Non è un paese per rangers

di Paolo Repetto, 30 aprile 2014

Adoro i film western. Non ne ho mai fatto mistero, chi mi frequenta lo sa. Sa anche che non amo solo i film, ma le colonne sonore, la letteratura, la pittura western, e che per i fumetti del settore sono quasi un’autorità. Sa che quando dico western parlo naturalmente dell’originale, del cinema del Grande Periodo Classico, di John Ford, da Ombre Rosse, possibilmente non ricolorato, a Sentieri selvaggi. E che ci faccio rientrare tutte le ambientazioni spaziali che vanno dal Messico al Canada, e quelle temporali che si stendono dalle guerre anglo-franco-indiane alla rivoluzione messicana. Trappers e rurales, nordisti e rangers, Irochesi e Apache, Comanci e Seminole, Corvo Rosso e Cochise. Un’epopea.

Ci tengo però a precisare una cosa. Oggi si ha quasi ritegno a confessare i propri gusti, quando sono “popolareschi”, non per tema di una retrocessione nella stima del milieu culturale, ma anzi, all’opposto, perché vengono subito letti come vezzi intellettuali. Bene: il mio tutto è, tranne un vezzo intellettuale. È vero, genuino, viscerale amore di pancia. Vedo una prateria, le Montagne Rocciose, le mesetas, le foreste della Nuova Inghilterra o del Canada, e sono già lì, pronto ad accendere fuochi di bivacco (eh si, siamo tutti equadoregni) e a dormire sotto le stelle. Non so quali traumi infantili mi scoverebbe uno psicanalista, ma a me va bene così. Se traumi ci sono stati, li ringrazio. In compenso non vado a cavallo, non indosso lo Stetson, non trotto sull’asfalto come un cavaliere dalla lunga ombra. Il mio è un transfert di pancia, non di sedere.

Dopo questo outing mi sento già molto meglio. Ma forse dovrei anche spiegare perché. E soprattutto, dove voglio arrivare. Ci provo.

La voglia di gridare il mio amore per il western è esplosa dopo aver visto l’altra sera in tivù il film di Sorrentino, quello che ha vinto l’Oscar. Premio vinto meritatamente, direi, considerando che l’ultima statuetta per il nostro cinema era arrivata con Benigni, per “La vita è bella”. Io devo avere una concezione un po’ distorta della bellezza; senz’altro non è la stessa che hanno i giurati dell’Academy, e nemmeno quelli del Nobel a Dario Fo. Ho dei gusti barbari, perché penso che “La vita è bella” e “La grande bellezza” siano tra le cose più brutte e presuntuose che il cinema italiano ha prodotto, anche se do loro atto che sbaragliano una concorrenza agguerrita.

La sera precedente avevo rivisto per la sesta o settima volta “Passaggio a Nord Ovest”, quello con Spencer Tracy che interpreta il capitano Rogers. Mi ha inchiodato alla poltrona. Non sono uscito nemmeno una volta sul terrazzino a fumare. De “La grande bellezza” ho visto solo la prima metà, e mi è bastata (questo è il vantaggio di vedere i film in tivù: per “La vita è bella”, visto al cinema, dopo essermi alzato al termine del primo tempo maledicendo Benigni ho dovuto poi risedermi, per non rovinare il pomeriggio a tutta la compagnia, e sorbirmelo tutto. Se avessi morso un elefante, alla fine, lo avrei fulminato). Forse è proprio questo il motivo: magari nella seconda parte c’era qualcosa da capire, e me la sono persa. Deve essere, anzi, è certamente così. Dubito comunque che proverò a rimediare.

Ma rimane la domanda: e allora? Cos’hanno da spartire “Il grande cielo”, “Il grande paese” e il “Il grande sentiero” con “La grande bellezza”? In positivo, proprio niente. I primi tre appartengono al cinema. In negativo invece ci raccontano le differenze di fondo tra due atteggiamenti etici e culturali. “La grande bellezza” infatti un merito ce l’ha: è la quintessenza del modo tutto italiano, questo ben altro che un vezzo, di celebrare il peggio di questo paese. Coloro cui il film è piaciuto mi hanno spiegato che Sorrentino vuole in sostanza denunciare, proprio esaltando con una fotografia magica e patinata l’incredibile bellezza dell’ambientazione romana, la pochezza e l’idiozia di chi la abita.

Grazie. Fin qui c’ero arrivato. Il messaggio è chiaro: Dio mio, come siamo caduti in basso! (il che intanto supporrebbe l’essere già stati in alto, vale a dire avere alle spalle una storia che disegna una parabola: ma quanto dobbiamo tornare indietro per trovarne il culmine?) Quello che mi chiedo è: di questo messaggio, cosa rimane? Non raccontiamoci che ci rende più coscienti del nostro stato; dello stato del paese, intendo. Se uno vuole davvero sapere quanto siamo caduti in basso non ha certo bisogno di Sorrentino: gli basta guardarsi attorno. E lo stesso Sorrentino, con una spesa irrisoria e senza il soccorso di Mediaset, avrebbe potuto trasmettere un identico e più efficace messaggio facendo un collage di talk show o di qualsiasi altra trasmissione televisiva in onda a qualsiasi ora del giorno. Oppure avrebbe potuto girare in quella stessa Roma un documentario notturno, senza far prima ripulire e sgomberare le strade, e qualche ripresa effettuarla nei musei, talvolta persino aperti al pubblico: ma anche senza sbattersi troppo, gli sarebbe bastato imbracciare la telecamera e muoverla a caso. Quindi, sul merito, bocciato. Ma non è questo il problema: torno a ripetere, del messaggio, di questo messaggio, non frega niente a nessuno. E Sorrentino è abbastanza intelligente per saperlo.

Infatti. Infatti del film restano le immagini, le atmosfere, le suggestioni: è un susseguirsi di spot pubblicitari, ma di quelli raffinati, per profumi o auto di lusso, non per la carta igienica o i gas intestinali. Ho visto per un’ora una Roma che sembrava quella Città ideale di Urbino che non si sa chi l’abbia dipinta, ma di certo non un romano. Cosa voleva dire? “Come sarebbe bella, se non ci fossero i romani!” Beh, lo so anch’io, era quel che diceva Nicholson in “Easy Rider” a proposito dell’America. Il problema è che i romani ci sono, che ci siamo noi italiani. E che davanti a un paese in cui tutto è in fuga, dai cervelli ai capitali alle opere d’arte, in cui tutto rovina tra crolli, slavine e allagamenti, e ciò che non è in rovina sarebbe meglio lo fosse, bene, davanti ad un paese così, che facciamo? Ci giriamo su un film estetizzante e barocco, buono giusto per gli americani che non ci capiscono nulla e non sanno che non c’è nulla da capire, e nel timore di passare per quelli che non capiscono ti danno un Oscar e facciamola finita (magari si aspettano anche di trovare, domani, nel loro Grand Tour, quei lungotevere ripuliti e sterilizzati e deserti che nobilitano le passeggiate di Servillo).

Mi hanno dato fastidio un sacco di cose in questo film (anzi, nella metà che ho visto). La storia del grande passato, per cominciare. Cosa significa? Quando è finito, il passato? Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente degli italiani diceva dei suoi contemporanei né più né meno le stesse cose che dice Sorrentino. Ma aveva uno sguardo ben altrimenti impietoso, non girava gli occhi indietro, non si lagnava, era proprio incazzato: Cristo, datevi una mossa, bestie che non siete altro! Non scorre alcuna antica nobiltà nelle nostre vene, siamo un popolo imbastardito cento volte e dobbiamo finirla di rifugiarci, quando proprio non rimane altro per celare le vergogne, dietro i diritti di successione per primati acquisiti duemila anni fa. Guardiamoci attorno e proviamo ad imparare qualcosa.

Questo Sorrentino non lo dice: dice invece, guardiamoci attorno, e vediamo quanto eravamo bravi. Sottinteso: non abbiamo nulla da imparare da nessuno, basterebbe un po’ di buona volontà. E questo è il preludio al solito refrain: in verità siamo geniali, siamo creativi, solo siamo anche un po’ sfaticati, e ultimamente piuttosto disattenti, per non dire volgari. È quello che io chiamo l’arborismo (da Arbore, come Renzo), in una versione più stilisticamente leccata: lo smascheramento del peggio che ne diventa automaticamente la celebrazione. La presunzione che ci dice che comunque, nel bene e nel male, siamo speciali. Abbiamo appunto una grande storia alle spalle. Una grande eredità.

Ma noi cosa c’entriamo, con la grande storia? Da dove ci viene questa investitura, dal fatto di essere casualmente nati qui? Non è che dovremmo cominciare a sentire qualche responsabilità nei confronti del futuro, invece che del passato? So benissimo che non c’è futuro se non hai il senso del passato, ma noi del passato facciamo sempre un alibi, una coperta sotto la quale nasconderci, fiduciosi che ci proteggerà dal gelo del futuro: a quanto pare il passato non lo abbiamo mai digerito, viaggia su e giù tra lo stomaco e la bocca. Parrà una forzatura, perché salto due o tre passaggi, ma questo atteggiamento di Sorrentino ha la sua matrice nella filosofia di Toto Cotugno: lasciatemi cantare, con la chitarra in mano, lasciatemi cantare, sono un italiano. Può sembrare l’opposto, ma se ci riflettiamo è così.

Dove voglio arrivare con questa farneticazione? Al fatto che dopo mezz’ora di visione del film avvertivo quel sapore di melassa agrodolce che mi aveva sballato per un anno i valori dei trigliceridi, ai tempi de “La vita è bella”. Sentivo che stava insinuandosi il messaggio che è pur sempre meglio vivere respirando l’odore di putrescenza in Italia che nel vetro-acciaio-cemento insonorizzato e deodorizzato di qualsiasi altra parte del mondo. Che comunque non avrei visto, nemmeno se il film fosse durato altre tre ore, una buca nell’asfalto, una montagnola di sacchetti di immondizia, un muro oltraggiato da scritte idiote, nulla di tutto ciò che mi era rimasto dell’ultima visita a Roma, e che mi viene rammentato quotidianamente da qualunque parte mi giri. E che anche se lo avessi visto, e l’immondizia fosse quella napoletana che sommerge i quartieri, avrei sentito la voce fuoricampo che mi ricordava come però la melodia napoletana la esportiamo in tutto il mondo, e vuoi mettere la pizza! (se è per questo, esportiamo anche l’immondizia napoletana)

Nemmeno avrei visto un italiano medio, di quelli senza la chitarra in mano, che tanto non la sanno suonare, e che non fanno “lavori” creativi. L’immagine che il film rimanda al mondo è quella di un paese di fancazzisti annoiati o meschini o completamente cretini, il che è assolutamente vero, almeno se riferito agli ambienti che Sorrentino frequenta (per gli altri, quelli non patinabili, lo è un po’ meno), ma soprattutto giustifica la rassegnazione ad una lunga agonia bizantina. Di alzarli da terra con qualche calcio in culo non se ne parla.

E d’altra parte, chi potrebbe farlo? Qui sarebbe dura persino per Clint Eastwood. Non è solo questione di palazzi o passeggiate romane. Ho ascoltato giorni fa l’intervista ad un attore che da cinquant’anni recita da protagonista in “Arlecchino servitore di due padroni”. Sono rimasto basito. Non tanto per lui (ma insomma …), quanto per il fatto che questa commedia venga riproposta costantemente, sia in cartellone a questo punto da duecentocinquant’anni. Eppure non è poi così strano. È il nostro simbolo nazionale. Celebra tutto quello che noi siamo. Le furberie, gli stratagemmi, le falsità, le menzogne, come se quel personaggio fosse un eroe. E lo è, è l’eroe nazionale. Furbo, ruffiano e servo. Anzi, non basta una: servo due volte. Sorrentino non inventa proprio nulla, ciò che mostra è vero: il problema è che se ne compiace.

Ce n’è anche per lo specifico cinematografico. Lodoli una volta ha scritto che nei film italiani senti voltare le pagine della sceneggiatura. Tradotto, significa che tutto suona falso, non credibile. Ne “La grande bellezza” questa caratteristica è portata all’esasperazione, viene estenuata. Non che ci voglia una grande arte: è sufficiente infilarci Verdone che fa il verdone, la Ferilli che si alza dal divano e Servillo che ha ridotto le espressioni ad una in meno di John Wayne, perché non porta il cappello, e hai surrealizzato tutto. Mancavano solo Castellitto e Silvio Orlando (o magari c’erano, nella seconda parte) per rasentare il capolavoro. Ma è possibile che io debba godermi i telefilm di Barnaby, quando li rivedo per la terza volta, e non riesca a sopportare una fiction italiana di qualsiasi tipo? Comunque, non è nemmeno del tutto vero che il film sia da buttare in blocco. Una battuta memorabile c’è, e la pronuncia Servillo quando dice: “Ho compiuto sessantacinque anni, e d’ora in poi non farò più nulla che non mi piaccia fare”. L’ho preso alla lettera, ho spento il televisore e sono uscito a fumare.

Resta da spiegare cosa c’entrano i film western. Ci arrivo. In “Passaggio a nord Ovest” c’è un uomo che coltiva un sogno. Non è Renzi, è il maggiore Rogers che appunto vive per la ricerca del famoso passaggio. Cosa se ne farà, non è dato saperlo, e non è comunque rilevante. Ciò che importa è che Rogers si è dato uno scopo e lo persegue sino in fondo. Il film è politicamente scorrettissimo, gioca tutto su una spedizione punitiva contro gli indiani Athabasca. Marcia di avvicinamento, distruzione del campo con allegro massacro dei suoi abitanti, travagliato ritorno. L’Anabasi sulle rive dell’Ontario. Quattro idee, chiarissime. Quando chiude non senti montare dentro la voglia di massacrare gli Athabasca, cosa peraltro difficile perché non ce ne sono più, ci ha pensato appunto Rogers, ma quella di coltivare un sogno si, e magari di sperimentare un po’ dell’amicizia, della lealtà, della solidarietà che i rangers di Rogers vivono tra loro. Lo stesso vale per “I magnifici sette” o per “Il Mucchio Selvaggio”. E lo sai benissimo che la vita non è così, che il coraggio non lo misuri col numero di tacche sul calcio della pistola o di scalpi appesi alla sella, ma porca miseria, non è nemmeno quella raccontata da Sorrentino.

Ogni film western è una storia di riscatto: a pugni, a fucilate, a coltellate, sono cow boys solitari, villaggi sperduti o interi popoli che alla fine alzano la testa e si conquistano il diritto di esistere. Se va male danno almeno un senso al fatto di essere esistiti. E allora, sarà adolescenziale, sarà tutto quello che volete, ma almeno fatemi godere la grande bellezza dei canyon e delle Montagne Rocciose, che quella sappiamo di non averla creata noi e che non ci dà alcun diritto ad essere stupidi. Al contrario, ci carica di una responsabilità. Visto che ai fondali ci hanno pensato Dio o la natura o chi per essi, e hanno lavorato discretamente bene, adesso vediamo noi di fare la nostra parte e tenere pulita la scena. Questo voglio vedere, non gente che si crogiola nella sua superficialità e insignificanza. La realtà non sarà questa, ma voglio continuare a credere e a volere che lo diventi, che le vittime si ribellino, i persecutori precipitino da un burrone e gli ignavi siano coperti di vergogna. Quando la sagoma del cavaliere solitario si allontana verso il sole al tramonto mi alzo con un sospiro. Sono rinfrancato. Affronto quel che resta del giorno più sereno. Se l’arte è catarsi, questa è arte.

Fine del sermone. Ero partito per buttare giù quattro righe su un film che poteva essere liquidato con quattro fantozziane parole, e mi ritrovo in mano quattro pagine. È un brutto vizio, per me è davvero tutto letteralmente pre-testo, occasione di scrittura. Ma da buon italiano mi assolvo: ci sono malattie peggiori.

Accidenti. Quasi dimenticavo: ma a voi, “La grande bellezza”, è piaciuto?

 

Io sono lento.

Prego, si regoli di conseguenza.

di Fabrizio Rinaldi, da Sottotiro review n. 6, maggio 1997

John Franklin aveva già dieci anni ed era ancora così lento da non riuscire ad afferrare la palla.

Così inizia La scoperta della lentezza, biografia romanzata, scritta da Sten Nadolny, dell’uomo che divenne nel secolo scorso uno dei più capaci e famosi ammiragli della gloriosa Marina Britannica. Franklin entrò nella storia per aver cercato il Passaggio a Nord-Ovest; quella rotta che partendo dall’Oceano Atlantico, e attraversando le infinite insenature situate a nord del Canada, raggiunge lo stretto di Bering, quindi l’Oceano Pacifico.

Pochi credevano nell’esistenza di una via per mare che congiungesse i due maggiori oceani, senza passare per la Siberia. John Franklin era uno di quelli; era un uomo che aveva un sogno e morì in vista della sua meta.

Strano: quanto più John si avvicinava alla meta, tanto più sentiva che non gli era più necessaria. […] Aveva soltanto il desiderio di poter essere in viaggio, proprio come ora, in viaggio d’esplorazione, sino alla fine della vita. Un sistema di vita e di navigazione “alla Franklin”.

Non riuscì nell’impresa in quanto il ghiaccio artico imprigionò l’Erebus e il Terror, le due navi da lui comandate; la fame e il freddo obbligarono l’equipaggio ad abbandonarle al loro destino e a dirigersi a sud, alla ricerca di insediamenti umani. Nessuno si salvò, e dopo molti tentativi di soccorso – organizzati in prevalenza dalla moglie – si trovarono solo dei resti umani disseminati in molte miglia quadrate, come se gli uomini della colonna fossero morti uno ad uno dopo una terribile agonia. Si ritiene addirittura che la fame abbia indotto molti al cannibalismo, ma neppure ciò servì a farli sopravvivere.

Franklin incarna un desiderio primordiale, che fa parte della natura stessa dell’uomo: il viaggio, inteso sempre e comunque come viaggio di esplorazione.

L’unicità di quest’uomo sta nel fatto che seppe navigare lungo una rotta che lo portò a scoprire la paura, la coscienza di essere diverso dagli altri, la consapevolezza di non riuscire a percepire gli eventi coi tempi di tutti.

Potrei qui descrivere le gesta di un uomo che indubbiamente permise un passo avanti nell’esplorazione di quelle zone impervie e sconosciute, ma credo che qualunque testo storico possa essere più esauriente. Mi è più caro porre l’accento, usando stralci dello stesso libro di Sten Nadolny, su come Franklin abbia inteso l’esistenza e come abbia saputo piegare le leggi della vita sociale al suo sistema di vita.

Già dalle prime pagine si capisce che l’uomo in questione non era comune. Aveva una differente percezione del tempo e dalle velocità in cui avvenivano i fatti, cosa che lo costringeva inizialmente a collezionare e memorizzare una serie di fatti e di relative reazioni, in modo da essere sempre più veloce – attingendo appunto al suo archivio mentale – quando doveva affrontare una situazione. Usò il proprio difetto mentale per ricucire meticolosamente ciò che il mondo caotico apriva, come un chirurgo fa con le ferite.

Amava la calma, ma era necessario anche saper fare le cose in fretta. Quando non ci riusciva, tutto gli si rivoltava contro. Dunque doveva riguadagnare terreno.

John sedeva tutto imbacuccato davanti alla baracca e guardava la tempesta autunnale che spazzava via a mucchi le ultime foglie dai rami. Fissava lo sguardo su una determinata foglia e aspettava finché cadeva. Spesso tutto ciò durava molte ore, durante le quali poteva meditare senza meta e senza fretta.

Non so se questa sua caratteristica sia documentata storicamente o se è un’invenzione dello scrittore, ma ciò non è importante al fine di comprendere la fattibilità di un metodo di vita sostanzialmente in antitesi con quello della società attuale, ingorda di tempo, nella quale il ritornello ricorrente sembra essere quello del coniglio bianco di Alice: “è tardi, è tardi!”.

Comunque, osservando un suo ritratto sono indotto a credere che Franklin fosse veramente così.

John Franklin era uno che faceva pause, anche quando non gli erano necessarie. Non era il navigatore ad avere bisogno della pausa, bensì la pausa ad avere bisogno del navigatore.

Quest’uomo si scosta indubbiamente dai canoni dell’eroe romantico in voga ai suoi tempi, ed ancor più da quelli odierni. L’incapacità di inseguire gli eventi che fagocitavano velocità lo portò a sviluppare un proprio metodo di apprendimento, basato sull’osservazione di un fatto per un tempo più o meno lungo, durante il quale rifletteva sul da farsi, per poi, con estrema semplicità, agire di conseguenza. E quando ciò accadeva, la sua scelta era sempre la più razionale e logica.

Tutti gli altri devono adattarsi al mio ritmo, perché è il più lento. Solo se questo punto viene rispettato possono subentrare la sicurezza e l’attenzione. Sono un amico di me stesso. Prendo sul serio ciò che penso e ciò che sento. Il tempo che mi occorre per questo non è mai sprecato. Lo stesso atteggiamento concedo anche agli altri. Se possibile, bisogna ignorare l’impazienza e la paura, il panico è severamente vietato.

La sua capacità di riflettere sulla situazione che si veniva a creare – fosse pure complicata e richiedesse un’azione immediata – faceva sì che l’affrontasse comunque con la calma dei saggi, la logica e la freddezza dei grandi.

La pazienza è eroica perché non ha nessuna apparenza d’eroico.    GIACOMO LEOPARDI

Una sola cosa era ancora peggiore: la campana della nave che si metteva a suonare da sola. Ma questo non succedeva mai, o non poteva più essere raccontato, perché allora le navi colavano rapidamente a picco con uomini e topi. […]

Subito dopo la dritta della nave andò a sbattere contro la massiccia banchisa. Tutti gli uomini andarono a gambe all’aria, nessuno riusciva a star ritto, era come se fosse stato tolto loro un tappeto da sotto i piedi. Poi ci fu un suono terribile, un segnale di morte: la campana della nave suonò. John si aggrappò con le unghie per rimettersi in piedi, indicò la coffa di trinchetto e gridò: “Mollare i terzaroli!” Tutti lo guardarono come se notassero i primi sintomi di una malattia mentale. Un altro cavallone tuonò lì accanto e sbatté di nuovo la nave contro la parete come un uovo in padella. Gli alberi si piegarono come steli. E in quel frangente uno doveva arrampicarsi sui pennoni e – come aveva detto? – “mollare i terzaroli”? La campana della nave suonava come un’ossessa. Naturalmente suonava! Era la fine! Avrebbe continuato a suonare finché fossero morti. Gli uomini si tenevano aggrappati a qualcosa, più nessuno si muoveva. All’ondata successiva, stessa cosa. La nave era perduta.

John Franklin era sempre più strano. Ora stava afferrando con la mano destra la spalla sinistra, tenne la presa e si mise a tirare con tutte le sue forze. Voleva togliersi i gradi o strapparsi in due pezzi? Comunque era diventato pazzo, questa era la prova. Gilbert bestemmiava, Kirby pregava, tutti pregavano. Chissà se Kirby avrebbe parlato ancora una volta delle ragazze?

Franklin si strappò la manica dalla giacca dell’uniforme, si arrampicò fino alla campana della nave e, tra un rovescio di tempesta e l’altro, disse al primo ufficiale: “Mr. Beechey, sia così gentile da far mollare i terzaroli sull’albero di prua.” Poi avvolse lo spesso panno dell’uniforme attorno al batacchio della campana, fece un nodo e tirò come se volesse strangolare un elefante. “Adesso staremo tranquilli!” disse contento, come se avesse imbavagliato anche la tempesta.

La peculiarità che mi affascina in questo personaggio è l’arte di saper ascoltare, merce rara al giorno d’oggi. Lo si scopriva a prestare eguale attenzione agli uomini come agli eventi, anche quando richiedevano una risposta immediata, come il rischio di un naufragio. Aveva il suo tempo per ogni cosa, dopodiché con la stessa naturalezza impartiva ordini o dava consiglio.

Un lunedì sera Richardson gli chiese: “ma lei non ha paura del nulla?” e John tacque, meditando fino a martedì. Poi il dottore chiese: “Se esiste l’amore, non dovrebbe esistere un vertice, una summa d’amore?” Allora John rispose alla domanda del giorno precedente: “Non ho paura di questo, perché posso immaginare il nulla come qualcosa di abbastanza tranquillo.” Sull’amore al momento continuò a tacere. Il mercoledì sera parlarono a lungo, perché era la volta della vita eterna. Richardson parlò della prospettiva di rivedere persone perdute. Questo interessò John a tal punto, che dimenticò completamente di rispondere a proposito dell’amore. Comunque, quando osservava Hood, gli sembrava che l’amore fosse più una malattia che qualcosa di divino. “Ci sono persone che stanno andando e persone che stanno arrivando. Ciò che arriva in fretta, passa anche in fretta. È come guardare dal finestrino di una carrozza, niente resta fermo. Di più non so dire.”

Un libro, un personaggio del genere rimane un sicuro approdo per coloro che ricercano l’isola dove abiti ancora la pazienza.

Ad Akaitcho non sfuggiva nulla. Né della delusione di John riguardo alle società per il commercio delle pellicce e alle stoltezze di Back, né delle tensioni all’interno del gruppo. Un giorno disse: “I lupi sono diversi. Si amano, si toccano col muso e si nutrono reciprocamente.” Adam tradusse.

John divenne un po’ incerto. Era difficile dare una risposta ad Akaitcho senza parlare più o meno dei suoi compagni di viaggio. Quindi si limitò a inchinarsi e a tacere. La sera aveva preparato la risposta: “Ho riflettuto molto sui lupi. Hanno il vantaggio di non poter parlare l’uno dell’altro.”

Ora fu Akaitcho ad inchinarsi.

Collezione di licheni bottone