Disciplinare dello haiku

di Mario Mantelli, 28 marzo 2025  (terminato di scrivere il 30 ottobre 2012)

Tra pochi giorni correrà il quinto anniversario della scomparsa di Mario Mantelli. Uso “correre” non a caso: questi cinque anni sembrano essere letteralmente volati, e non mi hanno affatto abituato alla sua assenza (così come penso accada per tutti i suoi amici). Immagino che in realtà non ci abitueremo mai: perché Mario rimarrà sempre il convitato arguto e stimolante nei nostri incontri e nei nostri pensieri.
Per continuare a rivivere con lui momenti di puro piacere penso che nulla valga meglio della rilettura dei suoi elzeviri, dei libretti curatissimi che editava in esemplari limitati per la sua personale casa editrice, il Bravo Merlo, delle introduzioni a opere altrui o dei commenti a quei piccoli “eventi di provincia” che sapeva davvero trasfigurare e rendere significativi; nonché naturalmente dei suoi libri di ricordi, che sono in realtà dei sorprendenti trattati di semiologia.
Una buona parte di questi materiali è già presente sul nostro sito. Ci proponiamo di completare al più presto il recupero di quelli restanti (impresa non da poco, perché Mario ha scritto moltissimo e ha disperso un po’ ovunque i suoi interventi). E partiamo alla grande, dall’ormai quasi introvabile Disciplinare dello haiku. Per chi già lo conosce sarà una gradevole rimpatriata: per gli altri sarà occasione del felice incontro con una intelligenza umile e straordinaria.
di Paolo Repetto, 28 marzo 2025

Disciplinare dello haiku

 

 

Haiku: … genere poetico giapponese, ha accanto all’epigramma la forma forse più concisa che esista: 5 – 7 – 5 sillabe: una brevità che può creare un capolavoro come pure un effetto di tela imbrattata. (Cento Haiku scelti e tradotti da Irene Iarocci, Longanesi, Milano 1982)

 

Freschezza dello haiku

Come le stelle
sul cofano, nel freddo,
le orme del gatto
scadenza: 20 marzo

Compiuto il verde
ben presto la mattina
chiacchiera il merlo
scadenza: 20 giugno

S’apre l’estate,
più forte esala in via
l’odor di cena
scadenza: 22 settembre

Ad un balcone
scoloriti colori.
Alzo il bavero
scadenza: 20 dicembre

 

Gentile Signore/a,
mi fa piacere che Lei abbia colto in tutta la sua rilevanza il problema della certificazione dello haiku. Sarebbe urgente al proposito stilare i punti essenziali di un disciplinare che ne regoli la denominazione d’origine controllata e garantita (docg).
Va detto in primo luogo che lo haiku, pur non essendo soggetto a scadenza, deve essere un prodotto contrassegnato dalla freschezza, per cui sarà opportuno che ne venga dichiarata in calce non solo la stagione e il kigo (cioè il riferimento stagionale, che può essere un animale, una pianta o altro), ma direi anche il giorno della sua stesura.

Come per il moscato può aversi il corrispettivo passito lasciando essiccare l’uva in appositi locali o sulla vite anche per lungo tempo fino alle gelate, così saranno ammessi haiku che potremmo definire conservati. Ad esempio, se accanto al caminetto o più prosaicamente al calore del termosifone, mi viene da pensare ad uno haiku sulla cinciallegra che canta nel viale davanti a casa mia o sulla raccolta del grano nella piana di Marengo, dovrò specificare la data e il luogo effettivi della stesura, ma sarebbe opportuno dare un’idea del mese o della stagione rammemorati, usando espressioni del tipo: “composto accanto al caminetto riandando col pensiero a un primo annuncio di primavera” oppure “composto stravaccato in poltrona con i piedi sul termosifone, ricordando un caldo giugno nella Fraschetta”. Il tutto contrassegnato dalle date giuste.
Tale ipotesi non è comunque da ritenersi la prassi consueta. Lo haiku va, come si usa dire, “cotto e mangiato”, o meglio, usando la più appropriata metafora del frutto, “colto e mangiato”. Vedremo in seguito qualche esemplificazione.

Diciamo al momento che il processo di produzione ideale dello haiku ha un andamento di questo tipo.
Per prima cosa rimango colpito da un’emozione improvvisa causata da un evento che segna l’inizio o l’intenso manifestarsi di una stagione oppure sono sorpreso da un’esperienza sensoriale, magari rapida e sfuggente, ma capace di richiamare sensazioni profonde e lontane oppure ancora mi accorgo di qualcosa che si collega inevitabilmente a un senso transeunte del Tutto.
A questo segue il desiderio di catturare con un pugno di parole questo tipo di emozioni (che sono sempre totalizzanti) perché ne rimanga qualcosa. Nello stesso tempo mi rendo conto che un frammento di prosa o una tradizionale poesia già costituirebbero un discorso troppo lungo e finirebbero per annacquare quel sentimento puntiforme che ho provato poco prima.
Mi accorgo, un po’ confusamente, di essere alla ricerca di un corrispettivo oggettivo di quel momento magico. Lo haiku ha qualcosa di questo corrispettivo: è come se fosse un piccolo oggetto, fatto com’è di sole 17 sillabe (un quinario, un settenario, ancora un quinario). Se è steso in bella calligrafia su un pezzetto di carta, finisce per assumere tutte le caratteristiche di un oggetto-ricordo che possa continuare l’evocazione del momento ineffabile che ho provato.
Per oggetto-ricordo intendo un oggetto d’affezione, di dimensioni tali che uno lo possa sempre portare con sé o lo possa tenere come soprammobile, come succede per i souvenirs di viaggio, per i portafortuna e le palline anti-stress, per i taccuini e i libri in sedicesimo, insomma per tutti gli indispensabili oggetti di sopravvivenza psicologica che usiamo portarci dietro. Ognuno di questi oggetti-ricordo ha avuto il suo momento particolare di freschezza, che abbiamo avvertito quando c’è stata la sorpresa della sua scoperta (il ritrovamento, l’acquisto), quando, diciamo così, tale sorpresa investe ancora con la sua aura la funzione di ricordo che avrà l’oggetto: pensiamo alla gioia un po’ euforica che segue il momento in cui abbiamo raccattato da terra una bella pietra che ci è piaciuta, la gioia di aver trovato un tesoro, che è cosa diversa dalla gioia di possedere un tesoro.
Lo haiku, in questo simile al taccuino di schizzi di viaggio, può avere momenti di una freschezza ancora più piena perché ricca di ben tre elementi legati fra loro: l’evento (dell’emozione provata), la produzione (cioè la stesura dello haiku) e poi il ricordo, tre fattori che arricchiranno il presente di quella determinata giornata, lo dilateranno di echi.
Ho trovato un esempio di tutto ciò in un ritaglio di giornale (anche il ritaglio di giornale, se eseguito e conservato con cura, è un oggetto-ricordo). Si tratta di un articolo di Bruno Ventavoli (Tuttolibri, supplemento de La Stampa del 6 febbraio 1993). Viene riportata la seguente testimonianza di Vittorio Maria Brandoni, che tenne il primo corso di haiku in italiano, di cui si dà notizia nell’articolo: “Ero su un pullman a Kyoto e c’era un’anziana signora malferma sulle gambe. Mi sono alzato per cederle il posto anche se sapevo di comportarmi in maniera diversa da un giapponese. La regola impone alle donne di stare in piedi. La signora mi ha ringraziato molto. Ha armeggiato nella borsa, ha estratto un piccolo cartoncino, una penna e ha vergato sopra degli ideogrammi. Prima di scendere me l’ha regalato. Era un Haiku, immediato, spontaneo. Aveva voluto esprimere la sua gratitudine, per sempre, tramite la poesia”.
Dette queste cose sul valore dello haiku nel suo complesso e in particolare sulla sua freschezza, un disciplinare sulla docg (denominazione d’origine controllata e garantita) dovrebbe prendere in considerazione i terreni favorevoli alla sua produzione e così pure i tempi e le stagioni, dovrebbe inoltre fornire una campionatura che illustri i modi di produzione e infine dovrebbe fare qualche cenno, per così dire, al packaging.

Terreni dello haiku

Questa nota è dedicata a chi intende comporre haiku.
Perché lo haiku si sviluppi vigoroso e senza magagne, al suo cultore sarebbero consigliabili, nel tempo libero, alcuni hobbies. Essi richiederebbero due difetti (nel nostro caso pregi) che sono in contraddizione, cioè a dire il Nostro dovrebbe essere contemporaneamente un presbite e un miope della percezione.

 

Terreni della presbiopìa percettiva

DELLA LUNA

Chi ambisce a comporre haiku dovrà essere lunatico alla Baudelaire e perciò dovrà andare a rileggersi con attenzione “I benefici della luna” nei Piccoli poemi in prosa. Dovrà essersi posto il problema dell’uguaglianza o della diversità della luna a seconda dei luoghi e aver optato in cuor suo per la prima: ha visto sorgere la luna sopra il cavalcavia ferroviario della sua città di provincia e ha pensato che immaginare quella luna identica in quello stesso momento a Praga o a New Orleans nobilitasse molto quel cavalcavia e quell’ora magica (non rendendosi conto che l’astronomia propone risultati visivi diversi, ma il Nostro, non dimentichiamolo, ha sempre la testa sulla luna). Ha inoltre la serena e segreta consapevolezza che il primo haiku della sua vita era di Bashō, stava nell’antologia delle medie del fratello maggiore e gli fu letto (perché non andava ancora a scuola) cogliendo famigliarmente lo humour che vi è contenuto:

Nessuna faccia
graziosa nel gruppo
che guarda la luna
(traduzione di Giuseppe Rigacci)

Va fatto notare che mentre per i giapponesi contemplare la luna fa parte quasi di un rito, da noi chi guarda la luna ha sempre qualcosa del licantropo e questo ostacola la pratica di contemplazione dell’astro, molto più diffusa nell’Ottocento (un nome per tutti: Leopardi).

 

DELLE NUVOLE

Il compositore di haiku dovrà esercitarsi, qualora non vi sia portato spontaneamente, ad essere un acchiappanuvole. Deve fare orgogliosamente sua la massima di Chang Ch’ao: “Soltanto coloro che prendono comodamente quello per cui si affaccenda la gente del mondo, possono affaccendarsi per quello che la gente del mondo prende comodamente”. Quindi, animo! Dedicarsi ogni volta che si può a contemplare le nuvole. Vanno bene le nuvole dipinte dai nostri grandi Quattrocentisti o quelle borghesi e misteriose di Magritte, ma la realtà, ammettiamolo, certe volte è insuperabile, quando ti butta su per il cielo quegli enormi cumuli di panna o quei giganteschi cavolfiori! E, appena si sente il bisogno di classificare ciò che abbiamo visto, sarà bene ricorrere, piuttosto che ai trattati scientifici sull’argomento, a Il nuvolario. Principi di nubignosia, di Fosco Maraini, se è possibile nell’edizione Semar (collana “Visioni” n.7), Roma 1995, probabilmente uno degli ultimi libri “ordinari” con fettuccina segnalibro incorporata.
Anche per le nuvole bisognerà porsi il problema: sono uguali dappertutto? Nel senso che esistono nuvole che possono formarsi soltanto in Piemonte o nella Galizia oppure, sotto determinate condizioni, possono formarsi sia in Piemonte che nella Galizia? Personalmente propenderei per quest’ultima ipotesi, ma ci ho ripensato da quando ho letto l’opinione di Saul Steinberg: “C’è anche un’equivalenza fra il paesaggio e il modo in cui si riflette nelle nuvole: una forma di riflesso della natura. In Arizona, nel deserto dei Navajos, dove si ergono gigantesche formazioni di rocce rosse, le nuvole assumono delle forme ugualmente monumentali. Anche i laghi producono le loro specifiche nuvole” (Riflessi e ombre, Adelphi, Milano 2001).

DEL GUARDAR LONTANO

L’autore di haiku dovrà possedere un imprinting delle meraviglie del guardar lontano. E chi non lo ha avuto? Dovrà avere pratica di orizzonti. E chi può sfuggire ad essi? Potrà essere la distesa del mare o una sconfinata pianura e sappiamo che sono ancora più presenti dietro a una siepe o a un monte. Tuttavia avrei una leggera predilezione per colline e montagne lontane, là dove si possa far pratica dell’“azzurro color di lontananza”, come dissero Pascoli e Gozzano e come intendeva dire molto tempo prima Leonardo con la sua prospettiva aerea. Da noi, dalle parti di Alessandria d’Italia, sono gli Appennini a presentarsi più sovente azzurri in lontananza, mentre le Alpi, bianche e rosa al mattino come una sposa novella, solo a sera si presentano in un azzurro cupo, vedovile, che tende al viola. E ancora mi sovvengono i nostri Quattrocentisti, così esperti di lontananze da collocare sulle colline dei loro sogni, laggiù, dietro Madonne e Santi, dei piccoli colossei in miniatura o dolcissime elicoidali torri di Babele, graziose come lumachine, quasi volessero dirci che la lontananza è abitata di utopie e di sogni del passato.

DEL GUARDAR PER ARIA

Il facitore di haiku a volte lo si riconosce dall’abitudine che ha di guardare per aria. Sta allenandosi: spesso conta le sillabe, ma più sovente si tratta di un allenamento all’ispirazione. I poeti, specialmente quelli contemporanei, guardano per aria. Montale ce lo fa capire quando ne I limoni dice: “… nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra/ soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase”.
Giova molto all’ispirazione guardare per aria: si scoprono sempre cose curiose fra i cornicioni e le grondaie. Sono molto interessanti anche i comignoli. Ne esistono ancora di mattoni oppure ci sono quelli cilindrici in cotto, che paiono piccole case di gnomi che hanno abbandonato il sottobosco, per andare in una loro villeggiatura montana sui tetti. Scomparse quasi ovunque le banderuole, si sono conservate invece molte croci in ferro battuto, aeree, leggere, alla sommità di piccole cappelle campestri o sugli oratori delle confraternite. Anche certe chiese dei nostri paesi e delle nostre frazioni hanno di queste croci, fatte di linee di contorno e a volte raggiate. Per queste chiese le dimensioni sono maggiori e in un nostro sobborgo ne esiste una che si può ammirare da vicino, forse caduta dalla sommità o pericolante e successivamente murata sulla parte inferiore della facciata. Appare grande e questo ci fa stupire, perché tutte le cose che stanno in alto ci appaiono piccole; ha qualcosa dell’angelo ferito e caduto, ci fa capire meglio il mistero del guardare per aria. Questo mistero ha le sue radici più profonde in chi guarda il cielo di notte e si ferma a contemplare astri, stelle cadenti e massimamente la Via Lattea. Chi finirà per comporre haiku ha nella sua memoria la prima volta che gli è apparsa la via lattea su un’aia contadina, fuori da ogni inquinamento luminoso, e associa questa visione-ricordo ad una rappresentazione egizia della volta stellata a forma di ippopotamo o di rapace dalle grandi ali, non sa bene (ma deve trattarsi piuttosto di una sua elaborazione fantastica).

Terreni della miopìa percettiva

DELLE ERBE SPONTANEE

La vocazione di chi costruirà haiku è generalmente indicata dal felice rapporto che ha intessuto da bambino con le erbe spontanee. Da bambini sono delle interlocutrici privilegiate perché si offrono allo sguardo piuttosto vicine. Lo stupore aumenta a trovarsele in luoghi incongrui, come fra le traversine della ferrovia o tra le commessure dei marciapiedi ma, insomma, guardare da bambini con attenzione alle erbacce non può che portare da adulti a due esiti: mettere assieme begli erbari oppure comporre haiku. Le erbe che più si prestano sono a volte quelle più umili e insignificanti, come nel famoso esempio di Bashō:

Allungo gli occhi:
sotto la staccionata fiorisce
la borsacchina
(traduzione di Elena Dal Pra)

Ma ispirano molto anche quelle erbette di forme graziose che spuntano nascoste negli angoli più appartati e umidi:

Strisciante eliso
cui è mancata l’aria
la cimbalaria

Come non parlare poi del senso di sconfinata libertà che danno le ombrelle della carota selvatica; ne parleremo infatti in un apposito paragrafo.

DEGLI ANIMALI AMATI DA ALCUNI INCISORI

Favorisce la riuscita dello haiku l’incontro con quei piccoli animali che, se ci fate caso, sono quelli preferiti da alcuni incisori perché, se li osservate bene, sono un po’ come dei gioielli e quindi sono un modello ideale da ritrarre da parte di quegli artisti idealmente miopi che sono gli autori di acqueforti. Parliamo della Wunderkammer, diffusa in natura, e vivente, delle lumache, lucertole, ranocchie, rospetti, farfalle, persino certi ragni. E poi il merlo, che fa di tutto, con il suo canto, per richiamare all’opera l’autore di haiku.

DEI PROFUMI NELL’ARIA E DEI COLORI NELLA LUCE

Del potere evocativo dei profumi è già stato detto tutto e non vi è nulla da aggiungere. Sottolineeremo ancora una volta la loro capacità di rievocare il passato e di annunciare le stagioni, quindi il loro altissimo valore haikugenetico. Le fioriture e i frutti, da febbraio a ottobre, mandano messaggi odorosi che marcano i mesi, per cui febbraio è il calicanto, giugno è il tiglio, questo per lo meno nella nostra fascia temperata, mentre settembre è l’uva fragola. I colori sono a volte il loro corrispettivo visivo. Fate attenzione a luglio, se per caso è il vostro mese di nascita. Ci vuole quasi una vita per scoprirlo, ma il profumo di luglio è un profumo permeante e denso, un misto di pesca matura, di petunia e un pizzico di bella di notte dopo il tramonto e l’innaffiatura, mentre il colore di questo mese è l’arancione, a metà strada fra quello dell’albicocca tardiva e quello della bignonia.

DEI MODI PER ASCOLTARE IL TEMPO

C’è stata un’esperienza fondamentale per il compositore di haiku, specialmente durante la sua infanzia: i momenti in cui non succedeva assolutamente nulla: pause pomeridiane, pomeriggi oziosi oppure, a tutt’oggi, quei momenti in cui si rimane incantati a fissare l’acqua che scorre, il fuoco che si muove a modo suo, la fila implacabile delle formiche. E poi c’è il vento, la brezza: in questo caso veramente si sperimenta anche il suono, più o meno percepibile, il rumore del tempo, ci si interroga sul suo modo di passare o di ritornare.

 

Stagione e pratica dello haiku

Lo haiku è buono per tutte le stagioni, anzi è nato proprio per celebrare tutte e quattro le stagioni, tant’è vero che deve contenere dentro di sé il kigo che è, abbiamo visto, un riferimento alla stagione trattata. Tuttavia mi si permetta di indicare una predilezione compositiva per quel periodo che va all’incirca da metà aprile a metà giugno, il periodo dell’anno in cui l’aria è più profumata e i verdi sono più freschi e luminosi, che potremmo definire della seconda primavera. La pratica dell’haiku che verrà da adesso in avanti illustrata andrà vista come la preparazione, la celebrazione e la conseguenza di questo periodo, così come si sono configurate per me nell’estate 2012 appena trascorsa, come se si trattasse di un raccolto (agricolo) di quest’anno.

1)

È un periodo dell’anno (questo della seconda primavera) che si preannuncia fin dai freddi tremendi che possono esserci ancora alla fine di febbraio, come è successo quest’anno. Tuttavia incomincia ad esserci qualcosa nell’aria. Sappiamo di stare ancora dentro al mese delle febbri, ma uscendo per andare verso il supermercato scorgiamo dietro la sua mole delle nuvole rosa. Tira vento, ma quel rosa è come se preannunciasse qualcosa. Il vento sembra rafforzare quel qualcosa, soffiando dietro le nuvole verso di noi. Vorrei esprimere il concetto che, nonostante faccia ancora freddo, c’è come l’inizio di un cambiamento, ma non mi ci sta la parola “ancora” dopo le cinque sillabe di “vento di febbre” del primo verso. Non parliamo poi dell’indicazione “dietro le nuvole rosa”, che mi porterebbe via da sola ben otto sillabe. E poi bisogna che ci metta un verbo, per dire quello che mi è successo. Risolvo così:

Vento di febbre
che chiama di lontano
la primavera
(26 febbraio)

Spero che in quel “di lontano” il lettore scorga le nuvole rosa.

2)

Uno sfondo d’Alpe ancora innevato, illuminato dalla luce rosata del mattino mi appare ad aprile avanzato e questa volta non è l’avanguardia della primavera, ma la lenta, lentissima ritirata dell’inverno. Là sui monti c’è ancora la neve mentre qui, nella pianura è tutto un trionfo smaccato di verdi teneri e di fioriture. Il contrasto è ora quello fra la festa di primavera, pagana, boeckliniana, che mi circonda e quell’orlo rosato, così simile a certi sfondi montuosi della pittura zen, lontananza che sperimentavo fin da bambino guardando in direzione del castello di Redabue, dalla spianata rasserenante che fa da sagrato infinito al cimitero di Oviglio.

Qui regna Aprile.
L’orlo dei monti è un soffio
rosa lontano
(21 aprile)

Sono contento di aver trovato la similitudine del soffio per quel modo che ha certa pittura orientale di rendere la lontananza delle montagne. Sono soddisfatto anche per la lieve ambivalenza di quel “rosa lontano”, dove appositamente non ho messo la virgola fra i due termini, dato che l’espressione può essere interpretata come una coppia di aggettivi, ma anche come un aggettivo per così dire unico, denotante una qualità del colore, un “rosa lontano” così come esiste un “rosa antico”, una specie di rosa “color di lontananza”.

3)

Il 4 maggio di quest’anno mi accorgo della piena fioritura delle gaggìe mentre sono ancora splendenti i fiori degli ippocastani. Mi pare un fatto piuttosto insolito. Da come mi pare di ricordare, i due generi di fioritura hanno tempi un po’ diversi. Probabilmente il freddo che c’è stato fino a non molto tempo fa ha fatto ritardare gli ippocastani e poi il caldo che è esploso recentemente ha fatto anticipare le gaggìe. Fatto sta che mi pare un’emozione mai provata; ma come renderla con sole diciassette sillabe? Mi aiuta la forma dei fiori: in fin dei conti sono tutte due forme a grappolo: sia il cono a punta dell’ippocastano (un grappolo per così dire rovesciato), sia la forma più sfrangiata e ricadente della gaggìa. In comune hanno il colore bianco e poi tutta quell’aria euforica di festa al solo vederli! Certo, adesso ci sono! Si tratta di una vendemmia speciale, una vendemmia di grappoli bianchi, una vendemmia di primavera, una vendemmia in bianco!

L’ippocastano
vendemmia in bianco oggi
con la gaggìa
(4 maggio)

4)

Ripercorro, con il preciso scopo di ritrovare delle vecchie emozioni, la strada principale del paese, dove c’erano il negozio di commestibili, la macelleria, la farmacia, la società operaia di mutuo soccorso, il barbiere, l’ufficio postale. In lontananza prosegue più solitaria (da sempre), costeggiando la casa canonica lungo la salita che porta alla chiesa. Questo tratto mi offre la visione beata di una carreggiata metà all’ombra e metà al sole, con uno stacco netto che, chissà perché, mi riporta indietro nel tempo; una visione da ora meridiana.
A un certo punto rimango colpito da un odore di minestrone, anzi di pomodoro che cuoce nel minestrone. Ah, allora c’è ancora un po’ di vita in questi paesi! L’odore di cucina è sempre rassicurante e rende disponibili, disarmati: l’abbandono al passato diventa più intenso.
 Ma come trasferire tutto questo in diciassette sillabe? Devo dire un sacco di cose: che mi trovo in paese, che inseguo con gli occhi quel confine dell’ombra sulla strada, che l’azzurro riempie di sé gli spazi non occupati dalle cose e poi c’è da dire che la parola minestrone, essenziale in questo caso, porta già via da sola quattro sillabe. Sembra proprio impossibile.

Strade in paese
tra l’azzurro e l’odore
di minestrone
(14 maggio)

Ho contravvenuto al divieto che Borges impone per la parola “azzurro”, assieme a “ineffabile” e “mistero” (“Esecuzione di tre parole”, da Inquisizioni, Adelphi, Milano 2001). Ma qui mi è parso nodale e spero che la combinazione strade-azzurro sia come un liofilizzato per il lettore che, aggiungendo l’acqua della sua fantasia, ricrei la bibita fresca del paesaggio che ho visto io: contrasto luce-ombra, ora meridiana, paese dell’infanzia e tante altre cose.
Mi sono dispiaciuto all’inizio di non poter usare “strade di paese” (sarebbe diventato un senario anziché un quinario), ma poi ho trovato l’inevitabile “strade in paese” (quinario) più dotato di sprezzatura (ci sono strade in paese … in quel paese che tu lettore e io sappiamo bene …).

5)

È da ieri che agisce in me la vista dei pappi che danzano e sfuggono sul pavimento di marmo nero di un luogo che fa inevitabilmente pensare a un buio Altrove. Ero passato in paese a vedere se la bufera del giorno prima avesse fatto danni. No, non è successo niente, ma quel gran movimento d’aria ha imprigionato le lanugini del pioppo, che si muovono nello stretto ambiente con una rattenuta frenesia gioiosa come se vi volessero portare a tutti i costi la primavera. Se fai per afferrarle il movimento del braccio le allontana, come se volessero giocare. “Sfuggenti” è dunque la parola chiave, poi bisogna trovare un paragone con le cose che in natura sono più morbide e si disfano in un niente e poi ancora far capire la gioia massima che si prova di fronte a questi fenomeni fatti di cose lievi. Verrebbe:

Pappi sfuggenti
come nuvola o neve:
c’è gioia altrove?
(15 maggio)

Solo adesso, trascrivendo e commentando, mi accorgo che il subconscio ci ha messo lo zampino e riaffiora nella sua crudezza il luogo in cui ho visto i pappi e “c’è gioia altrove?”, da domanda di sfida a trovare altrove la gioia assoluta di quel momento, può diventare l’amaro interrogativo senza risposta terrena: “c’è gioia nell’Altrove?”.

6)

Quante volte il profumo dei tigli ha scatenato in me il desiderio di comporre haiku! Quante volte ne ho parlato! Tante volte che ora basta. Argomento esaurito. Ma rimane un piccolo rovello, una piacevole ossessione: la variante, nel susseguirsi degli anni, della data del primo giorno in cui si sente nell’aria il profumo dei tigli pasticcieri. Che io sappia non c’è stato mai nessuno, meteorologo o botanico, che si sia preso la briga di registrare, di anno in anno, l’esordio della fioritura del tiglio nel luogo dove abita. Eppure è un riferimento per la nostra memoria. Ad esempio, mi ricordo benissimo che nel 1964 la fioritura avvenne intorno al 15 giugno: era la lunga vigilia degli esami di maturità e attraversavo a piedi tutta la città da un capo all’altro, fino agli Orti, per consegnare degli appunti a un compagno di scuola, da cui andavo per ripassare. Ma allora il profumo è rimasto impresso perché collegato a un momento importante dello studio. Con il passare degli anni, invece, ho registrato (ma in maniera distratta e discontinua) la data del primo giorno in cui sentivo il profumo dei tigli e ne ho notato la variabilità, ritornandoci su con il pensiero come se fosse una cosa curiosa e persino importante (poi ho capito che l’importanza sta nel fatto che la fioritura profumata contrassegna lo scoccare di un altro anno e poi che questo evento avrà un numero fatalmente limitato di ritorni e perciò è tanto prezioso).

Un po’ diversa,
data del tiglio in fiore,
ad ogni anno
(6 giugno)

Lo so, sarebbe stato più elegante dire “la data del tiglio in fiore”, avrebbe fatto più “traduzione dal giapponese”, ma sarebbe stato un ottonario anziché un settenario e ho voluto attenermi rigidamente alle regole, con un vocativo in cui mi rivolgo alla data, personificandola con un po’ di retorica barocca.

7)

Nel cortile acciottolato e nelle sue parti dove furono tolti i sassi per fare un po’ d’orto cresce ogni cosa, basta che lo faccia spontaneamente: tutta colpa o merito mio. Incerto se essere seguace di Renzo Tramaglino o del guru francese del giardinaggio Gilles Clément, mi limito a tagliare l’erba e a guidare un po’ la crescita di tutto quello che spunta. Si imparano un sacco di cose sul mondo meraviglioso delle erbacce, che il languido e asettico coltivatore di rose senza profumo e di sempreverdi in similplastica ignora totalmente. È da un paio d’anni che tengo d’occhio l’erba cipollina per due ragioni: l’acuto e sempre imprevedibile odore di cipolla che si sprigiona al taglio con la falce messoria e la bellezza dei frutti, a forma di mora, anch’essi di un colore viola ma come sovrapposto tenuamente al giallo-paglia che, seccando lo stelo, diventerà predominante. Sul frutto a volte rimane la spoglia del fiore, come un’ala d’insetto dotata di uno speroncino.
È un raccolto tutto mio, buono e meritato raccolto di un coltivatore pigro che lascia fare al tempo, alla natura e alla stessa affezione di quelle piante, ogni anno, per quella determinata porzione di terreno. Raccolto-emblema di una solitudine tutta mia in quel cortile abbandonato, solitudine fantasticante su mondi chiari, che rinserrano ancora dentro di sé illusioni di futuri e di scoperte, ancora oggi!
Poi un regalo ulteriore, mentre apro la porta della macchina accucciata nel vicolo fra il portone e il muretto, butto il mazzo del raccolto sui sedili posteriori, con rimbalzo morbido, senza rompere nulla, porto a casa quel tesoro che trionferà nel vaso nordico squadrato e azzurro. Un regalo ulteriore, dicevo: è così che accolgo le prime gocce di pioggia, pioggia che arriva da quei mondi a cui stavo poco prima pensando:

Di altri mondi,
globi di cipollina,
siete i pianeti
(8 giugno)

8)

Nella fortunosa avventura di tenere erbe aromatiche sul balcone, quella che si è comportata meglio è stata la lavanda. All’inizio un ciuffetto di foglie non meglio identificate, da me qualificate con il nome, molto approssimativo, “di rosmarino, ma un po’ più grasse e chiare”. Hanno reagito bene alle innaffiature e si sono accese di steli fioriti dall’inconfondibile colore e profumo. “Accese”, ecco il termine, ma mi occorreva un paragone meno banale di quello con la luce o con il fuoco; lucciola mi è parso il termine giusto, affiorato forse per via del parallelo pianta-insetto, per l’allitterazione lavanda-lucciola, perché l’effetto di lucetta accesa veniva fuori bene alla sera, con la luce crepuscolare che smorzava le tonalità del verde delle foglie. Il primo stelo che si apriva, poi, mi aveva colpito molto e quasi emozionato.

Prima lavanda,
nel monocromo verde,
lucciola viola
(11 giugno)

9)

Sul cambiamento improvviso d’umore si potrebbero scrivere dei volumi. Tralasciamo il passaggio dall’umore sereno al veder tutto nero: lo conosciamo bene. Con un po’ di attenzione scopriamo quali siano i punti sensibili che scatenano questo cambiamento e, per quanto possiamo, cerchiamo di tenere la situazione sotto controllo. Ma il passaggio inverso, dalla depressione alla gioia, rimane un impenetrabile mistero: persino Leopardi, che un po’ si era occupato della felicità, non aveva contemplato la gioia inaspettata (e ingiustificata, o meglio, giustificata dal fatto di essere inaspettata). Qualche volta capita e vale la pena di registrare l’evento. Di malumore, senza ancora esserti ripreso completamente dal trauma del risveglio, apri la porta di casa per la prima uscita …

Scale. Al mattino.
Sùbita gibigianna,
mi cambi il cuore
(12 giugno)

La parola gibigianna, che ha il difetto di rubarmi ben quattro sillabe, ha però il pregio di indicare con precisione il riflesso di luce provocato da un vetro in movimento. La ritrovai a quattordici anni leggendo Il bel paese di Antonio Stoppani (un libro della biblioteca scolastica) e ricordo ancora adesso il piacere che provai nel constatare che un effetto così allegro di luce, tanto da essere utilizzato come gioco, aveva un nome. Vale la pena riportare l’intera nota (la 14 della Serata X, paragrafo 9), così scopriamo che ne aveva molti di nomi. La nota è apposta al termine solino: “Il barbaglio prodotto dal riverberare de’ raggi del sole sull’acqua, sugli specchi, su ogni cosa che lustri molto e si mova. Ha, nel popolo e negli scritti, di molti anni: occhibàgliolo, sguizzasole, illuminello, colombina, indovinello, lucciola, ecc. Peccato che la voce solino lo confonda con quella parte della camicia che cinge il collo. – A Milano gli danno un nome, secondo il solito, molto poetico; lo chiamano la gibigiana”.
Essendo voce dialettale settentrionale trovo giusto italianizzare raddoppiando la enne: gibigianna.

10)

Il 21 giugno, inizio dell’estate, è sempre un momento fatidico, come un compleanno: verrebbe voglia di passare oltre e di pensare ad altro. Può aiutare molto l’esplosione del caldo, per cui l’unico pensiero è un po’ d’aria:

Inizio estate.
Il massimo regalo
un soffio a sera
(21 giugno)

Lo haiku serve anche per ristabilire un contatto: sembra fatto apposta per inviare un sms, è a misura di messaggino e mi meraviglio di non avere ancora letto che la pratica dello haiku sia stata modificata dall’uso del telefonino, ma prima o poi succederà. Se poi, come in questo caso, si sa che la persona che lo riceverà è solita recarsi la sera del solstizio d’estate in un luogo deputato, come faceva Bashō con la baia di Uaca per salutare la partenza della primavera, allora c’è speranza che il messaggio arrivi, magari non subito, ma agisca a distanza di tempo. Lo haiku ha il tempo dalla sua.

Ho raggiunto la Primavera
nei giorni del suo partire
lungo la baia di Uaca.
(traduzione di Giuseppe Rigacci)

11)

Ritorno al paese di primissimo pomeriggio: un appuntamento con due vecchi amici per un lavoro da fare alla casa. Come è costume della gente di una volta sono arrivati in larghissimo anticipo e sono seduti sotto la lea. Fa caldissimo, ma sotto l’ombra folta delle foglie c’è, non dico fresco, ma riparo dal caldo. Butto l’occhio fra i rami là dove sono più radi e vedo le nuvole navigare tranquille, in un mare di cielo azzurro: l’estate, la piena estate, l’estate archetipica come mi si era stampata in mente proprio da quelle parti durante villeggiature lontane. Sdraiato sulla panca sotto la topia o prima ancora a comperare l’uva sotto i pergolati della casa sulla prima collina appena usciti dal paese, avevo visto quello stesso cielo carico di durata e di promesse. L’estate, con questo caldo, è ritornata per qualche attimo ad essere la stagione del futuro (sono nato all’affacciarsi della costellazione del Leone e la Terra mi ha accolto forse cuocendomi un po’: ho trovato il fatto naturale e in parte lo trovo ancora oggi).

Oltre le foglie
cielo e nubi in cottura.
Ristoro d’ombra
(11 luglio)

12)

Non è vero che il passato sia trascorso completamente: esistono ancora copiose lungo i fossi le ombrelle bianche delle carote selvatiche ed esiste ancora il medesimo incantamento che provavo guardandole quando ero bambino. Incantamento durato una vita e sempre con la stessa forte intensità. Ricordo la gioia che provai quando scoprii che quei fiori sono delle carote selvatiche (Daucus carota). Era come se qualcuno fosse venuto a conoscenza di un mio segreto e me ne svelasse le ragioni della meraviglia. Quel qualcuno era Ippolito Pizzetti, che trattava l’argomento sull’Espresso del 6 agosto1978.

Ombrelle bianche
di carote campestri.
La mente vola
(17 luglio)

Due piccole notazioni: se usavo il verso “di carote selvatiche” avrei composto un ottonario. Costretto al settenario mi è venuta in soccorso la parola “campestre”, che prepara meglio il verso seguente, sia per l’allitterazione con “mente” sia per il fatto che i campi sono adatti al volo di un qualcosa: una farfalla, un’allodola, una mente.

Seconda notazione: con “la mente vola” ho voluto indicare quella condizione di uscita dalla realtà che solitamente viene attribuita al sogno o all’assunzione di sostanze inebrianti o stupefacenti, senza pensare invece alla rêverie, cioè alla fantasticheria, al sogno ad occhi aperti, promossa a categoria massima della conoscenza da Gaston Bachelard.
A proposito: quali sono le cose che mi fanno volare la mente? Certi aforismi, le parole e le frasi del mio lessico famigliare, le illustrazioni dei libri per i ragazzi del Novecento, le erbacce, l’urbanistica sentimentale, la geografia letteraria, ogni tipo d’oggetti d’affezione, le tracce del tempo…

13)

Viene un momento, nella seconda metà di luglio, in cui sembra che l’estate sia già finita. Poi vengono delle giornate che smentiscono questa impressione. C’è un luogo che si presta a ravvedimenti di questo tipo. È la pianura dove scorre l’“Orba selvosa” di manzoniana memoria; ora la selva è ridotta al minimo e in compenso lì corre tutta una distesa di stoppie e granoturco, tutta in piano ed ariosa, dopo Portanuova andando verso Retorto. La macchina si lancia sul rettilineo e la campagna corre come in un film. Il cielo, saturo d’azzurro da non poterne più, si accompagna con le nuvole di panna all’orizzonte, mettendo insieme un bel technicolor: non solo l’estate, ma persino la vita sembra non dovere finire più.
Sì, ma se voglio comporre il mio haiku dovrò evitare le tre sillabe di “nuvole” e optare di nuovo per il più economico bisillabo “nubi”, dovrò anche rinunciare al paragone con la panna, anche se è il più verosimile, perché mi pare poco “prezioso” e originale; troverò “biacca”, un bianco usato nella pittura. Lo svolgimento della composizione non poteva che prendere allora questa piega pittorica:

Nube di biacca,
ancor lunga è l’estate
dentro il tuo quadro
(22 luglio)

Ecco che una parola, “biacca”, ha indirizzato il ricordo di un’impressione viva e solare verso un’immagine un po’ imbalsamata, un paesaggio ottocentesco ammirato in un’anticamera in penombra.
Ma, a pensarci bene, esiste un’immagine più gloriosamente estiva di “Tetti al sole” di Raffaello Sernesi? O di altre opere sue o di Odoardo Borrani? Anzi, arrivati a questo punto, sarebbe auspicabile una scuola di haiku dedicata esclusivamente ai quadri dei Macchiaioli.

14)

È pericoloso ma, per chi non cambia città, inevitabile passeggiare da anziani per i medesimi viali percorsi nell’adolescenza:

Nube sul viale
aperta su un futuro
che è già passato
(11 agosto)

È pericoloso per i compositori di haiku lasciarsi incantare sempre dalle nuvole e poi, per economizzare sulle sillabe per dire più cose, parlare di “nubi” anziché “nuvole”: il manierismo è in agguato.
Il tempo è sicuramente il contenuto principe dello haiku; non solo il tempo delle stagioni, ma anche l’attimo fuggente e sfuggente del “qui ed ora”. Però ho notato che, per lo meno a partire da Issa, compare un “terzo tempo” che è quello, praticabile solo dal vecchio, di un sentimento globale della vita come se fosse vista dall’alto o meglio come se si fosse trovato il punto di scorcio giusto per riconoscere la sua vera forma, prima nascosta in un’incomprensibile anamorfosi. Il “terzo tempo” dello haiku è quello della vita vista come totalità di breve durata, là dove infanzia e vecchiaia si toccano o dove essa si scopre nella sua sublime nullità, accomunandoci tutti. Dice Issa:

È di rugiada
è un mondo di rugiada
eppure eppure
(traduzione di Philippe Forest – Gabriella Bosco)

Già l’haiku numero 14 si riconosce in questo “terzo tempo”. Così pure i prossimi tre di cui parleremo (e forse non è un caso, perché la temperie d’agosto ha già in sé qualcosa di autunnale, più favorevole alle rimeditazioni sulla vita).

15)

Non avrei mai immaginato, prima di comporre questo haiku, che ci potesse essere una correlazione tra il portale di un garage e il grande pittore tedesco del rinascimento Albrecht Dürer, contemporaneo di Leonardo.
Scendo la rampa che porta al garage e, per una sorta di riflesso condizionato, mi viene da guardare verso l’alto e vedo che, da una bordura dello spazio pubblico trascurata, spuntano molto decorativamente delle spighe un po’ piumose: sembrano pronte per essere dipinte e il più adatto a farlo sarebbe stato, a quanto ho visto e ricordo, proprio Dürer. Solo che poi, documentandomi, mi rendo conto che si tratta del pabbio comune (Viridis setaria), che mi viene dato come originario dell’America. Quindi è difficile che Dürer l’abbia dipinto o disegnato. Ma che importa: ciò che conta è l’amore per le erbe spontanee, che ci commuovono!

Quel ciuffo d’erba:
ha consolato Dürer,
parla a me ora
(18 agosto)

16)

Lucerta ferma
sul consunto portone:
chi è più antico?
(19 agosto)

Varrà la pena di notare come in questo caso ci sono tre tempi espliciti: l’attimo del “fermo immagine” della lucertola, i milioni di anni che evoca l’animale, dinosauro in miniatura, e il tempo più che centenario del portone avito; poi, implicitamente, ci sono tutti i decenni che si sente addosso l’autore. Il termine “lucerta”, che il Devoto-Oli dà come arcaico, poetico e dialettale, mi ha fatto risparmiare una sillaba e mi ha fatto rientrare nel quinario. Stavo già pensando di sostituirlo con “ramarro”, ma sarebbe stato più improbabile e meno realista, sebbene più prezioso.

17)

Suon di campane,
mattino d’agosto.
Pasque lontane!
(6 settembre)

Esempio insolito di haiku “antedatato” (avevamo parlato all’inizio di haiku postdatato, che è quello del ricordo). Qui, invece di parlare di un’emozione provata tempo prima e ricordata a settembre (quindi postdatata), si parla di un’emozione che si prova a settembre ma, viste queste estati protratte (da grande cambiamento climatico in atto), è forse più propria di un agosto declinante e quindi si attribuisce ancora all’agosto appena trascorso. Da notare però che il mattino è già fresco. È abbastanza importante, tant’è vero che avevo impostato il settenario così: “fresco mattin d’agosto”. Ma, passi per “suon”; non si può poco dopo dire “mattin” per risparmiare una sillaba e non si può dire “mattin” in assoluto: è ottocentesco, anzi è parodia dell’Ottocento.

In questo testo sono riassunti i tre tempi dello haiku:
il qui e ora: il suono delle campane;
la stagione: il primo fresco d’agosto richiama la lontananza temporale della Pasqua, che sta agli antipodi dell’agosto, ma in un clima che le si avvicina;
il “terzo tempo”, quello esistenziale complessivo: le Pasque lontane sono quelle dell’adolescenza, in cui molto più forte era il sentimento di questa festa. E forse, ai fini della riuscita dello haiku (finora non ne abbiamo mai parlato), la rima aiuta (campane-lontane).

18)

Alla base di questo haiku c’è una visione, o meglio c’è il tentativo di rendere una visione: un esile alberello d’albicocco piantato questa primavera, che ha svolto il suo ciclo completo di albero da frutta e ora le sue poche foglie prendono un colore aranciato incredibilmente bello. Nello stesso posto, prima di lui, un vecchio albicocco contorto è seccato qualche anno fa e poi è stato abbattuto, ma mi ricordo che anche morente affrontava l’inverno con la sua scorza brunita e forte, con un vello di muschio simile ad una pelle d’orso, una specie di cappotto vegetale. Questo qui invece ha il tronco dello spessore di una canna e chissà se ce la farà a passare l’inverno. Da questo avrete capito che l’albicocco per me è una pianta totemica: è bizzarro, anarchico, a volte generoso di frutti, se non potato gareggia col tempo in altezza con la casa. Tende ad avere i caratteri di un animale, per cui l’albicocco novello (mi raccomando: varietà Reale d’Imola!), quando l’ho preso dal vivaista, mi è parso più un bracchetto o un puledrino piuttosto che un alberello. C’è da dire che la visione autunnale che ne ho avuta data a venerdì 26 ottobre, ancora con un bel sole, ma l’haiku m’è venuto in mente domenica 28, con la prima consistente ondata di vento freddo e con il cielo precocemente abbuiato dal maltempo e dal ritorno dell’ora solare. Naturalmente nell’haiku non ci sono tutte queste cose, ma se fosse minimamente riuscito dovrebbe farle oscuramente sentire. L’haiku è un’essenza-assenza (tante sono le cose che non riescono a stare nelle diciassette sillabe!). Comunque per me il presente haiku ha un valore perché chiude questa “Stagione e pratica dell’haiku”, questa lunghissima estate.

Ai primi freddi
le foglie d’albicocco
sognano i frutti
(28 ottobre)

Lo haiku come oggetto e packaging dello haiku

Consiglierei di scrivere lo haiku con inchiostro nero, con un pennino tagliato in modo che la punta sia larga un po’ meno di 2 mm. Personalmente ho adottato da una vita una pseudo-calligrafia che mi permette di scrivere il normale corsivo che abbiamo imparato tutti alle elementari (ora non più?), ritrovandomi ugualmente l’effetto di una piacevole alternanza di tratti fini e grossi, senza stare a “costruirli” come succede nella calligrafia vera e propria. Il segreto sta in un certo uso delle grazie. Queste semplici grazie “fanno calligrafia” al punto che riescono a nobilitare persino una scrittura a biro, che è il massimo del segno uniforme. Mi ispirai al Berling Italic di un catalogo Letraset. Ma se volete applicarvi un po’ alla calligrafia dedicatevi a quella “rotonda”, facile da tracciare, caro retaggio della scuola italiana dei nostri padri e dei nostri nonni, indispensabile per fare una “e” accettabile anche per la mia pseudo-calligrafia, che altrimenti produrrebbe “e” goffe e scomposte.

Oppure: come non detto. Usate la scrittura che vi viene ma non scrivete, vi prego, sulla carta pesante per fotocopiatrici e stampanti da 80 grammi al metro quadrato, quella che vi ritrovate dappertutto in risme: è indigesta. Usate l’extra strong (da 60 grammi), che una volta era la più diffusa per via delle macchine da scrivere ed ora si trova in block notes. Comunque con un po’ di buona volontà potete trovare persino nei supermercati carta da 55 grammi (sempre in block notes). Ne guadagnerete in leggerezza. Ricordatevi che se la prima qualità dello haiku è la freschezza, la seconda è la leggerezza.

Sarà molto elegante uno haiku scritto su un foglio quadrato, che ricaverete facilmente dal formato A4, che è quello in cui si presentano i fogli che abbiamo indicato (210 x 297 millimetri). Parliamo quindi di un quadrato di 21 centimetri di lato.

Arrivati a questo punto possiamo decidere che ne sarà dell’oggetto-haiku. Vogliamo farne un biglietto da consegnare? La soluzione più essenziale è quella di piegare il quadrato di partenza più volte a metà, in modo da formare un totale di 16 quadratini di 5,25 cm di lato. Si scriverà lo haiku nella campitura quadrata centrale di 10,50 cm. Si chiuderà il biglietto piegando all’interno strisce di cornice larghe 5,25 girando tutt’attorno e ottenendo un biglietto quadrato di 10,50 che racchiude lo haiku e su cui si può scrivere il nome del destinatario (l’intascatura dell’ultimo quarto del biglietto che si è venuto formando, troppo difficile da spiegare a parole, dà un tocco di eleganza in più ma non è strettamente indispensabile).

Nel caso in cui si scrivesse lo haiku sul foglietto quadrato di 21 cm di lato senza farne un biglietto ripiegato ci sarà bisogno, perché non voli via, di un ferma-haiku. Al proposito avrei in mente un’“invenzione” di design naturale italiano che, anziché egoisticamente brevettare, propongo gratuitamente a tutti i miei lettori. Ma c’è un “ma”: devono avere un bel po’ di tempo dalla loro, tempo e pazienza. Mi spiego: il ferma-haiku che propongo consiste in una triade di sassolini di dimensioni comprese fra i tre e i cinque centimetri circa, uno verde, uno bianco e uno rosso (tonalità naturali). Poggiati su un angolo del foglietto dove c’è scritto l’haiku formeranno una nota di colore arieggiante la bandiera italiana, a sottolineare la docp dell’haiku italiano. Va da sé che la provenienza dei sassolini deve essere rigorosamente da torrente o fiume nazionale, con opportuna licenza regionale e seguendo le procedure del caso secondo l’apposita legge e relativa delibera d’attuazione (alla voce relativa si dovrà specificare: per solo uso di ferma-haiku). A meno che non vi capiti come è capitato a me, ma allora la ricerca può durare anche anni, perché dobbiamo affezionarci ai sassolini.

 

Il mio ferma-haiku

(I colori dei sassolini sono nell’ordine di ritrovamento)

Rosso

Non è tanto un sassolino: è già un ciottolo a tutti gli effetti, sebbene sia da annoverarsi fra i più piccoli. Ha la forma di una sfera molto schiacciata, una specie di Terra piatta, come l’immaginavano gli antichi o meglio, visto anche il colore (un bruno rossastro con riflessi di un carnicino chiaro) un pianeta Marte in miniatura con i suoi canali e i suoi anfratti. È con me da una trentina d’anni, si tiene bene in pugno, mi è sempre servito da fermacarte, l’ho verniciato; poi, trovando molto meglio l’opacità naturale, l’ho sverniciato. L’avevo trovato scavando superficialmente nel terreno dove sorgeva la stalla della casa di campagna, che aveva il pavimento in terra battuta. Come mai fosse finito lì era un mistero, ma era bello di colore e di forma, proveniva dalle profondità della casa degli avi e tanto bastava perché diventasse un fermacarte-gioiello di famiglia, tutto mio perché il tesoro l’avevo trovato io e nessuno poteva contendermelo.

Verde

Questo veramente può chiamarsi sassolino o meglio, dato che il sassolino è quello che può entrare nella scarpa, lo chiameremo sassetto: fate conto un 5 x 3 cm x 1,5 di spessore. Sembra riprodurre il disegno della pelle del serpente (quindi potrebbe essere un ofiolite), ma è ancora più raffinato: su un fondo verde cupo, quasi nero, c’è un motivo filamentoso grigio-verde chiaro che richiama dei rami di pioppo ricchi di foglie, ricreando un’immagine simile a certe illustrazioni liberty. Lo scoprii per caso tre o quattro anni fa, davanti a un ingresso di una casa del quartiere Pista, accostato al cordolo delimitante il riquadro di terra attorno ad un albero del viale. Avevano fatto da poco lavori lì attorno e c’erano diverse tracce di pietrisco. Faceva parte di quelle tracce. Gioia, piccolo sobbalzo al cuore, come se avessi scoperto un oggetto prezioso. In effetti la bellezza è veramente singolare, ma al momento ho altri pensieri o forse voglio capitalizzare l’aspettativa verso quella gioia. Lo nascondo sotto l’erba ricadente dal cordolo: “Tanto,…a chi vuoi che interessi un sasso”. Ripasso l’indomani. Non c’è più. Panico. “Che cretino, potevo raccoglierlo ieri! Quella tua maledetta abitudine di rinviare una gioia, chissà, per il desiderio di farla durare più a lungo o, come fa il giocatore, per la soddisfazione che dà il rischio di perderla. E così sei rimasto fregato!”. Cerco meglio tutt’attorno, ma con la convinzione segreta di cercare l’impossibile. Poi, forse calmate le esigenze dell’inconscio che non vuole quella gioia, ritrovo il sassetto che stava proprio al suo posto. Ero io che avevo sbagliato a ricordare. Grande soddisfazione dopo averlo raccolto. Nel tragitto verso casa lo lavo alla fontanella: luccicante, è veramente un gioiello e in quel momento era arricchito dalla seguente morale: “Per trovare una cosa davvero meravigliosa bisogna almeno una volta credere di averla perduta”.

Bianco

Mi ha subito ricordato, fin dal primo momento del ritrovamento, un piccolo teschio (un 3 x 4 x 2,5 cm), ma con il vantaggio che l’astrazione ha cancellata ogni traccia di macabro. Ha comunque la forma di una testa primitiva, massiccia, con una bocca rinserrata e increspata come di chi è arrabbiato o sta compiendo uno sforzo e ha un unico occhio da ciclope. L’ho trovato meno di un anno fa proprio vicino alla soglia della casa di campagna, avanzo del pietrisco portato per i lavori della casa di fronte. Colpito dalla compiutezza della sua forma, ho subito pensato: “Ecco la terza pietra che manca alla mia collezione”.

Ma questo è solo un esempio. Ciascuno parta alla ricerca della propria significativa terna di sassetti per il proprio ferma-haiku, cosciente di realizzare un vero, naturale prodotto di design popolare made in Italy.

Per motivare ulteriormente chi si accinga a partire verso questa impresa propongo la lettura dei seguenti due brani: il primo paragrafo, intitolato “Una giornata di pioggia”, della Serata XVI de Il bel paese di Antonio Stoppani e il paragrafo “Il Sé: simboli della totalità” del saggio Il processo di individuazione di Marie-Louise von Franz, contenuto ne L’uomo e i suoi simboli di Carl Gustav Jung.

Nel primo brano il manzoniano Stoppani fa l’elogio per così dire opposto a quello del cielo di Lombardia, cioè parla della bellezza ineguagliabile dei selciati di Milano sotto la pioggia: “Se si vuol vedere qualche cosa di bello non c’è che tenere il capo basso e guardare il selciato. Il selciato?… Sì, il selciato di Milano … così bello, così vario, così bizzarro, che, a cercarlo, non se ne troverebbe un altro simile in tutto il mondo. E pensare che egli è tutto un musaico di pietre pellegrine …”. Nel secondo brano la junghiana von Franz ci spiega perché le pietre ci attraggono tanto: perché sono simboli del Sé, cioè, per dirla in breve, della parte più intima e ideale di noi stessi. Proprio come gli haiku.

 

Estetica delle macerie ed etica delle rovine

di Paolo Repetto, 4 novembre 2020

Tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine
Chateaubriand, Il genio del Cristianesimo
La storia futura non produrrà più rovine
Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo

Cammino con Stefano sulla cresta di una collina, nel cuneo di terra che separa ancora per un breve tratto Tanaro e Po, a nord-ovest di Alessandria. Davvero non te lo aspetti un posto così bello, a pochi chilometri da una città tanto piatta e grigia. Queste colline non hanno nulla di selvaggio, sono dolci e ordinate, completamente addomesticate dal lavoro umano lungo i secoli, e non susciteranno mai l’emozione del sublime: ma trasmettono l’idea di un rapporto armonioso con la terra. A me la natura piace anche così, mi piace vederci impressa l’impronta dell’uomo, quando è delicata, leggera.

Ma non sono qui per scoprire il paesaggio, negli ultimi tempi ho già imparato a conoscerlo bene. Cammino invece sulla scia della passione più recente di Stefano, quello per la fotografia di luoghi in rovina o abbandonati (che ha anche un nome, urbex, da urban exploration: inglese naturalmente). Mi incuriosisce. Sono quindi a rimorchio, è lui a guidare, perché ha in testa una meta. Conoscendolo, è probabile che questa meta sia a pochi passi da dove abbiamo lasciato l’auto, ma senz’altro ci arriveremo facendo il giro più lungo possibile e percorrendo l’itinerario più ondulato.

Infatti. Viaggiamo per tre o quattro chilometri su stradine o sentieri fangosi che corrono lungo i campi, fino ad arrivare ad una macchia di verde del tutto inselvatichito e apparentemente impenetrabile. Nel verde si apre però ad un certo punto un piccolo varco, impercettibile al passante distratto. Ci inoltriamo nel folto e all’improvviso, quasi magicamente, siamo di fronte all’edificio.

È una costruzione imponente, tre piani che vanno calcolati con le misure di un tempo, quindi alta ad occhio e croce almeno una dozzina di metri. Ma non è facile farsi un’idea globale delle dimensioni, perché l’edificio non è mai visibile da una sufficiente distanza. Dall’esterno della macchia risulta totalmente nascosto, malgrado l’altezza, dalle piante secolari che lo circondano. Quando si è dentro lo si può guardare solo dal basso. Non riesco a valutare lo stato del tetto, ma i muri perimetrali sono tutti ancora in piedi, e non si vedono crepe. Persino l’intonaco regge, tranne in qualche punto sulla facciata che guarda a settentrione e nel cornicione che aggetta. Tutto il resto, naturalmente, le cornici in muratura degli infissi e i fregi e gli infissi stessi, è in totale rovina. La costruzione è forse databile agli inizi del secolo scorso, magari anche alla fine di quello precedente: lo stile sta tra il Liberty e l’Art Dèco.

Entriamo con cautela, e all’interno lo stato di degrado è ancora più evidente. Calcinacci e vetri ovunque, l’intero soffitto di una sala crollato, tappezzerie a brandelli, vecchie stufe, sedie e tavoli disfatti. Rimane però ancora percettibile quella che doveva essere l’originaria ricchezza e bellezza degli ambienti: nei pavimenti alla genovese, nelle volte affrescate, nelle lunette che offrivano scorci montani o lacustri, in quel che rimane degli armadi a muro, ecc… Mi viene in mente per un attimo la Vill’Amarena di Gozzano: Bell’edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fuga delle stanze morte!
Odore d’ombra! Odore di passato!
Odore d’abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!

Il riferimento non è del tutto appropriato, ma lascia intravvedere quella che ha potuto essere la fase iniziale dell’abbandono (in verità mi viene in mente perché è una delle poche poesie che ancora ricordo, e mi ci aggrappo prima che la memoria sia ridotta come questa casa).

Non ci avventuriamo ai piani superiori perché anche le scale sono fatiscenti, una grossa crepa taglia a metà il primo pianerottolo. Meno che mai osiamo scendere in un buio piano interrato, dove non arriva luce da nessuna apertura. In realtà non credo sia poi così pericoloso, ma l’impressione è che ci si debba muovere con tutta la delicatezza possibile, per non contribuire ad accelerare lo sfascio. È una casa che incute un certo rispetto.

Stefano comincia sparare fotografie, è affascinato dalla rovina, che i raggi filtranti attraverso quel che resta delle persiane ammantano davvero di una malinconica poeticità. Io, dopo il primo momento di sorpresa, e dopo aver appagato la curiosità iniziale, sento invece montare dentro un sentimento che conosco bene. A differenza di Stefano, che è un positivista professo ma sotto sotto subisce un po’ il fascino della decadenza, io di fronte a queste cose sto male. Non accetto alcun tipo di degrado che non sia quello iscritto nei cicli naturali, perché quello non è degrado, è trasformazione. Questo edificio è invece una testimonianza culturale, è cultura che va a pezzi, e allora sento l’urgenza di intervenire, di impedire alla rovina di avanzare. È una vera e propria sindrome, che rasenta l’autismo: ovunque vada sono immediatamente colpito da quel che è fuori posto, che potrebbe essere migliorato, sistemato, recuperato (così come mi irrita profondamente, nelle persone, ogni comportamento caciarone e scomposto). Una volta a casa di un amico ho rimesso in piedi tutta una serie di anfore abbattute sparse per il giardino, per poi scoprire che erano state messe così ad arte (il senso devo ancora capirlo oggi). Dopo aver restaurato e ridipinto i settanta metri di staccionata che chiudono il giardino di mia figlia a Bournemouth, mi aggiravo per la città a verificare quante altre staccionate avrebbero avuto bisogno di un sano intervento (e sarei stato disposto ad operarlo gratis). Insomma, è una malattia, che però non si limita a un decorso passivo, ma a modo suo mi rende immediatamente operativo.

Anche in questo caso finisco subito a realizzare che si potrebbe intervenire qui, rinforzare là, recuperare materiali, ripristinare. Cerco di figurarmi come potrebbero essere i locali una volta restaurati, e come sarebbe possibile farlo con interventi minimi, puramente conservativi. Mentre Stefano continua a raccogliere immagini, ogni tanto coinvolgendomi anche, comincio a fare mentalmente i conti: un tot a metro per il tetto e per gli intonaci, un calcolo approssimativo per le decorazioni esterne e per gli infissi, una bella botta per il ripristino degli interni. Siamo, molto all’ingrosso, nell’ordine del milione di euro. E questo a condizione di mettere all’opera gente seria, ad esempio i muratori con i quali ho lavorato, fino a pochissimi anni fa, per recuperare la mia casa. Altrimenti la cifra raddoppierebbe, e il risultato sarebbe disastroso. Il tutto naturalmente evitando ogni intromissione delle varie sovrintendenze e degli svariati e altrettanto inutili altri organismi di controllo, oggi tranquillamente indifferenti davanti al fatto che un edifico del genere vada allo sfascio, ma che domani, casomai un folle decidesse di metterci mano, interverrebbero di corsa a imporgli i vincoli più stupidi e le direttive più insensate.

Lascio Stefano a finire il suo servizio e mi aggiro nei dintorni della casa: solo per scoprire che le sorprese non sono affatto finite. Come avrei dovuto immaginare, a pochi metri, ma assolutamente invisibile se non ci si avventura in un altro varco nella boscaglia, c’è un secondo edificio, molto più basso e meno elegante, alle spalle del quale è stato appoggiato in epoca relativamente recente un enorme porticato. Dal porticato si ha accesso diretto ad una cantina. Evidentemente era la residenza dei mezzadri, e deve essere stata abitata o utilizzata ancora per qualche tempo dopo l’abbandono della casa padronale: almeno sino a una quarantina d’anni fa, come testimoniano le botti in cemento e lo stato del tetto. Dalla piccola radura antistante la casa individuo poi quello che probabilmente era l’accesso principale alla villa: un vialone un tempo inghiaiato, fiancheggiato da platani enormi, che scende con dolce pendenza e perfettamente rettilineo per almeno duecento metri, sino ad immettersi nella strada comunale. Ho il sospetto che Stefano lo sapesse, e che saremmo potuti arrivare sin lì tranquillamente in macchina. Ma in fondo sono contento di essermi guadagnato almeno un po’ la gioia della scoperta. Che non cessa di rinnovarsi: dal lato opposto, dando le spalle alla casa, intravvedo un altro edificio ancora. Era la stalla-fienile. Dentro, in mezzo a cumuli di cianfrusaglie d’ogni tipo, ci sono ancora delle vecchie attrezzature per l’aratura con gli animali. Devo aggiornare i preventivi per il restauro, ma rispetto a quanto previsto per il corpo centrale qui sono bazzecole.

Ora la topografia del luogo si ricompone. Si accedeva alla villa dal basso, e la si scopriva mano a mano che si risaliva il viale, mentre i due edifici “di servizio” rimanevano nascosti sino all’ultimo. Il viale si interrompeva in uno slargo alla loro altezza, dal quale con due dolci rampe laterali si guadagnava il terrapieno su cui sorgeva la dimora padronale. L’effetto doveva essere di imponenza e di eleganza assieme.

Continuando a girovagare mi rendo conto che il parco alberato è molto più ampio di quanto immaginassi. In serata poi, tornato a casa, scopro sulla mappa satellitare di Google che in basso, proprio al confine del parco, c’è ancora un quarto edificio, del quale né io né Stefano ci siamo accorti. Tra l’altro, nella visione dal satellite l’assieme appare come un’isola verde in mezzo ai diversi toni del marrone dei campi che la circondano.

Bene, non ho dettagliato questa piccola esplorazione domestica per puro amore di racconto, ma perché mi ha spinto a riflettere molto e perché ancora oggi, il giorno dopo, non riesco a smettere di pensarci. E mi chiedo innanzitutto se, al di là della mia specifica sindrome da dio riordinatore, progetti di recupero come quello su cui fantasticavo ieri sarebbero poi davvero così insensati, anche prescindendo da tutti i fattori emotivi, valutandoli su un piano prettamente economico.

Dunque. Proviamo ad immaginare come potrebbero andare le cose in un paese normale. È difficile, perché intanto in un paese normale un edificio del genere non sarebbe in quelle condizioni, sarebbe già intervenuto qualcuno, qualche ente, qualche istituzione, per impedirne la rovina. Se da noi questo non avviene non è perché la cosa sia impossibile, ma perché siamo un popolo di idioti. E certamente, se ogni progetto lo parametriamo a quest’ultimo dato di fatto, allora possiamo abbandonare in partenza. Io sto ragionando per assurdo, ma in questo caso non è assurdo il ragionamento, quanto piuttosto il fatto che in questo paese non lo si possa nemmeno fare.

Allora, rimaniamo nella fanta-utopia (mi ci sono affezionato) del “paese normale”. Se fossi io il legislatore dopo un massimo di dieci anni di abbandono metterei i proprietari di fronte ad un aut aut: o lo tenete in piedi voi o lo cedete (per una cifra simbolica) alla comunità, che provvederà a farlo. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di espropriare: basterebbe tassare in maniera esponenzialmente salata gli edifici oltre un certo periodo di non utilizzo. Mi si obietterà che il problema sarebbe a questo punto che fare della miriade di edifici di cui lo stato si troverebbe ad essere proprietario, visto che non riesce nemmeno a manutenere le strutture pubbliche di sua pertinenza. È vero: ma io sto parlando di uno stato normale, il che esclude in partenza situazioni come quella italiana.

Comunque, continuando così non si va da nessuna parte. Devo confrontarmi con la realtà: proviamo a rimanere in Italia. Assumendo quello che ho calcolato per la “mia” villa come costo medio di ogni intervento (e credo di essermi tenuto largo, perché per almeno due terzi gli interventi potrebbero essere meno dispendiosi), per recuperare diecimila edifici o luoghi di un certo pregio sarebbero necessari dieci miliardi di euro. Può sembrare una bella cifra, un investimento colossale: e in effetti lo è, lo sarebbe in qualsiasi momento e lo è tanto più in questa nefasta congiuntura di pandemie e di crisi strutturali.

Ma guardiamo a ciò che abbiamo di fronte. Teoricamente l’Italia dovrebbe ricevere nei prossimi mesi un soccorso finanziario nell’ordine di oltre duecento miliardi (il famoso recovery fund). Il condizionale è d’obbligo, perché il soccorso è subordinato alla presentazione di un piano di investimenti credibile e concreto, cosa di cui si hanno mille ragioni per dubitare (detto tra noi, fossi l’Olanda o la Svezia o l’Austria non farei credito di un solo centesimo al nostro paese). Il rischio è che tutto ciò che saremo in grado di proporre si riduca a una serie di interventi di “tamponamento” a pioggia, vale a dire ad elargire soldi destinati a tacitare le proteste, legittime o meno, ma non certo a normalizzare il respiro della nostra economia. Al tempo stesso abbiamo milioni di persone inattive, in parte per una crisi che era già strisciante prima del Covid e che con la pandemia è esplosa, in parte perché l’idea di poter contare su un salario, che sia di cittadinanza o assuma la forma di qualsivoglia altra assistenza, dissuade molti dal cercarsi o dall’accettare un lavoro. E non mi si venga a dire che è un ragionamento “di destra”, perché è solo una fotografia realistica della situazione.

Il lavoro infatti, a volerlo vedere e organizzare seriamente dagli uni e a volerlo fare senza troppe scene dagli altri, ci sarebbe. Basti pensare a tutti gli interventi urgenti di risanamento ambientale, che quantomeno ci metterebbero in sicurezza rispetto agli eventi catastrofici che ad ogni stormir di pioggia devastano il nostro territorio. Sarebbe un investimento ripagato da un riscontro immediato, di tipo occupazionale e non solo, perché smuoverebbe la produzione e avrebbe una ricaduta contributiva sulle casse statali: ma la sua maggior resa verrebbe col tempo dai risparmi sullo stillicidio continuo di interventi d’emergenza. A questo naturalmente andrebbe data la priorità.

Anche quello che ipotizzo io è però un investimento che dà risposte concrete e immediate, oltre ad aprire a quelle a lungo termine. Attivando cantieri per diecimila interventi di recupero di questo tipo si creerebbero come minimo centomila posti di lavoro nel settore edilizio e si metterebbe in moto indirettamente un indotto che ne vale altrettanti. Una volta chiusi i cantieri, rimarrebbero attivi almeno ventimila posti per le attività di manutenzione e valorizzazione di quanto già recuperato, mentre potrebbero partire ulteriori progetti di risanamento “culturale”. Queste attività, se minimamente coordinate e inserite in circuito con altre forme di “offerta” (da quelle gastronomiche a quelle enologiche, dall’escursionismo alle più svariate pratiche di fitness, ci sta di tutto), una volta avviate potrebbero raggiungere facilmente l’autonomia finanziaria. A dispetto della nostra colpevole negligenza siamo ancora un paese ad altissima attrattiva turistica anche nel campo della cultura, e con uno sforzo intelligentemente mirato potremmo offrire quei percorsi alternativi ai grandi eventi, alle mostre-monstre, agli intruppamenti obbligati, che vengono invocati ogni volta che le nostre città d’arte arrivano al collasso, ma per i quali non è mai stato pensato alcun progetto serio.

Ora, mi si farà notare, tutta questa gente va comunque da subito pagata. Appunto. Ricordo che stiamo parlando di un settore nel quale da molto prima del covid una buona metà degli addetti stazionava in cassa integrazione, e la quota è aumentata con la pandemia; quindi si tratta in realtà di gente già pagata con soldi pubblici, e senza alcuna contropartita. Lo stesso vale naturalmente per i percettori del reddito di cittadinanza. Ci sono poi anche le spese per i materiali: ma teniamo presenti le sovvenzioni “di ristoro” che lo stato elargisce alle aziende messe in crisi dalla pandemia e dalle misure restrittive: con le stesse cifre si potrebbe acquisire già gran parte del fabbisogno. Anche in questo caso, sarebbero soldi destinati in parte a rientrare nelle casse dello stato e dell’ente previdenziale, sotto forma di imposte e di contributi. Rimane il tema scottante del tipo di occupazione offerta. Ma mi sembra sia giunta l’ora di mettere in chiaro come girano le cose. Non siamo in grado di creare “posti di lavoro” rispondenti a tutte le aspettative, siamo solo in grado di creare occasioni di lavoro, e dovremmo semmai poi assicurarci che questo si svolga in sicurezza, che sia adeguatamente retribuito, che crei a sua volta professionalità e conferisca quindi dignità. Non ha senso opporre che i nostri giovani, o anche i meno giovani, non sono “preparati” per questi tipi di attività. Nemmeno chi sbarca sulle nostre coste o arriva dall’est nel nostro paese è preparato, ma non tarda ad adeguarsi. Impareranno, e questo sarà per loro un valore aggiunto, oltre al fatto di guadagnarsi uno stipendio e poter fare progetti per il futuro. Se invece per quei duecentomila posti dovremo reclutare polacchi o senegalesi, ben venga allora anche l’immigrazione clandestina.

Sono scaduto nello sproloquio da allenatore da bar, di quelli che non saprebbero gonfiare un football ma disquisiscono dei moduli di gioco. Io però non voglio fare l’allenatore, altrimenti mi sarei dato alla politica. Voglio semplicemente dimostrare che una scelta del genere in Italia non si farà mai non perché impossibile, o insensata, ma perché ogni cosa, ogni idea, ogni progetto deve confrontarsi da noi con la vischiosità degli apparati, l’inossidabilità dei privilegi, le gelosie e le ripicche tra i vari enti, lo scaricabarile tra le diverse istituzioni, e non ultimo con una malintesa, ipocrita ed egoista concezione della libertà. Non ci vuole una gran fantasia ad immaginare il balletto dei bandi e degli appalti truccati e dei ricorsi, la sequela delle lungaggini e delle assurdità burocratiche, il gioco delle tangenti e degli interventi della magistratura, il veto a prescindere dei sindacati e degli ispettorati e delle associazioni di difesa dei chirotteri o delle piante spontanee, il traffico dei subappalti, tutta la polvere e la sporcizia insomma che un qualsiasi progetto qui da noi va a sollevare. Ma le cose sono complicate solo perché rese tali da una assoluta mancanza di senso dello stato, di onestà, di competenze, di buona volontà, ecc…: tutti vizi che non attengono al naturale ordine del mondo, ma solo a una particolare disposizione negativa che ci portiamo dietro. Non possiamo imputare il nostro perenne stato di emergenza al fato o ai complotti orditi alle nostre spalle dai poteri forti, ma solo alla nostra riluttanza ad assumerci, a qualsiasi livello, una qualsivoglia responsabilità, dalla nostra tendenza a sentirci sempre creditori nei confronti di tutti, della nostra meschina corsa a scovarci alibi per non fare nulla.

Con queste premesse è evidente che uno i progetti non dovrebbe nemmeno immaginarli. Forse farei meglio a restarmene nell’utopia del paese normale. O forse ci sono rimasto davvero, perché da ieri non faccio che parlare con gli amici di questa cosa, e oggi ne ho già sguinzagliati un paio in cerca di informazioni sulla proprietà. Avessi trent’anni di meno, e quattro soci armati di buona volontà, altro che recovery fund! Accoglierei in cima al viale la delegazione olandese, e si toglierebbero tanto di cappello.

***

Le allegorie sono nel regno del pensiero
quel che le rovine sono nel regno delle cose
Walter Benjamin

Dopo la visita alla villa abbandonata, sopiti un po’ gli entusiasmi restaurativi, mi sono trovato a riflettere su un tema di ordine più generale, che meriterebbe dunque un approccio più serio e ponderato: infatti ho qualche esitazione a trattarlo in questo contesto. Ma non sapendo se e quando potrò tornarci su, colgo almeno l’occasione per anticiparlo.

Constatavo, anche in rapporto alla nuova passione di Stefano, che stiamo tornando ad una “estetica delle rovine”, ciò che ci rimanda a quanto accaduto nella sensibilità occidentale un paio di secoli fa, verso la fine del XVIII secolo. Erano stati infatti Winckelmann e poi Goethe ad elaborare questa particolare teoria del sentimento del bello, ispirati non a caso proprio dai loro soggiorni in Italia (e sempre non a caso Winckelmann in Italia era stato ammazzato). Il riferimento era naturalmente alle rovine dell’antichità (stava nascendo l’archeologia classica, erano state da poco riscoperte Pompei ed Ercolano), che si rivelavano essenziali per ri-educare il gusto moderno alla bellezza: da esse si poteva inferire la forma originaria e pura delle opere greche e romane, e ciò, al di là dell’appagamento “sensoriale”, emotivo, doveva indurre alla ricerca, all’imitazione e alla riproduzione di quella bellezza. Non solo di quella artistica: quel mondo poteva darci lezioni sul piano giuridico, legislativo, sociale. Il neoclassicismo non era un moto di reazione agli sconvolgimenti rivoluzionari. Era figlio legittimo dell’Illuminismo. (“Le idee che le rovine suscitano in me sono grandiose”, scriveva Diderot , uno dei Maestri del mio personalissimo pantheon: e, nel mio piccolo, sembrano sortire anche su di me lo stesso effetto).

Ma quel figlio non era l’unigenito. La stessa antichità che alimentava il sogno neoclassico poteva ispirare anche altre fantasie, meno serene; il passato nel quale i classicisti identificavano un modello riproponibile per il presente poteva apparire come un mondo splendido e maestoso, ma irrimediabilmente perduto (si pensi a Piranesi: nelle acqueforti sulle antichità romane esprime la nostalgia per un mondo ideale, per un’epoca incomparabile, ma ormai chiusa e irripetibile: di fronte ai resti colossali dei Fori imperiali non si abbandona a una pacata contemplazione, è scosso da una forte emozione) e suscitare nell’artista moderno un senso di impotenza e di frustrazione (mi viene in mente L’artista commosso dalla grandezza delle rovine antiche, di Füssli. In quella sanguigna c’è davvero tutto il conflitto degli opposti sentimenti, commozione per la grandezza delle opere classiche e frustrazione per l’insostenibilità del confronto).

Del resto, anche gli illuministi non si sottraevano alla riflessione malinconica. Lo stesso Diderot aggiungeva: “Percorriamo le devastazioni del tempo, e la nostra immaginazione disperde sulla terra gli edifici stessi che abitiamo. Sull’istante, la solitudine e il silenzio regnano intorno a noi. Restiamo soli di tutta una nazione che non c’è più: ecco l’abc della poetica delle rovine. […] Tutto passa, tutto perisce. Soltanto il mondo resiste. Soltanto il tempo continua a durare. Io cammino tra due eternità. Ovunque io guardi, gli oggetti che mi circondano mi annunciano la fine, e mi mettono in guardia rispetto a ciò che mi attende”. Si riferiva soprattutto agli aspetti naturali (la roccia che sprofonda nella terra o la valle che si frantuma), ma anche, naturalmente, ai ruderi dei sogni umani.

Col Romanticismo si afferma, soprattutto nei paesi nordeuropei, il gusto per le architetture gotiche: si recupera insomma il passato di casa, un passato che si presenta, rispetto a quello classico, più irregolare e informe, e produce una fascinazione d’altro tipo, nella quale diventa dominante la sensazione di angoscia. Le rovine non sono più un raccordo tra passato e futuro. Raccontano qualcosa che non tornerà, che sta lentamente svanendo anche dalla memoria, e costringono a meditare sulla fragilità umana. I segni del tempo, la vegetazione e i muschi che le ricoprono parlano di una natura che si prende la rivincita sulla civiltà e la cultura. Shelley scrive nell’Adonais:

Su, vai a Roma, — che è insieme il Paradiso, la tomba,
e la città e il deserto; e passa dove le rovine s’ergono
come montagne frantumate, e le gramigne
fiorenti e le piccole selve profumate
vestono l’ossa nude della Desolazione …

Magari oggi la sua esortazione sarebbe più tiepida, anche se le gramigne a Roma fioriscono ancora. Le uniche montagne accanto alle quali si passa sono quelle dei rifiuti, e le piccole selve che crescono sui marciapiedi sono tutt’altro che profumate.

Nella pittura di questo periodo è Friedrich a esprimere perfettamente, in dipinti come L’abbazia nel querceto, l’estetica del fascino malinconico e dolente delle rovine. Altro che ponte sul futuro! Il futuro è plumbeo come il cielo contro il quale le mura e gli alberi tutti spogli e rinsecchiti si stagliano. E la processione che appena si intravvede nella fascia più bassa è diretta a un cimitero. Nel suo caso è una forte connotazione religiosa, e per di più luterana, a indurlo a usare le rovine come simbolo e come monito. Ma quel tipo di fascino, secolarizzandosi, tenderà facilmente a scadere, alla lunga, nel gusto per il fatiscente e il macabro: quello che caratterizzerà il decadentismo (e il cui prototipo potrebbe essere La rovina della casa Usher, di Poe)

E si arriva all’oggi, passando per il Novecento. Il secolo scorso ha prodotto in realtà molte più macerie che rovine, e la sensibilità nei confronti di queste ultime è ancora una volta mutata. Ho sottomano Rovine e macerie. Il senso del tempo, un libretto esile e densissimo, nel quale Marc Augé scrive: “Le macerie accumulate dalla storia recente e le rovine nate dal passato non si assomigliano. Vi è un grande scarto fra il tempo storico della distruzione, che rivela la follia della storia (le vie di Kabul o di Beirut), e il tempo puro, il tempo in rovina, le rovine del tempo che ha perduto la storia o che la storia ha perduto”. Credo voglia intendere che il cumularsi delle macerie prefigura un mondo senza rovine, nel quale il tempo sarà azzerato e che, per tale ragione, non avrà più storia. Per Augé il senso delle rovine non è storico né estetico, ma puramente temporale. La rovina è un frammento del passato ancora presente, e sottratto alla temporalità delle appartenenze, dell’uso, dei significati. Quindi “contemplare rovine non equivale a fare un viaggio nella storia, ma a fare esperienza del tempo, del tempo puro”.

Ma questo cosa significa? Significa che per Augé, illuministicamente, là dove c’è rovina c’è una possibilità, una indicazione di ripartenza: mentre là dove ci sono macerie il tempo viene non solo azzerato, ma abolito. Le rovine tendiamo a conservarle, le macerie possiamo solo rimuoverle, dobbiamo sbarazzarcene. Sottoscrivo in toto, anche dove dice: “Sulle macerie nate dagli scontri che inevitabilmente la storia futura susciterà, si apriranno nondimeno dei cantieri, e insieme ad essi, chissà, una possibilità di costruire qualche altra cosa, di ritrovare il senso del tempo”. A dispetto della mia disposizione congenitamente scettica, non mi sembra un ottimismo forzato e consolatorio: ricordo una immagine, credo sia della biblioteca di Sarajevo, incendiata e semidistrutta nel 1992 (con perdita dell’ottanta per cento del patrimonio librario), nella quale un ragazzo, in mezzo a tanta devastazione e desolazione, sfoglia un libro: e ho davanti quella odierna dell’edificio rimesso in piedi (e in funzione) seguendo esattamente le linee del vecchio progetto. Per quelle macerie, e attraverso quel ragazzo, la storia in qualche modo è ripartita.

A tornare ripetutamente, direi quasi ossessivamente, sul tema delle rovine, nella prima metà del ‘900, è stato Walter Benjamin. Benjamin scrive in un periodo che di macerie ne ha prodotte parecchie, tra le due guerre, ed è comprensibile che vi faccia costante riferimento. In un frammento che è diventato una delle pagine più citate (e abusate) della recente letteratura filosofica scrive (e così lo cito anch’io): “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta che spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta”.

Confesso che non mi ero mai soffermato a decrittare l’allegoria racchiusa in questa immagine, mi accontentavo dell’interpretazione più immediata e superficiale. La verità è che non riuscivo affatto a scorgerci tutto quello che Benjamin sembra vedere, e non mi rendevo conto che era lui quello da decrittare, e non Paul Klee. Anche perché il quadro era suo, l’aveva voluto fortissimamente e acquistato, l’ha portato con sé in tutte le sue peregrinazioni, sino all’ultimo, e aveva tutti i diritti di leggerlo come voleva. Forse la passeggiata di ieri mi ha chiarito le idee, e riesco anch’io a guardarlo con occhi nuovi.

La storia si allontana, sia pure camminando a ritroso, da ciò su cui fissa lo sguardo, dal passato. Questo passato può essere percepito come un ammasso di detriti, di macerie, e quindi come qualcosa da rimuovere, magari in maniera soft, diluendolo in tante diverse memorie, come sta accadendo oggi, oppure in modo violento e radicale, cancellandone ogni traccia (penso ad esempio ai roghi dei libri, da Qin Shi Huang a Hitler e all’ISIS, o ai calendari “rivoluzionari” che ripartono dall’anno zero). Per Benjamin invece l’angelo, ovvero il vero senso della storia, “vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto”. Qui il significato è ambiguo, e credo ciò dipenda dal fatto che una prima versione di questo brano era incentrata sulla vicenda personale di Benjamin, su un amore finito e rimpianto. Comunque, è verissimo. Per ciascuno di noi ad un certo punto della vita, quello in cui ci si volge indietro perché davanti rimane ben poco da vedere, le rovine della storia sono i fallimenti, le incertezze e le decisioni non prese, le cose non dette e non fatte, che avrebbero potuto cambiare il nostro destino, il nostro presente e il nostro futuro. Vorremmo poter tornare indietro e riscrivere tutto il libro. Ma il vento, che in questo caso è semplicemente l’inesorabile, naturale scorrere del tempo, volta le pagine che rimangono, e il cumulo che abbiamo alle spalle si innalza.

Se interpretata invece nel suo significato più esteso, quello poi scelto da Benjamin, l’immagine ci dice che in realtà l’unica via d’uscita, per non lasciarci trascinare dalla tempesta che chiamiamo “progresso”, è proprio quella di fermarci, tornare sui nostri passi e “risanare” il passato. Quando dice che la tempesta del progresso spira dal paradiso, Benjamin non intende che è suscitata da una volontà divina o da un fantomatico Spirito hegeliano: il paradiso di cui parla è quello terrestre – sta quindi alle spalle rispetto alla marcia del “progresso”, e non davanti –, e il vento soffia dalle porte che l’uomo ha lasciate aperte uscendone. Quel vento, quella tempesta nascono dalla colpa originaria, dalle scelte errate che l’umanità ha compiuto, che ha cumulato e sparso lungo il suo cammino (le rovine, le macerie) senza averle poi ricomposte. Gli occhi spalancati, la bocca aperta dell’angelo sembrano i tratti tipici di chi all’improvviso si è voltato indietro e si sta rendendo conto, pieno di sgomento, della catastrofe che sta lasciando alle sue spalle (e del fatto che la sua marcia lo allontana dal paradiso).

Quello che l’angelo vede non sono però macerie, ma rovine. Non è tentato di rimuoverle per correre incontro al futuro, ma di ricomporle, per costruire su di esse un futuro che dia senso anche al passato. Esattamente il contrario di quella idea di “progresso” che si fonda sul consumo rapido delle cose e delle idee, sulla rincorsa costante del “nuovo” e sulla forma più efficace di eliminazione delle scorie, che è quella di sotterrarle nell’oblio. L’angelo è fermo. Si è fermato per riflettere e per decidere, malgrado la tempesta lo spinga e non gli consenta di chiudere le ali. E già questo gesto di fermarsi è significativo: vuol dire che il “progresso” così irresistibile forse non è, irresistibile è solo la marcia del tempo, ma la direzione e il posso che vogliamo tenere possiamo ancora deciderli noi.

Per capire meglio la complessa interpretazione che Benjamin dà di questa allegoria riesce illuminante, a mio giudizio, un aspetto del suo carattere che di solito è considerato marginale, e che parrebbe avere poco a che vedere col tema delle rovine. Benjamin era un collezionista. Ma di quelli duri, per i quali la passione diventa quasi (o senza quasi) un’ossessione. Collezionava vecchi libri per bambini, quelli impreziositi dalle immagini di illustratori del calibro di Dulac e di Rackam, ma anche più antichi: e quanto il piacere del possesso fosse vera bibliomania lo dice il fatto che un elenco recentemente pubblicato di questi libri consta di trentasette pagine di titoli. Essendo io stesso un bibliomane patologico non posso che sentirlo vicino, e posso anche immaginare quanto debba essergli costato separarsene quando fu costretto all’esilio. La mania con-divisa mi aiuta però a comprendere anche qualcosa di più. I libri per l’infanzia, e le soprattutto immagini che li adornano, sono il primo (in qualche caso anche l’ultimo) tramite per accedere all’esperienza di una dimensione diversa, più “autentica” di quella reale, che si vive attraverso il gioco. Il bambino fa coi con i suoi giochi “un esercizio dell’inutile”. Parte dalla realtà e dalla concretezza di quei fogli di carta, delle parole e delle immagini che vi sono impresse, e ricombina il tutto a suo modo e a suo piacere, avventurandosi in mondi nuovi, nei quali non valgono regole e logiche e tempistiche prevedibili. (Benjamin era molto polemico con la pedagogia della sua epoca – e lo sarebbe anche con quella attuale – che voleva trasformare i libri per bambini in strumenti di indottrinamento etico e di irreggimentazione disciplinare. Non posso che essere d’accordo: se c’è qualcosa di insopportabile e di ipocrita sono i libri per l’infanzia “educativi” – non parliamo poi del tentativo di piegare all’istruzione i fumetti).

Ma giocare è in fondo anche quanto il collezionista fa con i suoi reperti: “toglie alle cose, mediante il possesso di esse, il loro carattere di merce …. e si trasferisce idealmente, non solo in mondo remoto nello spazio e nel tempo, ma anche in un mondo migliore, dove gli uomini, è vero, sono altrettanto poco provvisti del necessario che in quello di tutti i giorni, ma dove le cose sono libere dalla schiavitù di essere utili.” Aggiungerei che redime il mondo dal disordine, disponendo gli oggetti della sua collezione in un ordine spaziale e mentale che conferisce loro un valore diverso da quello d’uso o da quello di scambio. Cancellandone idealmente il prezzo conferisce loro una dignità. Benjamin scrive anche: “Materia in rovina: è l’innalzamento della merce allo stato di allegoria.” Che è perfettamente applicabile tra l’altro al mio modo di collezionare libri, pescandoli là dove già sono rovina, sui banchi dell’usato a un tanto al chilo, e facendoli rifiorire a nuova vita in un orizzonte di senso assolutamente fuori mercato. Con questo il cerchio si chiude.

Adesso mi riconosco perfettamente in questa immagine. Mi sembra rappresenti e riassuma nella maniera più nitida il mio modo di concepire la storia e il nostro essere nella storia. Mi riusciva difficile conciliare le due pulsioni apparentemente contrastanti che mi agitano dentro, quella verso il passato e quella verso il futuro. Pensavo di essere sulla strada giusta, ma mi mancava il conforto di un segnavia riconoscibile. Ora so che quelle due pulsioni possono coincidere, anzi sono un unico moto.

In sostanza, io voglio un futuro che in qualche modo riscatti, dia un senso al passato. Sento una responsabilità, un debito, non solo nei confronti di coloro che verranno, ma anche di coloro che mi hanno preceduto. Per questo, malgrado gli acciacchi, e a dispetto del senso di frustrazione che troppo frequentemente mi tenta, continuo a stare per aria. Ho trovato una corrente ascensionale che mi consente di librarmi senza sbattere le ali (non ne avrei più la forza) e di guardare indietro: le rovine che vedo, quelle che reggono all’erosione del tempo, sono la testimonianza degli sforzi che miliardi di altri, centinaia di generazioni, hanno compiuto guardando a me. Non riuscirò a destare i morti, non ricomporrò i cocci di ciò che stato infranto, ma ricordarli, quello almeno lo posso e lo devo fare. E credo che sino a quando qualcuno lo farà rimarrà aperta la strada per sfuggire alla tempesta abrasiva del “progresso”.

Il mio non è allora un comportamento autistico, ma un impegno etico. In parte ereditato, da una cultura contadina che non buttava nemmeno le unghie del maiale, in parte coltivato, mano a mano che ho cominciato a leggere la storia, anziché come una squallida e assurda tabella di massacri, come un diario della resistenza dell’umanità alla tragica e assieme straordinaria condizione che la natura le ha regalato.

E l’estetica? Me la sono persa per strada? No, semplicemente per me etica ed estetica coincidono. Il comportamento etico non può essere dettato che dalla percezione e dal riconoscimento del bello, in questo caso delle sue vestigia. Una emozione estetica altro non è che il segnale, la luce che si accende su qualcosa che vale, che ha e che dà senso, e va quindi preservato, difeso. Ma anche rispetto a questo atteggiamento vanno fatte delle distinzioni.

Oggi le rovine non sono più consumate solo dal tempo e dall’incuria o dall’indifferenza degli uomini, ma al contrario, dal soffocamento del turismo globalizzato. In un brevissimo saggio scritto a inizio Novecento, che si intitola proprio “La rovina”, e che senz’altro era conosciuto da Benjamin, George Simmel equiparava la rovina alla moda, nel senso che entrambe sarebbero caratterizzate dalla distruzione di ogni contenuto precedente per accedere a una nuova unità. Non sto a raccontare come ci arriva (peraltro, con un percorso un po’ ostico ma illuminante), mi intriga solo l’accostamento, perché in effetti l’interesse per le rovine è stato sempre condizionato, dai giorni del Gran Tour ad oggi, dal fenomeno delle mode. Un tempo era riservato ai rampolli delle famiglie nobili del continente settentrionale e d’oltremanica, poi è entrato a far parte dei consumi di masse sempre più allargate, e motivate sempre più da una necessità di omologazione. Non è nemmeno il caso che stia a ripetere ciò che è sotto gli occhi di tutti e aggiunga la mia ad un coro di geremiadi che fanno ormai parte anch’esse del gioco. Le rovine, così come le bellezze naturali, sono ridotte a elemento scenografico del grande spettacolo non-stop al quale siamo persuasi più o meno velatamente o sfacciatamente ad assistere e/o a partecipare.

Ma qui, nel caso specifico dell’esperienza da cui ho tratto pretesto per queste righe, non di rovine si parla, ma di macerie, e del tipo di fascino, e conseguentemente di disposizione, che inducono. Questo è un fenomeno relativamente nuovo. È già stato fagocitato dalla moda, oggi si direbbe che è diventato virale, e quindi è destinato alla transitorietà: ma non lo liquiderei così frettolosamente. Presenta infatti delle caratteristiche emblematiche dell’ambiguità sottesa ad ogni nostra modalità e finalità di conoscenza. Intanto è una forma di esplorazione, mirata non tanto alla scoperta quanto alla riscoperta. In questo senso, la pulsione esplorativa sarebbe in linea con l’atteggiamento etico di cui parlavo sopra. Cercare qualcosa che si sottrarrebbe, in quanto scarto, alla logica dell’utilità e della mercificazione, e ripartire da quello per immaginare la possibilità di altri mondi. “La rovina innalza le cose allo stato di allegoria”. Ogni scoperta però reca con sé un germe infettivo: produce contaminazione, modifica o addirittura distrugge l’oggetto stesso che l’ha motivata. Gli antropologi ne sanno qualcosa.

Nel nostro caso, di fronte alle macerie della villa, due diversi atteggiamenti possono indurre a fermarle nell’immagine fotografica: quell’immagine può diventare un ulteriore momento dello spettacolo, oppure può documentare qualcosa che non funziona e a cui occorre ovviare. In entrambi i casi quelle macerie diventano funzionali ad altro rispetto a ciò che realmente rappresentano. Ma qui si pone il discrimine tra una scelta estetica, che è di per sé etica, perché orienta il nostro agire, ed una estetizzante, che banalizza nella “spettacolarizzazione” ciò che si è fotografato. L’una ci dice di una volontà di continuità nel tempo, di lettura e recupero del passato in funzione del futuro, l’altra di una plastificazione museale destinata solo al presente, e a un presente esteso, puramente orizzontale, privo di profondità.

Naturalmente queste generalizzazioni hanno senso solo all’interno di una trattazione teorica. La mia esperienza con Stefano, ad esempio, le contraddice. Le sue emozioni, il suo entusiasmo sono assolutamente genuini: e li manifesta attraverso un mezzo che ama altrettanto genuinamente, e col quale riesce a mediare e a ricondurre ad unità quelli che parrebbero interessi sparsi. È anche lui un collezionista di immagini, tratte non dai libri ma dalle tante realtà ambientali e culturali che ha incontrato (l’altra sua passione sono i viaggi). L’elemento unificante è dato dalla costante ricerca della bellezza, intesa come la risultante del lavoro del tempo sui volti, sulle montagne, sui suk arabi, sugli animali africani o sui templi tibetani: di una bellezza che va sottratta alla svendita e al consumo in confezioni cellofanate, con tanto di bollino di conformità, e partecipata invece come condivisione emozionale attiva.

Lo stesso vale per le macerie. Anche nei loro confronti lo sguardo fotografico può essere caldo e partecipe, se a orientarlo c’è dietro un’intenzionalità etica. E questa non è necessario indossarla o metterla nello zaino quando si esce di casa come per partire in missione. Se c’è, se ci è congenita o se l’abbiamo maturata e coltivata, al momento giusto vien fuori. E magari riesce anche a far sì che le macerie diventino rovine, “si presentino – come scrive Augé – a chi le percorre come un passato che egli avrebbe perduto di vista, dimenticato, e che tuttavia gli direbbe ancora qualcosa.
Un passato al quale egli sopravvive”.

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