Teoria e pratica del pentagonismo

(che non è una disciplina olimpica)

di Carlo Prosperi, 18 maggio 2023

Teoria e pratica del pentagonismo 02Di Juan Emilio Bosch non conoscevo né le vicende umane e politiche né le opere letterarie. Sono quindi grato all’amico Francesco M. Bonicelli Verrina, che per primo ha tradotto in italiano il breve saggio El pentagonismo como sustituto del’imperialismo (1967)[1], di avermi dato modo di colmare in parte questa mia lacuna e di approfondire il tema trattato dallo scrittore e politico dominicano. Il quale ebbe la triste ventura di vivere sotto la dittatura, non meno grottesca che feroce, del dittatore Rafael Trujillo Molina, alla quale si sottrasse viaggiando e trascorrendo lunghi anni in esilio, tra Cuba e Venezuela. Solo nel 1961, dopo l’attentato che pose fine all’abominevole tirannide di Trujillo, fin allora sostenuto dagli americani con la scusa che era sì un “bastardo” (un autentico son of bitch, per dirla con l’icastica espressione roosveltiana), ma era pur sempre il “loro bastardo”, rientrò in patria e, nel dicembre del 1962, vinse le elezioni diventando il primo presidente eletto democraticamente dopo trentun anni di dittatura.

Teoria e pratica del pentagonismo 03Bosch, contando di avere l’approvazione di Washington, subito dopo il suo trionfo elettorale promise di “trasformare la Repubblica Dominicana in una vetrina dell’America Latina” che sarebbe servita come modello della “democrazia rappresentativa”. Ma il tentativo di proteggere gli interessi nazionali da lui intrapreso si scontrò con quelli del movimento conservatore che godeva dell’appoggio degli Stati Uniti, timorosi di ogni novità sospetta che potesse intaccare il loro dominio su quello che fin dai tempi di James Monroe consideravano il loro “cortile di casa”. Tra le accuse mosse a Bosch c’era quella, infondata, di essere comunista. Così, dopo soli sei mesi, egli fu destituito e da allora smise di credere nella democrazia rappresentativa per vagheggiare l’idea di una “dittatura con l’appoggio popolare”. Fu proprio in questo periodo di amara disillusione che egli si sforzò di analizzare le cause del fallimento del modello democratico nei Paesi caraibici e il ruolo svolto in tutto questo dal capitalismo. Dopo Il pentagonismo sostituto dell’imperialismo, videro così la luce diversi studi sull’argomento: Tesi sulla dittatura con l’appoggio popolare (1969), Da Cristoforo Colombo a Fidel Castro (1969), Breve storia dell’oligarchia (1970) e Composizione sociale dominicana (1970). Negli anni successivi si dimise dal Partito Rivoluzionario Dominicano, del quale era stato uno dei fondatori negli anni d’esilio a Cuba, e diede vita al Partito della Liberazione Dominicana, che solo nel 1996, dopo vari tentativi, riuscì ad affermarsi, mandando alla presidenza Leonel Fernández.

Teoria e pratica del pentagonismo 04Convinto che “la mancanza di memoria più lieve può portarci su strade insospettabili”, Bosch continuò a riandare con la mente alla sua esperienza di governo e per primo intuì che alla base del fallimento c’era stato un errore concettuale derivante da un difetto nel valutare l’evoluzione storico-sociale. Si continuava a parlare di capitalismo e di imperialismo, senza rendersi conto che la realtà era nel frattempo profondamente cambiata. I formidabili progressi scientifici e – aggiungiamo noi – tecnologici non avevano solo prodotto, per dirla con John Kenneth Galbraith, una affluent society, moltiplicando a dismisura i consumi e il benessere economico degli americani, ma avevano altresì trasformato una società eminentemente individualistica in una società di massa. E tutto questo – si noti bene – senza che i cittadini se ne avvedessero, così che essi seguitavano a credere di vivere in una società di individui liberi. Mentre, in realtà, erano eterodiretti o, se vogliamo, telecomandati, dal momento che i nuovi mass media, a cominciare proprio dalla televisione ne condizionavano le idee, i comportamenti, i consumi. In questo la pubblicità giocò un ruolo di primo piano, giacché, sfruttando gli studi di psicologia delle masse, i “persuasori occulti” presero ad insinuarsi nella mente dei consumatori servendosi – a dire di Vance Packard – anche di messaggi subliminali alla stregua della psicologia usata dai governi per spingere al massacro migliaia di giovani nel conflitto mondiale.

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Secondo alcuni storici – e Bosch sembra in effetti condividerne la tesi – a salvare definitivamente gli USA dalla grande depressione del 1929 non fu tanto il New Deal di Roosevelt, quanto l’enorme incremento che lo sforzo bellico impresse alla produzione americana. E che determinò la metamorfosi stessa del capitalismo, destinato ad un ipersviluppo che ne cambiò radicalmente la dimensione e i connotati. Tanto che in esso si riconoscono già i germi dell’odierno “turbocapitalismo”, caratterizzato dalla finanziarizzazione dell’economia e dalla “smaterializzazione” dovuta all’informatica e all’elettronica. Ora, il capitalismo, sia pure nelle nuove forme via via assunte, è sopravvissuto allo stesso imperialismo, del quale, secondo Lenin, avrebbe invece dovuto essere la fase suprema. C’è chi si ostina, nel caso degli USA e di altre grandi potenze, a parlare di imperialismo, magari qualificandolo come “economico” o “commerciale” (come è stato anche definito l’imperialismo “in salsa cinese”) o come “neo-imperialismo”, senza rendersi conto che siamo ora di fronte a una realtà affatto inedita, prodotta dal capitalismo ipersviluppato, che Bosch chiama “pentagonismo”.

Nel Pentagono ha infatti sede il quartier generale del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti d’America, in cui si concentra il potere militare nordamericano: un potere nato “dal ventre dell’economia di guerra” e che non può considerarsi costituzionale perché nella Costituzione politica della nazione non è menzionato. Un potere de facto, non de iure. Nondimeno, nella società di massa statunitense esso si è affermato indipendentemente dalla volontà cosciente degli elettori, fino a diventare, nel giro di pochi anni, preponderante rispetto a quello civile. Laddove il potere si misura in denaro, chi di più denaro dispone è inevitabilmente destinato a prevalere. È quanto si è verificato negli USA, dove il Pentagono è giunto a spuntare finanziamenti superiori a quelli del Governo federale. Questo non sarebbe potuto avvenire se l’apparato militare non avesse avuto il decisivo sostegno delle grandi corporations, che – come la guerra aveva dimostrato – alle ingenti commesse provenienti da quel settore dovevano il proprio ipersviluppo. Profittando del tracollo dell’imperialismo, il pentagonismo – che il presidente Eisenhower definì con preoccupazione “complesso industrial-finanziario” – pensò di raccoglierne l’eredità, ma – qui sta la vera novità – senza dovere conquistare dei territori coloniali e senza proporsi di sfruttarli economicamente. Dice bene Bosch: «Il pentagonismo non sfrutta le colonie: sfrutta il proprio popolo», e lo fa colonizzando la metropoli, costretta a finanziare gli interventi militari necessari per conquistare e mantenere posizioni di potere all’estero: ambito su cui il pentagonismo ha più voce in capitolo dello stesso potere civile.

Teoria e pratica del pentagonismo 06Un vasto complesso industrial-militare domina il Congresso” ebbe a lamentare Fulbright nell’ottobre 1967, e il senatore Eugene Mac Carthy, che guidava la campagna contro Johnson, ribatté: “Tutti noi al Senato stiamo tentando di mettere un qualche limite al potere del complesso industrial-militare che controlla la politica estera di questa nazione”. Segno che il rischio di una deriva antidemocratica e guerrafondaia era già avvertito. Almeno da una minoranza illuminata. Ma come poteva questa opporsi ad operazioni che sembravano avere benefici influssi sul benessere della nazione? “In un calcolo puramente matematico – annotava il Business Weech nell’aprile 1965 – il crescere della guerra ordinata da Johnson cambia le prospettive economiche per il meglio”. Era allora in corso la guerra in Vietnam e nei mesi successivi alla scalata delle operazioni belliche, quando la costruzione delle infrastrutture cominciava non solo sul territorio di Saigon, ma anche nei paesi vicini, e specie in Thailandia, una cospicua serie di industrie si giovò di un “atteso boom”. Con l’intensificarsi della guerra, si moltiplicò la richiesta di pneumatici, apparecchiature elettriche e elettroniche, armi, munizioni, carburanti, ecc. E si moltiplicarono di conseguenza i profitti delle imprese di costruzione, meccaniche, aeree, alimentari. Per le più grandi corporations d’America (Lockheed, Aircraft, Ford, Westinghouse, General Dynamics, ecc.), ma anche per l’industria giapponese produttrice di napalm, fu una vera manna. Si disse – ed è uno dei paradossi ricorrenti delle guerre moderne – che le compagnie petrolifere finanziassero persino i vietcong (Fortune, marzo 1966).

La vicenda vietnamita, a preferenza di quella domenicana, che pure lo riguarda da vicino, è assunta da Bosch ad esempio paradigmatico dei guasti del pentagonismo, non solo perché più nota, ma anche perché a tanto dispendio di vite umane e di mezzi non corrisposero risultati adeguati sul campo. Gli USA riuscirono anzi nell’impresa di perdere una guerra senza perdere una battaglia. Oltre a questo, allarmarono l’opinione pubblica sia interna sia internazionale. Paul Kennedy, nel suo classico studio Ascesa e declino delle grandi potenze (1987), riprendendo un concetto di Robert Gilpin, mise in guardia sulla “legge del costo crescente della guerra”, per la quale i costi del mantenimento dello status quo crescono più velocemente della capacità economica di sostenere lo stesso. A lungo andare, l’espansione del settore militare finisce quindi per danneggiare l’economia (come ha del resto dimostrato l’implosione dell’URSS).

Teoria e pratica del pentagonismo 08Forse, però, la parte più interessante del libro è quella dedicata alle motivazioni morali di volta in volta addotte dal pentagonismo. L’intervento militare non è mai giustificato da propositi dichiaratamente aggressivi, quantunque le guerre promosse o combattute dagli USA interessino ogni parte del mondo. Esse sono guerre preventive o volte comunque a soffocare presunti conati di sovversione (“dottrina Johnson”): guerre per “esportare la democrazia” o per combattere il terrorismo. A volte vere e proprie guerre per procura, qual è per certi versi quella attualmente in corso in Ucraina. Il pentagonismo ha così fatto degli USA “la polizia politica del mondo” (capitalista). E non c’è differenza in questo tra presidenze democratiche e repubblicane, perché, almeno nella politica estera, tutte, bon grè, mal gré, soggiacciono ai voleri del Deep State, cioè di quel variegato “complesso industrial-militare” che è per Bosch il pentagonismo. Mike Lofgren in The Fall of the Constitution and the Rise of a Shadow Government definisce lo Stato profondo come “un governo ombra” che opera al di fuori delle istituzioni rappresentative e “presta scarsa attenzione ai semplici dettami costituzionali”. Vi appartengono lobbies, massoneria, funzionari di Stato e apparati di controllo che decidono le nostre vite all’infuori del gioco democratico, ma il nucleo preponderante è costituito dall’apparato militare, che, in combutta con le multinazionali, le agenzie di rating, i mercati finanziari, le banche centrali e le banche d’affari, influenza (e spesso determina) gli indirizzi politici della nazione. In particolare, per quanto concerne la politica estera.

La politica estera statunitense dipende quindi fortemente dalla volontà degli apparati. Si è visto con Trump, quando ha provato ad avvicinarsi alla Russia. Da sempre alla ricerca di un rapporto più stretto con il Cremlino, l’ex presidente Usa ha tentato invano di stabilire un punto di contatto con Putin. Gli apparati statunitensi, memori ancora della Guerra Fredda con l’URSS, glielo hanno impedito. Ma Trump non è stato l’unico a recriminare sul Deep State, lo fece anche Obama quando lamentò che il Pentagono lo costrinse ad inviare altre truppe in Afghanistan, e addirittura Reagan quando disse che il Deep State stava frenando la sua battaglia contro i comunisti. Del resto, il cronista investigativo del Watergate Bob Woodward, in Peril, riferisce che il generale statunitense capo di stato maggiore dell’Esercito Mark Alexander Milley avrebbe istruito i vertici in carica al comando centrale militare, nella war room del Pentagono, “di non prendere ordini da nessuno senza il suo coinvolgimento”. La decisione di accentrare nelle mani del super generale tutti i poteri operativi militari sarebbe stata assunta (e quindi condivisa) durante una serie di vertici top secret tenuti da Milley con alti dirigenti della Cia, del Pentagono e in due contatti riservati avvenuti con Nancy Pelosi e Chuck Schumer, allora leaders democratici dell’opposizione, rispettivamente alla Camera e al Senato.

Teoria e pratica del pentagonismo 07Il merito principale di Juan E. Bosch è stato quello di metterci in guardia da questi apparati, neanche tanto segreti, che agiscono da Stato nello Stato, senza averne alcuna legittimazione. Non lo consolerebbe certo sapere che il fenomeno non è più soltanto americano, se è vero che anche il capo della Wagner Evghenij Prigozhin, nel recente manifesto Solo lotta leale. Nessun accordo diffuso sui canali Telegram ha denunciato la tentazione circolante tra i segmenti dell’apparato militare russo che mirerebbero a un compromesso con gli USA onde “preservare i confini esistenti il 24 febbraio 2023”. Queste, secondo Prigozhin, che guarda alla trascorsa grandezza imperiale, sarebbero élites che “lavorano per padroni diversi: alcuni per il governo esistente, altri per coloro che sono in fuga da molto tempo”. Paradossalmente, anche una sconfitta in Ucraina potrebbe “portare a cambiamenti globali nella società russa” e spingere la gente ad abbandonare questi esponenti dello “Stato profondo” pronti – per difendere il proprio benessere – a tradire gli interessi della Russia scendendo a patti con Washington e Kiev.

[1] JUAN EMILIO BOSCH, Il pentagonismo. Come il “Deep State” U.S.A. tiene in pugno il continente americano, OAKS Editrice, Sesto San Giovanni 2022.

Il decretinatore

di Nico Parodi e Paolo Repetto, 13 novembre 2020

Non ce lo siamo inventato noi (magari così fosse! Faremmo più soldi di Zuckerberg). No, esiste davvero, e non è un elaboratore di piccoli quotidiani decreti ministeriali sulle misure di contenimento della pandemia (anche se, un qualche sospetto che qualcosa del genere esista … ), ma un oggetto molto meno sofisticato, la cui storia è ormai più che millenaria e la cui efficacia parrebbe testimoniata da una miriade di ex-voto: uno strumento che ridona la salute mentale.

Nella chiesa di Saint-Menoux, un villaggio del Bourbonnais, a metà strada tra Lione e Bourges (Francia profonda, tipo “cher pays de mon enfance”), un sarcofago in pietra conserva i resti di un eremita del VII secolo, di nome Menulfo (Menoux in francese) e di probabili origini irlandesi. Di ritorno da un pellegrinaggio a Roma, Menulfo decise di trascorrere in quei luoghi tranquilli e ameni gli ultimi anni della sua esistenza di anacoreta, e di beneficare gli abitanti con i suoi miracoli. È naturale quindi che questi ultimi, riconoscenti, gli abbiano dedicata una postuma devozione. Uno in particolare, lo scemo del villaggio, non rassegnandosi alla sua scomparsa e desiderando condividere ancora la presenza del sant’uomo, arrivò a praticare nella lastra laterale del sarcofago (pare con la complicità del curato locale, e ci azzardiamo a non dubitarne, per motivi che ci paiono ovvii) un foro, largo abbastanza da poterci infilare la testa. Col tempo, a furia di sniffare santità, sembra che il poveretto abbia riacquistato tutte le sue facoltà mentali (il che sarebbe confermato non fosse altro dalla pubblicità che fece alla cosa e dai riscontri, anche in termini economici, oltre che devozionali, conseguiti). Risultato : il villaggio, che prima si chiamava Mailly-sur-Rose, cambia nome, il luogo diventa meta di pellegrinaggi, al punto che vi sorge anche una abbazia di benedettini per onorare il culto e per accogliere le frotte di visitatori, e pare anche che goda di una speciale protezione divina, perché l’attuale chiesa, vecchia di novecento e passa anni, ha attraversato indenne (al contrario del convento benedettino) tutte le guerre di religione e le vicende belliche o rivoluzionarie che hanno insanguinato la Francia nel frattempo. Il sarcofago è ancora là, dietro l’altare (in realtà non è l’originale, ma una copia più tarda, comunque egualmente efficace) e la fama di san Menulfo come rigeneratore di cervelli si è consolidata. I francesi l’hanno battezzato la (o le) débredinoire, da bredin, che nell’idioma bourbonnais locale significa povero scemo (Abbiamo scelto di tradurlo con decretinatore con un po’ di malizia. Una delle ipotesi sull’origine del termine cretino lo fa discendere da chrétien).

Secondo la leggenda, e ancora oggi secondo la vulgata turistica, è sufficiente inserire la testa nel foro per ottenere immediati benefici. Nelle manchette pubblicitarie più recenti si sottolineano gli effetti ad ampio raggio della terapia (la cura ad esempio di emicranie e leggere depressioni), il che ipotizza una utenza molto più vasta. Probabilmente si è preso in considerazione il fatto che i cretini, se non sottoposti a trattamento sanitario obbligatorio, sono piuttosto restii a sapere o ad ammettere di esserlo, e questo spiega perché per accedere alla chiesa non ci sia una fila lunga come il cammino di Santiago, o perlomeno come quelle per il tampone rivela-covid. Nelle istruzioni per l’uso, poi, è inserita una controindicazione: non bisogna toccare con la testa i bordi del foro nel sarcofago, pena ottenere l’effetto inverso e rincretinire totalmente. Qualche dubbio sul fatto che ciò possa avvenire, ovvero di come si possa diventare più cretini di quando si decide di provare la terapia, rimane.

Il che ci porta ad alcune considerazioni:

a) la prima, per una associazione di immagini piuttosto che di idee, rimanda proprio al Covid. Se ricordate, nella primavera scorsa, all’inizio di questa disgraziata vicenda, si è scatenato un training autogeno collettivo a base di “andrà tutto bene” e di “ne usciremo migliori”. Il training parrebbe non avere funzionato, ad occhio e croce la situazione d’emergenza sembra avere piuttosto portato a galla tutti i nostri lati peggiori, e all’epidemia di covid se ne è aggiunta una di stupidità. Colpisce soprattutto il fatto che in molti casi persino le persone toccate direttamente dal contagio nella sua espressione più violenta non ne abbiano poi tratto alcun insegnamento, e nessunissimo miglioramento cerebrale. Trump è rimasto per qualche giorno sotto il casco dell’ossigeno, come avesse la testa infilata nel sarcofago di san Menulfo, ma non ne è uscito per nulla migliorato, al contrario. Forse toccava i bordi dello scafandro, in effetti ha un bel testone, o forse ci sono situazioni cui nemmeno la scienza medica o i santi taumaturghi sono in grado di recare soccorso.

b) Un’altra, meno naive e più cerebrale (quindi ve la risparmiamo, accenniamo soltanto) riguarda la rete immensa, fittissima e onnipervasiva che la Chiesa ha saputo costruire in duemila anni di storia, a base di apparizioni, reliquie, statue o quadri piangenti o sanguinanti, nicchie devozionali esclusive, mete di pellegrinaggio, acque o pratiche di risanamento fisico e/o spirituale, ecc. Abbiamo scritto “ha” ma avremmo dovuto scrivere “aveva”, perché nell’ultimo secolo sono comparsi concorrenti sempre più scafati e meglio attrezzati nella gestione dei nuovi strumenti di convincimento, e la chiesa ha visto restringersi come panni bagnati i propri spazi di controllo (anche se non li ha persi del tutto, e il culto di Padre Pio docet). A Saint-Menoux i pellegrini vanno ancora, ma coi bus turistici, e il foro nel sarcofago lo guardano con la stesso spirito col quale gli studenti (e i loro insegnanti) guardano le punte di pietra del museo preistorico o i gessi delle gipsoteche. Pochissimi però infilano dentro la testa: c’è il rischio di essere filmati e di finire immediatamente sui social, in pasto ai nuovi cretini certificati, quelli contenti e orgogliosi di esserlo, che dai miracoli sono esclusi per statuto.

c) L’ultima considerazione è una bazzecola di carattere letterario; concerne l’assenza di un qualsiasi accenno, nella formidabile “Trilogia del cretino” di Fruttero e Lucentini, a questo millenario spiraglio di speranza per una moltitudine di potenziali utenti. Ci è parso strano che spiriti arguti come i loro non ne avessero notizia. Ma poi abbiamo capito: la trilogia è una sorta di trittico alla Jeronimus Bosch, con visioni infernali in tutte e tre le tavole, e vuole offrire un quadro veridico della situazione italiana. Hanno già dovuto operare delle scelte difficili in un materiale strabordante di imbecillità esemplari. Non c’era spazio per l’importazione dall’estero. Per questo al decretinatore ne abbiamo dedicato uno noi.

Abbiamo infatti pensato che se appena appena un po’ funzionasse, sia pure solo per l’effetto placebo, a fronte del contagio esponenziale che sta moltiplicando negazionisti, complottisti, billionairisti, terrapiattisti, no-vax e compagnia sbraitante, con i soldi del MES si potrebbe cominciare a prenotarne una bella partita, possibilmente in pietra e con salma annessa, da mettere a disposizione di tutti, ma con priorità per le categorie più a rischio, a partire naturalmente dai parlamentari. Se invece il MES non lo vogliamo, si potrebbero organizzare treni come per Lourdes. E diverrebbe allora palese l’urgenza, per smaltire l’enorme traffico, di portare a termine l’alta velocità.

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Cocco Bill contro i trafficanti di utopie

di Paolo Repetto, 2017

Qualche settimana fa è comparsa in edicola una riedizione dei fumetti di Jacovitti (non è la prima, ma questa sembra filologicamente molto accurata, e farà felici estimatori e collezionisti). Al primo numero era allegato il poster di uno di quei paginoni deliranti e congestionati dove l’autore stipava inimmaginabili bizzarrie. Sono cose che conosco e che mi divertono da sessant’anni, ma nel formato ridotto delle riviste (Il Giorno dei Ragazzi, Il Vittorioso, ecc…) era difficile raccapezzarsi in quella babele di personaggi e situazioni surreali: si mettevano a fuoco un paio di particolari e poi si passava oltre, a seguire le storie. Qui invece la scala ingrandita consente di cogliere ogni dettaglio, in qualche modo coinvolge e fa entrare direttamente nel quadro. Mi sono così ritrovato a guardare per la prima volta da una angolatura e con uno spirito diversi a quel serraglio straripante di uomini carriola, di donne mongolfiera, di corpi tagliati a metà o comicamente deformi, insomma, di totale spiazzante nonsenso. Sembrava una rivisitazione delle più famose tavole di Hieronymus Bosch (ma anche di alcune di Brueghel), brulicanti di forme di vita semiumane, grottesche, assurdamente ibridate. E il qualcosa di nuovo che ci vedevo non mi divertiva affatto, ma addirittura un po’ mi angosciava: perché poco alla volta riconoscevo, dietro le metafore strampalate, il mondo che mi circonda.

Bosch, guarda caso, era quasi coetaneo di Thomas More, il padre biologico del concetto moderno di utopia. Vivevano quindi lo stesso mondo: solo lo raccontavano in maniera diversa. Il primo ci si immergeva ed enfatizzava vizi, depravazioni, deformità morali e fisiche (credo godesse come un riccio a inventarne di sempre più raccapriccianti), mentre More cercava di fuggirne rifugiandosi in una dimensione ideale. La differenza tra i due è che Bosch, con le sue sconcertanti rappresentazioni, sembra inchiodarci a una realtà che rende impraticabile qualsiasi utopia, laddove More, al contrario, dà l’impressione di credere che ripartendo da zero e rifondando completamente le istituzioni si potrebbe cambiare la vita dell’umanità. È solo un’impressione, però: se lo avesse creduto veramente non avrebbe domiciliato il suo sogno in un’isola fuori dal mondo. La differenza è comunque puramente formale, perché nel primo libro di Utopia viene descritta una Inghilterra non molto diversa dall’incubo terreno raccontato da Bosch nel Trittico del giudizio, mentre anche il fiammingo disegna una sua utopia nel Giardino delle delizie.

Il nostro contemporaneo Jacovitti la pensa come Bosch, e non escludo che abbia tratto ispirazione proprio dalla sua opera. Ma si ferma alla parte infernale del trittico. Quello che mette in scena è un universo a prima vista paradossale e inverosimile, nel quale prevalgono l’aggressività, i bassi istinti e la follia. Fatto salvo lo humor, è la fotografia della contemporaneità. Il pensiero non può non correre subito alla “gente”, ai casi umani da piazza o da talk show di cui brulicano la televisione e la rete. E persino i rifiuti, i pezzi di salame, le lische, i torsoli di mela, i vermi con la pipa, i sanitari e gli elettrodomestici rotti coi quali riempie ogni possibile spazio bianco, e poi le scritte sui muri e i segnali stradali impallinati o divelti, fanno parte del nostro panorama quotidiano, mentre i dialoghi insensati e demenziali ne costituiscono la colonna sonora. Le tavole di Jacovitti sono distopie solo apparentemente umoristiche, perché già tragicamente reali. Guarda caso, a dispetto dell’ostracismo decretato dalla cultura “progressista” all’autore, mi sono sempre piaciute moltissimo.

Questo ci riporta, sia pure di sponda, al discorso, poi interrotto, che partiva dalla figura di mio nonno. Forse avrei dovuto davvero chiuderlo lì, perché tendo a ripetermi e penso si sia capito benissimo dove andavo a parare. Ma credo di dovere un chiarimento a quegli amici che paiono sconcertati dalla deriva “conservatrice” dei miei ultimi scritti. Inoltre siamo ormai in clima di celebrazioni sessantottesche (con largo anticipo) e un piccolo contributo, da semplice comparsa, ci tengo a darlo anch’io. Solo un paio di considerazioni sul mio controverso rapporto con l’utopia, prima di archiviare definitivamente l’argomento (ammesso che sia possibile).

Il tema mi ha sempre affascinato, tanto che una delle sezioni più consistenti della mia biblioteca è dedicata proprio alla letteratura utopica. A vent’anni, euforizzato dalla lettura di Lewis Munford, avevo iniziato a scrivere una “Storia dell’Utopia”, neanche fossi Leopardi: non ne ho poi fatto nulla, per fortuna, ma ho continuato per il mezzo secolo successivo a raccogliere materiale. All’epoca, come tutti (si era appunto nel sessantotto), cercavo il modello sociale perfetto: a differenza dei più, però, non ero affatto convinto di poterlo trovare nei socialismi o comunismi più o meno reali e più o meno esotici che andavano per la maggiore. Ero invece sentimentalmente attratto dalla tradizione anarchica, scoperta già nella prima adolescenza in un opuscolo che raccontava la vita di Amilcare Cipriani e di altri come lui (e che ho conservato per anni, mimetizzato in mezzo ai Tex e agli Albi dell’Intrepido). Quella tradizione modelli non ne forniva.

Sulla mia diffidenza per le soluzioni “reali” pesava soprattutto il fatto che conoscevo troppi sedicenti “comunisti” miei compaesani, e non mi convincevano affatto. Nei comportamenti quotidiani non erano diversi dagli altri, e in più apparivano sempre arrabbiati col mondo intero. Di anarchici veri ne conoscevo invece uno solo, che non mi ha mai spiegato come dovrebbe andare il mondo, ma in compenso sapeva viverci libero da invidie e ambizioni, e ricordava a memoria tutta la Divina Commedia. L’aveva imparata in prigione.

Penso anche di essermi portato dietro a lungo l’impressione dei fatti d’Ungheria, che avevo seguito per radio e nei commenti di casa, e dai quali i carri armati sovietici come difensori della libertà non uscivano granché bene. Erano motivazioni senz’altro ingenue, ma mi hanno aiutato a mettere la giusta distanza tra la letteratura utopica e la prassi politica. A tenermi ancorato alla realtà provvedevano poi la terra e la zappa, e gente appunto come mio nonno. I progetti utopici mi incuriosivano, andavo a caccia delle varie formulazioni che ne erano state date, anche le più campate per aria, rilevavo le differenze e le continuità, ma non ho mai davvero creduto in una possibile loro traduzione nel concreto. Piuttosto, mentre mi era sempre più chiaro che si trattava di un bisogno congenito nell’uomo, cercavo di capire cosa non avesse funzionato là dove si era tentato di applicarli.

Non mi ci è voluto molto per realizzare che il problema sta proprio nella materia prima: nell’uomo in generale (il “legno storto” di Kant), che in realtà non crede in una società giusta, o peggio ancora non la vuole, ma in particolare in coloro che professano di volerla, o quantomeno in buona parte di essi (temo siano la maggioranza). Il problema sta lì perché costoro in genere non sono mossi al desiderio di cambiare da un sentimento di benevolenza nei confronti degli altri, ma dal risentimento rancoroso. Questo l’ho percepito, come dicevo, molto precocemente, nel clima che si respirava in una comunità piccolissima, dove tutti conoscono tutti e i sentimenti corrono alla luce del sole. Al di là di ogni idealizzazione, comprese le mie, l’eden che abbiamo perduto era abitato in realtà più dall’invidia che dalla sete di giustizia. Ed era abbastanza evidente anche per me come non fosse sufficiente confidare in un lavaggio del cervello praticato dall’alto, ma si imponesse una completa rigenerazione delle coscienze.

Quando poi sono approdato all’Università, dove mi aspettavo di trovare un livello ben più nobile di relazioni, ho dovuto convincermi che la meschinità abita allo stesso modo e in eguale proporzione ogni tipo di ambiente. Ci sono arrivato tra l’altro giusto in tempo per assistere all’esplosione di un ribellismo fine a stesso, che troppo spesso mascherava dietro parole d’ordine più che legittime gli stessi veleni, le stesse ambizioni e le stesse rivalità personalistiche che voleva denunciare: un ribellismo dissacratore che si alimentava però di nuove Scritture e delle loro infinite interpretazioni, e bruciava su un unico rogo tanto gli scarti quanto le conquiste della cultura precedente.

Avendo letto da un pezzo La fattoria degli animali riconoscevo nelle famose assemblee democratiche il velleitarismo parolaio, i rituali liturgici, il protagonismo dei capetti. Di nuovo c’era semmai la totale mancanza di realismo nell’affrontare qualsiasi problema, ciò che garantiva contro futuri esperimenti “proletari” guidati dai borghesi, ma non contro le derive criminali. Altro che utopia: attorno a me vedevo gente che si riempiva la bocca di proletariato e lotta di classe e giustizia sociale ma viveva oggettivamente dall’altra parte della barricata, e giocava senza la minima convinzione e coerenza con ideali che vanno assimilati dal confronto con la realtà prima che dai libri. Quegli ideali io li avevo fatti miei filtrandoli attraverso una coscienza critica rudimentale, maturata per tappe sulle fiabe di Andersen, sui fumetti del grande Blek e sui romanzi di Jack London prima e piuttosto che sui testi sacri, ma rafforzata dalle esperienze dirette, e ora volevo vederli trattati con serietà. Provavo invece la netta sensazione che se tirato troppo per le lunghe il gioco avrebbe finito per stancare o per degenerare, come in effetti poi è stato. E non mi riferisco solo al terrorismo: già presagivo la strage delle idealità.

Certo, ho conosciuto all’epoca anche gente seria, che credeva davvero in ciò che stava facendo (e in qualche caso agli effetti pratici questo era anche peggio, ma almeno si salvaguardava un po’ di dignità), e altri che ci credevano come me, ma non avevano il coraggio di chiamarsi fuori e difendere la loro posizione critica. Erano comunque una minoranza, e li ho persi quasi tutti di vista. Sono rimasti invece ben visibili (prevedo che lo saranno più che mai per il prossimo anno) quelli che hanno portato alle estreme conseguenze il loro gioco delirante, salvo poi “pentirsi” appena varcata la soglia della galera e precipitarsi a denunciare i compagni, per batterli sullo scatto: quelli che si sono assicurati rendite di posizione, infiltrandosi nelle istituzioni “falso-democratiche” che volevano spazzare via, impegnati oggi soprattutto a difendere i loro vitalizi: quelli che sono saltati giù dalla barca al primo cambio di vento per salire velocemente sui nuovi e vecchi carrozzoni mediatici o aziendali.

Capisco come tutto questo possa sembrare semplicistico. Il sessantotto è stato e ha significato ben altro, nel bene e nel male: ma non ho alcuna intenzione di fare un’analisi o dare dei giudizi politici. Ho solo riportato la mia impressione, il sostanziale disagio nel quale l’ho vissuto. Una volta, all’anarchico di cui sopra un viceparroco particolarmente invadente chiese: “Nonnino, non vi ho mai visto in chiesa. Come mai? Temete il puzzo delle candele”? “Per niente, – rispose Modesto (che tutto era tranne che un ‘nonnino’, e che si espresse volutamente in un dialetto strettissimo) – le candele mi piacciono, portano luce: è il vostro puzzo quello che temo”. Io vivevo quella condizione: da un lato ero attratto dalle idee, almeno da quelle più generali, e avendo vent’anni anche dalla prospettiva della lotta, dall’altro non mi convincevano quelli che le predicavano e non mi fidavo di loro come compagni d’arme.

Ciò ha qualcosa a che fare con l’utopia? Temo di si, almeno in negativo. Non soltanto perché “l’utopia al potere” era lo slogan principe di quegli anni “formidabili”, ma perché da sempre, quando il termine è stato declinato nella sua accezione “sociale”, le cose sono finite allo stesso modo. O anche peggio. Ed è andata così perché in questa accezione il difetto è già all’origine. Non sta naturalmente nel desiderio di mettere un po’ d’ordine e di giustizia nel mondo, quando davvero c’è e non è solo ambizione di potere, ma nel rifiuto di prendere atto che il terreno su cui si vorrebbe costruire è instabile e che tanto i materiali quanto le maestranze sono inadeguati. Oppure nel credere, come ha fatto le maggior parte delle guide “rivoluzionarie”, da Robespierre a Stalin e a Pol Pot, che l’edificio possa essere tenuto in piedi a bastonate. Questo spiega perché i muri che ogni disegno utopistico vuole alzare attorno alla città ideale servono in effetti non a difendere dai nemici esterni, ma ad impedire la fuga di chi sta dentro. Nella realtà poi quei muri vengono abbattuti proprio dall’interno.

Questi effetti perversi non sono imputabili all’utopia. Nascono al contrario da un suo totale travisamento. L’utopia non è la semplice secolarizzazione del messianismo cristiano o giudaico, attuata escludendo l’intervento divino ma conservando una connotazione in qualche modo religiosa, che contempla la realizzazione di un paradiso in terra o la restaurazione di un ordine primigenio perduto. È invece una forma d’idealità decisamente nuova e assolutamente laica, che ha la sua radice storica in un momento ben preciso, quello in cui il vincolo religioso si allenta e non ci si attende più alcuna redenzione dall’alto, ma ancora non si prospettano riscatti dal basso. Nasce non a caso assieme alla modernità, nel periodo delle grandi scoperte – il mondo è molto più grande e vario di quanto si credeva, l’universo lo è infinitamente, il potere non nasce da Dio ma da un contratto –, quando le antiche certezze, fondate su un ordine naturale e su un ordinamento sociale che erano il riflesso di quello celeste, lasciano il posto alle domande.

Le reazioni a questo stato di sospensione nel vuoto sono diverse, vanno dall’euforia allo smarrimento, ma tutte hanno in fondo sotteso un desiderio di fuga: in avanti, all’indietro, da un’altra parte. Le tavole di Bosch sembrano dire “Qui sono tutti matti!” e conducono direttamente a Lutero e alla sua concezione della responsabilità individuale della salvezza (un si salvi chi può, o chi lo merita, che allontana e sposta in secondo piano il giudizio universale), mentre Thomas More opta per un altrove che sarebbe auspicabile ma non c’è, e non ci sarà mai. Tutte le formulazioni utopiche prodotte tra il cinquecento e la fine del settecento, che è il periodo della maggiore fioritura, presentano la stessa caratteristica: si collocano in uno spazio (e da un certo momento, anche in un tempo) abbastanza remoto da non lasciare speranza di raggiungerlo. Non ce n’è una che dia credito qui ed ora all’umanità di “magnifiche sorti e progressive”. Meno che mai poi quelle già venate da un intento satirico (gli Yaoo di Swift, ad esempio, non sono molto diversi dai subumani di Bosch). Ci si sottrae all’incubo rifugiandosi nel sogno, ma nella perfetta coscienza che di un sogno si tratta.

L’interpretazione “operativa”, quella che pretende invece di tradurre il sogno in una realtà sociale e politica concreta, viene dopo, a braccetto con la moderna idea di progresso: magari nell’intento di contestare i modi e le direzioni in cui questa idea è declinata, ma facendola comunque propria. È in qualche misura bruscamente annunciata dalla rivoluzione francese, trova una giustificazione teorica nell’idealismo e nella cultura romantica ed è infine imposta dal marxismo, che peraltro taccia di utopismo le dottrine politiche concorrenti. Proprio l’uso di questo termine per connotare spregiativamente le “fantasticherie sociali” finisce per confondere due piani che in realtà dovrebbero rimanere ben distinti. Da una parte stanno infatti quelle che potremmo definire le utopie “letterarie”, che rivendicano l’appartenenza ad un’altra dimensione già nel nome, e che marcano chiaramente il confine che le separa da questo mondo (e da questa umanità); dall’altra quei progetti riformatori o rivoluzionari che hanno, o vorrebbero avere, i piedi ben piantati su questa terra, ma ripropongono poi fondamentalmente l’aspettativa della redenzione universale, quali che siano i suoi tramiti, la tecnica, il socialismo, ecc…

A questa interpretazione ci si riferisce quando si parla di crisi dell’utopia. È una crisi in atto già da un pezzo, di fine dell’utopia si parla e si scrive almeno da un secolo, di norma con sollievo. Ma se ne parla avendo in mente i grandi progetti di palingenesi sociale che hanno luttuosamente marcato il Novecento, continuando pertanto a confondere i due piani. Cito un esempio recentissimo, quello di Luciano Canfora, che affronta il tema nell’ennesimo saggio su La crisi dell’Utopia. La conclusione cui Canfora arriva è in sostanza che non rimane più spazio per quel tipo di progetti. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire: ma più che in ritardo Canfora appare proprio fuori tempo massimo, visto che molti altri c’erano già arrivati più di ottant’anni fa, e i lettori di Corto Maltese da almeno mezzo secolo: soprattutto però dà l’impressione di non aver capito che di spazio per “quel tipo” di utopia non ce n’è stato mai.

Il che ci riporta al Sessantotto, e a mio nonno, che non c’era per vederlo e se ci fosse stato non lo avrebbe visto. Contrariamente a quanto diffuso dal fraintendimento “sessantottino”, infatti, i veri utopisti non guardano al futuro, ma al passato. Il malinteso, come ho già detto, è stato creato soprattutto dalla vulgata marxista, che ha letto comunque le utopie, anche quando l’intento era di smascherarle, come idealità o ideologie rivoluzionarie, proiettate in avanti, in una parola, progressiste: mentre in realtà esse sono originate si dal progresso, e spesso prendono spunto da alcuni suoi aspetti, ma come reazioni negative. Nella sostanza sono visioni conservatrici. Questo valeva già per Platone nell’antichità, e vale tanto più per Tommaso Moro all’inizio dell’età moderna e per Samuel Butler alle soglie di quella contemporanea. Le utopie nascono per esorcizzare un cambiamento in atto, o già avvenuto, che si avverte come minaccioso e destabilizzante. E nascono quando si ha la netta sensazione che non sia più possibile arginare attivamente lo sfascio: sono la risposta di chi si sente impotente, ma nel contempo non ha nessuna intenzione lasciarsi travolgere dallo smottamento.

Il problema non è dunque se l’utopia possa sopravvivere ai suoi presunti fallimenti (perché in fondo i tentativi di realizzarla sono una contraddizione in termini): è di capire che “quel” modello utopico, l’utopia sociale, che ha come presupposti il consenso unanime (tutti vogliono la stessa cosa) e la negazione delle differenze (di attitudine, di capacità, ecc…) e risolve l’uguaglianza in un livellamento “materiale”, non è stato sconfitto dal confronto con la realtà ma, al contrario, dal suo rifiuto.

A questo punto dobbiamo però chiederci se il fallimento ha travolto anche l’altro modello utopico, quello originale. E per farlo occorre prendere atto di un nuovo scenario, più sconvolgente ancora di quello che induceva alla fuga More e la compagnia degli utopisti doc. Bisogna rendersi conto che siamo già dentro il poster di Jacovitti. Certo, i pazzi, gli idioti e i banditi ci sono sempre stati, e le percentuali non devono essere variate molto dall’età di Pericle ad oggi: ma in realtà il quadro è molto mutato, così come la prospettiva dalla quale guardarlo. Un tempo era ancora pensabile che gli uomini avrebbero potuto arrivare, attraverso una crescita lenta ma continua della consapevolezza (l’uscita dalla minorità auspicata da Kant), a capire che l’interesse e il bene comuni sono la somma degli interessi e dei beni individuali, e anche qualcosa di più. Non dico fosse una convinzione realistica, ma almeno era fondata su un presupposto incontestabile: da Pico della Mirandola a Kant lo strumento della possibile emancipazione è sempre stato individuato nella cultura. Quella convinzione alimentava il sogno, ne era la condizione necessaria.

In teoria potrebbe anche continuare ad esserlo: ridimensionando il sogno, accettando il fatto che la società perfetta non è realizzabile, e che sarebbe comunque una gabbia per uomini imperfetti, si potrebbe tenere in vita l’utopia interpretandola come una meta che orienta il cammino ma si sposta progressivamente in avanti, ad ogni nuova conquista. Oggi però dubito che qualcuno, dopo aver assistito ad un qualsiasi demenziale collegamento televisivo con le piazze dove si dà voce alla “gente”, o dopo aver letto i commenti che si scatenano sui social e nei blog attorno ad ogni cretinata, potrebbe ancora attaccarsi a quello che Bloch chiamava “il principio speranza”.

Non potrebbe perché non è solo questione di una maggiore visibilità dell’idiozia. Nell’ultimo quarto di secolo sono completamente saltate le coordinate sulle quali si orientava l’esistenza, e conseguentemente si sono invertiti i suoi parametri di senso. È praticamente scomparsa quella tensione a crescere che si nutriva dell’attesa di un evento, fosse l’Apocalisse o il trionfo della ragione, e creava l’idea di futuro. È saltato persino il vincolo biologico alla salvaguardia della continuità della specie (pensiamo a come stiamo lasciando la terra ai nostri nipoti, per non parlare delle casse dell’INPS), e si vive come se l’apocalisse dovesse compiersi entro sera. Quanto al trionfo della ragione, lasciamo perdere. Nessuno ci crede più e nessuno ha più voglia di attendere, e senza un orizzonte temporale nemmeno l’utopia itinerante ha ragion d’essere. Allo stesso modo, si è modificata la percezione dello spazio: siamo oggettivamente troppi, la possibilità di divorare le distanze in tempi sempre più brevi ha reso il mondo, o almeno la percezione che ne abbiamo, piccolissimo, e da quando anche gli “altri” hanno cominciato a muoversi ci sentiamo sempre più stretti e cerchiamo di segnare e difendere il nostro giardino.

In un contesto del genere la società dello spettacolo ha avuto buon gioco ed ha stravinto. Oggi impone la sua legge: conta solo il presente, gli eventi sono banalizzati a quotidianità e si consumano senza lasciare traccia, se non si appare non si esiste, e logicamente si appare molto di più se ci si agita, si sbraita, si recitano in coro le litanie intonate dai nuovi demagoghi. La certificazione e la giustificazione di una esistenza non sono più costituite da ciò che questa si lascia alle spalle, ma dal clic, dal selfie, dall’apparizione più o meno momentanea sullo schermo, dal numero di contatti, di amicizie virtuali, di faccine che si riescono a collezionare.

Ciò comporta un totale disprezzo di quello che per millenni è stato il paradigma dell’evoluzione culturale, la conquista da parte di tutti gli uomini di una dignità fondata su scelte libere e responsabili. E questo disprezzo è stato fatto proprio dalla stragrande maggioranza, in nome o dell’accesso al consumo e alla visibilità, sia pure effimera, o della difesa del privilegio. Miliardi di individui formano oggi una massa irrequieta ma sostanzialmente inerte, menata per il naso con specchietti e perline colorate, pesante sulla terra al punto da farla sprofondare. Ha prevalso una voluttà di radicale disumanizzazione, e la direzione intrapresa sembra essere definitiva, perché senza spazio, senza tempo e senza una responsabilizzazione individuale accettata con orgoglio nessuna utopia può sopravvivere.

Ma allora non ha davvero più senso coltivare la speranza? Paradossalmente la risposta è negativa: forse non ha senso, ma è l’unica cosa che ci rimane. Basta naturalmente intenderci sul tipo di speranza cui ci riferiamo. Una volta consapevoli che non ci sono più spazio né tempo per l’utopia sociale, e nemmeno per la fuga, perché le isole sono tutte occupate dai villaggi turistici, gli orienti si sono occidentalizzati e le frontiere occidentali hanno fatto il giro del globo, abbiamo due sole alternative: indossare una maschera ed entrare anche noi nella sfilata carnevalesca, o ritiraci nel nostro particulare e nel silenzio.

Ritirarsi nel particulare non significa però uscire dal mondo. Si può anche stare dentro questo mondo difendendo coi denti quelle poche aree del nostro cervello che ancora non sono state colonizzate. E nemmeno significa chiudersi in casa e limitarsi a coltivare pomodori e melanzane nell’orto, se si ha la fortuna di possederne uno. Si può vivere fuori ignorando che domani è la giornata del coniglio paraplegico, che si tengono in giro festival della mente, della poesia, del cinema thailandese o della zucchina biologica, disertando i cammini di Santiago e ricambiando garbatamente gli inviti dei vaffanculisti di professione. In fondo Cocco Bill sopravvive nei caotici saloon di Jacovitti bevendo solo camomilla (è una metafora, non un consiglio per la salute).

Quanto al silenzio, riguarda naturalmente tutto ciò di cui non vale la pena parlare (vedi sopra) o di cui occorre parlare con cognizione, e spesso questa non c’è. Non è mutismo: al contrario, è piuttosto la riscoperta del fatto che le parole hanno un peso, e un senso, e vanno spese bene e nella direzione giusta. Dobbiamo pensare che non siamo soli. Qui, sulla terra, dico, senza bisogno di cercare nel cosmo altre forme di vita intelligenti, che se ci fossero, proprio per via dell’intelligenza avrebbero qualche problema a rapportarsi con noi. Battere sentieri dismessi permette di riflettere in santa pace, o almeno di viaggiare ai bordi del caos, ma crea anche occasioni di incontro con chi nel traffico si sente a disagio come noi. Incontri veri, nei quali condividere gli umori o i malumori, le piccole scoperte e i piccoli entusiasmi: oppure anche semplicemente il silenzio, seduti a veder consumarsi una sigaretta.

Forse non è esattamente la scelta di mio nonno, ma lui poteva portare sino in fondo la sua perché con la vita era in credito, anche se neppure lo sospettava. Per noi, per la nostra generazione, per me senz’altro, non è così. Il nostro disagio ha radici molto diverse da quelle del suo. Sappiamo che la storia con noi è stata generosa (non con tutti, e non nella stessa misura, ma senz’altro più che con qualsiasi altra generazione precedente) e ci ha offerto più occasioni di quante ne meritassimo, perché non ce le siamo guadagnate noi, ma quelli che ci hanno preceduto, col loro sangue. Non le abbiamo sfruttate al meglio o le abbiamo perse del tutto, ma dovremmo sentire l’obbligo morale di trasmettere almeno ciò che ne resta a chi verrà dopo. Abbiamo figli, nipoti, amici, colleghi che probabilmente ci osservano molto più di quanto vorremmo ammettere e che magari siederebbero volentieri con noi per un attimo al margine della strada.

Guardiamoli una buona volta negli occhi e non raccontiamo loro la favola di un mondo migliore, che non è né dietro l’angolo né in fondo alla strada. Aiutiamoli piuttosto a sopravvivere in questo come esseri umani, a riconoscersi dentro il poster, se è il caso, e possibilmente a tirarsene fuori. E aiutiamo anche noi, perché la volontà di conoscere, l’ostinazione incessante ad imparare non possono essere condivisi se non sono mantenuti vivi.

Agli amici, allora. Immagino che questo sembri un programma da circolo dei pensionati, e forse lo è davvero: ma da quando è franata la collina sulla quale coltivare l’utopia non mi riesce di inventarmi altro. Odio le serre: sono luoghi chiusi, l’atmosfera è opprimente, la vita che ospitano è artificiale. Aspiro ad essere trovato un giorno, preferibilmente tra vent’anni, seduto con la schiena contro il muro esterno del mio capanno, lo sguardo rivolto al Monviso e al tramonto. O magari anche non trovato, per godermela ancora un pezzo, in tutta calma, anche dopo.

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