Dejà vu: … e il povero Abele?

di Paolo Repetto, 26 novembre 2023

e il povero Abele 02Lo “sfogo” (come lui stesso l’ha definito inviandocelo) di Carlo Prosperi è ben comprensibile in giorni nei quali da tutti gli organi di informazione gronda il compianto per l’ennesima donna massacrata da un fidanzato, da un compagno o da un marito respinto. Non bastano l’insensatezza e l’efferatezza della vicenda (e delle cento e passa altre analoghe che hanno intriso di sangue quest’anno già disgraziato), dobbiamo anche sorbirci la morbosa caccia televisiva ai dettagli più macabri e ai pareri e alle testimonianze più stupide, l’insurrezione di ragazzine che hanno scoperto i misfatti del patriarcato senza avere la minima cognizione di cosa significhi quel termine e se non bastasse le lezioni di chi mette loro in bocca gli slogan, le reazioni dell’autorità, che tuona e minaccia il pugno duro e non riesce una volta a prevenire un delitto che sia uno, anche quando più che annunciato è addirittura gridato in anticipo ai quattro venti (e in compenso concede gli arresti domiciliari ai recidivi, facendo sì che ammazzino o sfregino un’altra disgraziata). Da ultimo poi è scesa in campo la corporazione degli psicologi, gli stessi che sino a dieci anni fa suggerivano un’educazione soft, permissiva e “amicale”, che chiedono di entrare nelle scuole ma non offrono di attenersi al salario minimo sindacale. Uno schifo la vicenda, ma uno schifo ben maggiore la sua nauseabonda strumentalizzazione.

e il povero Abele 03 Arancia meccanicaMi ero ripromesso per decenza di sottrarmi al coro, ma le amare considerazioni di Carlo mi hanno ricordato che queste cose le scrivevo già dieci anni fa, quando ancora c’era Berlusconi al governo e non c’era invece il nostro sito, e il termine “femminicidio” era stato appena coniato (cfr. …e il povero Abele? in Reazionario controvoglia, 2013). Da allora le cose sono andate solo peggio, ogni anno viene battuto il record di omicidi di questo genere (in questo mi dissocio da Carlo. Io non credo alle statistiche, credo ai miei occhio, e questi mi dicono di un aumento esponenziale e incontrollato della violenza). Quindi sono arrivato ad un compromesso: non scriverò nulla di nuovo, ma ripropongo lo scritto di quindici anni fa. Non per accampare delle priorità o una particolare lungimiranza (non ce n’era bisogno per capire in che direzione stavano scivolando le cose), ma per testimoniare come la situazione ci sia nel frattempo sfuggita ulteriormente di mano e quanto ipocrite siano le voci che gridano allo scandalo per quest’ultima vicenda. Forse in questi termini un senso quello scritto lo ha ancora.

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… e il povero Abele?

E il povero Abele Tintoretto,_caino_e_abeleQuasi mezzo secolo fa, negli “anni formidabili” in cui la mia generazione giocava a cambiare il mondo senza accorgersi che il mondo era già cambiato da un pezzo, per conto suo e nella direzione opposta, io ero molto impegnato a verificare le possibilità di una rappresentazione terrena di quel sogno: ma avevo anche già imparato a prendermi intervalli di istruttiva ricreazione. Avevo ad esempio scoperto che per capire qualcosa della vita era più utile frequentare le aule dei tribunali (come spettatore, naturalmente) che quelle universitarie, e che il banco degli imputati era un’ottima cartina di tornasole per ogni laboratorio di chimica sociale. Seguivo, al palazzo di giustizia di Genova, nelle pause tra un esame e un’assemblea e quando il lavoro part-time me lo consentiva, le cause più clamorose o le vicende più bizzarre. Un giorno mi trovai ad assistere ad un processo che vedeva alla sbarra un magnaccia di mezza tacca, accusato di aver ucciso a coltellate la convivente nei bagni di un cinema. L’imputato ad un certo punto, dopo aver ammesso il fatto …

L’inverno del patriarca

di Carlo Prosperi, 25 novembre 2023

A quanti imputano alla cultura del patriarcato o al patriarcato stesso l’incremento (che poi, stando ai numeri, tale non è) dei femminicidi, rispondo che ciò che sta accadendo è invece dovuto al venir meno del patriarcato, al parricidio metaforico perpetrato dalla cultura sessantottina, la quale, con la scusa di combattere ed abbattere l’autoritarismo, ha cancellato ogni vestigio di autorità. In fondo, è quanto conferma Liliana Segre nel libro – scritto a quattro mani con l’arcivescovo di Milano Mario Delpini – La memoria che educa al bene (Edd. San Paolo), allorché sospetta che “oggi ai ragazzi tutto sia permesso, tutto sia lecito”: «L’educatore di una volta, soprattutto il genitore [ecco la figura paterna], usava dare anche qualche sculaccione e se ne prendeva la responsabilità: comunicava anche così, a malincuore, l’importanza di certe scelte e la gravità di certi errori. Oggi c’è forse un’eccessiva tendenza a proteggere i piccoli da ogni prova e da ogni tensione, mentre io, quando ero severa, non mi sentivo in colpa, ma ero convinta di servire, in quei momenti, un bene più grande».

C’è la tendenza, da parte dei genitori, a difendere il bullismo dei loro figli: «dopo che questi hanno odiato il bullizzato, l’hanno offeso e umiliato, i suoi (sic) li considerano ancora bravi e magari attaccano la scuola che non li sa “tenere”, “sorvegliare” e correggere [mi viene in mente, al riguardo, l’irrisione televisiva della Littizzetto a “Che tempo che fa” ai danni della docente impallinata]. In questo modo, contro tutte le migliori intenzioni, diventa una scuola dell’odio».

Lassismo, permissivismo, licenza: ma dove sono gli educatori, i κατεχοντες di turno? Manca la famiglia e manca la scuola, ma questa non può fare a meno della collaborazione di quella, di una comunanza d’intenti. La scuola educa soprattutto insegnando, non attraverso prediche inconcludenti, non attraverso competenze che non le appartengono o riducono lo spazio riservato alle discipline specifiche del tipo di scuola. Non con chiacchiere e indottrinamenti ideologici. L’educazione civica, i docenti dovrebbero insegnarla con l’esempio, con la coerenza dei loro comportamenti, richiamando di continuo al senso di responsabilità (che è sì personale ma ha ricadute sociali: sulla classe e sulla comunità), al rispetto reciproco, alla solidarietà, senza inutili nozionismi, senza discorsi astratti, senza raccomandarsi a buoni sentimenti verbalmente evocati. Insegnare è un’arte, un dialogo aperto e costante con l’individuo e con la classe: richiede sensibilità, συμπαθεια, comprensione, capacità di rapportarsi alle singole personalità senza favoritismi, moderando i superbi e gli irruenti, incoraggiando per contro i dimessi e gli introversi. Unicuique suum. Esprit de finesse. Senso della misura. Ma in un mondo che celebra solo e ad oltranza i diritti, che ai diritti equipara i desideri, che esalta ogni sfrenatezza (eh già, proibito proibire!) e attraverso media e socials propaga e propaganda violenza, di linguaggio e di azione, pare impresa francamente disperata non dico invertire, ma anche correggere la rotta. Richiamare ai doveri: che dovrebbe essere il primo compito dell’educazione.

In un mondo che ha sempre una parola di compassione e di comprensione per Caino, ma di Abele si dimentica dopo brevissima infervorazione, che indulge verso chiunque infrange leggi, norme, regolamenti, che istiga alla disubbidienza, che tollera (quando non incoraggia) tutto ciò che è trasgressivo, sembra ormai una mission impossible. Eppure il segreto sta nella lezione dei classici, degli auctores, dei padri. Dei greci soprattutto, che con la loro μετριοτης e la loro denuncia di ogni ὑβρις ci hanno insegnato a diffidare di ogni sogno o pretesa di onnipotenza: il senso del limite.