Il tesoro dell’isola

di Paolo Repetto, 24 gennaio 2025

Seconda stella a destra, questo è il cammino
E poi dritto fino al mattino
Non ti puoi sbagliare, perché
Quella è l’isola che non c’è
E ti prendono in giro se continui a cercarla
Ma non darti per vinto, perché
Chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle
Forse è ancora più pazzo di te
Edoardo Bennato

Il Re di Spagna fece vela cercando l’isola incantata
però quell’isola non c’era e mai nessuno l’ha trovata
svanì di prua dalla galea come un’idea.
Come una splendida utopia è andata via e non tornerà mai più.
Francesco Guccini

In un ipotetico (e sterminato!) indice dei nomi comparsi su questo sito, a ricorrere con maggiore frequenza sarebbe senz’altro quello di Robert Louis Stevenson. Non ci avevo mai fatto caso, ma ora mi rendo conto che è naturale, perché per la mia generazione e per le tre o quattro precedenti Stevenson è stato l’autore “di formazione” per eccellenza: L’isola del tesoro è il romanzo più letto e più amato da adolescenti e pre-adolescenti nell’ultimo secolo e mezzo (almeno fino a quando gli adolescenti hanno continuato a leggere). Non importa che lo abbiano letto in edizioni ridotte o in traduzioni approssimative, o addirittura che molti non abbiano proprio mai preso in mano il libro: lo hanno comunque conosciuto attraverso le innumerevoli versioni cinematografiche, radiofoniche o televisive che ne sono state tratte, o nelle svariate trasposizioni a fumetti.

Il perché di questo successo lo spiega l’autore stesso quando racconta come tutto è nato. Siamo nel 1881, Stevenson ha appena superato i trent’anni, è un intellettuale già affermato, ma gli è stata diagnosticata da poco una tubercolosi (all’epoca incurabile). L’anno precedente ha viaggiato in America, per ritrovare e sposare Fanny, una divorziata molto più anziana di lui conosciuta in Francia. Sentendo aggravarsi il male è poi tornato in Scozia, presso la casa dei genitori, e qui trascorre un inverno eccezionalmente piovoso (anche per gli altissimi standard locali di umidità) in un cottage nelle Highlands scozzesi, davanti al camino sempre acceso. Ad un certo punto si fa prestare matite ed acquerelli da Lloyd, il figlio dodicenne della sua compagna, che sta disegnando la mappa di un’isola, e ne disegna una a sua volta. Attorno alla mappa comincia poi ad immaginare trame che riversa in pagine da leggere la sera, davanti alla famiglia riunita (che tempi! Oggi guarderebbero L’isola dei Famosi). La vicenda è così affascinante che tutti, in primis il padre di Louis e il figlioccio Lloyd, partecipano attivamente, suggeriscono nuovi sviluppi, aggiungono particolari, inseriscono personaggi. Anche gli amici che arrivano in visita ne sono conquistati, e fanno sì che il racconto venga pubblicato a puntate su una rivista per ragazzi. Sarà poi raccolto in volume nel 1883. Ottenendo un successo strepitoso.

Ebbene: cosa ha di straordinario questa storia? Ha che il libro è nato ed è cresciuto all’insegna del divertimento puro. Non era stato commissionato da nessuno, l’autore non inseguiva il successo economico, si concedeva la più assoluta libertà inventiva, se ne infischiava dei codici vittoriani, tanto che la distinzione tra i buoni e i cattivi è parecchio sfumata (vedi la figura di Long John Silver). Era pensato per un dodicenne (e infatti aveva un dodicenne per protagonista), per fargli sognare un futuro, ma al tempo stesso offriva una almeno temporanea via di fuga dallo sconforto ad un malato trentenne e una occasione di nostalgia vivificante a un sessagenario.

Dovremmo praticare a scadenze trentennali la rilettura de L’isola del tesoro. È una rivendicazione di libertà: per Stevenson lo era nei confronti del male, della malattia, di un futuro che a quel punto sentiva come già segnato; per tutti noi potrebbe esserlo nei confronti delle gabbie del consumo e dello spettacolo che ci hanno (e ci siamo) costruite attorno, e delle nuove ortodossie linguistiche e sociali che ci vengono imposte (a proposito, in tutta la vicenda non c’è – a parte quella marginale della madre di Jim – una figura femminile che giochi un qualsivoglia ruolo. Mi chiedo come mai Stevenson non sia ancora stato iscritto nel libro nero del politically correct).

Jim Hawkins, il protagonista, non la vive naturalmente in questo modo. Si trova suo malgrado coinvolto in una vicenda più grande di lui, e poco alla volta, attraverso le avventure e le disavventure cui va incontro, matura un suo personalissimo codice etico, che lo porta ad esempio a simpatizzare per Long John Silver, pur avendo ben chiaro che si tratta di un malfattore, piuttosto che con il tronfio e ciarliero cavaliere Trelawney (e lascio immaginare quanto potessi condividere quella simpatia, a otto o nove anni, avendo in casa chi su una gamba sola faceva cose altrettanto formidabili. Silver mi forniva, anche di fronte ai miei compagni, un motivo di riscatto e di orgoglio per mio padre, la cui menomazione fino a quel momento mi aveva un po’ imbarazzato).

Jim comunque non è un ribelle, come non lo era d’altra parte Stevenson: non mette in questione ruoli, convenzioni, diseguaglianze sociali, ma valuta gli uomini per quello che valgono quando sono chiamati ad agire. Impara che si può affrontare la vita in molti modi, l’importante è darsi la possibilità di scegliere ed essere protagonisti delle proprie scelte.

Insomma, alla sua figura non vanno attribuiti significati cui Stevenson non ha mai pensato. Questi semmai gli sono stati attribuiti da tutti coloro che hanno sognato di viaggiare con lui sulla Hispaniola, me compreso. Jim è stato il precursore di TinTin, di capitan Miki, del piccolo sceriffo, degli eroi adolescenti che hanno popolato tra la fine dell’800 e la prima metà del secolo successivo l’immaginario letterario e quello fumettistico. Ma con una particolarità: è forse l’ultimo che ancora si sottrae al processo di “domesticazione” della gioventù avviato di lì a poco (o che era già in corso: Cuore è pubblicato quasi contemporaneamente a L’Isola del tesoro, ed è ambientato nello stesso anno in cui Stevenson scriveva il suo romanzo). Di questo processo ho comunque già parlato altrove (in Sterminate i nativi digitali) e per evitarvi noiose ricerche mi tocca ancora una volta autocitarmi:

«I giovani esistono solo se intesi (molto vagamente) come classe sociale. Anche questa però è un’invenzione recente, che non risale oltre Rousseau. Anzi, a dispetto di tutte le anticipazioni romantiche … fino ai primi del Novecento l’idea che la giovinezza potesse essere considerata come una età a sé stante della vita, con problemi ed esigenze specifiche che chiedevano specifiche risposte, aveva ancora una circolazione clandestina. Poi qualcosa si muove. Libri come Peter Pan, Il mago di Oz e I ragazzi della via Pal, o lo stesso Kim, pubblicati tutti nel primo decennio del ventesimo secolo, che parlano di ragazzi che escono dal guscio familiare o si organizzano autonomamente, sono sintomatici. Ma nello stesso periodo scatta anche immediata e subdola la reazione: le energie espresse da questa nuova autocoscienza adolescenziale vanno disciplinate, incanalandole in movimenti che possano essere tenuti sotto controllo e all’occorrenza strumentalizzati. I Rimbaud sono pericolosi. Allo scoppio della prima guerra mondiale boyscout e wandervogel tedeschi, ma anche i futuristi nostrani, corrono invece ad arruolarsi entusiasti.

Nel periodo tra le due guerre il concetto di una “condizione giovanile” che accomuna tutta una fascia d’età e alla quale spetta il compito di costruire un mondo nuovo viene enfatizzata e istituzionalizzata soprattutto dai regimi totalitari. È il periodo di “Giovinezza, giovinezza”, dei balilla e della gioventù hitleriana, del Komsomol sovietico, ed è in questi contesti che la gioventù acquisisce per la prima volta lo status di “valore in sé”. Ma si tratta di un “valore” definito e attribuito dall’alto.

Solo nel secondo dopoguerra questo riconoscimento si traduce in una “cultura giovanile” apparentemente autonoma (capace cioè di esprimere dall’interno i suoi codici, la sue finalità e le sue regole). Nella realtà, però, dietro il ribellismo e la presunta autocoscienza giovanile si compie la fase finale della domesticazione […].

Ecco cos’è accaduto: i giovani sono diventati un target. Un target innanzitutto economico, ma in seconda battuta, e in correlazione, anche politico. Industrializzazione e riarmo ne hanno fatto nei primi del Novecento dei soggetti privilegiati di interesse sociale. Ora vanno a costituire la fascia alla quale faranno sempre più appello non solo i pubblicitari ma anche gli aspiranti dittatori, i populisti, i nuovi redentori del mondo».

Non è certamente questo il caso di Jim Hawkins. Nella sua storia non ci sono insegnamenti morali o pretese pedagogiche, non c’è neppure alcun assunto “virtuoso” (amor di patria, difesa dei deboli, riscatto degli umili). Jim è spettatore partecipe della lotta che si scatena attorno ad una grande ricchezza, che è stata ammassata con rapine, saccheggi, omicidi. Divide con gli altri sopravvissuti il bottino finale, e in tal senso non si fa alcuno scrupolo. Vuole solo che le parti siano ben fatte e che nessuno cerchi di fregare gli altri, secondo un elementare senso di giustizia. Quanto all’avventura. non l’ha cercata per una qualche motivazione ideale o pratica, ma gli è capitata addosso, è venuta lei a cercarlo nella sua locanda. Lui è semplicemente stato bravo a cavalcarla, e questo fa si che qualunque lettore possa rispecchiarsi nella sua storia.

I significati vanno piuttosto cercati in quella che è la vera protagonista del romanzo: l’isola.

Per cominciare, l’isola c’è, checché ne pensino Bennato e Guccini. Intendo dire che quando Stevenson ne ha disegnata la mappa l’aveva già in mente da tempo: era convinto che esistesse anche fisicamente, e che davvero nascondesse un tesoro. Sembra infatti che nel corso del suo soggiorno a San Francisco, l’anno precedente la scrittura del libro, fosse venuto a conoscenza di una misteriosa vicenda. Nel 1819 una nave che trasportava verso le Filippine i tesori della cattedrale di Lima, messi in salvo dagli spagnoli per sottrarli all’avanzata delle truppe rivoluzionarie di Simon Bolivar, era stata arrembata e affondata da un veliero pirata. Malgrado i pirati fossero stati catturati qualche tempo dopo, il bottino era scomparso: ma dalle rivelazioni fatte da uno di loro prima di essere impiccato risultava potesse essere sepolto a Cocos Island, un’isoletta deserta situata duemilacinquecento miglia a occidente delle coste dell’America Centrale, all’altezza del litorale del Costarica. La caccia al tesoro era partita immediatamente, e torme di avventurieri erano approdate all’isoletta e avevano scavato in ogni dove, senza però trovare alcunché.

Questo è quanto con ogni probabilità Stevenson sapeva al momento in cui disegnava la mappa. La faccenda però si complicò ulteriormente quando lo scrittore, a caccia di climi più clementi coi suoi polmoni, si trasferì con tutta la famiglia nei Mari del sud, nella principale delle isole Samoa. Veleggiando lungo tutto l’arcipelago non dovette occorrergli molto per scoprire che a meno di duecento miglia dalla sua nuova dimora si trovava un’altra isola, anch’essa completamente disabitata, oggi denominata col nome polinesiano di Tafahi, ma in quegli anni conosciuta ancora come Cocos Island (a 15°85’ di latitudine sud e 173°71’ di longitudine). L’isola era addirittura visibile da Samoa ad occhio nudo, in giornate particolarmente limpide. Eppure Stevenson, che ha lasciato un diario dettagliato delle sue navigazioni nelle acque polinesiane, non la cita mai.

In effetti la cosa è strana: la nuova Cocos Island, infatti, pur essendo tre volte più lontana della prima dalle coste americane, si trova sulla rotta naturale dettata dalle correnti che da Capo Horn risalgono in direzione occidentale il pacifico. Una rotta che potrebbe essere stata plausibilmente seguita dai pirati per evitare la caccia delle navi spagnole sguinzagliate sulle loro tracce. A Stevenson questa ipotesi non dovrebbe essere parsa tanto peregrina; gli avrebbe fornito la spiegazione dei moltissimi fallimenti dei precedenti cercatori, indotti in errore dall’omonimia. E avrebbe motivato i suoi discreti silenzi e le sue frequenti uscite in mare, di più giorni, da solo o con compagni fidatissimi, annotate senza alcuna specifica delle mete e delle motivazioni. Naturalmente non risulta abbia mai trovato qualcosa, anche se qualcuno, ad esempio lo scrittore franco-tedesco Alex Capus, che sulla vicenda ha scritto un gustoso docu-romanzo (Cocos Island, Casagrande, 2009), si chiede da dove arrivasse la ricchezza ostentata, dopo la morte di Louis, dai suoi famigliari.

Ma anche queste sono solo congetture, intriganti quanto si vuole ma che non aggiungono “significati” al romanzo. L’isola che a me interessa esiste invece indipendentemente da ogni localizzazione o identificazione. Esiste intanto perché è un luogo letterario per eccellenza, soprattutto della letteratura per adolescenti. Io non ho fatto altro per anni che veleggiare da un’isola all’altra, partendo da quella di Peter Pan e da Lilliput per approdare a quella di Robinson Crusoe, passando poi appunto per Stevenson, per Mompracem, per l’Isola misteriosa di Verne, ma anche per quelle dei fumetti di Craveri, e proseguendo in compagnia di Melville e di Dumas. L’ho ritrovata persino a scuola, in Omero naturalmente, in Luciano di Samosata, in San Brandano, nell’Ariosto, e giù giù sino ad approdare alla Morante.

Insomma, ho fatto una scorpacciata di isole, e ancora oggi ne sono ghiotto. Credo dipenda da un lato dalla mia natura pelagica, dall’altro dal fatto che un’isola ha confini ben definiti, è circoscritta, si presta ad essere esplorata e mappata sistematicamente, soddisfacendo la mia smania di completezza, e al tempo stesso consente di muoversi da ogni lato verso uno spazio aperto. C’entrano anche senz’altro le suggestioni infantili, le immagini di isole lacustri di un calendario tedesco o svizzero d’anteguerra, regalatomi da mia zia e rimasto appeso in cucina per anni, o la descrizione fiabesca fatta da mio padre dell’isola Bella, dove aveva portato mia madre in viaggio di nozze. Si era nell’immediato dopoguerra, in bassa stagione, avevano l’albergo tutto per loro a un prezzo irrisorio (anche se tre soli giorni di permanenza furono sufficienti a bruciare le poche lire racimolate cucendo tomaie). Immagino abbiano pensato di vivere per un attimo nel sogno.

Ecco, qui entrano in gioco, sia pure da un ingresso laterale, i significati. Non voglio farla lunga, né forzare la lettura, e rovinarla a chi non l’avesse ancora intrapresa: ma prescindendo dalle mie personalissime esperienze, e dalla misteriosa ricerca di Stevenson, l’isola c’è perché è stata da sempre il luogo dell’utopia, ben prima che Tommaso Moro ne certificasse la natura. Le Esperidi e le isole Fortunate degli antichi, la terra dei Feaci o l’Atlantide di Platone, il paradiso terrestre dei monaci irlandesi di san Brandano, erano trasposizioni di sogni, di bisogni, di speranze. Nel loro caso direi soprattutto di rimpianti: la beata età dell’oro della narrazione mitica spiega in realtà il presente come decadenza da un’originaria condizione di felicità, quando dèi e uomini vivevano insieme sulla terra, mentre l’utopia moderna nasce dalla volontà di sfuggire all’angoscia del presente in un mondo immaginario. Le isole si sono comunque in entrambi i casi perfettamente prestate ad ospitare progetti di trasformazione collettiva o di rinascita individuale. E sono proprio questi progetti i tesori che una miriade di sognatori, di riformatori, di avventurieri, di esuli più o meno volontari, ha continuato in millenni di storia umana a perseguire.

Le isole sono però anche il luogo del disincanto. Ulisse ne trova a bizzeffe, e torna tuttavia, magari in qualche caso con un pizzico di rimpianto, a rimettere piede nella realtà della sua Itaca (che è un’isola anche quella, a dire il vero, ma non lo sembra). E così fanno tutti gli altri: Gulliver, Robinson, Jim, Ruggero. Tutti i turisti dell’utopia tornano disincantati perché o non hanno trovato il tesoro, o se l’hanno trovato ne hanno immediatamente scoperto i costi e la maledizione. I paradisi promessi al momento dell’approdo si rivelano, quando ci si spinge all’interno, inferni terrificanti. L’isola di Alcina o quella de Il signore delle mosche ce ne offrono due immagini esemplari.

Allora bisogna capirci. Il tesoro dell’isola non è propriamente l’utopia: è il sogno che alimenta la nostra volontà di cercala, quello mirabilmente narrato da Stevenson. E come ogni sogno che si rispetti non dovrebbe mai essere costretto a poggiare i piedi per terra, a snaturarsi e a piegarsi sotto il peso della realtà. A noi il tesoro non conviene trovarlo: deve rimanere sull’orizzonte, spostarsi in avanti mano a mano che procediamo. E a dispetto dell’esito della sua ricerca anche Jim Hawkins sembra pensarla così, se chiude con queste parole il suo racconto: “Neanche un tiro di buoi potrebbe riportarmi in quell’isola maledetta; e i miei più paurosi incubi sono quando sento i cavalloni tuonare lungo la costa, o balzo d’improvviso sul mio letto, con negli orecchi la stridula voce del capitano Flint: “Pezzi da otto! Pezzi da otto!”.

Meteorosophia

Il piacere della pioggia, soprattutto quando manca

di Vittorio Righini, 1 maggio 2023

Perché a una persona viene in mente di scrivere un piccolo saggio sulla pioggia? Perché, per me ad esempio, la pioggia è ansia, ricordi, serenità, suoni, bianco e nero. Soprattutto ansia, perché mi preoccupo tanto quando non arriva, come succede dall’autunno 2021 ad oggi, primavera 2023.

Al 29 marzo 2022 erano 111 giorni che non pioveva nel basso Piemonte, e il 30 marzo 2022 sono cadute quattro ore di pioviggine, termine tecnico relativo a quella pioggerellina che bagna gli umani ma non impregna il terreno agricolo ormai estremamente assetato, non rialza il livello del Po, così basso da portare alla superficie un paio di chiatte affondate nella seconda guerra, inumidisce appena il fondo secco del lago di Ceresole, una volta 35 milioni di metri cubi d’acqua, circa 2 km quadrati, ora solo un’arida passeggiata nella polvere, nel terzo inverno più secco degli ultimi 65 anni (poi superato dall’inverno 2022/2023) ; quando arriva la pioggia, in questi casi, è come la neve per i bambini a Natale.

Poi capita una pioggia come quella del 4 ottobre 2021 a Rossiglione (GE): 740 mm. in 12 ore, record mondiale. Eppure, Rossiglione non è Bergen, Norvegia, la città più piovosa d’Europa, o Waialeale, Hawaii, la zona più piovosa del mondo. Rossiglione è a meno di un’ora da dove vivo io, ci passo col treno sulla via per andare a Zena ancora oggi, in passato coi compagni di scuola prima e all’Università poi.

Ricordi, perché molti dei miei momenti più sereni li ho passati al coperto, sotto un portico, una veranda, alla finestra, spesso con un libro in mano, con la pioggia come contorno. Serenità, perché quando arriva dopo tanto tempo la guardo cadere il più a lungo possibile e mi rilasso. Suoni, perché ad ogni consistenza di pioggia corrisponde un suono diverso. Bianco e nero, perché quando piove i colori finiscono in un grigio analogico ricco di moltissime sfumature tra il bianco e il nero.

Avevo intenzione di scrivere queste poche pagine solo quando pioveva, ma ci avrei messo troppo tempo per finire, qui piove poco, mi pare di averlo già scritto, e io non sono più un giovanotto da tempo: così mi sono adeguato e ho scritto nei giorni nuvolosi, tanto per avere una scusa.

Pioggia a volte fetente, a volte avvenente, a volte insolente.

Pioggia fetente

Meteorosophia 02Quanto è bella l’Irlanda? quanti ci passano le vacanze estive, e si, piove a volte, ma fa parte del panorama. Io accompagnai mio figlio, nel 2010, a passare due mesi di studio della lingua a Dublino, anzi nei dintorni. Senza troppa fatica convinsi mia moglie che sarebbe stato opportuno, oltre che viaggiare con lui, fermarmi tre o quattro giorni per verificare se le condizioni erano ottimali e se potevamo stare tranquilli. In realtà, una volta mollato Alessandro alla scuola prevista, avevo affittato una piccola auto per poter fare un breve viaggio, tutto solo con la mia fotocamera in bianco e nero, nella meravigliosa e verde Irlanda. Partimmo a luglio, ma atterrammo a novembre a Dublino, o almeno così sembrava. I campi erano verdissimi, le strade con l’asfalto lucido, il cielo e l’orizzonte si confondevano nello stesso grigiore nebuloso. Mi dissi: no problem, domani sarà bello.

Macché: passai oltre settantadue ore sotto una pioggia costante, indifferente a tutto, mai disastrosa né mai leggera, soprattutto spesso accompagnata da tremende folate di vento. Vidi le Cliff od Moers (le immaginai, più che altro) dal finestrino dell’auto. Non scendevo nemmeno per orinare, la facevo dalla portiera per non farmela ributtare addosso dal vento. Tanto nessuno si sarebbe accorto di niente, perché non c’era un cane in giro. Non mi venne voglia di leggere, come spesso mi capita con la pioggia, tantomeno di scrivere! fare fotografie, invece, è uno dei pochi vantaggi offerti dalla pioggia. e ne feci parecchie, mettendo a serio rischio la vecchia fotocamera analogica. Ricordo che il secondo giorno mi fermai a pranzo in uno di quei ristori che sono a metà tra il pub e il locale di tendenza (secondo la tendenza irlandese). Mi chiesero se volevo pranzare fuori, era luglio, sotto una veranda a 30 centimetri dalla pioggia, ma protetti. Non risposi e andai a sedermi in un buio angolo dell’interno, ero l’unico, gli allegri irlandesi erano tutti all’aria aperta, in mezze maniche. Il terzo giorno non era cambiato nulla, solo passavo a salutare mio figlio e riprendevo un aereo verso il luglio italiano. La prima cosa che ho fatto, uscendo dalla Malpensa, è stata andare in una vecchia e decorosa trattoria sul Ticino (oggi non esiste più, ovvio): ho mangiato le rane (cibo in tema coi tre giorni precedenti) e anche senza pioggia mi sono sentito a casa. Ma quando sono tornato mi sono fatto delle domande, che prescindono dal discorso sfiga.

Meteorosophia 03

Ad esempio, quante giornate di pioggia ci sono in Irlanda? tra i 150 e i 225 giorni. Poi, perché più si sale a nord e più piove? (questa è veramente una domanda stupida… mi viene in mente quella Signora americana del New Jersey che visita i giardini a Oxford e chiede al giardiniere: ma come fate voi ad avere un prato verde così bello? io ci lavoro tanto, ma non riesco a farlo venire così! il giardiniere educatamente le risponde che ci vogliono tre cose: un taglio costante – una notevole quantità d’acqua – e del tempo.

La Signora risponde che lo taglia ogni 3 giorni, lo innaffia con regolarità, poi chiede: voi qui quanto tempo avete impiegato? e il giardiniere risponde, con nonchalance: circa mille anni. Quindi, inutile chiedersi perché più si va a nord, più piove.

Meteorosophia 04Mio figlio vive a Bruxelles, lavora lì; perfino a luglio, quando lo chiamo mi risponde sempre: piove. Con la pioggia si convive, anche se non la si ama. Ma se tu la ami, e capiti in modo veramente occasionale in Irlanda dove non sei mai stato prima, pretendi, dico, pretendi che in quei tre fottuti giorni non piova troppo, giusto per vedere qualcosa. Mio figlio mi ha poi detto che dopo la mia partenza non ha piovuto tutto il mese. Insomma, anything to declare? Don’t go Ireland! (citazione adattata dal film Snatch)

Disgressione tecnica

Come scrivevo prima, pioggia il 4 ottobre 2021 a Rossiglione (GE), 740 mm. in 12 ore, record mondiale. Oggi la chiamano la bomba d’acqua. I meteorologi si ostinano a dire che è un termine idiota, anche a me non piace ma, effettivamente, 740 mm. in 12 ore… eppure, Rossiglione, a meno di un’ora da casa mia, lì diluvia, qua secca tutto. Non ci sono grandi catene montuose che ci separano, solo il fatto che Rossiglione è all’interno della Valle Stura, che si apre sulla pianura padana a pochi km. verso nord, e si chiude a pochi km. dal passo del Turchino, 591mt. s.l.m., mica il Kangchenjunga, per favore… eppure li piove, fin troppo, mentre qui (basso Piemonte, provincia di Alessandria) si seccano i peli nel naso.

Meteorosophia 06Insomma, cos’è la pioggia? me lo vado a studiare, per capirne di più, e cito testualmente la descrizione che se ne fa nella presentazione dell’ottimo libro di AlokJha: Il Libro dell’acqua. La storia straordinaria della più ordinaria delle sostanze.

«Praticamente tutte le nostre funzioni biologiche possono essere ricondotte al modo in cui le molecole d’acqua si attraggono e danzano tra loro. Ogni luogo della Terra è saturo d’acqua o è stato in qualche modo forgiato da essa. L’acqua è la sostanza più comune che abbiamo: la usiamo quotidianamente nelle nostre case, ci cade addosso direttamente dal cielo e si muove in continuazione sotto i nostri piedi nelle falde acquifere; ma si trova anche allo stato gassoso nell’aria che respiriamo, liquida negli oceani e nei fiumi e solida nella neve e nei ghiacciai. Non stupisce che proprio l’acqua sia al centro dei rituali di quasi tutte le religioni. L’acqua è anche “semplice”, o almeno così crediamo: H2O, una piccola molecola fatta di soli tre atomi legati tra loro a formare una microscopica V. Eppure, a un esame più accurato, l’acqua risulta essere una sostanza più che mai sorprendente e straordinaria. Ad esempio si espande quando si raffredda (il ghiaccio galleggia sull’acqua), cosa che pochissime altre sostanze fanno. Ma non sono solo le sue caratteristiche fisiche ad essere particolari: in effetti l’acqua è lo sfondo costante della grande storia della Terra, della vita e dell’umanità. Viene dallo spazio profondo, è una figlia del Big Bang, e si è concentrata sul nostro pianeta in maniera fortuita. Una volta arrivata non è più andata via e il suo costante movimento ciclico ha letteralmente dato forma al mondo.»

Adesso che so cos’è l’acqua, passiamo alla pioggia. Ma cos’è la pioggia, oltre che acqua che cade dall’alto? i miei studi universitari in Geografia non mi sono di grande aiuto, questa è meteorologia, e bisogna andare a spulciare libri, o, se preferite, a ravanare (cioè cercare disordinatamente, come i topi quando entrano nella credenza) sul web.

« La pioggia è la più comune precipitazione atmosferica e si forma quando gocce separate di acqua cadono al suolo dalle nuvole. Il suo codice METAR è “RA” (dall’inglese rain). » (da Wikipedia).

(Rain mi piace, mi ricorda un brano di Ryuichi Sakamoto – R.I.P. – con un piano martellante che ricorda appunto una pioggia battente, o insolente).

Ma la pioggia è qualcosa in più e il web mi aiuta a capire:

La pioggia gioca un ruolo fondamentale nel ciclo dell’acqua, nel quale il liquido che evapora dagli oceani sotto forma di vapore si condensa nelle nuvole e cade di nuovo a terra, ritornando negli oceani attraverso il ruscellamento, i laghi, i fiumi e le falde sotterranee, per ripetere nuovamente il ciclo. In tal modo si rende disponibile alla biosfera, permettendo lo sviluppo della flora e della fauna e l’abitabilità agli esseri umani.

In meteorologia l’ammontare della pioggia caduta si misura in millimetri (mm.) attraverso i pluviometri o pluviografi: 1 mm. di pioggia equivale a 1 litro d’acqua caduto su una superficie di 1 m². La quantità di pioggia ricevuta annualmente nelle varie zone terrestri ne classifica, assieme alla temperatura, il tipo di clima. Una parte della pioggia che cade dalle nuvole non riesce a raggiungere la superficie ed evapora nell’aria durante la fase di discesa, specialmente se attraversa aria secca; questo tipo di precipitazione è detta virga.

Meteorosophia 05Quindi, a Rossiglione (GE), il 4 ottobre 2021 sono caduti, mediamente, 741 litri di acqua su una superficie di un metro quadrato. Provate nel giardino di casa vostra: cintate in modo impermeabile un metro quadro di terra e versategli sopra 741 bottiglie di acqua da un litro. In breve nascerà il riso, e sarà già pronto al consumo, solo da scolare, con un filo d’olio e sale.

Oggi i meteorologi spiegano che non ci si deve stupire più di tanto se, tra i fenomeni più diffusi, ci sarà una incostanza di piogge e, quando arriveranno, saranno spesso disastrose e incontrollate. E ci voleva questa bella notizia, dopo il Covid, la revisione del catasto, la guerra in Ukraina e le altre 100 guerre dimenticate, il Tibet sottomesso, la scomparsa delle osterie di una volta e dei commestibili, i pesci siluro che ammorbano il Po (fortuna che ci sono battaglioni di rumeni che con bombe e altri ammenicoli li pescano, li sfilettano e li mandano al loro paese dove sono molto graditi, pare, nonostante il pesce siluro si alimenti di qualunque cosa, dal topo morto alle carcasse etc.) e altre questioni di cui non frega niente a nessuno. Ok, lasciamo perdere questi scritti populisti e torniamo al nostro liquido.

Se non basta la pioggia a Rossiglione, andiamo in India, nella regione del Megalhaya. Qui cadono mediamente 12.000 mm. (dodicimila) di pioggia all’anno, e gli ombrelli, detti Khasi, costruiti in bambù e foglie di banano, sono praticamente delle canoe a poppa chiusa ma capovolte in testa al lavoratore delle risaie. Io dovrei andare lì per finire come si deve questo scritto… me la sbroglierei in poche ore. L’ispirazione non mancherebbe e potrei onorare il desiderio di scrivere solo quando piove, cosa che, come avrete capito, qui riesce male.

L’avrete già vista in TV l’immagine, su Geo&Geo e in altri programmi simili: gente magra che lavora il riso sotto un cappello che sembra, vagamente, un sombrero ma che ripara dall’acqua, non dal sole. Non è bello lavorare tutto il giorno sotto il sole, a raccogliere pomodori nel Casertano ad esempio, ma nemmeno sotto la pioggia del Megalhaya, sebbene protetti dai kashi.

Pioggia avvenente

Meteorosophia 07Ho già scritto di queste isole in un altro mio libretto, ma qui mi voglio soffermare sugli effetti benefici, in luoghi tra l’altro molto belli. St. Vincent è un’isola caraibica di lingua inglese, e a quest’isola appartengono anche le Grenadines, gruppetto di isole tropicali con spiagge da sogno e nomi evocativi: Bequia, Mustique (Jagger & Bowie, per fare due nomi che hanno frequentato l’isoletta), Tobago Keys e poi la più esclusiva, Petite Saint Vincent.

Sono sicuro che non piove sulle spiagge di Mustique o di Bequia, ma dove soggiornavo io a Saint Vincent, a 3 o 4 km. nell’entroterra di Kingstowne del suo porto, pioveva solo la notte. Avevo un bungalow rialzato sul terreno, fatto di palme e legno all’apparenza fragile, completamente impermeabile. Non c’era aria condizionata, ma uno splendido ventilatore a soffitto con delle pale grosse come quelle di un aereo d’epoca.

Di giorno il sole, caldo e potente, di notte pioggia, a intervalli. Brevi e intensi rovesci che mitigavano il caldo accumulato di giorno, e che accompagnati al suono della pioggia sulle palme del tetto, fornivano un concerto al quale, per non addormentarmi come un pollo in pochi secondi, mi sottraevo sedendomi su un dondolo in veranda con un libro in mano.

Per non parlare del profumo dell’acqua che cade sulla vegetazione tropicale; come da noi sulla polvere crea un delicato odore inebriante, lì quell’odore è profumo. Non ho letto molto, in quel periodo, il sonno cullato dalla pioggia e dal clima perfetto aveva in fretta la meglio sulla veglia. Ma nei ricordi ho ben impresso quanto ho amato quel clima così completo per i miei gusti. A volte, mi svegliavo e spioveva, termine non corretto etimologicamente ma che a me ricorda la fine della pioggia e lo sgocciolio dai tetti, con i rivoletti d’acqua che scendono sul marciapiede e sulla strada.

La pioggia nei libri

Meteorosophia 08La prima cosa che mi viene in mente è Simenon, e il suo amato (e da lui anche un po’ detestato) Jules Maigret. Amato perché è alla base delle sue fortune, detestato perché Simenon cerca tutta la vita di slacciarsi dal Commissario, con moltissimi romanzi – alcuni non troppo riusciti, sebbene il numero di quelli validi sia alto – sempre molto crudi, amari e cupi, perché raccontano storie di persone che hanno sempre perso, un’umanità che non riesce a salvarsi. Invece, con Maigret è diverso; le storie, le figure, sono spesso simili a quelle dei personaggi dei romanzi, ma interviene il Commissario e la sua umanità, che rende il racconto più avvincente e più sereno, nonostante gli esiti. Veniamo al dunque: in molti dei polizieschi di Maigret la pioggia la fa da padrona; spesso più della nebbiolina, del grigiore delle nuvole, del freddo spinto dal vento del nord, e dalla neve, mai troppo abbondante sulle rive della Senna. È una pioggia che Maigret vede già dalla camera da letto, quando M.me Maigret, cioè la Sig.ra Louise Lèonard, apre la finestra che da sul boulevard Richard-Lenoir e conferma una mattinata di pioggia a un Commissario, spesso infreddolito quando non pesantemente raffreddato, che vorrebbe restare a letto, ma confida nella potente stufa in ghisa del suo ufficio. Beh, quella pioggia mi commuove; nel Nord Italia di nebbia non se ne parla più, forse è meglio così, però peccato per tutti quei ricordi perduti, quelle foto di Ghirri, quelle visioni distorte, quel fiume Po che scompariva nel grigio ed oggi riappare dalle brume. Anche la pioggia latita in inverno; qui in Piemonte o non piove, o se lo fa la temperatura è molto bassa, si gira facilmente in neve, una spruzzatina, s’intende, niente che illuda i mocciosi, come ero io 60 anni fa, di andare a far palle di neve sotto casa. Però quella pioggia parigina io un po’ la conosco, la ricordo, la rimpiango. Uscivi di casa con l’ombrello aperto, rientravi la sera sempre con l’ombrello, a Parigi e a Milano. Non era temporale, non era un diluvio, non era la pioggia più bella, ma bagnava. Simenon (che i suoi Maigret li scriveva dai posti più impensabili, dai Caraibi agli USA, dalla Svizzera alla Cote d’Azur, alla barca) associava il racconto al suo ricordo dell’infanzia in Belgio (dove piove ancora tanto, ripeto).

Meteorosophia 10Scrive bene Ezio Mauro, sul venerdì di Repubblica, il 17 maggio 2019, un flash sul quale concordo in pieno:

Se qualcuno scattasse una fotografia alle creature di Simenon, sarebbe di solitudine, in bianco e nero, magari coi profili forti e marcati di Yves Montand. Ci fosse un quadro, sarebbe Hopper, quei due tra le tinte tenui, inquadrati da una finestra in una stanza qualunque e in una sospensione del tempo, purché prima di qualcosa. Se poi partisse la musica, sarebbe evidentemente quella di Paolo Conte.

In realtà, di pioggia nei libri si parla poco, ma la parola pioggia è molto usata nei titoli; spesso come sinonimo, ma niente che abbia poi realmente a vedere con la parola. Rare le eccezioni, coma Pioggia di W. Somerset Maugham, dove la pioggia ha la sua importanza; La pioggia fa sul serio, per andare più sul leggero, di Machiavelli & Guccini, anche qui la componente liquida ha un suo perché; Storia della pioggia, di Niall Williams, è un altro libro in cui l’acqua che cade ha una funzione narrativa.

Altri non ne ricordo, nel senso che non li conosco, e dando una scorsa ai titoli che comprendono la parola pioggia l’ho trovata usata soprattutto come sinonimo per una moltitudine di situazioni non prettamente metereologiche. La pioggia intesa come ricchezza, la pioggia come nostalgia, l’odore della pioggia come ricordo, la pioggia come situazione negativa dal punto di vista sentimentale, e ancora molte altre sfumature.

Pioggia insolente

Meteorosophia 09La pioviggine è quella pioggerellina con micro-gocce che sembra proprio non stia piovendo e dopo cinque minuti siete fradici. L’avrete di sicuro già provata in Italia, almeno al nord. È novembrina, o almeno, prima di queste ultime rivoluzioni climatiche lo era. E poi marzolina, certo. Se resiste poi si trasforma in pioggia vera, se cede diventa nebbia, e col gelo nevischio. Non dà nessuna soddisfazione, non è buona, come si suol dire, per niente. Nemmeno per l’agricoltura, perché l’umidità non basta ad ammorbidire il terreno prima della semina. È noiosa, ci fa dire ‘‘resto in casa’’, l’ombrello è di troppo e il cappello insufficiente. L’auto è sempre sporca, la casa umida, gli abiti anche, la visibilità ridotta, le vetrine non sono invitanti, di camminare non se ne parla, insomma una schifezza. Però ti permette di godere il vero silenzio, quello che non provi normalmente con la pioggia cadente.

Meteorosophia 11L’ho sperimentata anche a Parigi, in un novembre che, a inizio settimana, sembrava un Indian Summer. Sole tiepido, foglie cadenti, tutto rallentato, temperatura mite, dolce. Improvvisamente, in una notte, è arrivata la demente, accompagnata da un freddo odioso, perché si usciva e si tornava in albergo inzuppati, sempre e comunque. Anticipava l’inverno a tutti gli effetti, che alla fine del mio soggiorno si è presentato con un vento atlantico e temperature così gelide da rintanare anche i parigini, pur abituati al loro clima. Non si poteva più mangiare le ostriche, troppo fredde, solo zuppa di cipolle. Un TGV mi ha salvato riportandomi a casa, nel basso Piemonte, dove una volta, quando faceva freddo, faceva freddo davvero. Almeno, una volta era così, adesso l’inverno 2022/2023 è stato il più caldo degli ultimi cento anni. La primavera 2023, la più secca di sempre.

Cambiamento climatico

Meteorosophia 12Già, lo sappiamo o lo sospettiamo tutti: che sia in atto un cambiamento climatico dovuto all’inquinamento pare ormai ben più evidente rispetto a quelli che credono che sia dovuto alla ciclicità del clima. Ciò nonostante anche la ciclicità del clima è una componente che è sempre esistita e tuttora compare. Solo che avvengono fenomeni estremi che in passato erano ben più rari. Non mi avventuro (non ne ho i mezzi) in una digressione sul cambiamento climatico, e mi limito a tornare a bagnarmi sotto le amate gocce di pioggia.

Qui nel nord ovest i primi segnali che compaiono in televisione relativamente alla mancanza di pioggia sono i livelli del Po e del Lago Maggiore, con il Ticino come emissario.

Il 2021/2022 è stato particolarmente segnalato, ma il 2022/2023 (prima parte) lo ha già surclassato: il Po ha segnato livelli bassi come non mai, al di sotto dei 7 metri sotto lo zero idrometrico con una portata dimezzata rispetto al passato, cioè 450 metri cubi al secondo rispetto agli usuali 880 circa. Negli ultimi giorni di marzo, è arrivata un po’ di pioggia e neve, ma sul nord del Piemonte. Ha contribuito a un consistente rialzo del livello del Lago Maggiore, alla riapertura delle dighe sui Navigli, a un cauto ottimismo per non rovinare tutte le principali coltivazioni piemontesi. Piogge buone in centro Italia e al sud, in Veneto e a est.

Epilogo

Meteorosophia 1329 marzo 2023: giornata grigia, tempo da pioggia, si, si, il classico cielo che promette pioggia insistente. Nulla.

30 marzo 2023: vedi due righe precedenti.

1 aprile 2023: finalmente è tornato uno splendido sole (!) e di acqua non se ne prevede affatto nei giorni a venire.

Meteorosophia 147 aprile 2023: sto attraversando il basso Alessandrino, e a Casalcermelli comincia a piovere, con buona consistenza; mi fermo a pranzo a Frugarolo, esco verso le 14.30 e piove ancora come si deve! mi illudo, e mi avvio verso Predosa, Sezzadio, Acqui, sotto l’acqua. Intanto piove a nord est, non tanto ma è già qualcosa. I bacini del Centro Italia sono provvisti di acqua, me lo conferma un amico romano che, anche lui, ha a cuore queste tematiche. Al Sud Italia ha piovuto molto più che al Nord. Arrivo a Sezzadio e spiove. A Strevi la strada comincia ad asciugarsi. A casa, la strada è inumidita. Basta, sono stanco di indossare piume e turchesi e fare la danza dei Cherokee, mi ero illuso, ma tanto per cambiare si resta all’asciutto qui da me, nel distretto del deserto di Taklamaklan, prefettura di Alessandria, città di Acqui Terme.

Buona pioggia a tutti, prima o poi.