di Maurizio Castellaro, 2 gennaio 2025
Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).
La migrazione dei popoli è un’onda lunga, non sempre la vediamo perché restiamo molto tempo sott’acqua. Ma a volte si riesce a salire a respirare, e allora ci accorgiamo che attorno a noi galleggiano milioni di persone, portatrici sani delle loro culture aliene. Sono giovani neri eredi di tribù guerriere, con il DNA della pretesa nella testa, li riconosci perché anche dopo dieci anni in Italia non conoscono la nostra lingua.
Sono giovani asiatici che vivono a testa bassa con sulle spalle il peso di fratelli piccoli e genitori anziani e malati, che aspettano le loro rimesse come ultima speranza. Sono donne latine basse e grasse, che creano clan per difendere se stesse e i bambini dai loro uomini pigri e violenti. Sono giovani arabi e albanesi che postano stati davanti a Ferrari posteggiate e a vetrine di Gucci, anche se non hanno casa e dormono sotto i ponti. La loro linea dei diritti trova solo raramente punti di incontro con la nostra sbertucciata linea dei doveri.
Di fronte al carico di domande di quest’onda lunga, che dilaga silenziosa, non ci sono risposte possibili, non ci sono risorse sufficienti, non ci sono culture disponibili. Il Novecento si è inabissato da tempo con tutto il suo cucuzzaro, e per imparare a nuotare in quest’onda ci vorrebbe un pensiero con le branchie, ma è ancora presto, maledettamente presto. Dal kebabbaro (sono tutti del Kurdistan) dopo la mezzanotte non ci sono più clienti e allora fanno passare in tv video di musica del loro paese di origine. Ascolto affascinato quella musica ipnotica e bellissima, che affonda le sue radici in una tradizione culturale millenaria, di cui ignoriamo tutto. Quanta bellezza, quanta sapienza, quanto oro c’è nelle tasche vuote di queste persone che galleggiano sull’onda accanto a noi? È una domanda vagamente perturbante. Forse è una domanda con le branchie.





