Rassegne e rassegnazione

di Paolo Repetto, 5 aprile 2024

Se la classe dirigente è fatta di imbecilli
immaginiamoci cosa possa essere la clientela media.

Fino a qualche anno fa comparivano regolarmente su La Settimana enigmistica (o magari compaiono ancora, non ho verificato) un paio di storiche rubriche, l’una titolata “Spigolature”, l’altra “Strano ma vero”. Raccoglievano in ordine sparso, senza alcun visibile criterio e con trattazione telegrafica, aneddoti e curiosità del tipo più disparato, dal gatto svizzero che giocando col telefono allerta la polizia all’invenzione dei catarifrangenti stradali (nel 1934, per chi fosse interessato), dalla storia di sant’Irmina di Treviri all’esistenza di oltre quattrocento varietà di agrifoglio. Se ricordo bene, l’unica differenza tra le due pagine stava nel fatto che la seconda era illustrata da vignette.

Si trattava in genere di informazioni banalissime, e quando non riuscivano tali erano comunque bizzarrie buttate lì a fare mucchio, e quindi totalmente inutili. Ciò nonostante, sino a quando La settimana enigmistica è rimasta l’ultimo nutrimento culturale di mia madre ho continuato a scorrerle avidamente: un po’ per una congenita coazione alla lettura, quella che m’imponeva di divorare tutto ciò che di scritto mi capitava sotto gli occhi, a tavola persino l’etichetta dell’acqua minerale (malgrado la conoscessi a memoria, perché si trattava sempre della stessa bottiglia, riempita con l’acqua del rubinetto), un po’ per la precoce e morbosa curiosità di indagare sino a che punto potesse spingersi la stupidità umana: e devo dare atto che entrambe le rubriche ne fornivano, non ho mai capito quanto involontariamente, degli esempi spassosissimi.

Bene, ho pensato di continuare a divertirmi proponendo io stesso una piccola antologia di “spigolature” recuperate nei quadernoni dalla copertina nera che ingombrano le mie scrivanie e i ripiani della mia biblioteca. Non ho seguito un criterio cronologico, e nemmeno avrei potuto farlo, perché si tratta di appunti, stralci di notizie e citazioni annotati frettolosamente sul primo spazio bianco disponibile, a margine di letture o di riflessioni estemporanee. Ho cercato qui di raccogliere quelli più recenti o che mi sembravano conservare un’inquietante (e tragica) attualità. Negli intenti avrebbero dovuto fornire lo spunto per futuri pezzi di costume o di approfondimento, di fatto sono poi rimasti lì, e forse è stato meglio così: nella forma grezza, e nel disordine sparso, sono più eloquenti di qualsiasi trattazione.

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Rassegne e rassegnazione 02Settembre 2023 – A Modena 160 persone hanno sborsato settanta euro a testa per seguire dal vivo il seminario di un “contattista”, un ex-ferroviere che parla coi marziani, razzola liberamente nelle basi nucleari russe ed è ospite quasi fisso di Red Ronnie (un giorno si dovrà anche parlare del dramma dei pensionamenti anticipati, in ferrovia o altrove, che hanno gettato un sacco di gente nella necessità di inventarsi le occupazioni più peregrine). L’incontro è durato otto ore e non comprendeva il servizio di buffet: chi voleva rifocillarsi durante la pausa pranzo o si accomodava al ristorante (pagando, naturalmente) o mangiava un panino sulla strada. Allo stesso prezzo si poteva anche seguire il seminario da remoto – risparmiando in questo caso le spese di viaggio e del pasto, ma perdendo la magia dell’incontro dal vivo col bagonghi. Comunque, a seguire tutta la faccenda via web erano iscritte diverse altre centinaia di persone.

Autunno 2023 – A Trevigiano Romano, vicino al lago di Bracciano, una veggente parla da sette anni a intervalli regolari con la Madonna (o con Gesù, se la Madonna ha altri impegni). Ultimamente s’intrattiene in realtà molto più con gli inquirenti, perché la fede di alcuni dei seguaci, che le avevano intestato piccoli patrimoni, comincia a vacillare.

In compenso a Manduria, nei pressi di Taranto, da trent’anni la Vergine dell’Eucaristia (o suo figlio) appaiono ad un’altra veggente – ecco dov’erano impegnati –, una che ha intrapreso la carriera giovanissima, e le trasmettono messaggi accorati. Il fenomeno non ha la stessa risonanza mediatica, mantiene un basso profilo, ma non manca del suo bravo seguito ed è approdato sui social. Chi volesse partecipare alla preghiera in diretta dalla Cappella della Celeste Verdura (si chiama così, lo giuro, il piccolo santuario che ospita periodicamente il miracolo), può farlo in qualsiasi momento su Facebook o sul canale ufficiale accessibile da Youtube.

Dov’è la novità? Infatti. Nulla di nuovo sotto il sole. Sono solo tre banalissimi casi di citrullaggine tra i mille altri analoghi che si possono raccattare con un giro in rete o spulciando i quotidiani. Niente naturalmente a confronto delle stigmate di Padre Pio, o di fenomeni “globali” come quelli dei rettiliani o dei terrapiattisti. Rispolverano però per l’ennesima volta le domande fondamentali, alle quali varrebbe la pena ogni tanto provare a rispondere, per un esercizio di igiene mentale. E cioè: possiamo ancora liquidare queste cose con una risata, o sarà bene cominciare seriamente a preoccuparci? E in un contesto del genere, non sarà opportuno ripensare il significato di “democrazia”?

Rassegne e rassegnazione 03Marzo 2019 – «La verità è che George Orwell era una creazione della CIA, indipendentemente dall’opinione che si ha sulla qualità letteraria delle sue opere. La CIA non aspettò un momento ad investire fondi per promuovere la sua opera. Era consapevole dell’effetto devastante che il messaggio di un presunto rappresentante dei valori della sinistra poteva avere su ampi settori dell’opinione pubblica. Come altri intellettuali di quel, e di questo, periodo, Orwell soccombette alla seduzione del facile successo e della rapida notorietà che rese possibile la trasmissione di un messaggio costruito dai creatori della “guerra fredda”. Ma la tragedia della sua memoria fu duplice. Da un lato, l’apertura di alcuni fascicoli polverosi del Foreign Office ne rivelò la personalità fraudolenta. L’assenza di scrupoli dello scrittore inglese era paragonabile solo a quella dei più spregevoli protagonisti dei suoi stessi romanzi.» (Manuel Medina, George Orwell: Breve biografia di un magnaccia al servizio della CIA, da Forum Marxismo Leninismo)

Medina è palesemente un idiota, e il sito che lo ospita potremmo considerarlo semplicemente patetico, da non spenderci neppure un secondo: non fosse che, al pari di molti altri blog (personalmente ne ho rintracciati almeno una quindicina: quando sono giù di corda amo perdere tempo in queste cose) testimonia il persistere in quella che si arroga l’etichetta di “sinistra dura e pura” di un atteggiamento antico nei confronti della cultura autenticamente libertaria. Mi è tornata infatti immediatamente in mente la stroncatura di 1984 pubblicata da Togliatti su Rinascita (1950): «Con la pubblicazione di 1984 di Orwell […] la cultura borghese, capitalistica e anticomunistica, dei nostri giorni, ha aggiunto al proprio arco sgangherato un’altra freccia: un romanzo d’avvenire! […] L’autore accumula con la maggiore diligenza tutte le più sceme tra le calunnie che la corrente propaganda anticomunista scaglia contro i paesi socialisti.

Nel “partito” (metafora del Pcus) si insegna a commettere, per il “partito”, le azioni più stolte, a mentire, a negare la evidenza dei fatti […] Il capo del partito ha i baffi neri e il suo nemico mortale la barbetta a punta, a questo punto si scopre invece proprio soltanto l’autore, nella meschinità e abiezione che a lui stesso sono proprie.

Le botte servono davvero a troppe cose, nel libro di George Orwell […] doveva aver davvero una grande esperienza di bastonature e torture, questo poliziotto coloniale, per giungere a porre la fiducia nelle torture e nelle bastonature più in alto che la fiducia nella ragione umana.»

Questo era lo stile di Togliatti, aggressione, insulto e menzogna, fatto immediatamente proprio da tutta quell’intellighentjia comunista che “il migliore” aveva ramazzato nell’immediato dopoguerra, pescando in gran parte dalle file dei transfughi dell’ultima ora dal fascismo.

Ora, devo ammettere che nel clima di incipiente guerra fredda degli anni tra i Quaranta e i Cinquanta quel linguaggio, persino quel livore, ci stavano: voglio dire, non che fossero giustificabili, ma almeno era comprensibile perché se ne facesse uso.

Quella modalità polemica (soprattutto il “negare l’evidenza dei fatti” che Togliatti contestava alla vittima del suo attacco), e, ciò che è peggio, la forma mentis sottostante, sono state fatta proprie però anche dalle generazioni successive: lo testimonia ad esempio lo sprezzo col quale Calvino liquidava Orwell nei tardi anni Sessanta, definendolo un “libellista di second’ordine” (in una lettera “aperta” a Geno Pampaloni) “portatore di uno dei mali più tristi e triti della nostra epoca: l’anticomunismo”. All’epoca Stalin era morto da un pezzo, e il regime sovietico aveva mostrato il suo vero volto. soffocando nel sangue dimostrazioni e rivolte popolari in Germania, in Polonia e in Ungheria. La miopia e il livore non erano più nemmeno comprensibili. Calvino avrebbe poi parzialmente ritrattato il suo giudizio solo vent’anni dopo, dicendo che il libro era stato mal compreso perché sin troppo anticipatore. Ma altri, come ad esempio Vattimo, ancora a metà degli anni Ottanta, dopo che Orwell era stato “riabilitato” persino da L’Unità, hanno insisto a ribadire che 1984 è “lontano dal nostro mondo, tranne che per un particolare: l’impotenza del potere, la sua disfunzione, la sua fatiscenza” e che “segue la moda della fantascienza stracciona, dell’utopia delle rovine”.

È un fiele che corre ancora oggi tanto nelle vene della sinistra nostalgica quanto in quelle dei sinistrati dalla decostruzione post-moderna, e non è affatto prerogativa di un uno sparuto branco di anime povere. Lo si nomini putinismo, o madurismo, o più genericamente anti-occidentalismo, ha i suoi referenti culturali proprio in quelle “aristocrazie intellettuali” che si chiamano ipocritamente (e spettacolarmente) fuori dalla società dello spettacolo.

Rassegne e rassegnazione 04Gennaio 2013 – “La Digos di Firenze ha operato il fermo di un giovane fiorentino ritenuto un componente del commando che la notte di capodanno ha incendiato otto automezzi di una ditta di latticini di Montelupo Fiorentino e provocato anche gravi danni al deposito merci. Il ventiduenne Filippo Serlupi D’Ongran, rampollo di una nobile famiglia, è ritenuto fra i responsabili anche di altri quattro episodi a firma ARD (Animal Liberation Front) commessi in Toscana a danno di strutture di macellazione.” Gli altri componenti del commando sono riparati all’estero e all’epoca erano ricercati. Non mi risulta abbiano subito condanne.

Ottobre 2019 – È morto Beppe Bigazzi, prima vittima italiana dell’intolleranza animalista, sospeso dalla Rai nel 2010 per aver osato ricordare un necessario ingrediente della sua remota infanzia toscana: il gatto.

Dicembre 2020 – Uno spot di Telefono Azzurro, lanciato in occasione della Giornata universale dei diritti dell’infanzia (il 20 novembre), mostra una casa in fiamme. Si sente un cane abbaiare, e un uomo entra in una stanza già aggredita dal fuoco. Su un divano ci sono due bambini terrorizzati e con loro un cane, quello appunto che ha abbaiato. L’uomo prende il cane in braccio e lo porta in salvo, lasciando i bambini al loro destino. Messaggio crudo e schiettamente esplicito: c’è troppa gente che si preoccupa degli animali e dimentica e trascura i cuccioli d’uomo, ribadito dall’hashtag: #Primaibambini. Lo spot è stato immediatamente sepolto dagli insulti e travolto dalle polemiche, ed è stato ritirato.

Agosto 2021 – Paul Farthing, un politico inglese, ex-deputato liberal-democratico, ha evacuato per via aerea dall’ Afghanistan in Inghilterra centosettanta cani e gatti. Ha poi dichiarato “Sono davvero profondamente triste per gli afghani”, e non si riferiva ai levrieri, ma agli umani. Che non ha ospitato sull’aereo, non c’era spazio.

28 Luglio 2022 – “Tante sono le storie d’amore che legano le persone ai loro animali che spesso diventano compagni di vita da cui è difficile separarsi. Adesso qualcosa è cambiato, a Santa Margherita potranno rimanere insieme “per sempre”, anche dopo il decesso, dove (!?) è arrivata in consiglio comunale la richiesta della sepoltura con le ceneri del proprio animale da compagnia”. (Comunicato del sito comunale)

Quanto costa uno psicologo per cani? La tariffa oraria per la visita comportamentale è di 90 €. Indicativamente la prima visita comportamentale richiede 75-90 minuti. Gli incontri successivi generalmente richiedono 60 minuti. Nel caso sia necessaria una visita a domicilio, verrà addebitato un costo di viaggio pari a 0,30 € /km (andata e ritorno).

Rassegne e rassegnazione 054 Dicembre 2023 – Gli attivisti del movimento ambientalista Ultima generazione hanno occupato le carreggiate dell’autostrada Roma-Civitavecchia all’altezza di Torrimpietra. Nel corso della protesta hanno utilizzato del mastice per incollare le mani sull’asfalto dell’autostrada. Secondo il racconto degli ambientalisti durante la loro iniziativa un automobilista è sceso dalla sua vettura e ha aggredito un attivista, quindi è risalito a bordo e ha tentato di investirne un altro. Le due persone non sono rimaste ferite in modo serio. La polizia ha poi (con tutta calma) rimosso il blocco e identificato i responsabili dell’iniziativa (organizzata contro l’utilizzo di carboni fossili). Sono stati tutti accompagnati negli uffici della polizia stradale, e prontamente rilasciati.

19 Dicembre – Roma: nuovo blocco di Ultima generazione sulla Salaria, un automobilista schiaffeggia l’attivista e si becca una denuncia.

23 Dicembre – Blitz di Ultima Generazione sotto Palazzo Chigi. I poliziotti portano via due attivisti, che urlano: “Mi stanno facendo male”!

Commento di un mio coetaneo: “Se questi rappresentano l’ultima generazione, sono fiero di essere avanti con gli anni”.

5 Marzo 2024 – Condannati ad 8 mesi per il reato di danneggiamento aggravato i tre attivisti di Ultima Generazione che il 2 gennaio dello scorso anno erano stati arrestati per aver imbrattato con vernice rosa la facciata di Palazzo Madama. “Un fatto commesso con violenza – ha detto il pubblico ministero – che ha provocato danni considerevoli: l’ingresso a Palazzo Madama è stato interrotto per 30 minuti (che sarebbe il male minore) e sono servite decine di migliaia di euro per il ripristino (questo sì che è grave)”.

Autunno 2023 – Nei giorni scorsi, a chi gli aveva chiesto cosa pensasse dell’iniziativa dei giovani di Ultima generazione, Luca Mercalli ha risposto: “Quante opere d’arte sono state irrimediabilmente distrutte dalle alluvioni causate dal cambiamento climatico? Gli attivisti le hanno imbrattate? No, perché c’era sempre una lastra di vetro a proteggere i dipinti. Ecco, i giovani che protestano per il clima hanno ragioni sacrosante. Tutte le persone che stanno protestando fanno benissimo a farlo: chiedono un maggior impegno ai loro governi, chiedono la vivibilità del pianeta, per loro e per le future generazioni”. Fantastico. Sono convinto anch’io che il pianeta stia andando a ramengo. Al contrario di Mercalli ho però qualche dubbio sul tipo di “sensibilizzazione” che queste iniziative promuovono. Senza parlare poi del reale livello di consapevolezza e della coerenza comportamentale di chi le mette in atto.

Rassegne e rassegnazione 06Marzo 2024 – L’Università di Trento ha varato un nuovo regolamento. La novità è il femminile sovraesteso per le cariche e i riferimenti di genere. Si useranno “la decana”, “la rettrice”, “la professoressa”, “la candidata”, tutto declinato al femminile, anche se le persone indicate sono uomini.

Nel 2017 l’università di Trento aveva approvato un vademecum per un uso del “linguaggio rispettoso delle differenze”, con l’obiettivo di “promuovere un uso non discriminatorio della lingua italiana nei vari ambiti della vita quotidiana della comunità universitaria” come durante gli eventi pubblici o nel la produzione di testi amministrativi. Il nuovo Regolamento avrebbe dovuto essere scritto riferendosi ai gruppi di persone (studenti, docenti, eccetera) sia con il femminile che con il maschile. Questo secondo il rettore Deflorian avrebbe finito per appesantire eccessivamente tutto il documento e quindi, per “facilitare la fase di confronto interno”, gli uffici amministrativi avevano iniziato a lavorare a una bozza che conteneva solo femminili.

La demenzialità del tutto è stata denunciata proprio dalle rappresentanti femminili dei gruppi studenteschi. «Basta con la retorica vuota e paternalista che suggerisce che l’inclusione nelle università sia una questione di linguaggio. L’ambiente accademico richiede rispetto per l’intelligenza e la competenza di ogni individuo, indipendentemente dal genere […] L’uso del cosiddetto “linguaggio femminile sovraesteso” vuole essere un tentativo di compensare decenni di discriminazione di genere, tuttavia, potrebbe avere l’effetto contrario, finendo con il far sentire esclusi alcuni ragazzi e ragazze compromettendo quindi l’obiettivo di inclusione». Difficile sostenere il contrario. E ancora: «Riteniamo che porre l’accento in modo così esasperato sulla diversità sia esso stesso un modo per discriminare».

In Occidente c’è un’attività politica antagonista, ma si scioglie in questa specie di attivismo sostitutivo, nei confronti del resto del mondo e nei confronti del nostro passato. Alla fine, gioco di prestigio, la battaglia scompare, le cannonate non si sentono più e faccende come la lotta all’odio e all’intolleranza sul web sembrano importanti, persino coraggiose, per mancanza di termini di paragone.

L’asterisco e lo schwa, la comunicazione non ostile, genitore 1 e genitore 2, sono faccende irrilevanti e, quindi, non sono imboscate ideologiche tese ai valori e alla libertà. Sono, invece, un minuscolo sogno totalitario, inconsapevole e sfiatato, il passatempo di gente che gioca ai soldatini con la neolingua di Orwell e finisce per crederci.” (Claudio Chianese, Il linguaggio represso)

Rassegne e rassegnazione 07«Ogni nuova generazione di neonati è una invasione di barbari che invadono non dall’esterno, ma dall’interno e dal basso la società; la società ha il compito di educarli, disciplinarli, renderli civili prima che diventino adulti. Il che significa anche – soprattutto – fargli subire dei sacrifici e delle sconfitte esistenziali, in modo da far maturare i loro caratteri.

Ora, pensate a uno di questi piccoli mostri che entra in una società che si gloria di essere adulta e matura, di avere abolito ogni forma di “repressione”, che ogni giorno celebra la propria liberazione da tutti i pregiudizi, quindi da ogni gerarchia e di tutti i tabù moralistici, tipo l’antipatica distinzione fra “bene” e “male” (cosiddetti); dove i genitori prendono ogni cura per risparmiargli ogni “frustrazione”, ogni pressione dell’ambiente, tensione, sforzo e ogni dovere; scansano ogni ostacolo che si trovi davanti, vogliono essere suoi amici invece che suoi superiori. Lo mandano in una scuola che si vanta di essere “non repressiva”, di non bocciarlo mai e poi mai, che si sforza di “farlo divertire”, anzi prova a confondere il confine tra “studio” e “divertimento”; una scuola che sostanzialmente lo incita a “esprimere le proprie inclinazioni, ed opinioni”, ossia (a quello stadio) le proprie narcisistiche emozioni.

È inutile che vi dica come dovrebbe essere una società capace di civilizzare i barbari verticali, che sappia renderli virilmente adulti, continenti, cavallereschi, dotati di senso della dignità e dell’onore – ossia della vergogna di compiere atti bassi contro i più deboli. Inutile che vi canti le lodi del “controllo sociale”, del giudizio sociale che premeva su molti dei peggiori e li faceva essere meno pessimi; strillereste che voglio la società bigotta, insopportabilmente repressiva, ormai superata dal progresso e dalla libertà […].

È possibile che debba riconoscermi, sia pure in parte, sia pure con tutti i distinguo che vogliamo, in queste parole di Maurizio Blondet? Di uno dei personaggi più esecrabili della sottocultura complottista (gli ultimissimi pezzi comparsi sul suo blog titolano: Il grafene nel siero c’è, e serve ad hackerare l’uomo; Neonati uccisi e traffico di organi in Ucraina)? Dovrei chiedermi piuttosto come ci sono finito su quel blog, ma a questo ho una risposta immediata: Blondet aveva scritto a suo tempo Gli Adelphi della dissoluzione, praticamente sotto dettatura di un altro personaggio inquietante, Gianni Collu, che ho avuto la ventura di conoscere bene, e la cosa mi aveva incuriosito. Blondet di per sé non è nemmeno inquietante, è solo un paranoico (o uno squallido furbastro che specula sulla dabbenaggine diffusa) che vede poteri iniziatici e trame occulte ovunque: inquietante è invece il fatto che venga preso sul serio, non solo dallo stuolo di mentecatti che lo seguono, ma anche da coloro che lo combattono (e chissà perché, non mi meraviglia il fatto che il blog ospiti, tra gli altri, dei pezzi di Travaglio).

Ma questo è un altro discorso. La domanda era: perché mi sono riconosciuto in quelle parole, pur sentendomi distante anni luce dalle mefitiche esalazioni che circolano tra le righe? È presto detto: mi rode che come al solito un tema concreto, di evidente urgenza e rilevanza, in questo caso quello dell’educazione, venga lasciato cavalcare e snaturare e strumentalizzare a personaggi del calibro di Blondet, oppure venga trattato con la solita mielosa attitudine “buonista”. Mi cascano le braccia, ogni volta che le cronache raccontano episodi di bullismo o di violenza, per strada o nelle scuole, dei quali sono protagonisti bambini o adolescenti, al sentire psicologi e sedicenti educatori che sproloquiano di assenza di strutture, di specializzazioni, di attenzione, di stanziamenti, senza arrivare mai al dunque: al fatto cioè che le uniche vere assenze sono quelle di autorità e credibilità delle istituzioni, e di assunzione di responsabilità da parte di chi dovrebbe farle funzionare, a tutti i livelli.

La chiudo qui, per ora. Ma lo faccio proponendo un paio di altri piccoli stralci, questi recentissimi, nei quali Guia Soncini dice apparentemente le stesse cose di Blondet, ma per come le dice suonano immediatamente diverse. Non usa il “linguaggio femminile sovraesteso”, ma parla chiaro. Non si potrebbe ricominciare da qui?

Dicevo, il gruppo di madri di piccoli teppisti. Uno non voleva fare la doccia. Ma tipo costringerlo, come si è sempre fatto con tutti i bambini del mondo? Avessi suggerito di farlo al forno, si sarebbero indignate meno. Non capivo il trauma dell’acqua. Non capivo i bisogni del bambino. Ero praticamente la Franzoni.

Tempo fa Minnie Driver ha raccontato a Conan O’Brien che i bambini americani sono molto maleducati a tavola, e per lei è inconcepibile perché ha avuto un’educazione inglese e insomma, ha rassicurato i presenti e la madre dietro le quinte, non dico che mi menassero, ma se mi comportavo male al ristorante mi portavano in macchina e mi lasciavano lì chiusa finché loro non finivano di cenare.

Oggi se lasci un figlio in macchina scoppia un casino non dico pari a quello che ti toccherebbe se osassi lasciar solo un cane, ma insomma la potestà genitoriale secondo me te la levano, e qualcuno che per strada ti riconosce e ti sputa come fossi il simbolo d’ogni immoralità lo trovi. È perché i bambini in cent’anni sono passati da gente abbastanza piccola da esser mandata nelle miniere a creature sacre, certo.” (da linkiesta.it, 11 marzo)

Giornate di stremanti interrogativi per gli ufficialmente adulti che, pur di non crescere, sono determinati ad avere un rapporto alla pari coi figli, figli ai quali non s’è completata la mielinizzazione del cervello ma lasciamo stare i termini scientifici: quel che è importante è dar loro il diritto di voto anche se non sanno allacciarsi le scarpe.

Dunque abbiamo da una parte un sedicenne che accoltella una professoressa, dall’altra una undicenne che lascia un commento a Chiara Ferragni su Instagram. Poiché non sappiamo come giustificare il primo – certo, possiamo dire che non l’abbiamo ascoltato abbastanza, ma ecco, l’accoltellamento appare comunque difficile da inserire nella nostra lettura “i giovani hanno sempre ragione e c’insegnano la vita” – decidiamo che il problema è la seconda.

Adulti perlopiù scemi ma in qualche caso persino normodotati si aggirano per i social chiedendosi con aria dolente “cosa ci fa una undicenne su Instagram, non ci può stare, non è giusto che ci stia”. Le loro figlie avranno come minimo un OnlyFans su cui fanno vedere il contenuto delle mutande, senza che i genitori se ne siano mai accorti, ma non è neanche questo l’importante. […]

Se provi a dire che tutto ciò non è sano, vieni accusata d’invocare il ripristino delle punizioni corporali, punizioni corporali che peraltro nessuno di coloro che partecipano al dibattito ha conosciuto: siamo andati a scuola in anni in cui nessuno ci bacchettava e si cominciava persino a dar del tu alle maestre; ma, se oggi qualcuno osa dire che no, i sedicenni non hanno capito il mondo meglio di noi, non foss’altro perché non hanno avuto il tempo di capirlo, allora i giovanili, gli alleati dei giovani, gli interiormente sedicenni si poggiano il dorso della mano sulla fronte e sospirano: ah, quindi vuoi il ritorno del libro Cuore. (da linkiesta.it, 4 aprile)

Magari! Farebbe senz’altro meno danni delle diagnosi di “disturbo oppositivo provocatorio” o di “disforie di genere”.

Rassegne e rassegnazione 087

Ultimo canto di Natale

di Paolo Repetto, 18 dicembre 2021

Una precisazione. Mi sembra quasi ridicolo premettere questa “avvertenza”, e probabilmente farei meglio a passare oltre senza farmi troppi scrupoli. Ma siamo ormai talmente e perennemente assediati dalla stupidità che diventa automatico cercare di prenderne le distanze, anche quando si ha il sospetto di fare in questo modo il suo gioco. Per questo tengo a precisare che le pagine che seguono nulla hanno a che vedere con l’alzata di scudi e le proteste contro le raccomandazioni della commissione UE sugli auguri natalizi. Quelle linee guida erano solo stupide, l’indignazione che ne è seguita era molto peggio, era totalmente ipocrita.

Mezzo secolo fa, proprio in questo giorno, la metà precisa di dicembre, prendeva il via nella parrocchiale di Lerma l’ultima grande Novena di Natale. L’ultima almeno che io ricordi, e comunque l’ultima di un’era. Dopo non è più stata la stessa cosa.

La Novena era uno degli eventi più attesi dell’anno, e non solo di quelli liturgici. Che fossi credente o meno, non la potevi perdere, un po’ come la processione dei giudei il giovedì santo. C’era il rischio di sentirti poi raccontare: sai cos’è successo? e friggere per non essere stato presente.

Ultimo canto di Natale 02Si trattava di una liturgia di approssimazione al Natale e durava appunto nove giorni, dal sedici dicembre alla vigilia: giorni nei quali si ripeteva puntuale al cessare dei rintocchi dell’Ave Maria, quindi mezz’ora dopo il tramonto. Tecnicamente non era che un’edizione speciale del rosario (mi sembra di ricordare si parlasse di “misteri gaudiosi”), che tuttavia, già solo per la crescente atmosfera di attesa – in fondo era un conto alla rovescia –, sembrava meno noiosa di quella normale: ma la celebrazione era poi resa spettacolare dal corollario dei canti natalizi e delle salmodie, e dalla scenografia. Una delle cappelle del transetto era occupata da un grande presepe, popolato di vecchie statuine che sembravano uscite dalla notte dei tempi e di casette tutte sbrecciate, e proprio per questo ancor più cariche di fascino: inoltre tutti e tre gli altari erano addobbati e la chiesa veniva illuminata quasi a giorno con un rinforzo di luci volanti. Per l’occasione don Bobbio non lesinava sulle spese, anche perché si rifaceva abbondantemente con una pioggia di elemosine. Lerma contava all’epoca, almeno fino a metà degli anni sessanta, più di mille abitanti, e alla Novena, complice anche la forzata sospensione dei lavori agricoli, partecipavano quasi tutti (nel coro, dietro l’altare, sedevano anche i vecchi socialisti come mio zio Micotto, col suo tabarro nero, e appoggiato al muro, subito fuori di uno degli ingressi secondari, vidi una volta persino Modesto, il mio dirimpettaio anarchico). Era un momento di eccezionale socialità, consentiva di rincontrarsi a persone che arrivavano dalle frazioni e magari non si vedevano da mesi. L’illuminazione inconsueta dava poi all’evento anche un carattere “mondano”, con le signore che si presentavano in spolvero invernale (quelle che potevano permettersi uno straccio di cappotto, ma si vedeva persino qualche pelliccia) e con gli sguardi comparativi che viaggiavano come raggi laser e si incrociavano da una parte all’altra della navata.

In realtà fino alla tarda infanzia ho patito un po’ tutta la faccenda: la cerimonia durava più a lungo del solito, in chiesa malgrado l’affollamento faceva freddo e l’orario della funzione coincideva con quello della tivù dei ragazzi, visibile solo nel circolo parrocchiale. Rinunciarvi per nove giorni significava perdere almeno due puntate di Rin Tin Tin o dei Lancieri del Bengala. Nella prima adolescenza ho invece cominciato ad apprezzare l’atmosfera di quelle serate, tanto che anche dopo la guerra di religione ingaggiata con mia madre non ne perdevo una. In questa assiduità la religione non c’entrava affatto, ma ormai potevo sedere nell’anticoro, e di lì le ragazze dei primi banchi, infagottate nei panni invernali, sembravano tutte carinissime, erano una gioia per gli occhi.

Ultimo canto di Natale 03Lo erano anche, per le orecchie, i canti che partivano alle nostre spalle e i responsoriali che ci arrivavano da oltre la balaustra. Il fascino della novena era legato tutto a questi momenti corali. Per indisciplinati che fossero i coristi e le coriste lermesi (mia madre, che ambiva a voce guida, si lamentava immancabilmente delle sue concorrenti che tutte le sante sere partivano in anticipo, rovinandole l’effetto d’ingresso), i cantici natalizi che salivano assieme al fiato verso la volta a botte mi affascinavano: da quella scarsa disciplina addirittura ci guadagnavano, perché riuscivano genuini e spontanei (o forse li ha resi tali nel ricordo il confronto con la loro successiva degradazione a jingle pubblicitari).

Il culmine però lo si raggiungeva con i salmi. Erano cantati in latino, come del resto in latino era ancora recitato tutto il rosario, e la liturgia natalizia ne contemplava un paio che costituivano il cavallo di battaglia del corista principe, Pedru, leader indiscusso della confraternita del Suffragio. Uno di questi salmi iniziava con un “Omnes”, e quella O iniziale era diventata leggendaria. Pedru la conduceva, la modulava, l’alzava e l’abbassava in un continuo da lasciarti in apnea. Una volta, quando già era molto anziano, a sua insaputa lo cronometrammo: resse la O, senza prendere fiato, per oltre quaranta secondi, ed entrò di prepotenza nel nostro specialissimo guinness.

Poi arrivarono il sessantotto, la contestazione, la dissacrazione, lo sradicamento: le ragazze le guardavo nelle assemblee universitarie, la musica l’ascoltavo altrove. Ma certe sensazioni non si dimenticano, e la nostalgia della novena è rimasta per me strettamente connessa proprio a quell’edizione fuori tempo massimo di cui parlavo all’inizio, a Pedru e alla vicenda che vado a raccontare.

Ultimo canto di Natale 04È andata così. Ormai più che ventenne, rientrando da Genova, dove lavoravo e ogni tanto studiavo anche, vengo informato da mio padre che Pedru è in crisi nera. Il priore della confraternita era, come molti altri, un frequentatore assiduo del nostro negozio di ciabattino, segnatamente nei mesi invernali, e mio padre era un po’ il confidente di mezzo paese. Le prime sere della novena sono andate quasi deserte, persino nel coro un sacco di seggi sono rimasti vuoti. Non solo: il nuovo parroco gli ha anche imposto di dare un taglio ai salmi e di cantare solo quelli tradotti in italiano, liquidando quindi l’Omnes. Ho la conferma da mia madre: anche lei è avvilita, pur se rassegnata all’obbedienza (l’unica volta che io ricordi). Ci rimango male. Ho chiuso da un pezzo con la chiesa, e poi anche con la militanza gruppettara, ma sono sempre in cerca di buone cause per le quali battermi. Ne parlo con gli amici, che dapprima la mettono in ridere, poi, quando capiscono che faccio sul serio, si lasciano convincere: parteciperemo in gruppo alla novena, riempiremo i vuoti del coro e daremo una mano a Pedru a far nascere Gesù anche quest’anno. Ma non basta, mi spingo oltre: vado a patteggiare col parroco la nostra presenza contro la concessione di cantare anche in latino, almeno per le ultime serate, i due salmi.

E qui comincia una storia che sembra presa da un film della Disney, e invece è la pura realtà. La voce si diffonde (mia madre in queste cose era meglio di Goebbels), noi prendiamo possesso del coro, e facendo sul serio cominciamo davvero a divertirci: quindi entrano in gioco anche le ragazze, poi i tradizionalisti, poi i curiosi. Insomma, è un crescendo che nelle ultime due funzioni di antivigilia diventa un pienone. La sera della vigilia, poi, l’apoteosi. Chiesa stracolma, coro al completo con gente in piedi sin dentro la sacrestia. Il prete mena in lungo la funzione – gli piace avere la chiesa piena, molto meno il motivo per cui è tale –, ma stasera “Tu scendi dalle stelle” e “Nell’orrido rigor” sembrano eseguiti dai coristi della Scala: si sente che le ragazze sono state messe in riga da una mano ferma, verrebbe voglia di chiedere il bis. Poi, quando il rito “ufficiale” si è concluso, arriva il grande momento. Pedru intona l’Omnes, regge l’O a malapena per mezzo minuto, ma come va a calare lo riprendiamo noi, che entriamo in controcanto e lo allunghiamo per un altro mezzo. Non dico che sia venuto fuori il coro del Nabucco, ma i tre o quattro tra noi passabilmente intonati (non certo io, che sono stonato come una campana) fanno bene la loro parte, hanno avuto modo di mettersi a registro. La risposta che arriva poi dalla navata, guidata dalle ragazze, è perfetta.

Io sono vicino a Pedru, e vedo le lacrime spuntargli dall’occhio – al singolare, perché bisogna sapere che Pedru aveva un solo occhio (era famosa la sua risposta ad un motteggiatore che gli aveva chiesto come ci vedesse: meglio di te, aveva risposto Pedru, perché ti vedo due occhi, mentre tu me ne vedi solo uno); soprattutto però aveva un cuore di pietra, avrebbe potuto benissimo essere il direttore di un orfanotrofio in un libro di Dickens, o addirittura interpretare la parte di Fagin, tanto quell’unico occhio riusciva a esprimere una cattiveria sorda e minacciosa. Vederlo ora umido mi sbalordisce. Dò di gomito al vicino, se n’è accorto anche lui. Guardo gli altri e ci congratuliamo silenziosamente: sappiamo di aver fatto per una volta la cosa giusta. Lo sanno anche altrove, a quanto pare, perché all’uscita dalla chiesa troviamo la piazza imbiancata da dieci centimetri di neve, un’immagine e un clima da favola. Liberi di sorridere, ma è andata esattamente così.

Pedru morì esattamente una settimana dopo, lontano da Lerma. Non è nemmeno sepolto nel cimitero al quale per decenni aveva accompagnato i suoi compaesani (passando poi a estorcere l’obolo per la confraternita). La novena si è spenta con lui: come diceva mia madre, negli anni successivi sembrava diventata un rosario dei morti.

Ultimo canto di Natale 05

***

Del Natale, e dell’attesa che lo precedeva, ho un sacco di altri bellissimi ricordi.

Mia sorella nacque proprio una sera di vigilia, ma il bel ricordo non è tanto questo quanto quello del ritrovamento dei regali, che sapevamo essere arrivati ma che in un primo momento, in mezzo alla confusione della natività domestica, erano spariti. Li ritrovammo poi a casa della zia presso la quale eravamo provvisoriamente ospitati. Il mio era “Kim”, e della sorella mi ricordai solo un paio di giorni dopo.

Ci sono poi i ricordi legati al presepe. Di solito anticipavamo parecchio i tempi, una volta lo realizzammo alla fine di novembre. Il fondo doveva essere coperto di muschio vero e freschissimo, e allora partiva la caccia nei boschi dietro casa, in riserve che avevamo identificato e che dovevano rimanere segrete anche agli amici. Occupava per intero la tavola di cucina della casa vecchia, con tendenza a debordare, e oltre ai cammelli dei re magi e alle pecore dei pastori ospitava anche i cavalli dei soldatini di gesso, e per un certo periodo persino gli indiani e i sudisti. In una occasione mancò poco che andasse tutto a fuoco, perché in nostra assenza una candela accesa sorretta da un angelo era caduta sulla capanna, aveva incendiato il tetto di paglia e stava già liquefacendo i suoi ospiti, bue e asino compresi. Ho in mente nitidissimo il momento in cui, appena entrati in cortile, scorgemmo il riverbero delle fiamme che arrivava dalla finestra in alto, l’unica vivacemente illuminata nel casermone totalmente buio.

Ho rifatto il presepe per qualche anno durante l’infanzia di mio figlio, evitando accuratamente le candele e ogni altra sorta di lucina. Poi mi son reso conto che ero l’unico a tenerci e ho lasciato perdere. Ma da qualche parte conservo ancora tutte le statuine, e anche la capanna semidistrutta.

Ho già raccontato altrove delle vigilie trascorse in attesa del rientro del corriere, quello che portava il nostro vino a Genova e raccoglieva libri e giocattoli vecchi presso i miei parenti. O delle uscite alla ricerca dell’albero, rigorosamente di ginepro, prima con mio fratello e poi con Emiliano piccolissimo, che si trascinava dietro la slitta da carico fin sulla Colma. E anche delle riscoperte del Natale più prossime, in Inghilterra, ad esempio, dove a quanto pare è molto più sentito che da noi. Sono tutte bellissime cartoline appiccicate nel mio album del passato, le uniche immagini a colori in un mondo che ricordo in bianco e nero.

Non voglio dunque farla troppo lunga, e passo invece a spiegare brevemente perché mi ha preso l’uzzolo di raccontare queste cose e perché non volevo fossero semplicemente l’occasione di una patetica nostalgia.

Ultimo canto di Natale 06Il tema ormai ricorre costantemente in ciò che scrivo, e riguarda il mondo che abbiamo perduto. Riguarda cioè la domanda se davvero abbiamo perduto qualcosa di speciale, se la nostra, intendo di quelli della mia età, è una “delusione ottica” dettata dai personali rimpianti, o se la perdita è stata invece oggettiva. La domanda è meno stupida di quanto appare, perché se è vero che da Adamo in avanti ogni generazione ha lamentato i cambiamenti che la mettevano fuori gioco, è altrettanto vero che nessuna prima della nostra ha assistito a trasformazioni tanto rapide e tanto radicali. Neppure le generazioni che si sono trovate a vivere rivoluzioni, riforme religiose, cadute di imperi, hanno mai visto così scombussolate nel profondo le modalità quotidiane dell’esistere e dei rapporti, le dimensioni degli orizzonti, le aspettative, le sicurezze e le paure. Se il nonno di Romolo Augustolo o quello di Robespierre fossero tornati in vita dopo mezzo secolo avrebbero trovato un mondo cambiato, e probabilmente non sarebbero stati d’accordo su quasi nulla: ma sarebbero stati comunque in grado di capirlo, questo nulla, di vederlo nella sua negatività. Mio nonno, tornasse in vita oggi, non saprebbe da che parte girarsi, non potrebbe nemmeno essere in disaccordo perché non saprebbe con chi e per cosa esserlo.

Ora, che questo sia nella natura delle cose (in realtà, solo delle cose umane, quindi forse si dovrebbe parlare non di “natura”, ma di “storia” delle cose) non ci piove. Resta da vedere dove questa storia ci sta portando. E dato che potranno vederlo solo le generazioni venture, e non sono del tutto sicuro che questo sia da considerarsi un privilegio, noi possiamo soltanto chiederci se non sia il caso di offrire almeno la nostra testimonianza per suggerire l’ipotesi di una pausa di riflessione, di un qualche ripensamento che metta in dubbio il “destino” dell’umanità.

Non mi stanco di ripeterlo, non si tratta di ipotizzare un ritorno alla condizione ottocentesca, o allo stato di natura. Queste sono stupidaggini con le quali solo i nostri filosofi post-moderni, nel loro ovattato iperuranio, possono trastullarsi. Nel concreto si tratta di vedere se è possibile fermare o almeno rallentare l’infernale marchingegno tecnologico-finanziario che ci sta stritolando. Di chiarirci le idee su cosa è indispensabile e su cosa no, e di scegliere. E di non scaricarci da ogni responsabilità, lavandocene le mani, con la scusa che ormai è troppo tardi, o trincerandoci dietro la meschina scappatoia che il problema dovranno affrontarlo le generazioni future, ed è giusto siano loro a scegliere. A crearlo, o quanto meno ad aggravarlo, il problema, siamo stati noi, ha concorso più che attivamente la nostra generazione. Cominciamo almeno a prenderne coscienza.

Come c’entra allora il Natale? C’entra come esemplificazione di una forma ormai scomparsa di socialità, dietro la quale stava, al netto di tutte le potenziali ed effettive strumentalizzazioni religiose e politiche, di tutte le ipocrisie, delle diseguaglianze e delle ingiustizie istituzionalizzate, l’idea di una rinascita, di un futuro che ancora poteva riservare sorprese positive. E c’entra come occasione per ripensare se il tipo di formazione culturale, l’impostazione che conduceva a partecipare, credendo o meno nei presupposti religiosi, all’atmosfera di quelle novene, fosse tutta da buttare, o se per certi aspetti, nei limiti delle possibilità e delle realistiche compatibilità, non andrebbe recuperata.

In altre parole: mezzo secolo fa abbiamo provveduto a sgomberare tutto il mobilio e la suppellettile vecchia, comprese le Novene e i loro salmi, per fare piazza pulita e rinnovare l’arredo ideologico, senza renderci conto che stavamo liberando gli spazi per i nuovi allestimenti usa e getta, funzionali al mercato dell’effimero e del consumo rapido. Col risultato che le cose che avevamo buttato andiamo oggi a cercarle in cantina o nei mercatini dell’usato, anche se in genere per riciclarle ad ornamento.

Uguale cura forse dovremmo mettere nel recupero di certi valori, ma non per appenderli alle pareti: per ridare loro una dignità di funzione, sia pure in un contesto diverso. Un esempio, tanto per non parlare sempre in astratto? L’idea che l’esistenza di regole non è in automatico una limitazione della libertà, ne è anzi il presupposto. Andrebbe recuperata seriamente l’idea, nel senso che queste regole bisognerebbe tornare ad applicarle, a cominciare, tanto per scendere sempre più nel concreto, dalla scuola. Questo significa liquidare il buonismo peloso che fa di ogni lazzarone spregiatore del rispetto e della correttezza una vittima, pretendere che gli allievi si comportino da allievi, che i docenti insegnino anziché fare i parcheggiatori o gli assistenti sociali, che i dirigenti non badino al mercato delle iscrizioni ma alla qualità dell’istruzione offerta, che i genitori facciano la loro parte, ma entro le mura di casa.

Ultimo canto di Natale 07Questo, con un po’ di buona volontà, lo si può ancora fare. E in qualche misura dobbiamo farlo noi, che la “possibilità” di una scuola diversa l’abbiamo conosciuta, e che a quella scuola diversa dobbiamo in fondo l’essere qui oggi a parlarne. Ma non lo dobbiamo solo a quella scuola: lo dobbiamo anche a quelle Novene, o almeno, allo spirito col quale le abbiamo frequentate.

Appuntamento dunque, al prossimo anno. E mi raccomando: rieducate l’ugola e preparatevi sui salmi.

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