritto e di uguaglianza tra gli uomini porta alla ribalta il problema della discriminazione sessuale, ma la risposta non viene dai filosofi della ragione, che in sostanza sono tutti concordi nel continuare a considerare quella femminile come una condizione inferiore, o al più di minorità; a sollevare il problema, sono stavolta le donne in prima persona, le donne che cominciano ad essere protagoniste economiche con la rivoluzione industriale e protagoniste politiche con quella francese, e che soprattutto cominciano ad essere protagoniste culturali e a far sentire la propria voce attraverso la letteratura.

Nel 1792 compare in Inghilterra “A vindication of the rights of women” di Mary Wollstonecraft, l’opera che apre ufficialmente il dibattito sulla questione femminile. La Wollstonecraft è sposata con William Goodwin, uno dei precursori dell’anarchismo, e morirà dando alla luce Mary Shelley, l’autrice del famoso Frankenstein. Non è la prima donna a trattare il problema della condizione femminile, che in qualche modo era già stato toccato da alcune scrittrici, soprattutto francesi, nel ’600 e nel 700; ma è la prima che si pone fuori dagli schemi e dai pregiudizi ereditati dell’età medioevale. È aiutata in questo indubbiamente sia dalla condizione familiare, in quanto il marito la incoraggia in questa sua battaglia, sia dal fatto che in Inghilterra esiste una tradizione ormai consolidata di tolleranza. Sì consideri infatti che solo un anno dopo, nel 1793, in pieno periodo rivoluzionario, la francese Marie Olympie de Gouge paga con la vita la sua richiesta alla Convenzione di cancellare la discriminazione sessuale sulle libertà di parola e di voto. Entrambi gli eventi si collocano in un momento di grande trasformazione, quando cioè è ormai acquisito il concetto illuministico di diritto, e in modi diversi, attraverso riforme o rivoluzioni, esso comincia ad essere applicato alla realtà politica e sociale.

Si potrebbe notare in proposito come il problema della condizione femminile torni di attualità ogniqualvolta si producano nella storia dei cambiamenti di grande rilievo: è il caso della rivoluzione filosofica portata da Socrate, successivamente di quella morale prodotta dal Cristianesimo, poi ancora dall’età rinascimentale, dalla rivoluzione Industriale e, per arrivare più vicini a noi, dalla contestazione degli anni sessanta. Ogni volta la questione femminile si ripropone in coda ai movimenti di liberazione sociale, e ogni volta si ripetono, da parte dei diversi sistemi, delle reazioni durissime, che mirano a ricollocare le donne in una posizione subordinata. Possiamo ricordare gli attacchi di Aristofane ne “Le donne in Parlamento”, oppure l’equazione donna-peccato creata dai padri della chiesa, a partire da san Paolo ma soprattutto dal V secolo dopo Cristo; o ancora la satira di Molière contro le donne colte, e la caccia alle streghe promossa dalle diverse chiese. Di questa reazione spesso sono portavoce anche gli stessi propugnatori delle nuove idee di libertà. Nel suo scritto, ad esempio, la Wollstonecraft polemizza con il più democratico degli illuministi, Jean Jacques Rousseau, che nell’Emilio, parlando di educazione al femminile e confrontandola con quella del protagonista, riafferma tutti gli stereotipi sul carattere femminile e quindi sull’inutilità di una educazione libera.

La voce della Wollstonecraft ha in realtà un peso relativo nel dibattito politico della prima metà dell’800, e in effetti la questione femminile comincerà a trovare sbocchi istituzionali concreti solo dopo il 1860. Essa tuttavia corrisponde ad un modo di sentire diffuso, che troverà espressione naturalmente prima nella letteratura che nell’ambito politico. Saranno le scrittrici inglesi e francesi a mettere sotto accusa la subordinazione femminile e di conseguenza l’assenza di ogni progetto educativo che non fosse finalizzato a questa subordinazione. In Inghilterra, in ragione anche dei cambiamenti prodotti dalla rivoluzione industriale nella mentalità corrente, sono moltissime le voci femminili che si levano a chiedere una diversa considerazione della propria potenzialità, delle quali danno testimonianza proprio con le loro opere. Le più importanti tra queste voci sono indubbiamente quelle di Jane Austen, di Charlotte Bronte e di Elizabeth Barrett Browning. Non è un caso che esse appartengano tutte alla prima metà del secolo: nel periodo immediatamente successivo, infatti, il dibattito passa dal piano letterario a quello politico, le questioni dibattute hanno un carattere sempre più pratico (il diritto al voto, il diritto di famiglia, ecc…) e alla letteratura e alla poesia è riservato uno spazio più privato ed intimistico. Non mancano certamente le scrittrici anticonformiste di alto livello, come George Eliot, che adotta non a caso uno pseudonimo maschile, ma per trovare una voce che tratti il tema della condizione femminile in maniera altrettanto rivoluzionaria occorre arrivare a Virginia Woolf.

Tutte e quattro le autrici a cui si fa riferimento hanno una caratteristica in comune, che è paradossalmente quella di aver ricevuto un’educazione non in linea con i modelli previsti per le fanciulle delle loro epoche. Da un lato quindi esse possono essere considerate delle privilegiate, dall’altro questo privilegio lo hanno pagato scontrandosi poi con una società che non era pronta ad accettare donne educate secondo modelli non tradizionali. Proprio questo scontro le ha rese più lucidamente coscienti della forma di repressione esercitata sulla donna già attraverso l’educazione.

Jane Austen viene inviata dal padre in una scuola femminile tradizionale, ma viene poi ritirata quando il genitore si convince che l’istruzione che le viene impartita non ha alcun valore educativo e decide di provvedere personalmente ad aprirle orizzonti più ampi. La Austen è cosciente, oltre che ben felice, dell’eccezionalità sua esperienza educativa, e lo è al punto da coglierne anche gli aspetti negativi. Infatti ironizza sulle conseguenze di un’istruzione che avvenga solo attraverso la letteratura, per quanto libera ed ampia, perché questa induce le donne a pensare solo in termini letterari e a non confrontarsi con la realtà. La protagonista del suo romanzo forse più famoso, Emma, è un esempio concreto di questa deformazione di prospettiva. Educata liberalmente, ma nutrita solo di letteratura, scambia la vita per un romanzo e vorrebbe esserne l’autrice; si impegna quindi a tessere trame amorose e a combinare e a disfare coppie, fino a quando non provvederanno la vita e un suo saggio e paziente spasimante a farle capire le regole del gioco. La Austen sente quindi il disagio dell’assenza di un vero modello educativo al femminile e l’ambiguità di un’educazione magari paritaria, ma fondata su modelli maschili.

Alla protagonista di un altro suo romanzo, The Northanger Abbey, che è una grande lettrice, viene chiesto se legga anche libri di storia, ed ella risponde che lo fa solo per dovere, ogni tanto, perché non parlano di alcunché che la interessi e la coinvolga. Questo non significa che la giovane non ami la storia: non ama una storia che sembra escludere totalmente la presenza femminile e dà importanza solo a quanto è stato realizzato secondo i modelli maschili. In sostanza la Austen ha già intuito, forse più che capito, che la soluzione del problema non sta solo nella parità dei diritti per quanto riguarda l’educazione, come per tutti gli altri aspetti, ma soprattutto nella creazione di eguali opportunità. Anne, la protagonista di Persuasion, a proposito del matrimonio dice: “Non abbiamo altra scelta, trascorriamo il tempo relegate in casa, quietamente, a tormentarci. Voi siete costretti all’attività. Avete una professione, occupazioni e impegni che vi riportano al mondo”. Gusto, stile, capacità di apprendimento, hanno in una donna ben poche occasioni dì manifestarsi. E quando queste occasioni vengono faticosamente conquistate, magari da chi come la Austen vive costantemente tagliata fuori dagli ambienti culturali, il pregiudizio non viene affatto intaccato: cambia solo la forma in cui si esprime.

Se la Austen vive la sua condizione di donna “colpevolmente intelligente dall’alto di una lucida e un po’ distaccata ironia, ben diverso è l’atteggiamento che caratterizza le eroine di Charlotte Bronte. Le protagoniste dei suoi romanzi, prima tra tutte Jane Eyre, non sono né romantiche sognatrici né signorine beneducate che mortificano la loro intelligenza in attesa di un buon partito: sono giovani ribelli, lottatrici determinate a negare ogni condizione di sudditanza femminile, e a farlo prima di tutto attraverso il lavoro e l’emancipazione economica. I capitoli iniziali di Jane Eyre sono tutti all’insegna della rivolta, della formazione di un carattere che si forgia nell’ostinato rifiuto di regole e rapporti inaccettabili e disumani: e questa ribellione prosegue poi nei confronti dell’ambiente del collegio e del tipo di educazione in esso impartito. “Lei sa che il mio scopo, allevando queste ragazze, non è quello di abituarle al lusso e alle comodità, ma di indurle alla fatica, renderle pazienti ed umili”. Magari spingendo le privazioni e i sacrifici tanto avanti da portare le più deboli fino alla morte, e operando una vera e propria selezione in funzione del ruolo futuro già scritto. Questa è la missione della quale il direttore del collegio si sente investito e alla quale partecipano quasi tutte le sue collaboratrici. Ed è a questo progetto che Jane si oppone testardamente, imparando a disciplinare la sua rivolta senza minimamente attenuarne la forza. È significativo che al primo anno della esperienza collegiale, quello della ribellione, delle punizioni e dell’orrore, la Bronte dedichi cinque capitoli e liquidi poi in un paragrafo i successivi otto anni, quelli vissuti come allieva prima e come istitutrice poi in una situazione divenuta più accettabile e, anzi, stimolante. Il fatto è che l’autrice riversa in questa parte iniziale del romanzo le esperienze più drammatiche e più formative della propria biografia. Orfana di madre a soli sei anni, terza di cinque sorelle in una famiglia con un solo figlio maschio, al quale vengono riservati, almeno in un primo momento, tutta l’attenzione e l’impegno educativo del padre, Charlotte vive le situazioni descritte nel romanzo personalmente: le due sorelle maggiori muoiono proprio in conseguenza della durezza della vita di collegio (come l’amata compagna di Jane, Helen Burns) e lei stessa e la sorella minore Emily vengono richiamate a casa dal padre appena in tempo per non subire la stessa sorte. Nella casa paterna essa completa la sua educazione in un’atmosfera di libertà e di vivacità intellettuale straordinaria, caratterizzata da un fertile sodalizio letterario con le sorelle Emily e Anne: ma si ritrova anche a dover assumere responsabilità da capo-famiglia e ad affrontare una situazione economica tutt’altro che florida. Lo fa alla sua maniera, accettando mansioni di governante prima e di istitutrice poi ben poco gratificanti, ma guadagnandosi la vita e l’indipendenza con il lavoro, come le sue eroine.

Nella sua ultima opera, la biografia in versi di Aurora Leigh, Elizabeth Barrett Browning ci presenta invece un caso di “educazione al femminile” che è in netto contrasto con la sua personale esperienza. La vera storia del suo sviluppo intellettuale è infatti rivelata da numerosi saggi autobiografici, alcuni dei quali scritti già durante l’adolescenza. Comincia a “frequentare la poesia” a quattro anni, e a sette già si dedica a “formare il gusto”, oltre che a leggere la storia di Roma, della Grecia e dell’Inghilterra. Studia latino e greco e compone versi in entrambe le lingue, a quattordici anni vede pubblicato (privatamente) il suo primo poema e a diciannove licenzia la sua prima raccolta di poesie. Il tutto avviene sotto l’amorevole quanto tirannico controllo del padre, in un rapporto che ricorda quello di Monaldo e Giacomo Leopardi: come per il poeta di Recanati lo studio e la poesia sono la risposta ad una naturale inclinazione e a scelte culturali che nessuna costrizione può condizionare. Che significato hanno dunque le amare e sferzanti considerazioni di Aurora sulla educazione e sulla condizione femminile, (ins. Lessi molti libri femminili …). La Barrett, come Jane Austen, è perfettamente consapevole della eccezionalità della propria storia, resa ancora più eccezionale dalla fuga d’amore con Robert Browning e dagli anni di “suprema felicità” vissuti con quest’ultimo in Italia. Scrive la biografia di Aurora proprio in quegli anni (il poema è pubblicato nel 1855) nella coscienza che ciò di cui lei ha potuto godere, un’educazione libera e un rapporto affettivo basato sulla stima e sul rispetto reciproco, è – negato alla quasi totalità delle donne. Si potrebbe dire che il fatto di essersi realizzata, come donna e come letterata, invece di farle dimenticare la condizione delle altre, gliela renda ancora meno sopportabile. Sa che il suo successo è dovuto in gran parte al suo temperamento: “Ho un intelletto per natura indipendente, che respinge quella subordinazione d’opinione che in genere si considera un necessario attributo della dolcezza femminile. Ma questo è un argomento sul quale sempre reagirò con energia, perché sento in me una coscienza quasi superba della mia indipendenza […]”.

Ma sa anche che quella “educazione al femminile” che le è stata risparmiata ha sempre avuto la finalità e il potere di spegnere gli spiriti indipendenti e creativi come il suo. “I read a score of books on womanhood / To prove, if women do not think at all, / They may teach thinking (to a maiden aunt / Or else the author), – books that boldly assert / Their right of comprehending husband’s talk / When not too deep, and even of answering / With pretty “may it please you” or “so it is,” – / Their rapid insight and fine aptitude / Particular worth and general missionariness, / As long as they keep quiet by the fire / And never say “no” when the world says “ay”, / For fatal is fatal, – their angelic reach / Of virtue, chiefly used to sit and darn, / And fatten household sinners, – their, in brief, / Potential faculty in everything / Of abdicating power in it: she owned / She liked a woman to be womanly / And English women, she thanked God and sighed / (Some people always.sigh in thanking God), / Were models to the universe. And last / I learnt cross-stitch, because she did not like / To see me wear the night with empty hands / A-doing nothing […]”. (Aurora Leigh, vv 427-449).

E ancora: “By the way, / The works of women are symbolical. / We esw,prick our fingers, dull our sight, / Producing what? A pair of slippers, sir, / To put on when you’re weary – or a stool!” / Or else at best, a cushion, where you lean / And sleep, and dream of something we are not / But would be for your sake. Alas, alas! / This hurts most, this-that, after all, we are paid /The worth of our work, perhaps. In looking down / Thopse years of education (to return) / I wonder if Brinvilliers suffered more / In the water-torture …flood succeding flood / To drench the incapable throat and split the veins…/ Than I did. Certain of your feebler souls / Go out in such a process; many pine / To a sick, inodorous light; my own endured […]”. (Aurora Leight, vv 455-472)

Virginia Woolf definisce Jane Austen e Charlotte Bronte le scrittrici della “età epica della letteratura femminile”. Nel saggio Una stanza tutta per me ne esalta l’indipendenza intellettuale e psicologica e la capacità di resistere ai condizionamenti educativi ed ambientali, anche se non manca di sottolineare quanto entrambe, nei comportamenti pratici, fossero poi figlie della propria epoca. Riconosce dunque l’importanza del loro ruolo, ma vuole andare oltre il significato storico delle loro opere, vuole entrare nel merito del problema artistico. Per la Woolf è importante che le donne abbiano cominciato a far sentire la loro voce: ma è altrettanto importante che imparino a modulare questa voce, in maniera tale da conquistarsi il diritto di essere ascoltate. In altre parole, sono importanti l’inventiva, il coraggio, il talento, anche se non sono sufficienti a creare una grande scrittrice. Ci vuole qualcos’altro, ciò che possiamo definire lo stile. Jane Austen si inventò uno stile perfettamente naturale ed elegante, adeguato alle sue esigenze, e non se ne distaccò mai. Perciò, con meno genio letterario di Charlotte Bronte, ha detto infinitamente di più … Tutte le più antiche forme letterarie erano cristallizzate e fissate, all’epoca in cui (la donna) iniziò a scrivere. Solo il romanzo era abbastanza giovane da essere duttile in mano sua: un’altra ragione forse che ci spiega perché la donna scriveva romanzi. La prima ragione cui la Woolf allude è che le scrittrici da lei prese in considerazione lavoravano in condizioni nelle quali era impossibile una vera concentrazione, in soggiorni comuni o in mezzo a continue interruzioni: e, più in generale che le donne mai hanno avuto uno spazio loro, fisico o economico, che consentisse una vera e propria indipendenza, pratica e intellettuale. La conquista di questa indipendenza (uno spazio tutto per sé ) è la condizione per esprimere tutte le proprie potenzialità; l’altra condizione, subordinata alla prima, è la conquista di uno stile proprio, che consenta di fare della differenza non più un handicap sofferto e da superare, ma un simbolo distintivo, una qualità da rivendicare. La Woolf rappresenta il momento di passaggio alla maturità del femminismo: quello dal diritto alla parità al diritto alla diversità. Ma ritiene che anche la diversità debba esprimersi su un piano comune, quello dell’arte, che nella sua universalità supera ogni barriera e concilia ogni differenza, sessuale, sociale e culturale. L’insistenza della Woolf sullo stile finisce per farle decisamente preferire la moderata Austen alla combattiva Bronte, e per farle amare su tutte la raffinata Barrett Browning, della quale scrive una divertente biografia, raccontata dal punto di vista del cagnolino della poetessa, Flush. Ciò può portare a scorgere nel suo femminismo un certo snobismo aristocratico. In effetti la visione che la Woolf ha della questione femminile è aristocratica: ma non tanto in senso snobistico, quanto per il fatto che la sua idea di realizzazione al femminile non può limitarsi, malgrado l’impegno diretto anche nelle lotte delle suffragette, alla conquista di diritti e di opportunità paritarie. La donna deve aspirare, secondo la Woolf, a qualcosa di più di ciò che spetta per diritto a tutto il genere femminile, e cioè uno spazio tra gli uomini: deve conquistarsi la stanza per sé in quanto individuo, persona singola. E questo non dipende più dal suo sesso o dalla sua condizione. Dipende dalla sua intelligenza.

 

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Corinne ed Emma: il sogno e la caduta

L’educazione al femminile: Tre conversazioni

di Paolo Repetto, 1998

All’origine della “letteratura al femminile”, e quindi anche dei mutamenti nel concetto di “educazione al femminile” che si produssero nell’ottocento, si colloca indubbiamente Corinne, di Madame De Stael. Può apparire strano per una lettrice moderna che questo libro abbia esercitato tanta influenza, e non solo all’epoca in cui apparve, ma almeno per tutta la prima metà del XIX secolo, quando già circolavano opere di valore ben diverso come quelle delle Bronte, di Jane Austen e della Barrett Browning. E tuttavia proprio queste autrici, e con loro un’innumerevole schiera di altre letterate o “donne di genio”, sono le prime testimoni del ruolo fondamentale che il mito di Corinne ebbe sul risveglio sociale e letterario dell’“altra metà del cielo”. “Corinne fu nell’ottocento la lettura giovanile di un tipo particolare di fanciulle: le giovinette di intelligenza e talento superiori alla media e provviste dell’ambizione di rendersi celebri fuori della cerchia domestica” (E. Moers) Tutte queste giovinette, al di qua e al di là della Manica, ma anche dell’Atlantico, lo lessero, e tutte ne trassero lo stimolo ad uscire dal ruolo subordinato, intellettuale come sociale e politico, al quale la mentalità del tempo le confinava. Variava, naturalmente, il giudizio sul valore letterario dell’opera, ma era concorde quello sul suo effetto trascinante. Per Elizabeth Barrett Browning “Corinne è un libro immortale, che merita di essere letto settanta volte, cioè una volta l’anno per tutta la vita”; allo stesso modo la pensava Mary Shelley. Ad altre, come la Austen o Charlotte Bronte, una sola lettura era stata più che sufficiente, ma lo consideravano comunque un libro fondamentale.

In effetti la storia di Corinne, al contrario di quelle delle eroine letterarie da lei ispirate, appare oggi del tutto improbabile, e la lettura risulta molto faticosa. La bellissima “poete, écrivain, improvisatrice” entra in scena quando ha già raggiunto il culmine del successo, e addirittura al momento in cui viene incoronata in Campidoglio nel corso di una cerimonia tanto enfatica quanto assurda. Le informazioni sulla sua vita precedente ci vengono fornite attraverso vaghi e confusi flashback, e soprattutto in un finale che rende la vicenda alquanto rocambolesca. Corinne è figlia di un lord inglese e di una nobildonna romana, e proprio in Italia riceve, dopo la morte della madre, la prima educazione. Richiamata in Inghilterra dopo il secondo matrimonio del padre (lei ha quindici anni) soffre un rapporto freddo e ostile con la matrigna, la quale incarna tutta l’aridità e la chiusura nordica, e cerca di soffocare nella giovinetta ogni talento artistico e ogni vitalità “meridionale”. Dopo sei anni di questa prigionia Corinne fugge nuovamente in Italia e qui, non si sa come, perché il libro non ne parla, può dare sfogo alla sua genialità e raggiungere il successo. Non altrettanto felice è la sua carriera sentimentale. Si innamora infatti di un nobile scozzese, sceso nella penisola per il tradizionale Grand Tour, dal quale è inizialmente corrisposta, ma che sceglie alla fine un amore più tranquillo e convenzionale, proprio nella persona della sorellastra di Corinne, Lucile. L’esito della vicenda è poco felice per tutti i protagonisti. Oswald si annoia mortalmente nel matrimonio con Lucile (e non poteva essere diversamente, dopo che ha conosciuto la carica vitale di Corinne). Corinne muore dopo aver visto appassire, in seguito alla delusione amorosa, anche i suoi talenti artistici. La figlia di Oswald e Lucile, e nipote di Corinne, sembra più portata a seguire le orme della zia che i severi insegnamenti della madre, e quindi renderà difficilissima la vita a quest’ultima. Il tutto è condito di innumerevoli complicazioni, scene madri, citazioni classiche, paesaggi descritti alla maniera delle guide turistiche che cominciavano all’epoca ad andare di moda.

Da cosa nasce allora il fascino, il mito di Corinne? Direi più da quello che Corinne rappresenta che da quello che è, come figura letteraria. Nel romanzo sono già condensati tutti i grandi temi del dibattito sulla questione femminile, con la differenza, rispetto a A vindication of rights of women della quasi contemporanea Mary Wollstonecraft, che i problemi sono qui vissuti più sentimentalmente che razionalmente. Intendo dire che mentre nel testo della Wollstonecraft c’è una chiara consapevolezza della condizione femminile globale, e quindi si rivendica una emancipazione generalizzata, che derivi da un cambiamento non solo della mentalità, ma anche delle strutture socio-economiche e delle istituzioni politiche, nel romanzo della De Stael la consapevolezza è individuale, ristretta, e riguarda una condizione particolare, quella della “donna di genio”. Quando Corinna insiste a studiare e a coltivare il suo talento, la matrigna “mi aveva risposto che la donna […](pag. 304).

La soluzione, in questo caso, non sta nella trasformazione della mentalità e delle strutture, ma nel “cambiamento d’aria”: via dalla chiusura e dalle convenzioni delle civiltà più evolute, verso luoghi nei quali l’arretratezza sociale consente in realtà maggiore indipendenza, libertà d’azione e spregiudicatezza – quindi verso l’Italia. È come dire che l’emancipazione è possibile solo a livello individuale, e non forzando la mano al futuro, ma rifugiandosi nel passato (il che coincide perfettamente con l’atteggiamento dei primi romantici nei confronti del progresso e delle rivoluzioni sociali ed economiche di fine settecento).

Altro tema fondamentale è quello della scelta relativa al tipo di realizzazione da perseguire. In altre parole: la realizzazione artistica o culturale e quella sentimentale non possono coesistere, almeno in un mondo come quello in cui vivono Madame de Stael ma anche Jane Austen e Charlotte Bronte (unica eccezione, la Barrett Browning). Non possono coesistere perché il mondo maschile, perfettamente incarnato da Lord Oswald, non è pronto né disponibile ad un confronto paritario, e dalla donna si attende sottomissione e adorazione: può essere momentaneamente affascinato da una personalità femminile forte come da una cosa eccezionale e curiosa, ma non accetta di veder messo in discussione il suo ruolo anche intellettualmente dominante. Di fronte a questo atteggiamento le eroine di tutta la letteratura al femminile, da Corinne in avanti, che pure sembrano aspirare soprattutto al grande amore o alla “felicità” coniugale, in verità non hanno scelta. Sono già condannate dalla loro nuova consapevolezza al fallimento, che si esprime a seconda dei casi nella rinuncia o nella rassegnazione. O si rassegnano a non essere interamente se stesse, e si rifugiano, come Jane Eyre, all’ombra protettiva di un uomo magari non padrone, ma almeno guida indiscussa, o rinunciano come Corinne al sogno amoroso, per difendere una malinconica libertà.

E tuttavia, abbiamo visto che qualche eccezione sembra possibile. Ho già citato il caso della Barrett Browning, che vive anni (pochi, per la verità) di felicità coniugale e assieme di intensa creatività artistica: ma la sua è una situazione un po’ particolare, nel senso che anche all’interno di questa coppia c’è una personalità decisamente dominante, ed è la sua. Ancora più prossima ad una Corinne realizzata appare George Sand, che dopo aver fugacemente interpretati nella prima giovinezza i ruoli convenzionali di moglie e madre sceglie di vivere la realizzazione culturale, e ci riesce benissimo, conciliando il successo con i doveri materni e le passioni amorose con l’arricchimento e lo scambio intellettuale. Tanto la Barrett quanto la Sand diverranno, in modo diverso, figure di riferimento ideali per il mondo letterario femminile: ma ideali significa, per l’appunto, irraggiungibili ed inimitabili.

E le altre? Non mi riferisco alle “donne di genio”, alle aspiranti o affermate scrittrici, attrici, pittrici ecc., delle quali ho parlato sin troppo. Intendo tutte le altre, quelle alle quali la scelta non è nemmeno concessa e che per costrizione o per vocazione si sono accontentate dell’educazione convenzionale, sono state nutrite sin dall’infanzia di doveri, ruoli, modestia, soggezione. Cosa accade quando sono queste altre a non sopportare più il proprio stato? Anche se spiace dirlo, la migliore descrizione di una situazione del genere è offerta da un uomo, Gustave Flaubert, con il suo romanzo Madame Bovary.

All’educazione di Emma Flaubert dedica un intero capitolo. Essa si svolge all’interno di un convento, e si alimenta di letture che nulla hanno a che vedere con Corinna e con le eroine femminili del primo ottocento. Il capitolo sesto inizia proprio con “Emma aveva letto Paolo e Virginia, e aveva sognato la casetta di legno […]”. Più oltre si parla di Lamartine, o delle vite di donne sante, illustri e infelici. Insomma, tutto il repertorio romantico, quello legato al sogno, all’evasione, all’esotismo, digerito nella quiete sonnolenta del convento, e quindi più lentamente e profondamente assimilato. Da una simile intossicazione non si guarisce più: si può accettare momentaneamente la prosaicità della vita con Charles Bovary, magari per fuggire alla noia mortale della vita di campagna, ma si continua ad aspirare alla poesia: “Ma in fondo al cuore aspettava un avvenimento […] ogni mattina, nello svegliarsi, ella sperava per quel giorno, e ascoltava ogni rumore, si alzava di soprassalto, si stupiva che nulla accadesse. Poi, al tramonto, sempre più triste, desiderava trovarsi all’indomani”.

Emma finisce per non accontentarsi più dell’attesa. Fa in modo che le cose accadano, ogni volta confondendo il suo sogno con la realtà e ogni volta risvegliandosi più disillusa. Tutto nella sua vita viene trasfigurato dalla volontà ostinata di uscire dal pantano, tutto le ricade addosso. Accetta la propria gravidanza come una ulteriore occasione: “Desiderava un figlio: sarebbe stato forte e bruno, e avrebbe avuto nome Giorgio, e anche questa idea di avere un figlio maschio era come la rivincita, in speranza, di tutte le sue impotenze passate. Un uomo, perlomeno, è libero: può errare attraverso passioni e paesi, superare ostacoli, assaporare tutte le più remote felicità. Ma una donna è sempre vincolata, inerte e nello stesso tempo flessibile; una donna si trova di fronte alle mollezze della carne e, contemporaneamente, ai legami della legge. La sua volontà, come il velo del suo cappello tenuto da un cordone, palpita a tutti i venti; c’è sempre qualche desiderio che la trascina, e qualche convenienza sociale che la trattiene […].

Partorì una domenica, verso le sei del mattino, allo spuntar del sole.

È una femmina! – disse Carlo.

Essa voltò il capo, e svenne” (cap. III, parte II).

Madame Bovary è letto generalmente come il romanzo della “povertà” spirituale della borghesia, che denuncia la mancanza di valori forti e radicati, il vuoto morale, l’ipocrisia e l’adesione a idealità di facciata tipici (secondo uno stereotipo che ha origine nel Romanticismo) di questa classe. Ora, è indubbio che Emma incarni molte delle caratteristiche attribuite alla piccola borghesia, provinciale e velleitaria: ma prima che un simbolo essa è una figura di donna vera, che in qualche modo cerca di ribellarsi al monotono e inutile scorrere dei giorni e chiede alla vita emozioni, sensazioni e significati più grandi. Il suo fallimento non è determinato solo da una debolezza del carattere, ma anche dalla mancanza di risorse culturali: è frutto di una società (e quindi di un modello educativo) che alla donna non geniale non lascia chance, non concede margini per una realizzazione diversa da quella domestica. Questo, Flaubert non ha bisogno di dirlo esplicitamente: lo dice la storia stessa, che corre verso la catastrofe finale con assoluta naturalezza, come lungo un percorso obbligato.

L’unica, magra consolazione (o forse un avvilimento ancor peggiore) deriva dal fatto che la realizzazione, in verità, non è concessa a nessuno, meno che mai ai rappresentanti del mondo maschile che ruotano attorno ad Emma, dal marito ai seduttori di turno. Tutte le vite che si intrecciano nel romanzo appaiono in fondo meschine, tutti i rapporti sono falsi e convenzionali, non c’è spazio neppure per sogni liberi e autentici, perché anche questi sono modellati sui clichés romanzeschi. Alla fine l’unica che ci muove veramente a compassione è la povera Berte, che finisce a lavorare in filanda, e avrà ancor meno possibilità di sua madre. Tuttavia la compassione va estesa anche alle sue probabili figlie, nipoti e pronipoti, per le quali i sogni saranno moltiplicati dal cinema e dalla televisione, anche se la realtà rimarrà desolatamente la stessa.

 

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