Andare e tornare per strade contorte

di Fabrizio Rinaldi, 24 novembre 2024

Solo lungo vie secondarie e deviazioni
si può raggiungere la meta.
Sven Lindqvist, Nei deserti, Ponte alle Grazie 2002

Viaggiare, per molti, significa “vacanza”: una fuga dalla routine verso l’agognata meta, che sia una spiaggia, una vetta o un qualsiasi luogo dove concedersi l’ozio. Ma per chi, come me, fa il pendolare per scelta e necessità, lo spostarsi è la perenne condizione per recarsi al lavoro e, al contempo, per fare altro. È in questo viaggio forzato che trovo le mie personalissime evasioni mentali e una pausa dalla frenesia del quotidiano.

Vivere nei boschi, in una casa piuttosto isolata, lontano dal caos cittadino e dai borghi assopiti, mi consente di impostare un ritmo di vita che si avvicina alla mia natura: più lento, più consapevole di ciò che mi accade attorno. Almeno, ci provo. Non sempre ci riesco, spero di farcela almeno fino a quando le gambe reggeranno il salire fino alla provinciale quando la neve e il ghiaccio impediscono di portare l’auto sotto casa. Ironia della sorte, oggi il cambiamento climatico fa sì che nevicate e gelate siano eventi eccezionali, non la normalità di appena quindici anni fa. E così mi ritrovo, paradossalmente, a sperare nel perpetuarsi di questi cambiamenti al fine di salvaguardare il mio volontario isolamento (cosa mi tocca sperare!).

Abitare a un centinaio di chilometri dal lavoro è, fra l’altro, il mio modo per mantenere una giusta distanza dalle incombenze professionali e anche da quelle domestiche: una sorta di rigenerazione che mi consente di non essere assorbito da nessuna di queste due dimensioni in modo eccessivo. C’è qualcosa di insopportabilmente claustrofobico nell’avere tutto troppo vicino, troppo a portata di mano. È vero anche che ciò implica una piccola evasione dall’uno e dall’altro mondo, ma questo è il mio modo di tirare dritto.

Il pendolarismo, però, non è senza costi: cantieri eterni, strade interrotte, viadotti fatiscenti, code su code e continui aerosol di smog. Ogni viaggio diventa un calcolo incerto sul percorso più scorrevole, un compromesso tra tempo e pazienza. Così, quando posso, scelgo strade secondarie, quelle che si snodano tra i boschi incolti e i paesi sempre più deserti dell’entroterra ligure.

Non sto qui a fare la disamina della bellezza paesaggistica incontrata e delle ignorate potenzialità ambientali, culturali e strategiche dell’appennino, perché c’è chi lo ha fatto molto meglio di me, raccontandolo in un poderoso volume che invito a leggere per scoprirne i percorsi: Paolo Rumiz, La leggenda dei monti naviganti.

Andare e tornare per strade contorte 02

Il mio tragitto passa per Cremolino e Cassinelle, poi diviene una sequenza di curve fra boschi di castagno, faggio e rovere nella zona di Bandita. Dopo Cimaferle, la strada si fa più esposta e senza sponde, ove la distrazione è un’opzione non consigliabile. Alla Maddalena, immancabilmente, il termometro segna la temperatura più bassa del tragitto (lo scorso inverno, una mattina il cruscotto segnava -18°C, un preludio artico alle incombenze lavorative). Attraverso il centro “dis”-abitato del Sassello, poi arrivano le gole che sfociano a Stella (ha dato i natali al presidente partigiano Pertini, per il resto nulla di ché), per giungere infine ad Albisola, e da lì percorro l’Aurelia fino a Pietra Ligure. Per molti il tratto costiero è quello più suggestivo, con la vista sul mare e la luce del sole che si riflette su di esso; per me, invece, è il primo tratto a essere il più intenso, quello in cui si è veramente soli, senza incroci, senza città.

Gli incontri, su quelle strade poco trafficate, in realtà non mancano: lepri che passano rapide, volpi che si nascondono tra i rami, cinghiali che attraversano repentinamente, caprioli che sembrano osservarmi. Spesso il succiacapre se ne sta sull’asfalto fino all’ultimo istante prima di alzarsi in volo. Un paio di volte ho incrociato lo sguardo di un lupo, pendolare pure lui nel cercare una terra da conquistare: un attimo e poi la sua figura si è dileguata tra gli alberi. Giusto per ricordarmi che sono io l’ospite che attraverso il suo territorio. E pure sgradito.

Il viaggio per strade disagevoli è così una parentesi di autorigenerazione che richiede pazienza e attitudine alla solitudine. È qui, nella lentezza forzata della strada storta, che ritrovo il piacere della pausa: ogni svolta segna un distacco dalla frenesia che pervade la maggior parte dei nostri giorni. È come leggere un libro di poesie dove ogni verso ispira pensieri che altrimenti, semplicemente, non emergerebbero.

Andare e tornare per strade contorte 03

[…] le Alpi sono solo la cornice esterna del paese. Gli Appennini invece ne sono l’anima, lo stomaco, la colonna vertebrale. E sono lunghi quasi il doppio. Senza di loro, la patria si affloscerebbe come uno Zeppelin senza gas nella pancia.
Paolo Rumiz, La leggenda dei monti naviganti, Feltrinelli 2007

Però non viaggio mai del tutto da solo. Durante questi percorsi ascolto la mia selezione di brani adatti per il viaggio (ai tempi dei cd avevo assemblato una personalissima “razione kappa” adatta alla contingenza, ora mi affido a Spotify), oppure accendo la radio sintonizzata perennemente su Radio3, ma durante i viaggi notturni della pandemia ho iniziato a seguire molti podcast e ora sono diventati i miei compagni più fedeli. Parto con una raffica delle ultime puntate di Non hanno un amico con le freddure di Luca Bizzarri, di Timbuctu di Marino Sinibaldi e di Cose (molto) preziose di Loredana Lipperini (questi ultimi reduci da Fahrenheit di Radio3). Continuo con Copertina di Matteo B. Bianchi, Il posto delle parole di Livio Partiti, la trasposizione della trasmissione televisiva La torre di Babele di Corrado Augias, Mirabilia di Alessandro Calzolaro e Chiedilo a Barbero dello storico più iconico del momento.

Curva dopo curva, episodio dopo episodio, il viaggio si trasforma in una conversazione con queste voci e con i loro ascoltatori, che a loro volta stanno attraversando un proprio “bosco”, forse metaforico, forse reale, ma che, seppur distanti, sono lì con me, lungo quei tornanti.

Il bosco e il podcast diventano così simboli opposti e complementari. Da un lato ci sono le colline e le strade secondarie che mi connettono con un mondo naturale, privo di filtri, colmo di stimoli, sorprendente con i suoi scorci sul paesaggio e negli incontri furtivi con i suoi abitanti. Dall’altro il podcast, che mi fa sentire dentro una comunità selezionata, piena di cultura mainstream, accuratamente tarata su di me. È come se viaggiassi tra due poli: la comunità organica del bosco e quella mentale degli intellettuali. Quella vegetale è aperta all’ignoto e pronta ad accogliere l’inusuale, mentre quella culturale, per quanto rassicurante, mi sembra inevitabilmente soffocante: i miei gusti si trasformano anch’essi in merce, ciò che ascolto è finalizzato ad assecondare le mie piste precostituite, divenendo come le strade contorte che percorro, tanto abituali che quasi non mi rendo conto di farle ogni giorno.

Il rischio di una personalizzazione eccessiva è in agguato. La possibilità di creare una programmazione su misura rischia di generare “bolle” informative sempre più confortevoli, allontanandoci da quei punti di vista diversi, a volte persino stridenti, necessari per fornire un contraltare, un dubbio che possa incrinare le certezze o, al contrario, consolidare le convinzioni. In fondo è pure di questo che abbiamo bisogno: applicare il metodo sperimentale galileiano alle nostre convinzioni al fine di confrontarle e sottoporle a prove di forza, affinché possano emergere in un distillato di valori con cui ritemprarci. A volte è fondamentale cambiare strada per scoprire nuovi scorci che altrimenti resterebbero ignoti.

Vivo così una perenne dialettica tra il desiderio di appartenenza e il bisogno di indipendenza: è una costante ricerca di equilibrio, di quell’acme in cui lasciarmi ispirare senza isolarmi, ascoltare senza chiudermi, appartenere senza smarrirmi. Mi chiedo quanto io sia aperto davvero all’imprevisto, al pensiero diverso, alla voce sconosciuta. Per questo, a volte, spengo tutto e lascio spazio al silenzio, un compagno imprevedibile e, forse, più sfidante di qualsiasi altro.

Come scriveva Friedrich Nietzsche in Ecce Homo “Chi ha un perché per vivere può sopportare quasi qualsiasi come”. E il mio perché è proprio questo: la pervicace ricerca di significati che vadano oltre l’apparenza, affinché sia maggiormente sopportabile la difficoltà della ripetitività, nella convinzione nietzschiana che ciascuno è artefice del proprio destino e dei valori a cui affidarsi.

Andare e tornare per strade contorte 04

Si vorrebbe sempre essere: essere stati, mai. E ci ripugna di non poter vivere contemporaneamente in due luoghi, quando l’uno o l’altro vivono nel nostro pensiero. Possiamo metterci in viaggio. Ma mentre la meta si avvicina e diventa reale, il luogo di partenza si allontana e sostituisce la meta nell’irrealtà dei ricordi; guadagniamo una, e perdiamo l’altro. La lontananza è in noi, vera condizione umana.
Mario Soldati, America primo amore, Mondadori 1959

Si suol dire che le strade sono una perfetta metafora della vita: partenza, tragitto e arrivo lungo un percorso a tratti tortuoso, con salite e discese, intervallato da ostacoli, interruzioni, cambi di direzione, incidenti, nebbia, pioggia, neve, ecc … Ciò che fa la differenza è il personale stile di guida, il modo in cui ciascuno affronta le curve e come schiaccia sul pedale.

Si può scegliere di pigiare sull’acceleratore per contendere il traguardo a chi è percepito come un competitore: ma questa opzione raramente appaga e di norma il traguardo non lo si raggiunge. Anche perché il contendente vero è il tempo, e a mettersi in gara con esso si finisce immancabilmente in riserva.

A volte le vie terminano in vicoli ciechi che impongono la retromarcia, di reimpostare tutto il percorso per uscire dal ginepraio in cui ci si è cacciati. Con o senza Google Maps, è necessaria molta umiltà per imboccare la via giusta che porta a destinazione. Questa, fra l’altro, non resta fissa: muta e si sposta, a volte sparisce per riapparire sotto forme diverse.

Mentre transito ai 60 all’ora davanti all’ennesimo autovelox quando il limite, assurdo in un rettilineo nel bosco, è di 30, mi viene in mente che il nuovo codice stradale prevede multe molto più salate. Possibile che non ci siano altre soluzioni rispetto a quelle sanzionatorie? Ricordo che all’inizio del mio peregrinare coprivo in poco più di un’ora lo stesso tratto che ora percorro in oltre due. Com’è possibile? Sarebbe troppo semplice additare lo sfacelo infrastrutturale all’attuale ministro dei trasporti (che peraltro si occupa di tutto tranne che di questo). È solo l’ultimo in una tradizione secolare di incompetenza. In pratica è dai tempi dei romani che in questo paese non si dedica un interesse adeguato alla viabilità. Loro dovevano spostare velocemente merci e truppe nel loro immenso impero. Non voglio sperare che per avere delle strade decenti sia necessario vedere delle centurie marciare al comando di politici in cerca di consenso al grido di “Ave Meloni” in direzione dell’Ucraina, della Cina o dei “barbari” immigrati di turno.

Andare e tornare per strade contorte 05

Faccio la mia passeggiata,
essa mi porta un poco lontano
e a casa; poi, in silenzio e senza
parole, mi ritrovo in disparte.
Robert Walser, Poesie, Ed. Casagrande 2000

Tornando al mio viatico, se al mattino percorrere le strade mancine dell’appennino è uno svelamento di ciò che mi attende e una riflessione sul da farsi (lavorativamente parlando, ma non solo), alla sera ripercorrere le stesse carreggiate non è semplicemente un’inversione di marcia, ma un nuovo viatico inframezzato dall’ascolto di Fahrenheit, dai podcast e dai silenzi fra un cantiere stradale e l’altro.

È facile fare un parallelismo fra il riandare a ritroso i tornanti e lo scendere dal Tobbio dopo una sempre più faticosa salita (l’ultima volta le mie ragazze mi hanno deriso dalla vetta per quasi venti minuti prima che riuscissi, arrancando, a raggiungerle). Se l’andata è sinonimo di apertura verso differenti stimoli e idee su cui riflettere, il ritorno dà forma a una sorta di discesa intima, che predispone alla chiarezza e, a tratti, al distacco necessario per guardare in prospettiva ciò che il giorno ha portato.

Tornare significa sottrarre, allontanarsi, lasciare alle spalle per trattenere solo l’essenziale e fare valutazioni sui traguardi raggiunti, ma in questo caso l’elenco degli spostamenti tracciati da Google Maps non consente di tirare le fila, anzi evidenzia le centinaia di ore trascorse a rimuginare, a macinare chilometri, ad ascoltare podcast, ma anche a procrastinare il prendere decisioni.

Il tornare indietro non è dunque un mero tirare dritto verso il mio rifugio nel bosco, ma un rituale necessario affinché il sedimento dell’ipocrisia, delle frustrazioni, dei dubbi, del superfluo si depositi sul fondo della damigiana e il travaso in bottiglia avvenga senza smuovere troppo. Altrimenti resta il torbido in bocca.

Ogni giorno il mio pendolarismo diventa così un’esperienza a sé, fatta di salite e di discese, dell’andare a gestire problemi (sul lavoro mi definiscono ironicamente il Signor Wolf, di Pulp fictioniana memoria), ma anche di un tornare con la convinzione di aver imbottigliato del vino buono.

Si srotolano così gli ultimi tornanti fino alla discesa che conduce all’intimità casalinga, ove a volte le dinamiche da reggere non sono meno complicate. Che poi “reggere” non è il termine corretto, rende forse più l’idea “esser travolti” dalle vicende familiari, specie quando a casa ci sono tre donne, fra cui una consorte psicoterapeuta con la fascinazione del mondo bioenergetico (o signur!) e due preadolescenti cellular-dipendenti, in piena fase di rifiuto del genitore che vorrebbe ostinatamente riuscire a insufflare delle regole di buon senso.

In certi casi la resa è un’opzione necessaria e il sonno ha la meglio su tutto.

Collezione di licheni bottone

Andare e tornare per strade contorte 06

Errare per necessità

di Fabrizio Rinaldi, 14 agosto 2023

Anni fa lessi la raccolta di racconti di Jürg Federspiel intitolata L’uomo che portava felicità, in cui erano tratteggiati dei personaggi incapaci di andare oltre i propri limiti, di comunicare il proprio vissuto. Immediatamente mi immedesimai nell’ussaro che, dopo la sconfitta subita ad Austerliz del 1805 contro i francesi, vagava nelle campagne innevate, alla ricerca del paese dove ritrovare ciò per cui aveva combattuto e perso.

Sono passati decenni, ma ancora oggi quella figura ieratica e solitaria che cavalcava sul lago ghiacciato, nella nebbia e incurante dei popolani che dalla costa lo avvertivano del pericolo di sprofondare, mi sta a pennello. Sarà tardo-romantica, sarà interpretabile in vari modi, ma mi ci riconosco ancora oggi.

Errare per necessità 02 L'uomo che portava felicità

Il mio non è snobismo nei confronti di una società che è diversa da come la vorrei: rivendico però almeno il diritto di non schierarmi da una parte o dall’altra, perché intravedo più torti che ragioni in tutte le posizioni che mi sono proposte. E invece, in sostanza, è questo ciò che viene richiesto: parteggiare sotto un vessillo, quale che sia; guardarmi dal manifestare un sacrosanto disinteresse; meno che mai dal coltivare un pensiero differente. Questo nessuno me lo chiede. Sembra che a pensare, anche a nome mio, siano deputati altri. Tutto ciò non mi appartiene. Tutto qui.

È pur vero che ho delle preclusioni a pelle, per cui di fronte a particolari situazioni i pori della cute si chiudono a qualsiasi dialogo: ammetto di non riuscire a comprendere idee e azioni di personaggi come Berlusconi (pace all’anima sua, ma non ai suoi imitatori, Renzi compreso), Salvini, Meloni, ecc …, con tutte le loro corti di politicanti, imprenditori, banchieri e faccendieri. Se anche dicessero e facessero cose condivisibili (tranquilli, non capita), rappresentano comunque l’antitesi del mio modo di pensare e vivere.

Ma anche con gli altri, l’empatia è decisamente bassa. Sembra che il loro gioco preferito sia quello di farsi le scarpe a vicenda e di attendere gli scivoloni altrui. Una guerra di logoramento che consuma soprattutto chi la conduce.

Errare per necessità 03

La schiacciante vittoria di Napoleone durante la battaglia di Austerliz confermò il predominio della Francia sulle potenze europee e la fine del secolare Sacro Romano Impero, con tutto ciò che rappresentava. Di qui lo smarrimento del mio ussaro, ma anche la sua volontà di ritrovare un senso, una causa in cui credere.

Oggi non c’è un Napoleone capace di mettere a soqquadro la società come si è evoluta nei secoli: chiunque vada al potere, tutto procede immutato (ovvero viaggia verso il disastro), mentre dilaga un individualismo incosciente e miope, per cui ogni singolo non riesce a vedere al di là di quelle che sono le sue immediate (e tutt’altro che naturali) esigenze.

Come lo scontro avvenuto ad Austerliz divenne volano per enormi cambiamenti politici e sociali, gli avvenimenti degli ultimi anni (dall’11 settembre alla guerra in Ucraina, dalle crisi economiche a quelle climatiche e – non ultima – quella sanitaria conseguente al Covid), avrebbero dovuto imporre drastici cambi di rotta, persuaderci a mettere in discussione i modelli sociali e i sistemi di relazione, a cercare di capire come potremmo sopravvivere senza annientarci. Invece rimaniamo scientemente immersi in un mare di futilità, fingiamo di non renderci conto della situazione in cui ci siamo cacciati, o l’accettiamo rassegnati, evitando di affrontare quella che non è più una remota eventualità, ma una minaccia imminente: la sostanziale estinzione del genere umano.

Mi si potrebbe obiettare che non è vero, che, se le classi politiche di tutto il mondo sono cieche e sorde, esistono però movimenti (come quello di “Ultima Generazione”) nati proprio da questa consapevolezza, che cercano di focalizzare l’attenzione su questo tema. Ma io mi riferisco a prese di posizione serie, fondate su una riflessione storica e sociale approfondita, non finalizzate solo alla visibilità mediatica: di proposte concrete che tengano conto, ad esempio, che la stragrande maggioranza della popolazione mondiale è già impegnata quotidianamente nella lotta per sopravvivere e quindi ha priorità diverse dalle nostre. Richiamare l’attenzione va bene, è necessario (anche se sulle modalità ci sarebbe da discutere), ma una volta che la si è ottenuta occorre avere qualcosa da proporre. Altrimenti tutto si risolve di volta in volta in girotondi, sardine più o meno in scatola o venerdì futuristi, che fanno dire “che bravi questi nostri ragazzi” e offrono momenti di folklore a una tivù onnivora e di eccitazione effimera ai media digitali, ma non progrediscono nella ricerca di soluzioni perseguibili.

Errare per necessità 05

In fondo la dopamina assunta attraverso l’uso compulsivo dei social, ci fa credere che ciò che affermiamo siano verità indiscutibili e condivise da molti. Nulla è più sbagliato perché le certezze non sono mai incontrovertibili, specie in un mondo in cui il ghiaccio sociale che calpestiamo si sgretola non solo per la “febbre” del pianeta, ma per i diritti sociali, i principi morali e gli sviluppi economici, tutti diventati precocemente avariati.

Pure la convinzione di una eterogeneità di pensiero è una chimera che si infrange contro la repentina mobilità d’opinione, senza particolari afflizioni o ripensamenti, rimpianti o rimorsi. È il gioco delle parti che impone un compulsivo cambio di casacca. Affermare convintamente oggi una cosa e domani l’opposto senza colpo ferire, è l’attestazione più potente della società destracentrica che viviamo (ma purtroppo non solo da quella parte lì). In fondo abbiamo appurato che Ruby Rubacuori è la nipote di Mubarak!

Errare per necessità 04

Ciò che vedo è che, mentre ad ogni scroscio di pioggia vengono giù le montagne e se non piove vanno a fuoco i boschi, non c’è alcuno sforzo di responsabilizzazione individuale: continuiamo a chiedere a parlamentari e a “managers” (impegnati a difendere i loro stipendi e profitti) di farsi carico del futuro nostro e del pianeta, ma in realtà badando a non sconvolgere le abitudini al consumo. Non mi pare che qualcuno sia in realtà disposto a rinunciare autonomamente a qualcosa.

Questo non significa che io abbia in mente delle soluzioni e sia in grado di metterle in pratica, almeno a livello individuale: ma so che non le ha nessuno, e soprattutto che nessuno sembra aver davvero intenzione di cercarle.

Rifiuto quindi di schierarmi sotto qualsiasi bandiera, per difendere la mia possibilità di “errare” convintamente, nel duplice senso di muovermi alla ricerca – magari sbagliando – e di confondermi, riprovando pure. Questa, a breve, lungo e lunghissimo termine resta la mia scelta per tollerare l’effluvio di inadeguatezza e incertezza che mi impregnano il cappello e il pennacchio rosso d’ordinanza.

Non voglio attendere l’arrivo della Waterloo per qualcuno. Anche perché ciò si ripete ormai ogni giorno e ne usciamo tutti egualmente sconfitti. Meglio allora rimanere ben ancorato alle briglie del cavallo e procedere senza sosta e ripensamenti, con passo spedito, affinché il ghiaccio sotto i piedi non si frantumi.

Alla via così, cercando “un paese. Un paese come il mio. Ho tutto il tempo al mondo, per trovarlo. Tutto il tempo al mondo”.

Magari non proprio tutto, ma un po’ ancora sì.

Collezione di licheni bottone