di Paolo Repetto, 23 febbraio 2025
Nel programma pomeridiano di Paolo Mieli, Passato e Presente, David Bidussa ha parlato martedì scorso de Il “Mistero buffo” di Fo; la verità del giullare. L’ho intercettato a trasmissione già avviata, quindi non so se lo spunto fosse un qualche libro di Bidussa stesso o di altri, visto che nel corso del programma non se ne è fatto cenno (e nemmeno ne ho trovati in una successiva ricerca).
Comunque. Confesso di essermi sulle prime un po’ irritato (mi capita sempre quando sento nominare Dario Fo), perché conosco Bidussa da tempo, lo considero una persona seria e uno ottimo studioso, e temevo si fosse adeguato alla solita zuppa celebrativa: ma non ho tardato a capire che Fo gli sta simpatico quanto a me (e che questo sentimento è condiviso anche da Mieli), e la cosa non poteva che darmi conforto.
Al di là però delle simpatie e delle antipatie, che hanno motivazioni recondite e non fanno testo, ho apprezzato il modo sottile in cui Bidussa, senza lanciarsi in stroncature, ha ridimensionato il personaggio, sia come uomo che come intellettuale “impegnato”.
Ha fatto presente ad esempio come diversi altri ricercatori e autori abbiano studiato il linguaggio e la cultura popolare, traducendo poi i risultati del loro lavoro in strumenti per consentire una migliore conoscenza di quel mondo: cosa che non si può certamente dire per Fo, che ha invece utilizzato quei materiali in funzione prettamente autoreferenziale, mettendoli al servizio di una “verve” teatrale che gli consentiva di rimanere sempre, e letteralmente, al centro della scena. Ne ha fatto cioè spettacolo, puntando sugli effetti speciali della gigioneria: ma sul piano concreto della conoscenza della cultura popolare in realtà non ha trasmesso nulla. Anche il famoso gramelot non è una forma di linguaggio inventata dal popolo, nata come ribellione alla lingua ufficiale, come la si è gabellata, ma un “linguaggio scenico” affidato totalmente all’estro dell’attore, e come tale non codificabile e non trasferibile. E infatti, Fo non ha lasciato eredi, non ha creato una “scuola”, perché non aveva alcuna eredità da trasmettere.
Bidussa queste cose le ha dette in maniera certamente meno brusca di come le sto riportando io, ma la sostanza era questa. Ha anche aggiunto che ciò vale un po’ per tutto il lascito culturale sessantottesco: dobbiamo ammettere che in fondo ricordiamo solo i nomi di alcuni capi carismatici, quasi nulla dei movimenti che stavano alle loro spalle, e nulla del tutto dei loro programmi, sempre che ne avessero uno.
Quanto al Nobel, per quel che vale un riconoscimento del genere, e tanto più in letteratura, la spiegazione data da Bidussa mi è parsa senz’altro credibile: assegnando il premio a Fo si è voluto affermare che la letteratura non è solo quella inscrivibile nei “canoni” e nei generi tradizionali, ma vanno comprese in essa anche i frutti di altre modalità espressive, che non passano necessariamente solo per la pagina scritta, Cosa poi riaffermata qualche anno dopo, col conferimento del premio a Bob Dylan. Insomma, mi è parso un modo elegante e non ipocrita di rimettere ordine nelle cose.
A margine mi permetto però di aggiungere un paio di considerazioni molto personali.
Quanto Fo fosse convinto della sua centralità intellettuale e politica (pardon, sua e della moglie, Franca Rame, a sua volta assurta a icona del femminismo) l’ho constatato in occasione di una polemica da lui scatenata nei confronti de Il manifesto. Mi spiace non aver conservato quel testo, perché sarebbe stato sufficiente riportarlo integralmente per dare un’idea dello sbraco cui può indurre l’eccesso di autostima. L’accusa rivolta al quotidiano, e scagliata con toni di insopportabile supponenza, era di non aver riservato uno spazio adeguato, in uno speciale per il decennale o il ventennale del Sessantotto, al peso politico rivestito dalla sua militanza teatrale. Una rivendicazione che di per sé avrebbe potuto essere solo patetica, ma in questo caso riusciva disgustosa per la presunzione e l’arroganza messe in campo.
Mi rimane una domanda: è mai possibile che la sinistra abbia continuato costantemente ad aggrapparsi a riferimenti “culturali” fasulli come i De André, i Gaber, i Fo, oggi gli Zero Calcare, per non parlare di Grillo o di Gino Paoli, ad accreditare un significato e un valore politico ad espressioni che se vogliamo, con molta larghezza, possiamo definire “artistiche”, ma che non scuotono e non risvegliano le coscienze, e anzi, le aiutano ad addormentarsi nella convinzione di aver già appreso per una via facile e piacevole come va il mondo e come dovrebbe andare? Che non si sia mai resa conto di come questa sia una clamorosa legittimazione del ruolo di spettatori che il sistema, e tanto più quello moderno, ci riserva?
Lo so, è sempre stato così, già gli ateniesi andavano ad assistere alle tragedie di Euripide e alle commedie di Aristofane, e attraverso quelle si facevano un’idea: ma intanto non avevano praticamente altre fonti cui abbeverarsi, e comunque non hanno mai candidato qualcuno di costoro a cariche pubbliche o al ruolo di arconte. Che poi il bacino nel quale viene arruolata la classe politica odierna non offra granché di meglio, è un altro discorso: ciò che intendo io è che varrebbe almeno la pena di non legittimare in modo così spudorato la resa al trionfo della spettacolarizzazione.
Torniamo però al nostro. Rischiando consapevolmente una caduta di stile, perché può sembrare che mi diverta a “smitizzare” gratuitamente le icone della sinistra, e a farlo al riparo sia di una distanza temporale che della irrilevanza delle mie opinioni. Il problema in realtà, come dicevo sopra, non è che Fo mi stia simpatico o meno: il problema sta piuttosto nel fatto che attorno a figure come la sua ancora oggi la sinistra, dalla quale nella mia ingenuità mi attenderei almeno un po’ di trasparenza, costruisca invece narrazioni apologetiche degne delle vite dei santi padri medioevali o delle mitologie staliniane e maoiste del secolo scorso, applicando gli stessi modelli censori o panegirici.
Un esempio? La prima voce che mi compare sul monitor in una ricerca sul rapporto di Fo con la politica presenta un pezzo tratto dal blog The vision. Nella nota biografica si dice: figlio di un capostazione che durante la seconda guerra mondiale venne coinvolto nella Resistenza contro i nazifascisti. Esatto. Del fatto però che lo stesso Dario venne coinvolto, ma sul versante opposto, in quanto volontario nelle milizie repubblichine di Salò (le brigate Nere, per intenderci), e che abbia giustificato poi questa sua adesione dandone almeno cinque motivazioni diverse (non ultima, quella di aver agito come quinta colonna della resistenza), non una parola. Per la carità: aveva diciassette anni, e so per esperienza quanto si può essere ingenui a quell’età, o nel suo caso indottrinati sino al midollo (ma il padre non era nella Resistenza?), e se avesse semplicemente ammesso “si, ero stupido, credevo di lottare contro le plutocrazie” lo avrei capito e persino in parte giustificato: ma raccontare panzane per ripulirsi l’immagine, questo mi sembra testimoniare di una assoluta malafede. Così come tutta la successiva militanza politica, a ben guardare, conferma l’ansia continua di protagonismo scenico. Una recita ininterrotta, che lo ha visto tra le altre cose avallare la lettera che ha condannato a morte Calabresi e prestare la voce al video di Giulietto Chiesa (altro buono, ma senza nemmeno un briciolo di “genialità”, vera o presunta) nel quale si denunciava il “complotto” imperialista all’origine dell’11 settembre (dopo aver sostenuto in un primo momento che l’attacco era la giusta reazione dei poveri contro i ricchi d’Occidente).
Una coerenza comunque gli va riconosciuta: è rimasto un convinto odiatore degli ebrei per tutta la vita: temo si rammaricasse di non averne rastrellati abbastanza quando gli si era presentata l’occasione.
Ecco, adesso mi sento davvero in colpa: ma solo per aver dato troppo spazio a uno così, che mi rappresenta tutto ciò che non sopporto della società in cui vivo, e prima ancora di quella brancaleonesca armata di millantatori e opportunisti che stanno usurpando e sputtanando idealità alle quali rimango ostinatamente aggrappato: quelle che un tempo, pur a livelli diversi di comprensione e di convinzione, animavano una vera “sinistra”.