Il tesoro dell’isola

di Paolo Repetto, 24 gennaio 2025

Seconda stella a destra, questo è il cammino
E poi dritto fino al mattino
Non ti puoi sbagliare, perché
Quella è l’isola che non c’è
E ti prendono in giro se continui a cercarla
Ma non darti per vinto, perché
Chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle
Forse è ancora più pazzo di te
Edoardo Bennato

Il Re di Spagna fece vela cercando l’isola incantata
però quell’isola non c’era e mai nessuno l’ha trovata
svanì di prua dalla galea come un’idea.
Come una splendida utopia è andata via e non tornerà mai più.
Francesco Guccini

In un ipotetico (e sterminato!) indice dei nomi comparsi su questo sito, a ricorrere con maggiore frequenza sarebbe senz’altro quello di Robert Louis Stevenson. Non ci avevo mai fatto caso, ma ora mi rendo conto che è naturale, perché per la mia generazione e per le tre o quattro precedenti Stevenson è stato l’autore “di formazione” per eccellenza: L’isola del tesoro è il romanzo più letto e più amato da adolescenti e pre-adolescenti nell’ultimo secolo e mezzo (almeno fino a quando gli adolescenti hanno continuato a leggere). Non importa che lo abbiano letto in edizioni ridotte o in traduzioni approssimative, o addirittura che molti non abbiano proprio mai preso in mano il libro: lo hanno comunque conosciuto attraverso le innumerevoli versioni cinematografiche, radiofoniche o televisive che ne sono state tratte, o nelle svariate trasposizioni a fumetti.

Il perché di questo successo lo spiega l’autore stesso quando racconta come tutto è nato. Siamo nel 1881, Stevenson ha appena superato i trent’anni, è un intellettuale già affermato, ma gli è stata diagnosticata da poco una tubercolosi (all’epoca incurabile). L’anno precedente ha viaggiato in America, per ritrovare e sposare Fanny, una divorziata molto più anziana di lui conosciuta in Francia. Sentendo aggravarsi il male è poi tornato in Scozia, presso la casa dei genitori, e qui trascorre un inverno eccezionalmente piovoso (anche per gli altissimi standard locali di umidità) in un cottage nelle Highlands scozzesi, davanti al camino sempre acceso. Ad un certo punto si fa prestare matite ed acquerelli da Lloyd, il figlio dodicenne della sua compagna, che sta disegnando la mappa di un’isola, e ne disegna una a sua volta. Attorno alla mappa comincia poi ad immaginare trame che riversa in pagine da leggere la sera, davanti alla famiglia riunita (che tempi! Oggi guarderebbero L’isola dei Famosi). La vicenda è così affascinante che tutti, in primis il padre di Louis e il figlioccio Lloyd, partecipano attivamente, suggeriscono nuovi sviluppi, aggiungono particolari, inseriscono personaggi. Anche gli amici che arrivano in visita ne sono conquistati, e fanno sì che il racconto venga pubblicato a puntate su una rivista per ragazzi. Sarà poi raccolto in volume nel 1883. Ottenendo un successo strepitoso.

Ebbene: cosa ha di straordinario questa storia? Ha che il libro è nato ed è cresciuto all’insegna del divertimento puro. Non era stato commissionato da nessuno, l’autore non inseguiva il successo economico, si concedeva la più assoluta libertà inventiva, se ne infischiava dei codici vittoriani, tanto che la distinzione tra i buoni e i cattivi è parecchio sfumata (vedi la figura di Long John Silver). Era pensato per un dodicenne (e infatti aveva un dodicenne per protagonista), per fargli sognare un futuro, ma al tempo stesso offriva una almeno temporanea via di fuga dallo sconforto ad un malato trentenne e una occasione di nostalgia vivificante a un sessagenario.

Dovremmo praticare a scadenze trentennali la rilettura de L’isola del tesoro. È una rivendicazione di libertà: per Stevenson lo era nei confronti del male, della malattia, di un futuro che a quel punto sentiva come già segnato; per tutti noi potrebbe esserlo nei confronti delle gabbie del consumo e dello spettacolo che ci hanno (e ci siamo) costruite attorno, e delle nuove ortodossie linguistiche e sociali che ci vengono imposte (a proposito, in tutta la vicenda non c’è – a parte quella marginale della madre di Jim – una figura femminile che giochi un qualsivoglia ruolo. Mi chiedo come mai Stevenson non sia ancora stato iscritto nel libro nero del politically correct).

Jim Hawkins, il protagonista, non la vive naturalmente in questo modo. Si trova suo malgrado coinvolto in una vicenda più grande di lui, e poco alla volta, attraverso le avventure e le disavventure cui va incontro, matura un suo personalissimo codice etico, che lo porta ad esempio a simpatizzare per Long John Silver, pur avendo ben chiaro che si tratta di un malfattore, piuttosto che con il tronfio e ciarliero cavaliere Trelawney (e lascio immaginare quanto potessi condividere quella simpatia, a otto o nove anni, avendo in casa chi su una gamba sola faceva cose altrettanto formidabili. Silver mi forniva, anche di fronte ai miei compagni, un motivo di riscatto e di orgoglio per mio padre, la cui menomazione fino a quel momento mi aveva un po’ imbarazzato).

Jim comunque non è un ribelle, come non lo era d’altra parte Stevenson: non mette in questione ruoli, convenzioni, diseguaglianze sociali, ma valuta gli uomini per quello che valgono quando sono chiamati ad agire. Impara che si può affrontare la vita in molti modi, l’importante è darsi la possibilità di scegliere ed essere protagonisti delle proprie scelte.

Insomma, alla sua figura non vanno attribuiti significati cui Stevenson non ha mai pensato. Questi semmai gli sono stati attribuiti da tutti coloro che hanno sognato di viaggiare con lui sulla Hispaniola, me compreso. Jim è stato il precursore di TinTin, di capitan Miki, del piccolo sceriffo, degli eroi adolescenti che hanno popolato tra la fine dell’800 e la prima metà del secolo successivo l’immaginario letterario e quello fumettistico. Ma con una particolarità: è forse l’ultimo che ancora si sottrae al processo di “domesticazione” della gioventù avviato di lì a poco (o che era già in corso: Cuore è pubblicato quasi contemporaneamente a L’Isola del tesoro, ed è ambientato nello stesso anno in cui Stevenson scriveva il suo romanzo). Di questo processo ho comunque già parlato altrove (in Sterminate i nativi digitali) e per evitarvi noiose ricerche mi tocca ancora una volta autocitarmi:

«I giovani esistono solo se intesi (molto vagamente) come classe sociale. Anche questa però è un’invenzione recente, che non risale oltre Rousseau. Anzi, a dispetto di tutte le anticipazioni romantiche … fino ai primi del Novecento l’idea che la giovinezza potesse essere considerata come una età a sé stante della vita, con problemi ed esigenze specifiche che chiedevano specifiche risposte, aveva ancora una circolazione clandestina. Poi qualcosa si muove. Libri come Peter Pan, Il mago di Oz e I ragazzi della via Pal, o lo stesso Kim, pubblicati tutti nel primo decennio del ventesimo secolo, che parlano di ragazzi che escono dal guscio familiare o si organizzano autonomamente, sono sintomatici. Ma nello stesso periodo scatta anche immediata e subdola la reazione: le energie espresse da questa nuova autocoscienza adolescenziale vanno disciplinate, incanalandole in movimenti che possano essere tenuti sotto controllo e all’occorrenza strumentalizzati. I Rimbaud sono pericolosi. Allo scoppio della prima guerra mondiale boyscout e wandervogel tedeschi, ma anche i futuristi nostrani, corrono invece ad arruolarsi entusiasti.

Nel periodo tra le due guerre il concetto di una “condizione giovanile” che accomuna tutta una fascia d’età e alla quale spetta il compito di costruire un mondo nuovo viene enfatizzata e istituzionalizzata soprattutto dai regimi totalitari. È il periodo di “Giovinezza, giovinezza”, dei balilla e della gioventù hitleriana, del Komsomol sovietico, ed è in questi contesti che la gioventù acquisisce per la prima volta lo status di “valore in sé”. Ma si tratta di un “valore” definito e attribuito dall’alto.

Solo nel secondo dopoguerra questo riconoscimento si traduce in una “cultura giovanile” apparentemente autonoma (capace cioè di esprimere dall’interno i suoi codici, la sue finalità e le sue regole). Nella realtà, però, dietro il ribellismo e la presunta autocoscienza giovanile si compie la fase finale della domesticazione […].

Ecco cos’è accaduto: i giovani sono diventati un target. Un target innanzitutto economico, ma in seconda battuta, e in correlazione, anche politico. Industrializzazione e riarmo ne hanno fatto nei primi del Novecento dei soggetti privilegiati di interesse sociale. Ora vanno a costituire la fascia alla quale faranno sempre più appello non solo i pubblicitari ma anche gli aspiranti dittatori, i populisti, i nuovi redentori del mondo».

Non è certamente questo il caso di Jim Hawkins. Nella sua storia non ci sono insegnamenti morali o pretese pedagogiche, non c’è neppure alcun assunto “virtuoso” (amor di patria, difesa dei deboli, riscatto degli umili). Jim è spettatore partecipe della lotta che si scatena attorno ad una grande ricchezza, che è stata ammassata con rapine, saccheggi, omicidi. Divide con gli altri sopravvissuti il bottino finale, e in tal senso non si fa alcuno scrupolo. Vuole solo che le parti siano ben fatte e che nessuno cerchi di fregare gli altri, secondo un elementare senso di giustizia. Quanto all’avventura. non l’ha cercata per una qualche motivazione ideale o pratica, ma gli è capitata addosso, è venuta lei a cercarlo nella sua locanda. Lui è semplicemente stato bravo a cavalcarla, e questo fa si che qualunque lettore possa rispecchiarsi nella sua storia.

I significati vanno piuttosto cercati in quella che è la vera protagonista del romanzo: l’isola.

Per cominciare, l’isola c’è, checché ne pensino Bennato e Guccini. Intendo dire che quando Stevenson ne ha disegnata la mappa l’aveva già in mente da tempo: era convinto che esistesse anche fisicamente, e che davvero nascondesse un tesoro. Sembra infatti che nel corso del suo soggiorno a San Francisco, l’anno precedente la scrittura del libro, fosse venuto a conoscenza di una misteriosa vicenda. Nel 1819 una nave che trasportava verso le Filippine i tesori della cattedrale di Lima, messi in salvo dagli spagnoli per sottrarli all’avanzata delle truppe rivoluzionarie di Simon Bolivar, era stata arrembata e affondata da un veliero pirata. Malgrado i pirati fossero stati catturati qualche tempo dopo, il bottino era scomparso: ma dalle rivelazioni fatte da uno di loro prima di essere impiccato risultava potesse essere sepolto a Cocos Island, un’isoletta deserta situata duemilacinquecento miglia a occidente delle coste dell’America Centrale, all’altezza del litorale del Costarica. La caccia al tesoro era partita immediatamente, e torme di avventurieri erano approdate all’isoletta e avevano scavato in ogni dove, senza però trovare alcunché.

Questo è quanto con ogni probabilità Stevenson sapeva al momento in cui disegnava la mappa. La faccenda però si complicò ulteriormente quando lo scrittore, a caccia di climi più clementi coi suoi polmoni, si trasferì con tutta la famiglia nei Mari del sud, nella principale delle isole Samoa. Veleggiando lungo tutto l’arcipelago non dovette occorrergli molto per scoprire che a meno di duecento miglia dalla sua nuova dimora si trovava un’altra isola, anch’essa completamente disabitata, oggi denominata col nome polinesiano di Tafahi, ma in quegli anni conosciuta ancora come Cocos Island (a 15°85’ di latitudine sud e 173°71’ di longitudine). L’isola era addirittura visibile da Samoa ad occhio nudo, in giornate particolarmente limpide. Eppure Stevenson, che ha lasciato un diario dettagliato delle sue navigazioni nelle acque polinesiane, non la cita mai.

In effetti la cosa è strana: la nuova Cocos Island, infatti, pur essendo tre volte più lontana della prima dalle coste americane, si trova sulla rotta naturale dettata dalle correnti che da Capo Horn risalgono in direzione occidentale il pacifico. Una rotta che potrebbe essere stata plausibilmente seguita dai pirati per evitare la caccia delle navi spagnole sguinzagliate sulle loro tracce. A Stevenson questa ipotesi non dovrebbe essere parsa tanto peregrina; gli avrebbe fornito la spiegazione dei moltissimi fallimenti dei precedenti cercatori, indotti in errore dall’omonimia. E avrebbe motivato i suoi discreti silenzi e le sue frequenti uscite in mare, di più giorni, da solo o con compagni fidatissimi, annotate senza alcuna specifica delle mete e delle motivazioni. Naturalmente non risulta abbia mai trovato qualcosa, anche se qualcuno, ad esempio lo scrittore franco-tedesco Alex Capus, che sulla vicenda ha scritto un gustoso docu-romanzo (Cocos Island, Casagrande, 2009), si chiede da dove arrivasse la ricchezza ostentata, dopo la morte di Louis, dai suoi famigliari.

Ma anche queste sono solo congetture, intriganti quanto si vuole ma che non aggiungono “significati” al romanzo. L’isola che a me interessa esiste invece indipendentemente da ogni localizzazione o identificazione. Esiste intanto perché è un luogo letterario per eccellenza, soprattutto della letteratura per adolescenti. Io non ho fatto altro per anni che veleggiare da un’isola all’altra, partendo da quella di Peter Pan e da Lilliput per approdare a quella di Robinson Crusoe, passando poi appunto per Stevenson, per Mompracem, per l’Isola misteriosa di Verne, ma anche per quelle dei fumetti di Craveri, e proseguendo in compagnia di Melville e di Dumas. L’ho ritrovata persino a scuola, in Omero naturalmente, in Luciano di Samosata, in San Brandano, nell’Ariosto, e giù giù sino ad approdare alla Morante.

Insomma, ho fatto una scorpacciata di isole, e ancora oggi ne sono ghiotto. Credo dipenda da un lato dalla mia natura pelagica, dall’altro dal fatto che un’isola ha confini ben definiti, è circoscritta, si presta ad essere esplorata e mappata sistematicamente, soddisfacendo la mia smania di completezza, e al tempo stesso consente di muoversi da ogni lato verso uno spazio aperto. C’entrano anche senz’altro le suggestioni infantili, le immagini di isole lacustri di un calendario tedesco o svizzero d’anteguerra, regalatomi da mia zia e rimasto appeso in cucina per anni, o la descrizione fiabesca fatta da mio padre dell’isola Bella, dove aveva portato mia madre in viaggio di nozze. Si era nell’immediato dopoguerra, in bassa stagione, avevano l’albergo tutto per loro a un prezzo irrisorio (anche se tre soli giorni di permanenza furono sufficienti a bruciare le poche lire racimolate cucendo tomaie). Immagino abbiano pensato di vivere per un attimo nel sogno.

Ecco, qui entrano in gioco, sia pure da un ingresso laterale, i significati. Non voglio farla lunga, né forzare la lettura, e rovinarla a chi non l’avesse ancora intrapresa: ma prescindendo dalle mie personalissime esperienze, e dalla misteriosa ricerca di Stevenson, l’isola c’è perché è stata da sempre il luogo dell’utopia, ben prima che Tommaso Moro ne certificasse la natura. Le Esperidi e le isole Fortunate degli antichi, la terra dei Feaci o l’Atlantide di Platone, il paradiso terrestre dei monaci irlandesi di san Brandano, erano trasposizioni di sogni, di bisogni, di speranze. Nel loro caso direi soprattutto di rimpianti: la beata età dell’oro della narrazione mitica spiega in realtà il presente come decadenza da un’originaria condizione di felicità, quando dèi e uomini vivevano insieme sulla terra, mentre l’utopia moderna nasce dalla volontà di sfuggire all’angoscia del presente in un mondo immaginario. Le isole si sono comunque in entrambi i casi perfettamente prestate ad ospitare progetti di trasformazione collettiva o di rinascita individuale. E sono proprio questi progetti i tesori che una miriade di sognatori, di riformatori, di avventurieri, di esuli più o meno volontari, ha continuato in millenni di storia umana a perseguire.

Le isole sono però anche il luogo del disincanto. Ulisse ne trova a bizzeffe, e torna tuttavia, magari in qualche caso con un pizzico di rimpianto, a rimettere piede nella realtà della sua Itaca (che è un’isola anche quella, a dire il vero, ma non lo sembra). E così fanno tutti gli altri: Gulliver, Robinson, Jim, Ruggero. Tutti i turisti dell’utopia tornano disincantati perché o non hanno trovato il tesoro, o se l’hanno trovato ne hanno immediatamente scoperto i costi e la maledizione. I paradisi promessi al momento dell’approdo si rivelano, quando ci si spinge all’interno, inferni terrificanti. L’isola di Alcina o quella de Il signore delle mosche ce ne offrono due immagini esemplari.

Allora bisogna capirci. Il tesoro dell’isola non è propriamente l’utopia: è il sogno che alimenta la nostra volontà di cercala, quello mirabilmente narrato da Stevenson. E come ogni sogno che si rispetti non dovrebbe mai essere costretto a poggiare i piedi per terra, a snaturarsi e a piegarsi sotto il peso della realtà. A noi il tesoro non conviene trovarlo: deve rimanere sull’orizzonte, spostarsi in avanti mano a mano che procediamo. E a dispetto dell’esito della sua ricerca anche Jim Hawkins sembra pensarla così, se chiude con queste parole il suo racconto: “Neanche un tiro di buoi potrebbe riportarmi in quell’isola maledetta; e i miei più paurosi incubi sono quando sento i cavalloni tuonare lungo la costa, o balzo d’improvviso sul mio letto, con negli orecchi la stridula voce del capitano Flint: “Pezzi da otto! Pezzi da otto!”.

Guerra per bande

Paolo Repetto, 25 gennaio 2019

Se il buon giorno si vede dal mattino siamo messi bene. Stamane il primo telegiornale annunciava lo smantellamento di una gang di adolescenti veneziani, tutti tra i tredici e i sedici anni e tutti di “buona famiglia”, che si ritrovavano quotidianamente in punti diversi della città per progettare e mettere in atto le loro imprese: pestare un qualsiasi coetaneo di passaggio, e all’occorrenza anche chi ne prendeva le difese, derubare turisti e residenti, inscenare violente scorribande lungo le calli. Naturalmente sono stati individuati, ma non fermati e legati e bastonati per bene: saranno severamente ammoniti. È possibile che cambino zona e orari di lavoro.

Non è una novità: la settimana scorsa accadeva a Napoli, un mese fa a Milano. Nei notiziari se parla però solo in casi estremi, quando qualcuno finisce all’ospedale, perde un occhio o è storpiato per sempre, o quando va a fuoco un senzatetto. Se non si arriva a questi eccessi, se le vittime se la cavano solo con denti rotti, lividi e occhi neri, è considerata normale amministrazione. Documentata, tra l’altro, dai video che i nostri eroi diffondono orgogliosamente sui social.

A questo punto dovrebbe partire un pistolone psico-sociologico, di quelli ammanniti in tivù dai vari Galimberti o Recalcati o Morelli o altri ordinari partecipanti ai talk show, per dimostrare che quei disgraziati sono essi stessi vittime, della società, dei genitori, della scuola, della televisione, dei videogiochi, e che vanno seguiti e recuperati, perché nessuno è naturalmente malvagio. Dimenticando sempre che forse andrebbero seguiti prima quelli che della violenza sono stati vittime, le cui ferite morali non si rimargineranno mai più. Ma ve lo risparmio. Per due motivi: perché non credo in nessuna di queste balle e perché ho intenzione di trattare l’argomento da un punto di vista non conforme.

Posso farlo con cognizione di causa, perché da ragazzo sono stato io stesso un capobanda. Ma devo subito operare una distinzione, che non è solo linguistica. Una banda non è una gang. Non so quali siano in inglese le alternative a questo termine, e se ce ne siano, ma nell’uso italiano gang rimanda immediatamente ad una associazione a delinquere, mentre banda ha una gamma di possibili interpretazioni molto più vasta, che vanno dall’accezione più folkloristica (la banda musicale) a quella storico-sociale (la banda del Matese nell’800) a quella decisamente criminale (la banda della Magliana o quella della Uno bianca). Fino a ieri, quando si parlava di “bande giovanili”, o meglio ancora adolescenziali, la connotazione era decisamente ludica, al più rimandava a un termine specifico dell’antropologia. Se esistevano bande criminali composte da adolescenti si trattava comunque di organizzazioni create e controllate senza tanti scrupoli da adulti, come quella del perfido Fagin in Oliver Twist. Io parlo invece di quelle aggregazioni spontanee che col mondo adulto avevano nulla a che fare, e funzionavano secondo codici propri: ma che mai si sarebbero date come unico scopo la violenza gratuita e lo sprezzo di ogni valore. Proprio su questa differenza, sulle sue origini e sulle sue motivazioni vorrei fare qualche riflessione, partendo appunto dalla mia esperienza.

Dicendo “da ragazzo” mi riferisco al periodo a cavallo tra gli anni cinquanta e i sessanta, quando anche a Lerma arrivavano notizie delle gesta dei teddy boys inglesi, mentre sullo schermo del cinema parrocchiale sfilavano i motociclisti del “Selvaggio” e gli studenti de “Il seme della violenza”. Dietro le mie bande però non c’erano quei modelli. C’era invece tantissimo John Ford, e c’era la migliore letteratura per ragazzi che mai sia stata prodotta, da L’isola del tesoro a Capitani Coraggiosi e a Hukleberry Finn.

Il riferimento assoluto era naturalmente rappresentato da “I ragazzi della via Pàl” (ancora oggi darei chissà cosa per ritrovare la vecchia edizione Salani, per anni la mia Bibbia). Il mio campione tra i ragazzi ungheresi era Boka, un ”giusto”, come lo definisce Molnàr, un capo naturale, grande organizzatore, più maturo ed equilibrato degli altri: ma per certi versi mi riconoscevo anche in Csónakos, il campagnolo robusto, ottimo arrampicatore di alberi, che non teme nessuno e riesce a sconfiggere anche il più forte dei temibili gemelli Pásztor. Finivo persino per identificarmi con Franco Áts, il capo delle rivali camicie rosse, perché almeno dimostra di apprezzare il coraggio del povero Nemecsek e gli concede l’onore delle armi.
Non ho mai capito perché I ragazzi della via Pàl non sia da sempre un testo obbligatorio nelle scuole (così come avrebbe dovuto essere per La guerra dei bottoni. Quest’ultimo era stato edito in Italia già nel 1929, nei classici del ridere di Formiggini, tra l’altro con le illustrazioni di Gustavino, ma fino agli anni sessanta non era più ricomparso e quindi non faceva parte del nostro bagaglio). Libri come quelli conquisterebbero alla lettura un sacco di preadolescenti che trovano noiosissime le pappine politicamente corrette propinate oggi loro da educatori progressisti. Non è affatto vero che si tratti di letture datate: se un ragazzino attorno ai dieci anni non ha il cervello già centrifugato dai videogiochi o dal parcheggio continuativo davanti alla tivù li troverà divertenti e stimolanti come li abbiamo trovati noi. Gli esperimenti che ho fatto con figli e nipoti e figli di amici, ai quali ho sempre e solo regalato, oltre a quelli già citati, La freccia nera o Un capitano di quindici anni, e Salgari in ogni salsa, mi confortano in questa idea.
Ne i “I ragazzi della via Pàl” si trovavano tutti gli elementi fondamentali per la costituzione di una banda: un territorio (con tanto di capanna), il tesoro e il codice comportamentale (oggetto del giuramento). Nel caso nostro, per esigenze strategiche e perché i miei genitori in queste cose erano abbastanza tolleranti, il territorio tendeva quasi sempre a coincidere con il pratone e col bosco sottostanti la mia abitazione, dove in genere sorgeva la capanna, e che consideravamo “zona di assoluto rispetto”: l’accesso era interdetto a chiunque non conoscesse la parola d’ordine e i confini erano segnati alla maniera indiana (Renzo, il figlio del macellaio, procurò una volta delle mandibole scarnificate di maiale, che per qualche tempo sorrisero sinistramente sulle punte dei pali al limitare del bosco). C’erano poi aree “protette”, come gli orti, i frutteti o le vigne delle famiglie degli associati alla banda, nelle quali teoricamente non dovevano essere compiute scorrerie (mentre il resto del territorio era aperto alle operazioni di approvvigionamento. C’erano infine delle zone franche, come la piazzetta del castello, dove avevano luogo sotto gli occhi del viceparroco gli incontri pacifici e le partitelle di calcio, e delle vere e proprie terre di nessuno, come il bosco della Cavalla o il fiume, dove invece avvenivano gli scontri.

L’epicentro della vita di banda era naturalmente la capanna. Ciascuno doveva contribuire alla sua costruzione con materiali di recupero, ma in qualche caso più che di recuperi si trattava di vere e proprie espropriazioni, col risultato che più di una volta ci trovammo a smantellare tetti o pareti per restituire travi e lamiere a parenti o a vicini imbestialiti. Una volta attorno alla capanna erigemmo una vera e propria palizzata, un capolavoro di architettura militare rimasto a lungo nella memoria collettiva, ma che all’epoca non impedì a mio padre di chiedere la restituzione alla veloce dei pali. Oltre a quella ufficiale le bande avevano anche delle capanne “segrete”, punti di appostamento, nascondigli, o anche solo provocazioni per gli avversari, quando erano piazzate addirittura dentro il territorio nemico. Ne abbiamo disseminate un po’ dovunque, sugli alberi o dentro anfratti di roccia, nei boschi o sul greto del torrente. Un inverno costruimmo con blocchi regolari tagliati nel ghiaccio anche un igloo, al centro di un vero fortino con mura di neve pressata: lo innaffiavamo tutte le sere, e per l’eccezionale rigidità dell’inverno rimase in piedi sino all’aprile successivo. Era riuscito talmente bene che la banda delle cascine chiese l’autorizzazione a giocarvi, collaborando in compenso alla manutenzione: fu stipulata una tregua invernale, che come prevedibile venne rotta quasi subito e finì in una battaglia a palle di neve.

Ho continuato a costruire capanne a lungo, anche oltre l’adolescenza: l’ultima, eretta per mio figlio, ha resistito sino a mio nipote. Anzi, quella definitiva, riassuntiva di tutte, è proprio l’attuale “capanno”, che è stato (e rimane) la sede dei Viandanti delle Nebbie. Ho cambiato i materiali, ma la destinazione è rimasta in fondo la stessa.

Il tesoro era il nostro Graal: all’inizio era costituito solo da vecchie monete fuori corso, ma col tempo si arricchì di perle finte raccolte per strada dopo un incidente motociclistico, di banconote tedesche d’anteguerra da cinque o dieci marchi, sottratte a mia zia, di spille prese a prestito definitivo da madri o sorelle. Il tutto era custodito in un cofanetto di latta, nascosto nei luoghi più improbabili. Ogni tanto si facevano delle verifiche contabili e si cambiava nascondiglio, ma quando alla fine ci fu sottratto non riuscimmo più a recuperarlo, neppure sottoponendo alcuni indiziati alla tortura (sto parlando sul serio). Forse a furia di segretezza avevamo semplicemente dimenticato l’ultima ubicazione, e il cofanetto sta ancora là, dietro qualche pietra di un muro intonacato da decenni.

I testi sacri erano costituiti dalla formula del giuramento, dal codice cifrato e dall’elenco degli adepti: tutti naturalmente segretissimi. Ricordo che nella versione più elaborata, quella dell’ultima banda, coincidente con l’uscita dall’adolescenza, la formula faceva riferimento anche al bushido (che avevo sentito nominare ma in realtà non sapevo affatto cosa fosse) e al codice dei templari. Scrivemmo il giuramento su una carta da lettere antica, decorata da uno stemma, che avevo trovato e immediatamente requisito in una vecchia scrivania. In un paio di casi producemmo anche documenti top-secret con il resoconto delle azioni compiute, delle punizioni inflitte, di eventuali donazioni (quelle che andavano ad arricchire il tesoro).

Fondamentale era naturalmente il codice segreto. Questa era una mia specialità. Sono arrivato ad elaborare un codice alfanumerico complicatissimo, che poteva essere modificato di giorno in giorno. Essendo io invariabilmente il capo della banda, fondatore e organizzatore, ero anche l’unico detentore della chiave del codice, il che evidentemente ne rendeva impossibile l’utilizzo. D’altro canto non c’era necessità di comunicare segretamente alcunché, per cui andava bene così: l’importante era possedere una terribile arma segreta, che ci avrebbe eventualmente permesso di trasmettere dispacci vitali senza il timore che fossero intercettati.

A tutto questo si aggiungeva nelle mie bande un rituale particolare, che ne faceva qualcosa di assolutamente diverso dagli altri sodalizi giovanili spontanei dei dintorni. I nostri riti iniziatici, il giuramento e la pronuncia della formule, erano piuttosto spicci: ho sempre sofferto di un senso del ridicolo persino eccessivo, non ho mai sopportato le teatrali liturgie di tipo massonico e meno che mai quelle ipocrite di stampo mafioso o camorristico, che prevedono addirittura lo scambio di baci. Ma non ho saputo resistere al fascino della fratellanza di sangue, e non solo a quello del significato del vincolo ma anche a quello del gesto esteriore che lo sancisce. L’avevo visto fare in una delle prime strisce di Tex, e l’avevo poi ritrovato ne “La freccia insanguinata”. Praticando una piccola incisione sul polso si fa uscire qualche goccia di sangue, che va a mescolarsi con quelle del polso del tuo compagno. L’AIDS era lontano a venire, ed evidentemente eravamo corazzati anche contro il tetano o altre infezioni, perché noi l’incisione la praticavamo con un chiodo, invariabilmente arrugginito, e solo più tardi col coltello a serramanico di mio nonno, quello col manico di madreperla che ancora conservo, non molto più asettico. Il polso doveva essere rigorosamente il destro, l’incisione leggera (una volta il solito Renzo, che era un entusiasta e prendeva le cose sul serio, si beccò in pieno una vena e rischiò di dissanguarsi). Compiuta la cerimonia, applicato un po’ di fango mescolato a saliva e ad erba per cicatrizzare la ferita, si era fratelli di sangue.

Non so quanto gli altri ne fossero convinti, ma credo che in realtà il giuramento di sangue piacesse: anche perché non era allargato a tutti i membri della banda, ma univa solo quelli che avevano acquistato particolari meriti, per fedeltà al gruppo o per gesta compiute. Non era automatico, ma al tempo stesso non escludeva nessuno: sanciva un particolare stato di servizio. Rispetto agli estranei la cosa ci rendeva diversi: gli altri intuivano che tra noi esisteva un legame segreto, e fino a quando un traditore non lo rivelò continuarono ad arrovellarsi per capire cosa diavolo fosse. Dato che il sigillo cruento dura tutta la vita, sono ancora oggi fratello di sangue di molti miei coetanei: una buona parte non li ho più rivisti e altri probabilmente nemmeno se ne ricordano. Io invece lo ricordo, e penso di aver continuato sino ad oggi a comportarmi nei loro confronti di conseguenza.

Avevo introdotto questo rito pittoresco perché rispondeva a una mia precocissima passione per le sette e le società iniziatiche, ma soprattutto perché mi sembrava siglasse un rapporto speciale di fiducia e responsabilizzazione reciproca, all’insegna di una totale lealtà e franchezza. Sin da bambino ho concepito l’amicizia come un legame più forte di qualsiasi parentela. Quest’ultima te la trovi, l’amicizia te la conquisti. Mi sono anche chiesto se a muovermi fosse un’idea di possesso esclusivo, ma in tutta onestà non era così: mi piaceva allargare costantemente le mie amicizie e non ne sono mai stato geloso. Al contrario, ero mosso dal desiderio di vedere tutti vivere in una armoniosa e costruttiva concordia. Una sindrome da dio insoddisfatto di come gli è venuta la creazione, che cerca di mettere ordine, magari anche con le maniere brusche (sindrome della quale non mi sono mai liberato).

La disposizione all’apertura ha fatto paradossalmente di me anche un intollerante: in linea di principio sono sempre stato convinto che tutti meritassero la mia amicizia, e felice di ottenere la loro: ma di fatto, per guadagnarla certi requisiti mi sono sempre sembrati imprescindibili. In assenza di questi, scatta pesante l’esclusione.

All’epoca, le bande avversarie e i loro componenti facevano parte di un gioco. Le nostre battaglie erano in fondo l’equivalente di partite di calcio, senz’altro meno cruente di quelle che avremmo combattuto pochi anni dopo sui campi dei tornei a sette organizzati nel circondario. I combattimenti erano leali (quasi sempre) e c’era un limite, come nei duelli al primo sangue. Esistevano regole non scritte, ma condivise: chi non vi si fosse attenuto era fuori, messo al bando dai suoi prima ancora che dagli avversari. Non avevamo motivo per odiarci o disprezzarci a vicenda: anzi, il nostro valore era parametrato su quello dell’avversario: e comunque, al di fuori dal gioco condividevamo pacificamente le aule scolastiche e il circolo parrocchiale. Intendo dire che l’appartenenza ad una banda o all’altra dipendeva in genere da fattori del tutto contingenti, dalle parentele, dall’abitare nella parte alta o in quella bassa del paese, o nei cascinali dei dintorni. E questo faceva sì che riconoscessimo un livello superiore a quello dell’appartenenza, nel quale valeva la stima individuale, così che le amicizie veramente profonde potevano svilupparsi anche con membri delle bande avverse. In fondo, lo stesso Franco Ats va a fare visita al povero Nemecsek morente e a rendergli omaggio, e questo gli vale più di qualsiasi vittoria sul campo.

Forse ho dato l’impressione che nella mia banda regnasse un regime monocratico, ma non è esattamente così. Il principio fondante era anarchico: da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni. Che nel nostro linguaggio suonava: se sai fare meglio una cosa, la fai tu: se hai bisogno di qualcosa, ti aiutiamo noi. E tradotto ulteriormente significa: se vogliamo che la cosa funzioni, e che tutti ne traggano vantaggio, largo alle competenze. Ora, in effetti io di competenze ne avevo parecchie, sia teoriche che pratiche. Avevo letto più libri, praticamente tutto Salgari, buona parte di Verne e di Dumas e tutto Tex; ero il proiezionista del cinema parrocchiale e quindi avevo visto più film western, magari due volte, e li ricordavo a memoria, attori e regista compresi: conoscevo le regole dei duelli, l’organizzazione dei Compagnons de Jehu, le strategie dei tigrotti malesi, i codici d’onore, ecc … Sapevo poi scrivere un regolamento in bella calligrafia e nel linguaggio giusto, e da buon figlio di contadino sapevo distinguere gli alberi, scegliere il legno adatto per le spade, quello per gli archi e quello per le cerbottane. Soprattutto, da amante della noble art me la cavavo bene nelle scazzottate e nella lotta libera, e da sognatore impenitente riuscivo a dare un tocco di epicità a tutto ciò che accadeva (un po’ quello che sto cercando di fare adesso). Insomma: avevo quanto occorreva per guidare un gruppo, e mi era riconosciuto.

Questo non significa che fossi preda dell’ebbrezza del comando. Lo vivevo anzi come una enorme responsabilità: mi sentivo responsabile di tutto e per tutti. Ma proprio questo mi spingeva a rendere il più possibile democratica la guida della banda. Ho riconosciuto molto più tardi questo atteggiamento nello Swann dei “Guerrieri della notte”. Credo la si sarebbe potuta definire una democrazia rousseauiana. Volevo avere attorno gente convinta di quel che faceva, persone che avessero le loro opinioni e sapessero farle valere, non dei gregari a rimorchio. Il mio compito era di proporre delle idee e di stimolare le critiche e le proposte altrui (e in questo senso, anticipavo il Keating de “L’attimo fuggente”). Alle decisioni poi dovevano partecipare tutti, con egual peso (nell’ultima fase avevamo introdotto anche lo scrutinio segreto, con pietre bianche e nere) e tutti erano tenuti a rispettare quanto deciso dalla maggioranza.

Ora, in tutta onestà non sono proprio sicuro che le cose stessero esattamente così: così le ricordo io a sessant’anni di distanza, e comunque, se il quadro era forse meno idillico, la sostanza era quella. Non ho inventato nulla, al più ho un po’ semplificato le cose: è vero che in genere era la mia opinione a prevalere, ma questo avveniva nel rispetto delle regole di quel gioco. Sottolineo che di fatto si trattò sempre della stessa banda, rimasta in vita per almeno quattro anni: ogni anno cambiavano la denominazione e i rituali, perché nel frattempo avevamo letto nuovi libri o visto nuovi film, e ci furono degli avvicendamenti, ma lo zoccolo duro rimase sostanzialmente immutato. Chi non era d’accordo era liberissimo di andarsene, e chi lo faceva provava spesso a fondare bande sue, che si scioglievano quasi immediatamente. Veniva riaccolto a braccia aperte.

La stagione delle bande è stata entusiasmante. Almeno per me, che ero animato da un infaticabile spirito organizzativo. Come in tutte le avventure di questo tipo la fase più divertente era naturalmente quella iniziale, con la costruzione delle capanne, i rituali iniziatici, i primi scontri con gli avversari, quando c’erano avversari. In assenza di questi ultimi, e soprattutto dopo che nel cinema parrocchiale erano stati proiettati I due capitani e Passaggio a Nord-ovest, le attività della banda potevano assumere un carattere esplorativo-scientifico, e un paio di spedizioni a risalire il Piota sono rimaste memorabili. Poi subentrava la noia, veniva meno la novità, si verificavano le prime insubordinazioni, qualche volta anche tradimenti, da parte di chi riteneva di non aver ottenuto un grado e un ruolo adeguati. Di positivo c’era il fatto che, a differenza dei governi, le bande possono essere ricostituite ex novo in quattro e quattr’otto, e non hanno nemmeno bisogno del voto di fiducia, perché nascono già su quel presupposto.

La stagione si chiuse comunque un attimo prima che le cose potessero degenerare e diventare pericolose. Costruimmo l’ultima grande banda nell’estate del ‘62, l’anno del passaggio dalle medie alle superiori, e la faccenda finì con una spedizione punitiva contro tre diciottenni, rei di avere distrutto la capanna dei nostri avversari e sottratte le quattro suppellettili che l’arredavano. Si creò un’alleanza immediata, tenemmo un consiglio di guerra congiunto che neppure le SS, e scatenammo una caccia all’uomo che fece perdere il senso della misura un po’ a tutti. Quando la sera trovai un carabiniere a colloquio con mio padre capii che l’età dell’innocenza era finita, e che di lì innanzi avrei dovuto cambiare registro. Ormai avevamo messo un piede nel mondo degli adulti.

***

Ho fatto questo lungo giro per arrivare a chiedermi cosa sia successo dopo, e quando, visto che ci ritroviamo oggi a parlare non più di bande, ma di vere e proprie di gang di minorenni: il che poterebbe far temere che voglia comunque infliggere un sermone sociologico. Non è così. Magari non sembra, ma sono per le spiegazioni semplici (non semplicistiche) dei fenomeni sociali: ritengo infatti che anche quelle minuziose e complesse siano comunque parziali, dal momento che ci restituiscono delle medie, e non delle persone. Tanto vale quindi proporre anche la mia, che analizza solo uno dei tanti fattori del cambiamento, neppure quello più evidente, e che parziale lo è proprio in tutti i sensi: ma ha almeno il merito di toccare un nervo sul quale in genere si tende a glissare.

Per cominciare, partirei dal “quando”.

Io detesto costui. È malvagio. Quando viene un padre nella scuola a fare una partaccia al figlio, egli ne gode; quando uno piange, egli ride. Trema davanti a Garrone e picchia il muratorino perché è piccolo; tormenta Crossi perché ha il braccio morto; schernisce Precossi che tutti rispettano; burla persino Robetti, quello della seconda, che cammina con le stampelle per aver salvato un bambino. Provoca tutti i più deboli di lui, e quando fa a pugni, s’inferocisce e tira a far male.” Questa è la voce di Enrico, il protagonista del libro Cuore. Parla di Franti, uno che nella mia banda non sarebbe mai entrato, o ci sarebbe entrato solo dopo una buona rieducazione a dosi giornaliere di legnate. Perché i Franti esistono, ma finché esistono i Garrone sanno qual è il loro posto, e si adeguano.

l’Ordine o lo si ride dal di dentro o lo si bestemmia dal di fuori; o si finge di accettarlo per farlo esplodere, o si finge di rifiutarlo per farlo rifiorire in altre forme; o si è, come Franti ha tentato, uno scolaro che ride in scuola, o un analfabeta di avanguardia. E forse Franti, […] si apprestava in una lunga ascesi a esercitare, all’alba del nuovo secolo, sotto il nome d’arte di Gaetano Bresci.” Questa è invece la voce di Umberto (Eco), autore dell’Elogio di Franti (1963).

Che poi, dieci anni dopo (1973), rincara la dose:

“Ma la storia non si è fermata lì Nel 1966, Franti faceva una riapparizione gloriosa con la «Lettera a una professoressa» dei ragazzi di Barbiana: «Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate»… Franti capiva che non era né cattivo né stupido, e si rifaceva a una scuola a misura di subalterno, rifiutava Enrico come un Pierino oppressore e veramente diventava l’eroe positivo (ma questa volta a tutto tondo) del nuovo “Cuore”, modello – speriamo – ai ragazzi italiani di domani.

Tuttavia all’università Don Milani non c’era, e Franti tenta nuove maschere nel 1968, all’università di Torino: il discorso di chiusura dell’anno accademico viene steso da Franti su «Quaderni Piacentini» sotto il nome d’arte di Guido Viale. Meno equilibrato del discorso dei Franti di Barbiana, senz’altro meno costruttivo e più iconoclasta. Ma l’Italia trema. […]

Franti ora occupa le assemblee e impone la sua presenza. Franti ora è fuori dalla scuola. Non è morto, studia sui fogli della controinformazione.”

La data è importante. L’anno precedente Franti e i suoi nuovi compagni, ridotti in stato confusionale dallo studio, hanno “giustiziato” sparandogli alle spalle il commissario Calabresi, reo di aver fatto volare dalla finestra l’anarchico Pinelli (salvo poi risultare che al momento della tragedia il commissario non era nemmeno presente nella stanza – e a dirlo è Gerardo d’Ambrosio, magistrato definito “comunista”. Come poi ci sia volato è un altro discorso). Negli anni successivi, avendoci preso gusto, giustizieranno altre 130 persone, annullando ogni differenza di classe e spaziando da Guido Rossa a Marco Biagi.

Nel 1963, quando usciva l’Elogio di Franti, avevo già superato i limiti d’età per le bande paesane. Dieci anni dopo, quando Eco rincarava la dose, ero in fascia utile per entrare nelle bande armate. I requisiti sociali non mancavano: tra i tantissimi “rivoluzionari” che ho conosciuto nessuno era più proletario di me. C’erano anche i requisiti politici: avevo partecipato al ‘68, non come primo attore, naturalmente, ma come uomo del servizio d’ordine o come stuntmen. C’erano infine le competenze organizzative: vantavo un curriculum invidiabile di creatore di bande. Due cose però mi differenziavano dai Franti: anzi, tre. Non ero un allievo di Umberto Eco. Non potevo concepire che si ammazzasse qualcuno sparandogli alle spalle, o che si gioisse se qualcuno lo faceva. Leggevo libri di storia anziché quelli di Mao o di Guido Viale. E continuo a leggerli ancora oggi.

Ora, non vorrei che quella nei confronti di Eco apparisse una mia ossessione personale, una monomania persecutoria che me lo fa ritenere responsabile di ogni nefandezza. Non è affatto così. Diciamo che l’ho assunto a simbolo di un certo atteggiamento e di un certo modo essere, e un simbolo per essere efficace va scelto nel top della gamma. Se lo chiamo continuamente in causa è perché lo stimo molto più intelligente della media di quegli intellettuali o sedicenti tali che nell’illusione (ma per molti non esiterei a parlare di semplice vezzo da garantiti) di cambiare il mondo hanno fatto esattamente il gioco del sistema che pensavano di combattere. Era talmente intelligente da non aver mai creduto davvero in quella delirante incoscienza, dall’aver sempre frapposto alla sua adesione il filtro dell’ironia: ma a quanto sembra non era altrettanto onesto da prenderne nettamente le distanze e da raccontarla per quello che era. E questo mi irrita, perché se l’intelligenza c’è, e su quella di Eco, ripeto, non ci piove, ma si fa poi il contrario di quanto essa suggerisce, allora il sospetto è che a prevalere siano il cinismo, la presunzione, la supponenza. Non parlo di opportunismo, quello lo riservo agli squallidi guitti alla Dario Fo, o di ipocrisia, che è propria dei “cantori degli ultimi”, alla Fabrizio de André, celebrati da una sinistra da buffet che ha bisogno di santi laici a buon mercato: ma mi delude terribilmente che uno come Eco non abbia avuto la faccia di dire che gli analfabeti di avanguardia li aveva evocati proprio lui.

Purtroppo c’è anche di peggio. Nell’appello apparso sull’Espresso pochi mesi prima della morte di Calabresi, nel quale si denunciavano i “commissari torturatori”, quando ancora la fitta cortina fumogena creata dagli apparati non consentiva di valutare come realmente si fossero svolti i fatti, la prima firma era la sua. E non ho letto, nemmeno dopo, una sola sua parola che stigmatizzasse questo proclama di Lotta Continua: “È chiaro a tutti che sarà Luigi Calabresi a dover rispondere pubblicamente del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara… nessuno, e tantomeno Calabresi, può credere che quanto diciamo siano facili e velleitarie minacce. Siamo riusciti a trascinarlo in Tribunale, e questo è certamente il pericolo minore per lui, ed è solo l’inizio. Il terreno, la sede, gli strumenti della giustizia borghese, infatti, sono giustamente del tutto estranei alle nostre esperienze … Il proletariato emetterà il suo verdetto, lo comunicherà e ancora là, nelle piazze e nelle strade, lo renderà esecutivo… Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati: ma è questo, sicuramente, un momento e una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo Stato assassino.” Per uno che sulle parole ci ha campato avrebbe dovuto essere chiaro che si trattava di una vera e propria fatwa, di una istigazione ad uccidere. E il silenzio su questa infamia ha solo due spiegazioni: la complicità o la viltà.

Qui si scende però su un terreno molto pesante, e scivoloso, perché di quel silenzio e di quella rimozione si sono fatti complici nella quasi totalità gli altri settecentocinquanta firmatari dell’appello (compresi alcuni tra i nomi più illustri della nostra cultura, certamente al di sopra di ogni sospetto, da Primo Levi a Bobbio). Non voglio spingermi troppo avanti, almeno in questa sede. Qualcosa da rimproverare in proposito l’avrei anche a me stesso, qualche emozionale simpatia che non può essere giustificata e liquidata con la scusante dell’età: e forse solo l’aver conosciuto da vicino alcuni “maestri” della giustizia proletaria, alcuni tribuni degli sfrattati, e averli subito pesati “a naso”, con un po’ di buon senso contadino, mi ha impedito di andare oltre.

Voglio rimanere invece sull’Elogio di Franti. Pochi mesi prima di morire Eco ha scritto: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. Al solito, ha fotografato perfettamente ed efficacemente la situazione, anche se non era il caso di attendere il suo imprimatur per rendersene conto. D’altro canto, non c’era da aspettarsi di meno da uno che già sessant’anni fa scriveva: “Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi. Entra a contatto con le più vertiginose zone dello scibile e ne esce vergine e intatto [… ] pone grande cura nel non impressionare lo spettatore, non solo mostrandosi all’oscuro dei fatti, ma altresì decisamente intenzionato a non apprendere nulla”, cogliendo tempestivamente i segni (non a caso era un semiologo) di quale sarebbe stato il futuro del mondo governato dai nuovi media.

Ma allora perché, proprio nello stesso libro, nel Diario minimo, compare la riabilitazione di Franti, che dallo smascheramento delle ipocrisie della società e della cultura borghese scivola poi irrimediabilmente nell’irrisione e nella demolizione di ogni valore: e perché la ripresa del libro, nel decennale della prima comparsa, si fa esaltazione compiaciuta dei comportamenti sballati e ignoranti, spacciandoli per comportamenti prerivoluzionari, dando tutto sommato dell’idiota a chi in quei valori voleva continuare a crederci, e voleva semmai riappropriarsene, spogliati naturalmente di tutta la melassa e della retorica appiccicosa nelle quali la scuola li annegava, ma nella consapevolezza che quella scuola era l’unica porta d’accesso agli strumenti di “purificazione”. Non potevano certo esserlo i libretti di Mao o quelli di Guido Viale, e nemmeno gli editoriali di Lotta Continua.

E qui devo tornare mio malgrado sul terreno pesante, perché certe tacite assolutorie rimozioni proprio non le digerisco e perché l’episodio cui mi riferisco ha tragicamente toccato un amico, e l’ho pertanto sempre davanti agli occhi, mentre pare scomparso dalla labile memoria collettiva. Proprio mentre l’intelligencija auspicava un nuovo libro Cuore, che avesse a modello positivo lo scolaro che sghignazza in classe e tormenta i compagni più deboli, in perfetta coerenza Lotta Continua si faceva portavoce dei rigurgiti “autenticamente rivoluzionari” provenienti dall’universo carcerario, incitandoli ad esprimersi, a esplodere: così che un anno dopo il sciagurato ritorno sul Franti da parte di Eco venivano uccisi in una rivolta carceraria, proprio nella città di quest’ultimo, e oggi anche mia, cinque ostaggi, tra i quali un medico che con un gesto degno di Garrone si era offerto in sostituzione di una sua infermiera. Quel medico Cuore lo aveva certamente letto e, al contrario di Eco, sapeva che dei Franti non ci si può fidare: ma ha voluto rischiare lo stesso, perché evidentemente credeva nei valori che quel libro, “turpe esempio di pedagogia piccolo borghese, classista, paternalistica e sadicamente umbertina”, gli aveva comunque trasmesso: mentre i Franti, “la cui grandezza morale e le cui ragioni sentimentali e sociali emergevano a dispetto dell’acrimonia con cui l’autore e il suo piccolo diarista filisteo ce lo presentavano” freddavano vigliaccamente lui e altri quattro inermi sventurati.

Allora. Ci rendiamo conto che nessuno oggi ricorda queste cose, che nessuno se ne è mai assunto un briciolo di responsabilità, anche solo morale? Che dietro l’indubbia incompetenza e il cinismo dimostrati dalle autorità nel corso delle trattative e nell’assalto finale è stata totalmente oscurata la responsabilità delle Pantere Rosse, il nucleo che traduceva in prassi all’interno delle carceri il mandato “rivoluzionario” di Lotta Continua? Un bella riflessione su questa vicenda, magari anche una Bustina di Minerva, magari fatta anche trent’anni dopo, intitolata “Come abbiamo potuto essere così stupidi, così irresponsabili”, forse non avrebbe intaccato la fama del professore (che naturalmente da Lotta Continua, al contrario che da Franti, aveva preso per tempo le opportune – ma molto misurate – distanze).
Il 1963 si presta come data simbolica anche per un altro motivo. È l’anno in cui prese avvio la riforma della scuola media, che in teoria avrebbe dovuto aprire a tutti l’accesso ad una istruzione superiore, e in pratica, pur con tutte le confusioni e incongruenze tipiche delle riforme all’italiana, bene o male operò una rivoluzione nella scuola. Ma nel momento stesso in cui le porte finalmente si spalancavano quella scuola veniva messa alla berlina, irrisa e svalorizzata, da chi peraltro aveva goduto del privilegio di avvalersene, e a quanto pare ne aveva tratto adeguati strumenti critici per metterla in discussione. Lo stesso Eco che scriverà “Il nome della Rosa” sosteneva in quegli anni, proprio intervenendo sulla riforma: “L’ossessione del latino è una manifestazione di pigrizia culturale, o forse di forsennata invidia: voglio che anche i miei figli abbiano gli orizzonti ristretti che ho avuto io, altrimenti non potranno ubbidirmi quando comando”. La cosa ha molto il sapore di una ripulsa snobistica nei confronti di ciò che è ormai alla portata di tutti. E se anche così non fosse stata nelle intenzioni, lo diventava nel modo in cui poteva essere recepita da chi prima era tenuto a starne fuori. E dal momento che io ero tra questi, non mi piaceva affatto.

Contro la scuola nella quale ero entrato, le sue storture, le diseguaglianze, il vecchiume dei metodi e dei contenuti, ho cominciato ad agitarmi da subito anch’io: ma su tutto resisteva la coscienza che stavo godendo per una volta anch’io di un privilegio, che se fossi nato nella generazione precedente quell’occasione non mi sarebbe stata concessa, che era un mio diritto goderne ma un mio dovere approfittarne nel migliore dei modi, e che il migliore dei modi era quello di trarne tutti gli strumenti di conoscenza possibili. Non potevo attendere che mi si regalasse nulla, non è così che funziona nel mondo dal quale arrivavo, ma non dovevo mollare, perché le cose vanno guadagnate, e traggono senso e valore e danno piacere in ragione dell’impegno che ci metti. Questo ha fatto la differenza tra me (e quelli come me) e coloro che all’epoca della contestazione gridavano: “vogliamo tutto”. Io non volevo tutto, non avrei saputo che farmene, volevo quella cosa lì particolare, la conoscenza, e volevo solo che mi fossero offerte le occasioni per conquistarmela.

Ha a che fare quindi Umberto Eco (ma adesso basta con i simboli: voglio dire tutta quella “élite progressista” di cui Eco era solo il più qualificato rappresentante, quella che veste all’occasione i panni proletari e beve barbera in locanda per farsi avanguardia, ma gira in loden per congressi e beve cognac per farsi gli affari propri), con le gang di piccoli delinquenti di cui raccontava stamane la televisione o con gli imbecilli di cui appunto Eco stesso parlava? Certo che sì. Stiamo qui ad assistere a fenomeni che non sono più solo inquietanti, ma devastanti, e a commentarli sconsolati, e a dirci magari che è sempre stato così, che nel mezzo delle grandi trasformazioni culturali sempre si è rimpianto ciò che si stava perdendo, nell’incapacità o nell’impossibilità di prevedere quel che stava arrivando: e ancora non siamo stati capaci di fare i conti con l’atteggiamento tafazziano che buona parte della nostra generazione ha tenuto nei confronti di tutto l’universo di valori edificato bene o male dalla cultura occidentale. “Una risata vi seppellirà” era uno degli slogan più abusati contro la psicologia piccolo borghese. Ma per seppellire qualcosa occorre scavare buche, non aspettare che sprofondi, e per ridere sarebbe bene, paradossalmente, avere motivi seri.

Non stiamo facendo l’una cosa e non abbiamo l’altra. La rivolta contro l’educazione tradizionale non ha sostituito a quest’ultima alcuna pedagogia rivoluzionaria. Ha semplicemente demandato il compito alla televisione, oggi ai videogiochi. La contestazione della scuola piccoloborghese ha declassato la scuola tutta a parcheggio di transito tra un impegno sportivo, uno sociale e uno musicale dei ragazzi. La demonizzazione dell’autoritarismo familiare ha trasformato i genitori in avvocati difensori “a prescindere” dei loro pargoli. L’attenzione alle problematiche dell’adolescenza ha creato stuoli di psicologi che ci campano su, stilano certificazioni di bisogni educativi speciali e traducono in redditizia terapia quello che spesso un paio di ceffoni risolverebbe in un minuto (o perlomeno, sortirebbe lo stesso inutile effetto).

Ecco dunque cos’è che mi irrita. Mi irrita constatare, proprio mentre scrivo queste righe, che sto dicendo cose simili a quelle scritte sugli stessi temi da Marcello Veneziani, un altro che quanto trascorsi non ha nulla da invidiare a nessuno (ma gli riconosco la coerenza), o da gente dello stesso calibro, e questo mi inquieta e mi sgomenta: ma non ho intenzione di sottostare a ricatti morali che fungono poi in verità da alibi. Costoro stanno facendo, a modo loro e per i loro fini maligni, quanto una sinistra seria avrebbe dovuto fare in altro modo e autonomamente da un pezzo: confrontarsi con il passato, almeno a partire dal secondo dopoguerra, (ma un’occhiatina anche a prima non guasterebbe) non per liquidarlo o nasconderlo sotto il tappeto, ma per fare un po’ di pulizia, ristabilire un minimo di verità sottratta alle convenienze del momento e ricavarne qualche lezione per l’oggi. Per capire, soprattutto, le radici vere di una crisi così profonda e rapida, ma non certo inaspettata e inspiegabile.

Mi irrito perché io a questa storia della sinistra caparbiamente ci credo ancora: ma credo che essere a sinistra non significhi solo volere un mondo più giusto, ma cominciare a costruirlo partendo proprio da se stessi, esigendo da se stessi sincerità, lealtà, equità, senza attendere che qualcuno vengo a imporle o che tutti miracolosamente inizino ad apprezzarle. E penso che il peggior nemico della sinistra non siano i Marcello Veneziani o Casa Pound o i Salvini, ché quelli ci saranno sempre e vanno messi in lista come il coperto, ma quella pseudo-sinistra stessa che ha pensato a lungo ci si potesse trastullare con le parole, con le lotte, con gli slogan, con le rivoluzioni, senza accorgersi che l’età per il gioco delle bande era finita: salvo poi, una volta resasi conto di quanto quei travestimenti stavano diventando imbarazzanti, abbandonare il terreno di gioco lasciandolo ingombro di macerie, e spostarsi altrove, perdendo pezzi ad ogni trasloco.

Mi irrito perché su un terreno lasciato in quelle condizioni è diventato quasi impossibile giocare, non si capisce più nulla, e allora ti spieghi i pargoli veneziani che viaggiano senza regole, senza limiti, orfani di qualsivoglia principio di lealtà e rispetto della dignità propria e altrui: e mi freme dentro la voglia di trascinare qualcuno per le orecchie, come facemmo noi con i tre sprovveduti diciottenni che erano venuti a devastare il nostro campo, e di imporgli di ripulire tutto e di rimettere in piedi il sogno. Almeno, dopo quella rinfrescata i nostri fratelli minori hanno potuto continuare per qualche tempo a costruire capanne. Ancora una volta, Eco una cosa importante l’aveva capita, quando proprio nel Diario minimo raccomandava ai genitori di far giocare i loro figli con armi giocattolo, pistole e spade e pugnali, per consentire loro di togliersi la voglia in un’età innocua. Chi non gioca alle bande da ragazzo rischia di volerlo fare poi da adulto, con conseguenze tragiche, e chi ci gioca senza un codice, non per costruire capanne ma solo per distruggere quelle altrui, sarà per tutta la vita uno sbandato.

Quanto a lui, al povero Eco che sin qui ho vigliaccamente bistrattato (dico vigliaccamente, perché non si dovrebbe attaccare chi non è lì a difendersi: ma nel caso di Eco, lo difendono in realtà egregiamente le sue opere), al di là di ciò che ho già detto circa la sua assunzione a simbolo, voglio ristabilire la verità della mia posizione nei suoi confronti.

Allora. Penso che Eco sia stato un grandissimo saggista, forse il massimo semiologo dell’ultimo mezzo secolo, un erudito formidabile e un critico acutissimo del costume contemporaneo. Ha incarnato l’immagine del vero sapiente, onnivoro e capace di digerire tutto lo scibile e trasformarlo in materiale da costruzione, ma anche e soprattutto in oggetto di piacere. È l’autore del primo romanzo postmoderno, scritto dal computer.(non è un refuso, ho proprio scritto dal, per sottolineare che la scrittura col computer è tutt’altra cosa di quella a mano o a macchina. Del resto, è quella che sto usando io in questo momento. Non significa che le cose vengano scritte dal computer, ma che sono da esso direttamente e pesantemente condizionate, e quindi vengono scritte, e persino pensate, diversamente da come lo sarebbero alla vecchia maniera. Che l’autore sia sempre l’uomo e l’influenza del computer sia solo “strumentale” lo dimostrano del resto gli esiti, che sono ben differenti tra la scrittura di Eco e la mia). Il nome della Rosa è anche un gran bel libro, tra i più belli del Novecento, ma poi fermiamoci li, perché i tentativi letterari successivi sono andati scivolando via via verso il penoso. Per essere un grandissimo romanziere, uno ad esempio come Manzoni, gli sono mancate di quello l’umiltà e la consapevolezza. Manzoni aveva capito che quando ti riesce un’opera come I promessi sposi devi chiudere e non scrivere altro.

Quindi, sotto il profilo intellettuale, uno dei massimi del nostro tempo. Per quello umano non so, non l’ho mai neppure intravisto di persona, quindi sarebbe stupido dare qualsiasi giudizio. Di certo a dieci-dodici anni aveva già moltissime più competenze di me, ma non credo fossero quelle necessarie per diventare un capobanda. E nemmeno mi pronuncio sulla fratellanza di sangue. Le poche volte che l’ho seguito in televisione era circondato da leccaculo o intervistato da conduttori adoranti. E, per essere uno che ha lanciato molti sassi, non sempre (quasi mai) si è assunto la responsabilità di quelli che rompevano i vetri, anziché la superficie melmosa dello stagno.

Ma la verità è che avrebbe senz’altro decrittato facilmente il mio codice segreto: e questo, una banda che vuol continuare a sognare non può permetterlo.

P.S. Se nel leggere queste righe qualcuno ha avuto l’impressione del dejà vu, lo conforto subito: ha ragione. Al di là del fatto che scrivo ormai quasi sempre le stesse cose, la prima parte di questo pezzo riprende, a volte integralmente, la bozza di una racconto iniziato molti anni fa e mai portato a termine, dal quale nel tempo ho pescato vari spunti che ho sparso poi in giro. Anche le considerazioni finali non sono originali, le ho anticipate, sia pure solo per accenni, in almeno un paio degli scritti più recenti. Segno senz’altro dell’inesorabile scivolamento nelle monomanie senili, ma anche del fatto che i temi della deriva idiota o addirittura criminale delle società contemporanea, e non solo delle bande giovanili, e quello dell’inaridimento dell’amicizia mi stanno veramente a cuore.


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