meditazioni fra micelio e algoritmo
di Fabrizio Rinaldi, 1° maggio 2025
Dal bordo del dirupo collettivo nel quale l’umanità sembra stia precipitando, tra inni di guerra e dilaganti populismi, negazionismi, fascismi, sovranismi e tutti gli altri peggiori “-ismi” possibili, guardo oltre per cercare di aggrapparmi a qualcosa – mentre già la terra mi frana sotto i piedi –, di scorgere un qualche segnale di speranza.
Vorrei andare oltre le mitragliate trumpiane di decreti a cui non si riesce a star dietro, oltre l’inettitudine servile meloniana, oltre il riarmo intimidatorio dilagante che somiglia all’adolescenziale gara a chi ce l’ha più lungo, oltre i conflitti che somigliano sempre più a stermini e oltre anche la non nuova, ma sempre più pervasiva, droga che euforizza i giovani (e non solo): i mirabolanti prodigi dell’intelligenza artificiale.
ChatGPT e simili si rincorrono per superarsi a vicenda, masticando dati e sputando sullo schermo testi, immagini, video e stringhe di programmazione per compiacere le nostre sempre più bacate menti nell’ottenere da popò di tecnologia cose come questa

Sì, neppure io ho saputo resistere alla tentazione di vedere i Viandanti Beppe, Paolo, Cristina e Antonio trasformati in anime nello stile di Miyazaki, il creatore di Lupin. Nelle ultime settimane Sam Altman, il guru di ChatGPT, ha dichiarato che i loro elaboratori d’immagini “stanno fondendo” per creare imitazioni di cartoni animati e action figure di pupazzetti che ci somigliano. La tecnologia più avanzata degli ultimi decenni viene utilizzata per nutrire il nostro narcisismo.
Forse allora è meglio cercare altrove le intelligenze, perché quella umana sembra destinata ad esser soppiantata prima del previsto; non dal meteorite o dai cambiamenti climatici, ma dall’imbecillità dilagante che ci circonda.
Se ci liberassimo della nostra presunzione antropocentrica e osservassimo ciò che accade sotto i nostri piedi mentre passeggiamo in un bosco, ci renderemmo conto che lì avviene qualcosa di più sofisticato di quanto può fare un qualsiasi chatbot. Adottando la giusta lentezza, non possiamo fare a meno di notare come la vita sia pervasa di strategie, adattamenti e forme di “sapienza” che sono intrinsecamente più avanzate di quelle umane e digitali.
Tra gli scienziati che sono riusciti a diventare social senza sembrare ridicoli, c’è il botanico Stefano Mancuso. Da anni sostiene una tesi che per molti suona ancora come un’eresia: le piante pensano. O almeno, fanno qualcosa di molto simile, ma in verde, senza sinapsi, senza Google e, soprattutto, senza doversi collegare alla presa elettrica.
Mancuso ci invita a smontare il vecchio cliché secondo cui i vegetali sarebbero passivi, immutati, immobili e destinati a farsi mangiare, calpestare o dimenticare nei vasi. Le piante, ci dice, non subiscono il mondo, ma lo leggono, lo decifrano e lo modificano. Non hanno un cervello, ma sono un sistema di intelligenza distribuita. Un po’ come quella digitale, solo che loro lo fanno da tempi immemori, senza data center e senza sosta, con una complessità appena scalfita dal sapere umano, in una perenne evoluzione ed espansione. Se non è intelligenza questa…
Senza la competenza specifica di Mancuso, ma con una sana curiosità e qualche giga di sarcasmo, provo a giocare con il confronto non fra uomo e macchina (rimando questo esercizio ai romanzi distopici come Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick), ma tra l’intelligenza vegetale e quella artificiale. Una partita che, avverto subito, finisce con una vittoria schiacciante del regno vegetale, ma sicuramente ci sono delle affinità. E non sono poche, né di piccola entità.
Sorprende che si parli tanto delle magnificenze del silicio, mentre raramente ci soffermiamo sui prodigi clorofilliani. Anzi no: nel computo dell’idiozia umana, il totale torna.

Una pianta non ha occhi né orecchie nell’accezione comune, eppure è costantemente immersa in un mare di informazioni ambientali: la direzione della luce, la temperatura, l’umidità, le vibrazioni sismiche, la presenza di acqua e di specifiche sostanze chimiche. Ricevendo ed elaborando questi segnali, non solo percepisce gli stimoli, ma li interpreta, modificando la sua crescita, la fioritura o la produzione di sostanze difensive.
Mi viene da pensare che, analogamente, anche un sistema di intelligenza artificiale si nutre dei dati (immagini, suoni, testi) che forniamo come input. Le AI generative, mentre consumano energia pari a quella di intere città, analizzano queste informazioni e prendono decisioni in un processo non dissimile, nella sua finalità adattiva, alla risposta di un vegetale al suo ambiente.
Le piante però vivono, si riproducono, interagiscono, consolidano il terreno e fanno qualcosa di essenziale per la nostra sopravvivenza: producono ossigeno. La macchina può batterci a scacchi, gestire il traffico degli aerei e dei treni, scrivere poesie, ma la betulla è poesia vivente e, nel frattempo, ci regala l’aria che respiriamo senza nemmeno vantarsene.
I vegetali dimostrano una sorprendente capacità di adattarsi all’ambiente in cui si trovano. Per esempio, un albero esposto a un vento costante svilupperà un tronco più robusto, plasmato nella direzione dell’aria; in un terreno povero estenderà invece le sue radici più in profondità per cercare nutrienti. Questa abilità nell’“imparare” dalle sfide ambientali ricorda i modelli di machine learning dell’intelligenza artificiale, che migliorano le loro prestazioni accumulando sempre più dati e attraverso la logica dei feedback. Proprio come le radici si ramificano per scovare acqua, gli algoritmi scovano soluzioni sempre più complesse per ottimizzare i risultati.
Se una pianta non si adatta, scompare; allo stesso modo, se una macchina non fa altrettanto, sommergerà il malcapitato per mesi con pubblicità di creme per il viso come è capitato a me, anche se non le ho mai usate e non ho intenzione di farlo.

Le piante dialogano fra loro senza usare le parole – un’invenzione piuttosto recente e limitata ad una sola specie –, ma rilasciano sostanze che si muovono attraverso l’atmosfera e il sottosuolo per interagire con quelle vicine (e non), magari avvertendole della presenza di un bruco che rosicchia le foglie o dell’avanzare di un incendio.
Sottoterra le radici intrecciano simbiosi con i funghi, dando vita al Wood Wide Web, una rete micorrizica talmente sofisticata che al confronto il digitale Word Wide Web sembra una Fiat Duna dell’87 col motore ingolfato. Altro che connessione 5G: il micelio non solo collega individui diversi (alberi, arbusti, erbe e qualche strambo con la smania di abbracciare tronchi e “sentire la loro energia”), ma smista nutrimenti e segnali in modo capillare, a basso consumo e senza interruzioni. Il tutto senza router, senza elettricità, e – soprattutto – senza abbonamento.
È, quindi, una connessione vibrante, che si adatta ed evolve in un sistema dove il benessere dell’individuo si intreccia con quello della comunità, in un contesto di cooperazione attenta nel dosaggio millesimale delle risorse. Un’ecologia delle relazioni che smonta qualsiasi idea di “sopravvivenza del più forte”.
Mentre le querce si scambiano messaggi criptati attraverso i funghi, noi ci ritroviamo a compulsare prompt da dare in pasto alle intelligenze digitali; queste elaborano soluzioni attingendo dai nostri dati, replicano le nostre manie con una precisione inquietante e producono risultati che riflettono i nostri limiti. Più che un’intelligenza collettiva, sembrano spesso un concentrato delle nostre idiosincrasie.
Il mondo vegetale, a differenza nostra, non si limita a imitare: si adatta e vive davvero. L’idea che le piante possano essere dotate di forme di intelligenza diffusa, consapevolezza ambientale e sofisticati adattamenti comunicativi dovrebbe farci riflettere sulla nostra concezione di benessere reciproco. Dovrebbe, ma non accade; anzi, mentre il bosco ci offre un esempio di mutualismo, noi approviamo leggi che riportano in auge il carbone e le trivelle (vedi le ultime sparate di Trump), convinti che la natura debba essere ottusamente dominata.
In questa farsa, l’unica cosa davvero artificiale sembra essere il nostro rapporto con il mondo naturale: abbiamo perso quella connessione, non quella a banda larga, ma quella biologica, relazionale e intima con ciò che ci circonda, che i nostri avi avevano, nonostante la loro visione limitata all’orto dietro casa. Mentre noi produciamo anidride carbonica e ci lamentiamo delle continue inondazioni, le piante continuano a scambiarsi zuccheri, produrre ossigeno e – a modo loro – ridere di noi, tra un fruscio di foglie e l’altro.

I veri maestri dell’economia circolare sono i vegetali: da milioni di anni, praticano un comunismo discreto ed efficace, basato su scambi mutualistici e alleanze fotochimiche complesse. E tutto questo senza mai aver ricevuto un premio Nobel in economia. Le semplici simbiosi mutualistiche, come le micorrize tra i funghi e le radici delle piante, metterebbero in crisi qualsiasi ideologia neoliberista.
Non c’è competizione, non c’è profitto, nessuna offerta pubblica; solo scambio reciproco e redistribuzione di risorse, supporto e cura sistemica. E tutto avviene senza regolamenti, amministratori delegati strapagati, sindacati e scioperi: un mutualismo che funziona perché nessuno cerca di fregare l’altro. È una sapienza collettiva che sa reagire a stimoli per mantenere un equilibrio di risorse a beneficio di tutti.
La fotosintesi clorofilliana, poi, è una forma di autosufficienza energetica che farebbe impallidire qualsiasi pannello fotovoltaico: energia solare trasformata in zuccheri condivisi all’interno della comunità, senza tasse sul sole e senza copyright sui cloroplasti.
Nel bosco, il capitale non si misura in PIL o followers, ma nella capacità di sostenersi vicendevolmente. Certo, a scapito di altri, ma in un’ottica di evoluzione e non di semplice prevaricazione. È un sistema in cui lo scarto di uno diventa il nutrimento di un altro, non una guerra commerciale a colpi di dazi. Tutto si regge su una rete di assistenza lenta e silenziosa. Nessuno urla, nessuno cerca di primeggiare. Eppure, tutto funziona. Altro che utopia: il comunismo vegetale è una realtà praticata ogni giorno, da milioni di anni, nei boschi, nei prati e nel terreno. E resiste, nonostante la nostra compulsiva tendenza a cementificare, a capitozzare gli alberi lungo le strade e poi lamentarci quando cadono.
La biochimica vegetale è un intricato sistema di segnali complessi, feedback ambientali, algoritmi naturali che elaborano stimoli e rispondono con movimenti, secrezioni, adattamenti. Sotto i nostri piedi c’è un sistema che processa dati, reagisce, si adatta e lo fa meglio di molte aziende che gestiscono i dati che noi regaliamo loro.
Mentre noi stanziamo risorse immense e prosciughiamo quelle naturali affinché degli algoritmi risolvano problemi più o meno complessi, nel verde la rivoluzione finalizzata al problem solving ambientale è in atto da milioni di anni ed è clorofilliana.

Le piante non si lamentano mai quando subiscono dei torti, che siano tagli indiscriminati, schianti, parassiti o animali che le danneggiano. Eppure, non vanno in burnout e, soprattutto, non chiamano l’avvocato. Semplicemente si adattano, cicatrizzano, deviano le risorse altrove e continuano a crescere, finché possono. Sono testarde ed efficaci.
Questa resilienza vegetale non è romantica, ma semplice – e tuttavia intrinsecamente complessa – strategia biologica evoluta, collaudata e ottimizzata nel tempo per non sprecare nemmeno una goccia di linfa. L’albero sa che non tutto può essere salvato, ma molto può essere rigenerato. E lo fa senza conferenze stampa sul nulla.
Curiosamente, proprio questa logica di perseveranza nonostante qualche inciampo sta alla base della progettazione delle attuali intelligenze artificiali: sono pensate per resistere ai guasti, per continuare a processare informazioni anche se un nodo si interrompe o un sensore va in panne. Vanno avanti senza filosofeggiare sul significato della vita (a meno che dei dementi umani non lo chiedano). Ricalcolano, correggono, procedono, proprio come fa un ciliegio quando la galaverna spezza un suo ramo: fa di tutto per farlo fiorire un’ultima volta prima che i tessuti conduttori di linfa si chiudano.
Se la capacità umana di affrontare e superare ostacoli si esaurisce dopo tre messaggi senza risposta, la natura – sia vegetale che digitale – ci mostra che il danno non segna la fine, ma è solo un’interruzione temporanea nella connessione. Come per l’esempio del ciliegio, se un sistema informatico va in crash – a patto che sia progettato bene – ha le risorse per rimettersi in carreggiata e ripartire. Noi umani ci troviamo in mezzo: tra piante e codice: potremmo davvero imparare qualcosa da entrambi. Senza clamore, senza app, senza guru della performance.

Mentre noi alziamo gli occhi al cielo ogni qual volta dobbiamo aggiornare l’antivirus o il sistema operativo (col terrore di perdere qualcosa), il faggio ha bisogno di intere stagioni per decidere se valga la pena sporgersi verso la luce o aspettare che il compagno di bosco lo faccia lui o schiatti.
Questo per dire che la risposta vegetale non è lineare e soprattutto non è schizofrenica: si iscrive in un tempo biologico, ciclico, stagionale, paragonabile a secoli rispetto a quello umano e ad ere rispetto a quello digitale. Tuttavia gli algoritmi complessi (quelli seri, non quelli che ti scrivono il tema su Foscolo in due secondi) che governano le machine learning, consentendo un apprendimento da dati, hanno anch’essi bisogno di un lasso temporale piuttosto lungo, fatto di tentativi, errori e altre azioni correttive affinché possano esprimere delle soluzioni più elaborate e finalizzate alla risoluzione cercata.
Basta guardare i primi video dei robot umanoidi: quei goffi golem elettronici che cadevano come ubriachi ogni volta che provavano a fare un passo, e poi confrontarli con le versioni attuali, in grado di correre, saltare, cucinare e pure interfacciarsi con noi per interpretare la nostra psiche.
Forse allora, prima di aggiornare compulsivamente la nostra tecnologia, dovremmo aggiornarci alla pazienza del creato. O almeno prenderci il tempo di uno sguardo differente, prima di condannare il progresso.

In conclusione, le piante — sì, proprio quelle che ignoriamo fino al giorno in cui ci accorgiamo che le peonie sul terrazzo, dietro il cesto della rumenta, sono morte — se osservate con un minimo di attenzione, rivelano una sorprendente intelligenza distribuita, articolata in molteplici forme. Nessun cloud, eppure elaborano segnali, apprendono dai traumi, comunicano con i vicini (senza bisogno della chat “Vicini inopportuni” su WhatsApp), risolvono problemi e, soprattutto, resistono nonostante noi. Tutti aspetti che, da qualche tempo, anche l’intelligenza artificiale tenta goffamente di imitare.
La prossima volta che un chatbot ci risponde con il consueto “Mi dispiace, non ho capito la domanda”, potremmo provare a fare come le piante: aspettare, osservare, metabolizzare. Non per buonismo biofilo, ma per pura sopravvivenza cognitiva.
Forse il problema è proprio lì: continuiamo a progettare intelligenze che vogliono somigliarci, quando sarebbe molto più sensato prendere ispirazione da un sistema che vive, si adatta e non va in tilt quando perde la connessione. Dovremmo progettare un’intelligenza che ragioni per scambio e non per dominio; che risponda attraverso una rete diffusa di stimoli percettivi, non come un assistente esasperato.
Insomma, se volessimo immaginare la prossima mente artificiale, potremmo cercare ispirazione nel regno vegetale: non fondata sulla logica binaria del sì/no, ma su quella fotosintetica del trasforma e condividi; un sistema che non miri alla profilazione, ma alla simbiosi tra individui. Le sue reti non si limiterebbero ad individuare convergenze mediane da compulsare in facili risposte assolutorie, ma favorirebbero l’intreccio di relazioni tra elementi differenti, capaci di redistribuire la consapevolezza come nutrimento. Sarebbero connessioni che si rafforzano nella cooperazione, che elaborano segnali lenti ma profondi, e che, riconoscono il valore dell’attesa — come si aspetta il cambio di stagione —, offrendo soluzioni davvero adeguate al bisogno.
Non per diventare alberi – anche se a volte non sarebbe male –, ma per smettere di comportarci come piante in vaso dimenticate sul balcone: convinti di sapere tutto, mentre ci secca pure la terra.
Alle domande ansiogene e prestazionali dell’esemplare umano frustrato, questo chatbot vegetale risponderebbe senza fretta, affinché il sapiens provi prima a cercare lui la risposta. A differenza dei colleghi virtuali attuali che mirano a rifilare al malcapitato un corso intensivo di yoga tantrico alla modica cifra di 1000 euro, l’intelligenza vegetale sintetica porrebbe delle domande del tipo: quanto sole hai preso oggi? Oppure: hai intrecciato qualche relazione significativa durante la tua giornata?
Mi auguro infine che questa intelligenza possa avere una caratteristica che quella artificiale ancora ha difficoltà a riprodurre, creare e cogliere: l’ironia. Potrebbe farsi una grassa risata quando capirà che l’essere umano, nel suo sforzo di dominare tutto, si è dimenticato come si vive dentro un sistema, e non al di sopra di esso. In fondo, se dobbiamo essere superati, che almeno sia da un’intelligenza con una giusta dose di sarcasmo e che pensi con le radici e non i piedi.
P.S.: Se un giorno un’intelligenza artificiale risponderà ad un tuo quesito urgente, dicendo: Mi sto orientando verso la luce, torna tra un mese, non infuriarti, è solo l’inizio di qualcosa di realmente pensante a cui ho già dato un nome e un logo e che sto “addestrando” …










ne una schiera di bit concessa in licenza per il mio solo utilizzo, schiera di bit costantemente a rischio di essere sovrascritta dalle controindicazioni sul bugiardino. A questo punto la domanda si trasforma e diventa: ma allora, un eBook è sempre un libro oppure no? In effetti la risposta è meno sorprendente di quanto possa sembrare (o forse di più, dipende da voi): no, un eBook non è un libro. Distinzione peraltro in accordo con le leggi fino a poco tempo fa, in quanto in materia di tassazione solo ai libri cartacei era riconosciuta l’IVA agevolata al 4%, di cui non beneficiavano gli eBook; segno che, evidentemente, un eBook non aveva i requisiti per essere considerato un libro, opinione che lo Stato italiano ha cambiato nel 2015 applicando l’IVA agevolata anche ai “libri” digitali.