di Gianni Repetto, da Sottotiro review n. 8, gennaio 1998
– … E poi vedessi il ben di Dio che c’è giù nella dispensa: vasi di burro, formaggio, olio, frutta secca e prosciutti affumicati. Tutta roba da far venire l’acquolina in bocca solo a guardarla –. Urbina andava avanti e indietro nel salone e raccontava eccitato al suo jefe ciò che aveva trovato nei magazzini dell’hacienda abbandonata. – Di sicuro per un po’ non avremo problemi di cibo. E gli uomini sono davvero contenti.
Villa lo ascoltava impassibile, disteso su un divano Luigi XIV. Aveva il cappello calato sugli occhi e sembrava quasi che dormisse. Ma il suo sguardo invece vagava lontano e fissava uno per uno i ritratti degli antenati di famiglia in bella mostra sulla parete di fronte. Erano tutti visi spagnoli, sprezzanti, altezzosi, visi di gente abituata a far da padrona. Quante migliaia di peones avevano vissuto come schiavi sotto di loro? Villa conosceva la disumanità degli hacendados perché l’aveva sperimentata sulla sua pelle. Proprio per questo era diventato un bandito. E ogni volta provava un piacere indicibile a profanare le loro case e a farci bivaccare i cavalli.
– Certo ora, compadre, chiedono anche di andare un po’ a donne giù in città. E mi pare giusto, no, farsi una panocha ogni tanto –. Tomas pronunciò queste parole con tono malizioso, come se fosse sicuro di poter contare sulla solidarietà del suo comandante. Villa invece, che fino ad allora era sembrato un po’ assente, di colpo si mise a sedere e assunse un portamento serio.
– È meglio di no, Tomas, succederebbe di sicuro qualcosa. E io non voglio grane.
Urbina, che non si aspettava una risposta del genere, stette per un po’ in silenzio, rigirandosi lo stetson tra le mani. Poi ebbe come uno scatto.
– Mi pare che tu stia esagerando, compadre. Da quando siamo diventati dei patrioti non abbiamo più potuto rubare né fare a pugni. E ora tu vorresti impedirci anche di andare a donne? Al diavolo la rivoluzione, chi glielo farà capire a quegli uomini là fuori?!
– Tu, Tomas, che sei il loro capitano. Se tu saprai rinunciare, anche loro lo faranno.
– Non ti capisco più, Pancho. Parli come se tu fossi un prete. Ma noi lo sappiamo bene chi siamo, no es verdad? Siamo dei banditi, è l’unica cosa che sappiamo fare. Perché non dovremmo rubare ai ricos e prenderci le loro donne? –. Urbina si stava scaldando ed era sempre più rosso in faccia. Villa allora si alzò in piedi, fece alcuni passi verso il centro del salone e poi, dopo essersi lisciato i baffi con entrambe le mani, rispose: – Noi non siamo più banditi, Tomas, ma soldati dell’esercito rivoluzionario del Messico. Noi rappresentiamo il futuro governo costituzionale di Francisco Madero, il piccolo jefe. Perciò non basta che buttiamo fuori quei bastardi dalle città come abbiamo fatto a Camargo, ma dobbiamo anche imparare a comandare le città. E per comandarle ci vuole disciplina, altro che viejas e tequila.
Urbina ora teneva la testa bassa e non aveva il coraggio di ribattere. La serietà di Villa aveva gelato la sua allegria e gli aveva tolto il piacere di sentirsi una volta tanto padrone. Ma, a ripensarci bene, con Pancho era andata sempre a finire così. Insieme avevano rubato migliaia di pesos, poi, quando era stato il momento di goderseli, lui li aveva regalati tutti e ogni volta avevano dovuto ricominciare da capo.
– Che cosa intendi per comandare le città? Che saremo noi a far pagare le tasse e che andremo a vivere nei palazzi dei ricos? – chiese in tono volutamente provocatorio.
Villa lo fulminò con lo sguardo. Poi, ficcandosi i pollici nel cinturone con un gesto di sfida, gli rispose un po’ brusco: – Cabròn che non sei altro, possibile che tu non riesca proprio a cambiare! Noi non comanderemo le città per fare i nostri interessi, ma per il bene del popolo. Perché il popolo è la nostra forza e senza il suo aiuto non riusciremo mai a vincere.
Urbina sembrava trasformato. Come se si prendesse gioco delle parole del suo jefe, cominciò a ridere in quel suo modo agghiacciante.
– El pueblo! El pueblo! La revolucion! Ma cosa credi che gliene importi al popolo del governo e della rivoluzione?! A loro basta che tu gli riempia la pancia e poi, che tu sia Diaz o Madero, fa lo stesso. Entiende? E secondo te io dovrei rinunciare a una panocha per il bene del popolo che intanto gode, va a letto e se ne infischia di me? No, Pancho, stavolta non posso seguirti.
Ci fu un breve silenzio, durante il quale i due uomini evitarono di guardarsi negli occhi. Ognuno di loro rimuginava dentro di sé le cose che si erano detti ed era assolutamente convinto di avere ragione. E non riusciva a capire perché l’altro non lo intendesse. Quando sembrava che ormai più nessuno parlasse, Villa assunse un atteggiamento grave e solenne e si rivolse a Urbina con il tono perentorio del comandante.
Compadre, se vengo a sapere che hai trasgredito il mio ordine, ti farò fucilare come un qualsiasi traditore.
Urbina, per la prima volta da quando erano insieme, si sentì stringere un nodo in gola: Pancho lo stava minacciando. Proprio lui, l’amico fidato, l’unico per cui avrebbe dato anche la vita. Tomas per un attimo credette di sognare, ma lo sguardo feroce del suo jefe gli gelò il sangue. Ma che cosa gli era successo? E perché si accaniva così? Villa era molto cambiato dai tempi della Sierra: ora stava sempre solo, parlava poco e qualsiasi cosa gli dava fastidio, anche lo scherzo più innocuo. Ma soprattutto, da quando si era messo in testa di trasformare le sue bande in un vero esercito, era diventato molto esigente con gli uomini, fino al punto da pretendere che rinunciassero ai loro istinti. Ma qual era l’esercito vittorioso che non faceva baldoria? E che ne era del vulcanico compadre che era capace di stare sveglio delle settimane intere pur di non rinunciare al suo divertimento? Tomas pensò che, se quello era l’effetto della rivoluzione, era meglio tornare ad essere un bandito qualunque, perché almeno nessuno avrebbe deciso per lui quando era il tempo di fare all’amore o di scolarsi una bottiglia di tequila.