I romanzi gialli e gli autori inglesi (parte ottava)

Wilkie Collins. Donne, diamanti e passeggiate oziose

di Paolo Repetto, 6 dicembre 2024

Appena ho accennato che su Wilkie Collins (1814-1889) avevo anch’io qualcosa da dire, a Vittorio non è parso vero ammollarmi l’ultimo capitoletto della sua rubrica. E così mi ritrovo a parlarvi di un libro letto tantissimi anni fa, e mai più riletto: ma anche di un autore che solo recentemente ho scoperto aver scritto dei gustosissimi diari di viaggio. Per cui questa recensione si dividerà in due parti, la prima dedicata al giallista e la seconda mirata a scoprire il viaggiatore.

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Dalle nostre parti Wilkie Collins non gode di grande notorietà, anche se moltissimi dei suoi romanzi e dei suoi racconti sono disponibili in italiano (il più famoso dei primi, La pietra di luna, è stato edito in ben tredici traduzioni diverse), Forse ha pesato sulla scarsa fortuna italica dell’autore proprio l’etichetta di antesignano della letteratura poliziesca, un genere che qui da noi continua ad essere considerato bene o male di serie B.

In realtà Collins non è un giallista: o almeno, lui non sapeva di esserlo, e credo che nemmeno ci avrebbe tenuto. Scriveva storie di fantasmi e di misteri, nel solco della tradizione romantica, e influenzato senza dubbio dal suo amico Charles Dickens: ma infarciva i contenuti di tematiche sociali e psicologiche, mentre il suo stile lo apparentava piuttosto ai pre-raffaelliti (con molti dei quali era in relazione di amicizia) che agli autori “realisti” suoi contemporanei. Proprio in relazione al tipo e all’oggetto della sua scrittura fu coniato il termine di “sensation novel”. Tuttavia può entrare di diritto nella nostra galleria per aver strutturato quasi tutte le sue opere, anche quelle che con la giallistica non hanno nulla a che fare, sul modello dell’indagine poliziesca.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte ottava 02L’opera più riuscita di Collins è considerata La donna in bianco (1860), che gioca tutto sulla misteriosa e inquietante somiglianza tra due donne che non si conoscono. La spiegazione del mistero arriverà solo al termine di una ricerca ricca di suspence e del susseguirsi di molteplici colpi di scena. La vera novità consiste però nel fatto che il romanzo ha la forma di un racconto corale, nel quale sono diversi testimoni a “deporre” circa la loro conoscenza dei fatti.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte ottava 03Qui prendiamo tuttavia in esame il romanzo forse più famoso, La pietra di Luna. La vicenda è assai complessa, anche in questo caso viene raccontata da più voci diverse, proposte attraverso le relazioni o le lettere di una decina di personaggi, e procede a ritroso: la verità la si scopre cioè frugando nel passato. C’è di mezzo un diamante grosso come un uovo, la Pietra di Luna appunto, trafugato in un tempio induista da un generale delle forze coloniali inglesi e lasciato in eredità ad una nipote. Ci sono un giovane onesto e un po’ sprovveduto, innamorato della ragazza, che ad un certo punto viene ingiustamente accusato di aver fatto sparire il prezioso, e un altro spasimante, una perfetta carogna, vero responsabile della sparizione. Ci sono anche tre bramini arrivati dritti dritti dall’India per recuperare il sacro talismano, che si muovono nell’ombra. Insomma, c’è tutto ciò serve che per farne un feuilleton con sfumature poliziesche (e infatti del romanzo sono state fatte varie versioni cinematografiche e televisive, una anche in Italia nel 1974, che all’epoca mi era parsa inguardabile – e tanto più probabilmente lo sarà oggi). Alla fine c’è naturalmente l’happy end, i misteri si sciolgono, i buoni hanno la loro rivincita, i bramini il loro diamante, lo spasimante sciagurato e fellone fa la fine che si merita.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte ottava 04È un bel libro? Onestamente, non lo so. L’ho letto quasi sessant’anni fa, e per questa occasione l’ho soltanto risfogliato. All’epoca digerivo mattoni di ogni peso e dimensione (ma anche questo come spessore non scherza): credo che oggi non riuscirei ad arrivare sino in fondo. Ricordo comunque l’impressione generale che ne avevo tratto, che era di una certa lentezza, ma la cosa non fa testo: arrivavo fresco della lettura di Salgari e di Kim, ero avido di azione e di avventura, e il modo in cui l’opera era strutturata, ma soprattutto la presenza di una storia sentimentale, con protagonista una figura femminile incapace di apprezzare, la buonafede del protagonista, di andare al di là delle apparenze, non aiutava certamente. Inoltre Collins scrive bene, ma non è Kipling o Stevenson, e nemmeno Dickens, che pure oltre che un amico era il suo mentore, e ne apprezzava lo stile. Io poi l’ho letto in una traduzione d’anteguerra (s’intitolava Il diamante indiano, il traduttore era Alfredo Pitta – l’ho ritrovata su Wikipedia), e anche se all’epoca allo stile badavo poco e Pitta era un eccellente traduttore, la trasposizione in italiano pesava parecchio (ho una mia teoria sulle trasformazioni minime subite dalla lingua inglese negli ultimi due secoli, al contrario di quanto è avvenuto per quella italiana.

Comunque, La Pietra di Luna conobbe alla sua uscita un incredibile successo, ma non fu una rivelazione: come ho anticipato Collins aveva già pubblicato anni prima quella che è probabilmente la sua opera più importante, La donna in bianco, e una serie di altri romanzi che gli avevano procurato una certa notorietà presso il grande pubblico.

E non era noto solo per le sue opere, ma anche per le sue stranezze. La natura non lo aveva trattato coi guanti. Era di statura men che mediocre, con una testa sproporzionatamente grande rispetto al corpo; inoltre un’evidente protuberanza gli deformava da un lato il capo. Era miope e goffo nei movimenti, e a partire dai trent’anni si rivelò affetto da una forma di diabete cui certamente non giovavano le abitudini di vita disordinate (l’alcool, l’amore per la buona cucina e per il sesso, il laudano. Quest’ultimo soprattutto: negli ultimi anni per lenire i crescenti dolori ne assumeva dosi che avrebbero stroncato un cavallo). Fin da giovanissimo sfidò tranquillamente tutte le convenzioni borghesi, nell’abbigliamento, nei rapporti (visse praticamente da bigamo, con una situazione sentimentale incasinatissima, ma che lui reggeva con estrema naturalezza), nelle tematiche affrontate. Nei suoi romanzi si parla ad esempio dei problemi connessi all’handicap fisico, di ossessioni sessuali narrate senza reticenze, dei lati oscuri dell’animo umano e di quello ipocrita della società vittoriana, delle conseguenze dei disturbi mentali e degli orrori della cronaca nera, ecc… Insomma, sembra che Collins abbia preso di petto la sua scarsa rispondenza ai canoni estetici e comportamentali dell’epoca per mettere questi ultimi in discussione senza troppi problemi, anzi, per infischiarsene tranquillamente. Ufficialmente era scapolo ma in realtà visse per trent’anni legato a due donne contemporaneamente, senza preoccuparsi dello scandalo: così come non si preoccupava delle critiche negative con le quali erano accolte ad esempio alcune sue commedie: se le rappresentazioni si rivelavano un fiasco, semplicemente riponeva il tutto nel cassetto e partiva a scriverne un’altra.

Torniamo però a La Pietra di Luna. Il romanzo fu pubblicato nel 1868 e secondo T.S. Eliot era “il primo, il più lungo e il migliore dei romanzi polizieschi inglesi”. Eliot giudicava infatti il sergente Cuff, colui che conduce l’inchiesta, come il detective perfetto, superiore a Sherlock Holmes, in quanto “persona viva e vera, brillante senza essere infallibile”. Altri invece hanno classificato l’opera come “romanzo epistolare”, esemplare raro nella tradizione letteraria britannica. E altri ancora come un preludio al decadentismo.

Insomma, questa recensione improvvisata credo mi indurrà a riprendere seriamente in mano il libro, per riscoprirlo. Per il momento però questo piacere lo lascio a voi.

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Io volevo invece parlare di Wilkie Collins come scrittore di libri di viaggio. Per farlo devo fornire qualche ulteriore ragguaglio sulla sua biografia. La fortuna di Collins, che aveva cercato dapprima la sua strada nella pittura (era figlio e fratello di pittori affermati) senza ottenere grossi risultati, fu incontrare nel 1851 Charles Dickens, che conquistato dalla verve, dall’intelligenza e anche dalla spregiudicatezza del nostro lo invitò a scrivere sulla rivista letteraria della quale era editore e direttore. La collaborazione divenne ben presto un’amicizia destinata a durare a lungo, incrementata anche dallo stabilirsi di un rapporto di parentela indiretta (il fratello minore di Wilkie aveva sposato la figlia di Dickens) e cementata soprattutto dai viaggi che i due intrapresero assieme.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte ottava 06Collins aveva già viaggiato in precedenza, girando appena adolescente con la famiglia per un anno e mezzo in Italia in Francia, e tornando a più riprese sul continente negli anni successivi. Nel 1850, seguendo una moda che aveva preso piede nell’isola, aveva percorso insieme ad un amico, Henry Brandling, un itinerario a piedi attraverso la Cornovaglia. Brandling avrebbe poi illustrato il diario dato alle stampe da Wilkie col titolo Rambles beyond Railways (Passeggiate oltre la ferrovia), e proprio la lettura di quel diario aveva spinto Dickens a cercare di conoscerne l’autore. Nell’estate del 1853 l’amicizia tra i due era ormai così consolidata da indurli a partire, assieme al pittore Augustus Egg, per un lungo viaggio in Svizzera e in Italia, del quale entrambi lasciarono un resoconto attraverso le lettere.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte ottava 07Di qualche anno posteriore (1857) è invece la pubblicazione di un libro scritto a quattro mani, The Lazy Tour of Two Idle Apprentices (tradotto in italiano quarantacinque anni dopo come Il pigro viaggio di due apprendisti oziosi). Vi si racconta la vacanza spensierata che i due letterati si erano concessi, presumibilmente un paio d’anni prima, vagabondando senza alcuna meta prefissata dalla Cumbria allo Yorkshire, spostandosi in treno per fare tappa nelle diverse stazioni e girovagando poi su carrozzini o a piedi per le campagne circostanti. “I giovani fuorviati che così si sottrassero al loro dovere verso la padrona da cui avevano ricevuto molti favori (ndr: la letteratura), erano spinti dalla bassa idea di fare un viaggio perfettamente ozioso, in qualsiasi direzione. Non avevano intenzione di andare da nessuna parte in particolare; non volevano vedere nulla, non volevano sapere nulla, non volevano imparare nulla, non volevano fare nulla. Volevano solo essere oziosi”. Sono talmente decisi a lasciarsi alle spalle le grane del lavoro e lo stress della metropoli da assumere persino per l’occasione del viaggio identità nuove, scegliendosi nomi ad hoc. Dickens diventa pertanto Mr Francis Goodchild, Collins Mr Thomas Idle. E questo, ai fini della narrazione, consente a entrambi di essere liberamente sia autoironici che critici l’uno dell’altro, sottolineando e accentuando reciprocamente manie e difetti.

In realtà il racconto dei due apprendisti oziosi sembra soprattutto un pretesto offerto agli autori per introdurre intermezzi di storie del fantastico, del mistero e del soprannaturale, narrate durante le soste del viaggio: anche se poi alcuni episodi, come l’ascensione sotto la pioggia alla montagna nera di Carrok Fells e la successiva discesa nella nebbia più fitta sono davvero pezzi da antologia dello humor britannico, degni del miglior Jerome.

Il libro è diviso in cinque capitoli, ciascuno dei quali ha una sua autonomia narrativa (dovuta anche al fatto che originariamente la storia era stata pubblicata a puntate su una rivista) ed è giocato sul contrasto tra i caratteri dei due: l’uno (Goodchild), iperattivo e nevrotico, portato a trasfigurare visionariamente gli accadimenti e gli incontri e a cogliere i particolari: “Goodchild era laboriosamente pigro, e si sarebbe preso su di sé qualsiasi quantità di fatica e lavoro per assicurarsi di essere pigro; in breve, non aveva un’idea migliore dell’ozio di quella che fosse un’inutile industria”; l’altro (Idle), indolente e tranquillo, realista e poco o nulla incline all’avventura. “Thomas Idle, d’altro canto, era un pigro del tipo irlandese o napoletano puro; un pigro passivo, un pigro nato e cresciuto, un pigro coerente, che praticava ciò che avrebbe predicato se non fosse stato troppo pigro per predicare; un intero e perfetto crisolito di ozio.

Qui ci starebbe ora una bella tirata sull’idea di “ozio”, paragonabile in qualche maniera a quella latina di Cicerone e di Orazio, coltivata da altri scrittori inglesi come Stevenson e appunto Jerome: ma ve la risparmio, credo di averne già abbondantemente trattato in un altro pezzo (cfr. Per strada senza ombrello). Nel libro di cui sto parlando è naturalmente Collins a teorizzarla e a spingerla sino alle sue implicazioni più radicali: “Questi due avevano spedito il loro bagaglio personale in treno: tenendo solo uno zaino a testa. Idle ora si applicava a rimpiangere costantemente il treno, a seguirlo attraverso i meandri della Guida di Bradshaw e a scoprire dove si trovava ora, e dove ora, e dove ora, e a chiedersi a cosa servisse camminare, quando si poteva procedere a un ritmo del genere. Era per vedere il paese? Se era quello lo scopo, guardatelo dai finestrini della carrozza. C’era molto di più da vedere lì che qui. Inoltre, chi voleva vedere il paese? Nessuno. E ancora, chi camminava? Nessuno. I ragazzi partivano per camminare, ma non lo facevano mai. Tornavano e dicevano di averlo fatto, ma non lo facevano. Allora perché avrebbe dovuto camminare? Non avrebbe camminato. Lo giurava su questa pietra miliare!”.

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A dispetto dei caratteri contrastanti, o forse proprio in ragione di essi, i due risultano perfettamente complementari. Dickens-Goodchild marcia instancabile e inossidabile al suo ritmo, vede mete interessanti ovunque ed escogita sempre nuove occasioni per testare il livello della propria “laboriosa” oziosità. Collins Idle oppone resistenza passiva, ma è troppo pigro anche per resistere, e finisce costantemente coinvolto. “Goodchild (che aveva già iniziato a dubitare di essere pigro: come è sempre il suo modo di fare quando non ha niente da fare) aveva letto di una certa vecchia collina o montagna nera del Cumberland, chiamata Carrock, o Carrock Fell; ed era giunto alla conclusione che sarebbe stato il trionfo culminante dell’Ozio scalarla. Thomas Idle, soffermandosi sulle pene inseparabili da quella conquista, aveva espresso i più forti dubbi sull’opportunità, e persino sulla sanità mentale, dell’impresa; ma Goodchild aveva vinto la sua battaglia, e se ne andarono.”

A condurre il gioco della narrazione, almeno per la parte diaristica, è però lui. Lo si desume dal fatto che è quasi sempre lui a proporre sconsolate considerazioni su ciò che sta accadendo, e a stigmatizzare così l’iperattivismo del compagno: “Non sei capace di divertirti. Non sai nemmeno cosa sia. Di ogni cosa fai un lavoro. Quando un altro si bagnerebbe la punta del piede nell’azione o nelle emozioni, tu ci sprofondi dentro. Un uomo che non può fare niente a metà mi sembra terribile”.

Le note paesaggistiche, antropologiche o di costume sembrano invece venire dagli occhi e dalla penna di Dickens: “L’oste non era abbastanza pigro, non era affatto pigro, il che era un suo grande difetto, ma era un bell’esemplare di uomo del nord, o di qualsiasi altro tipo di uomo. Aveva una guancia rubiconda, un occhio luminoso, una corporatura robusta, una mano immensa, una voce allegra e parlante e uno sguardo dritto, luminoso e ampio”.

Oppure “Buone case resistenti alle intemperie, calde e piacevoli, ben intonacate di calce bianca, punteggiano scarsamente la strada. Bambini puliti che escono per guardare, portando altri bambini puliti grandi quanto loro. Raccolto ancora in giro e molto piovuto; qua e là, raccolto ancora non mietuto. Giardini ben coltivati annessi ai cottage, con abbondanza di prodotti forzati fuori dal loro duro terreno. Angoli solitari e selvaggi; ma le persone possono nascere, sposarsi e seppellirsi in tali angoli, e possono vivere e amare ed essere amate, lì come altrove, grazie a Dio! (Osservazione del signor Goodchild)”.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte ottava 09E ancora: “Qui, di nuovo, c’erano stazioni con niente in funzione se non una campana, e meravigliosi rasoi di legno piazzati in alto su grandi pali, che radevano l’aria. In questi campi, i cavalli, le pecore e il bestiame erano ben abituati al meteorite tonante, e non ci facevano caso; in quelli, erano tutti insieme a correre e una mandria di maiali li inseguiva. La campagna pastorale si oscurò, divenne carbonifera, fumosa, infernale, migliorò, peggiorò, migliorò di nuovo, divenne aspra, divenne romantica; era un bosco, un ruscello, una catena di colline, una gola, una brughiera, una città cattedrale, un luogo fortificato, una landa desolata. Ora, miserabili abitazioni nere, un canale nero e torri nere e malate di camini; ora, un giardino curato, dove i fiori erano luminosi e belli; ora, una landa desolata di orribili altari tutti in fiamme; ora, i prati umidi con i loro anelli delle fate; ora, la macchia rognosa di terreno edificabile incolto fuori dalla città stagnante, con l’anello più grande dove la settimana scorsa c’era il Circo. La temperatura cambiò, il dialetto cambiò, la gente cambiò, i volti si fecero più affilati, i modi si fecero più corti, gli occhi più astuti e duri”.

Per concludere però torno a Collins: “Sdraiato sul divano, Thomas non fece alcun tentativo di superare le ore, ma lasciò passivamente che le ore lo attraversassero. Laddove altri uomini nella sua situazione avrebbero letto libri e migliorato le loro menti, Thomas dormiva e riposava il suo corpo. Laddove altri uomini avrebbero meditato ansiosamente sulle loro prospettive future, Thomas sognava pigramente la sua vita passata. L’unica cosa solitaria che fece, che la maggior parte delle altre persone avrebbe fatto al suo posto, fu di decidere di apportare alcune modifiche e miglioramenti al suo modo di esistere, non appena gli effetti della sventura che lo aveva colpito fossero tutti passati. Ricordando che la corrente della sua vita fino a quel momento era fluita in un fluido flusso di pigrizia, occasionalmente turbata in superficie da una leggera increspatura passeggera di operosità, le sue idee attuali sull’argomento dell’auto-riforma lo portarono, non come il lettore potrebbe essere portato a immaginare, a progettare progetti per una nuova esistenza di intraprendenza e impegno, ma, al contrario, a decidere che non sarebbe mai più stato attivo o industrioso, se solo avesse potuto evitarlo, per tutta la sua futura carriera”.

A dispetto di quanto si vorrebbe pensare, una enunciazione di questo tenore non è affatto improbabile o esagerata, non c’è alcuna forzatura letteraria. Mi ha immediatamente fatto tornare alla memoria la dichiarazione d’intenti pronunciata da un amico che di Thomas Idle avrebbe potuto essere il gemello, in una notte di capodanno di molti anni fa festeggiata al Capanno, quando gli riuscì di rialzare la testa tra due lunghi abbiocchi: “Ho deciso: – disse – dal prossimo anno non lavoro più”. Che, considerati i precedenti, è considerata la miglior battuta del secolo scorso.

Il libro nel suo assieme invece mi ha fatto ricordare proprio quelle notti, e il profumo genuino e intenso di amicizia che vi si respirava, Ce n’è abbastanza per essere grato per sempre a Thomas Idle.

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I romanzi gialli e gli autori inglesi (parte settima)

Alan Alexander Milne

di Vittorio Righini, 29 novembre 2024

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte settima 01Non fatevi ingannare da questa foto di Milne (Gran Bretagna, 1882 – 1956), ma è l’unica che ho trovato riproducibile. In base a questa foto, potreste pensare d’essere di fronte a un emulo di Sherlock Holmes. Invece Milne ha scritto un solo romanzo giallo nel 1922, The Red House Mistery (nella versione inglese), Il Dramma di Corte Rossa nell’edizione italiana, che personalmente non mi è dispiaciuto ma verso il quale ero predisposto ad affrontare uno di quei romanzi (come scriveva Buchan, vedi precedente puntata) “di elementare tipo di narrativa”. Elementare sì, ma forse un po’ più tradizionale rispetto ai 39 Scalini e abbastanza indovinato nel suo svolgimento. Ho deciso, nel vostro interesse, di non continuare a scrivere le mie impressioni su questo romanzo, ma fare un copia e incolla (in sintesi, e saltando qui e là, mi si perdoni sennò andavamo troppo per le lunghe) della introduzione scritta all’epoca per la edizione del 1976 Oscar del Giallo Mondadori:

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte settima 02«Questo libro potrà irritare il lettore, o sembrargli altrimenti piacevole. Perché è il condensato di tutto quanto non si sopporta più in un poliziesco. È talmente datato da sembrare un pezzo di antiquariato […] è il rispettabile capostipite di una lunga e alla fine lagnosa famiglia di britannici gialli campestri, arredati da personaggi fissi […] ricchi proprietari, colonnelli a riposo, esquires, servitù, treni locali e gioielli, rette ragazze, deboli dandies, ponderati poliziotti locali. Gli ingredienti di questa Arcadia gialla compaiono identici e blandamente dissacrati nei romanzi umoristici di Woodhouse… Erano gialli ‘‘perbene’’, insomma, e si deve dire che fu una cosciente e redditizia conversione editoriale di classe. Tutti gli anni Trenta sono farciti di questi romanzi, nonostante i gialli americani, nonostante Simenon”.

E qui interrompo la prefazione, perché anche questo severo recensore ammette che quello che scrive Milne è quello che vuole leggere la gente, in terrazzo o in giardino (se ne avete uno) oltre che sotto il solito ombrellone. Raymond Chandler attaccò Milne per questo suo libro, reo di noncuranza strutturale e di colpevole dilettantismo. Rex Stout invece, intravedendo la formula alla Agatha Christie, definì il libro incantevole.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte settima 03Ma la cosa più divertente è che a Milne di tutte queste chiacchiere non importò affatto. Il nostro infatti si è guadagnato il plauso e l’affetto di quasi tutti i bambini nati nella prima metà del ‘900, per aver inventato il dolcissimo personaggio di Winnie the Pooh, orsetto pupazzetto, che, accompagnato nei due libri dal disegnatore E. H. Shepard, fece la fortuna di Milne e delle sue generazioni successive, che ancora si dividono i diritti pagati dalla Disney almeno fino al 2027, con un successo planetario tra libri, cartoons, pellicole d’animazione e merchandising d’ogni tipo.

(Va detto che Winnie the Pooh in Italia non ha suscitato lo stesso entusiasmo che nei paesi anglosassoni; il successo enorme è in effetti maturato oltre Manica e oltre oceano, tanto da farlo paragonare a Lewis Carroll e alla sua Alice).

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte settima 04Riprendo l’introduzione, a spizzichi e bocconi: “Il libro è scritto per lettori svagati, per gentili signore che non vogliono essere oppresse, per giovani che abbiano da riempire un’ora troppo calda, per vecchie signore che amano sonnecchiare […]”. Queste ultime considerazioni mi paiono un po’ troppo snob (io, in effetti, sono un vecchio signore che ama sonnecchiare, e allora?) e il libro non è così debole come sembra dipingerlo il recensore.

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Poi, sempre lo stesso curatore si butta in una postfazione, a mio parere evitabilissima, del tipo “ve lo avevo detto? delusi? era chiaro?”, piena di considerazioni sui presunti errori letterari di Milne nella costruzione del giallo. Ci spiega come lui stesso avesse intuito il finale in anticipo, del perché questo andava detto e questo no …: insomma, una postfazione dalla quale si evince più che altro la sua profonda autostima.

Il recensore in oggetto è Claudio Savonuzzi (1926-1990). Fu un giornalista del Resto del Carlino, de La Stampa, e lavorò alla Rai come redattore nella metà degli anni ‘60 in un programma che andava in onda alle 22, TV7; era un rotocalco interessato (e interessante) ad argomenti nazionali e internazionali, una sorta di Report non politicamente estremizzato ma moderno per quei tempi. Savonuzzi era un uomo di profonda cultura e spesso si occupava di arte sui quotidiani per i quali lavorava. Forse era solo un po’ troppo immerso nella parte, ma i giornalisti che poi scrivono libri (tantissimi, sono tantissimi, e alcuni di loro sembra abbiano un diritto divino per pubblicare libri, dato il contesto lavorativo da cui provengono, e pare siano intoccabili, come una casta indiana).

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte settima 06Non sto a tediarvi con le note sulla vita di Milne, non sono poi così interessanti, ma vi invito alla prossima puntata, l’ultima di questa piccola serie, che coinvolge il primo vero autore di romanzi gialli e il suo (lunghissimo …) capolavoro.

I romanzi gialli e gli autori inglesi (parte sesta)

John Buchan, primo barone Tweedsmuir

di Vittorio Righini, 9 novembre 2024

Ho riletto I Trentanove Scalini ad anni di distanza dalla prima volta, perché è il romanzo più famoso di Buchan, il più facile da reperire, scorre veloce ed è leggero. Romanzo da ombrellone. Non è un giallo cervellotico, ha una trama piuttosto semplice e un epilogo immaginabile, ma, signori, è stato scritto nel 1915, quasi centodieci anni fa! Non è un’opera storica, che col tempo migliora, è un semplice giallo spionistico ambientato in gran parte nel sud rurale dell’Inghilterra ai primi del secolo scorso.

Non parliamo di un capolavoro. Buchan stesso infatti definisce questo genere “elementare tipo di narrativa”: però il pubblico di quei tempi era avvezzo a simili storie così movimentate, e fini per decretarne il successo mondiale.

Al contrario di quanto accade con un autore come Innes, qui non c’è da contorcersi per capire dove vuole arrivare Buchan. La storia si svolge in leggerezza (è una sorta di “grande fuga” nelle campagne per evitare la morte o l’arresto) e, pur con qualche originale colpo di scena, lo schema narrativo offre davvero poca sostanza. I dialoghi sono piuttosto elementari, a volte davvero improbabili. Il personaggio principale, Richard Hannay, si ispira a un amico personale di Buchan, un militare di nome Ironside.

Il libro ebbe un enorme successo, e da questo romanzo Hitchcock trasse l’ispirazione per The 39 Steps, uscito in Italia nel 1935 col titolo Il Club dei 39, ottenendo anche in questo caso un grandissimo successo, e ispirando ben tre remakes, l’ultimo del 2008.

Nel film peraltro la storia è stata ampiamente “riveduta e corretta”, soprattutto con l’introduzione di due personaggi femminili, perché nel 1935 lo spettatore voleva forse più sostanza e meno fantasia.

L’autore ebbe davvero una vita intensa: nato a Perth nel 1875, in gioventù fu ottimo poeta, vincitore di alcuni premi letterari, poi si laureò in Legge, ma abbandonò subito l’attività legale per darsi alla politica. Fu Segretario di Arthur Milner, Amministratore delle colonie in Sud Africa, e gli anni trascorsi in quel paese gli servirono poi d’ispirazione per la sua carriera da romanziere.

Tornò a Londra, dove si occupò di editoria, e nella Prima Guerra Mondiale fu corrispondente in Francia per il Times e si occupò della propaganda bellica nel suo paese. Nel 1918, fu persino nominato Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia.

Dopo la guerra iniziò a tempo pieno la carriera di romanziere (romanzi storico-biografici e romanzi di spionaggio) che gli regalò grande successo e fama anche fuori dall’Inghilterra. Dopo la nomina a Tesoriere presso l’Università di Oxford, nel 1927 divenne membro del partito conservatore nel parlamento inglese.

Raggiunse la Presidenza della Scottish Historical Society, poi nel 1935 divenne Governatore Generale del Canada. Sia lui che la moglie, Lady Susan Buchan, anche lei scrittrice, si dedicarono molto alla valorizzazione della cultura canadese, con frequenti viaggi di studio in tutto il Canada, comprese le zone artiche. Ricevette Lauree ad Honorem da una moltitudine di Università Inglesi e Canadesi anche per il suo impegno al miglioramento delle condizioni di vita delle varie etnie canadesi, e per il rispetto della loro cultura originaria. Pacifista convinto, lavorò con Roosevelt e con il Primo Ministro canadese Mackenzie per cercare di scongiurare il secondo conflitto bellico, ma senza successo.

Morì nel 1940 in Canada, a Montreal, a seguito di uno sfortunato incidente in cui cadde battendo la testa e nonostante le cure e le operazioni non riuscì a ristabilirsi.

In italiano sono stati tradotti soltanto sei romanzi di spionaggio di Buchan, e cioè: Il mantello verde; Il mistero della collana; I 39 gradini; La casa del potere; La criminale sfida di John Macnab; Le missioni segrete di Richard Hannay,

Ma sono solo una goccia nel mare della sua produzione. Il mantello verde (1916) è un sequel de I 39 Scalini, ed molto inferiore al precedente. È l’unico che ho recuperato; gli altri sono da cercare sul web o nei mercatini perché sono stati stampati e/o ristampati da svariate case editrici.

Ho l’impressione che il target a cui si rivolge Buchan sia di livello più basso rispetto a quello che ci si poteva aspettare da un uomo colto come lui; volutamente più basso, per ottenere un successo inizialmente facile, che gli aprisse le porte alla pubblicazione di altri lavori e alla fama. Questo tipo di narrativa è un prodotto di massa, che si rivolge a lettori abituati ai romanzi a puntate che comparivano sulle riviste; e queste puntate devono contenere trame incalzanti, scrittura leggera, colpi di scena ad ogni uscita. Le ambientazioni spesso esotiche, i grandi complotti, le società segrete erano gli ingredienti più adatti per il palato di lettori che cercavano solo un’evasione non impegnata.

Penso che Ian Fleming abbia dato più che una scorsa a questo libretto …

I romanzi gialli e gli autori inglesi (parte quinta)

L’assassino sale in cattedra

di Vittorio Righini, 29 ottobre 2024

Michael Innes è lo pseudonimo sotto il quale John Innes Mackintosh Stewart (nato a Edimburgo, nel 1906) ha pubblicato circa cinquanta storie gialle.

Il suo libro più noto, Death At the President’s Lodging (in italiano Morte nello Studio del Rettore, 300 pagine, edito da Polillo Editore nella troppo sottovalutata collana “I Bassotti”), che è anche il primo della serie poliziesca, lo scrisse mentre viaggiava nel 1935 in nave dall’Inghilterra all’Australia, dove si stava recando per prendere possesso della cattedra di inglese nella Università di Adelaide.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte quinta 03Perché parto subito in quarta? Perché questo libro, un giallo puro con un ispettore di Scotland Yard, con un assassinio e un’indagine, è di una complessità narrativa non indifferente; il tempo in nave non gli dev’essere mancato, per infilarci dentro tutti i particolari tipici del delitto ‘‘quasi’’ perfetto. La vicenda si svolge nell’immaginario College inglese di St Antony, dove di immaginario c’è solo il nome, perché l’ambiente è esattamente quello oxfordiano che Innes conosceva benissimo. L’uccisione di un anziano docente smuove le acque e porta a galla segreti, invidie e rivalità: per la scuola non è solo una tragedia, è la drammatica irruzione della volgarità in un ambiente che voleva credersi, e soprattutto apparire, immacolato. Il preside ne è sconvolto, mentre i colleghi del professor Umpleby (i sette sospettati) ne fanno un’occasione per gettarsi addosso l’un l’altro i sospetti e per confondere le idee dell’ispettore Appleby con falsi indizi e sotterfugi. Ma alla fine è l’ispettore, che inizialmente era piuttosto timoroso del confronto con tanta cultura accademica, a vincere nel gioco delle intelligenze e a dipanare la matassa. Il libro non è, tuttavia, un semplice esercizio intellettuale pretenzioso (lo avrei mollato subito), ma un racconto poliziesco ortodosso, anche se molto complesso e ingegnoso. Non nego che la lettura sia abbastanza complessa, e che in alcuni punti si avanzi a stento, ma l’ambientazione e i tempi della storia lo rendono comunque interessante. Il finale è giustificato da un percorso logico e perfettamente riconoscibile, pur nella baraonda generale creata dai vari indagati.

Non ho trovato altri libri del primo periodo di Innes tradotti (a meno che qualche vecchia edizione mi sia sfuggita); nel 1961 venne pubblicato Per quarantottore silenzio, nel 1974 Delitto ad Elvedon Court e nel 1976 Meglio erede che morto, ma sono opere minori.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte quinta 02Morte nello Studio del Rettore, pubblicato in Inghilterra nel 1936, conobbe subito un enorme successo di pubblico e di critica, e venne persino considerato all’epoca il miglior debutto di qualsiasi scrittore. Innes venne quindi immediatamente traghettato nell’olimpo dei giallisti. Scrisse circa un romanzo all’anno fino al 1986, ma il suo periodo migliore fu quello dal 1936 al 1940. In questi anni scrisse, dopo Morte nello Studio del Rettore, nel 1937 Hamlet, Revenge; nel 1938 Lament for a Maker; nel 1939 Stop Press. In una classifica dei migliori romanzi polizieschi inglesi del ‘900 tutti e quattro figurano tra i primi dieci, dietro solo ad Agatha Christie e a Dickson Carr. I successivi romanzi, tutti pubblicati sotto pseudonimo non furono al pari dei primi, ma raggiunsero la ragguardevole cifra di circa cinquanta libri, garantendogli una vita agiata e permettendogli comunque di esercitare la sua professione originaria.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte quinta 04

Innes fu infatti un professore universitario e un apprezzato critico letterario. Uomo di profonda cultura, aveva studiato a Edimburgo e a Oxford, poi si era trasferito appunto a Adelaide e dopo la seconda guerra era tornato in Inghilterra per insegnare inglese all’Università di Leeds e poi diventare l’equivalente di Fellow alla Christ Church University di Oxford (il termine Fellow, nelle università Oxfordiane, indica un membro interno di un College, con una posizione più elevata del professore ordinario. Qualcuno lo interpreta anche come ricercatore, ma è una posizione certo non paragonabile a quella dei ricercatori dei nostri Atenei – che sono sovente dei giovani laureati sfruttati e spremuti come limoni dai baroni delle cattedre).

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte quinta 06Scrisse a suo nome anche una ventina di romanzi di genere vario e sei opere di critica letteraria, su Joyce, Conrad, Shakespeare e altri eminenti scrittori inglesi: ma la sua fama rimane legata alla figura dell’Ispettore John Appleby (che nel corso degli anni si guadagnerà il titolo di Sir e diverrà il capo di Scotland Yard), poliziotto erudito, raffinato ed estremamente efficace. Nella sterminata galassia del giallo inglese il suo stile lo colloca nella scuola “donnish”, che vira sul fantastico e presenta numerose allusioni letterarie. Lui stesso definiva le sue come “opere di confine tra il racconto poliziesco e il fantasy; hanno un sapore un po’ letterario ma i loro valori rimangono quelli del melodramma e non della narrativa vera e propria”. E in effetti, pare le abbia sempre considerate soprattutto come pretesti per una prosa raffinata e per battute brillanti: il che, alla lunga, può diventare troppo scopertamente artificioso, e in definitiva noioso.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte quinta 07Cosa che non ho potuto constatare personalmente, perché ho letto solo Morte nello Studio del Rettore. E questo mi sento tranquillamente di segnalarlo perché è veramente un giallo all’inglese che più tipico non si può; la narrazione a volte è complessa al punto da confondere la mente del lettore, perché tra gli indagati (tutti Fellows, quindi menti complesse) succede un po’ di tutto, le divagazioni psicologiche sono frequenti: ma alla fine la trama sta comodamente in piedi.

Se però vi aspettate azione e colpi di scena, rivolgetevi altrove.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte quinta 05

I romanzi gialli e gli autori inglesi (parte quarta)

Maugham, l’agente inglese

di Vittorio Righini, 25 ottobre 2024

William Somerset Maugham è nato a Parigi nel 1874, ma, il padre, avvocato preposto all’ambasciata britannica nella capitale francese, fece in modo che la nascita venisse registrata nell’ambasciata, territorio appunto britannico. Questo per evitare al figlio una futura eventuale coscrizione nell’esercito francese, in caso di guerra (e la Francia di guerre ne ha sempre fatte molte). Ecco perché William nacque tecnicamente in Francia, e in Francia anche morì, a novantun anni, avendo scelto di trascorrere i suoi ultimi anni a Cap Ferrat, la perla della Cote d’Azur, ma risultò sempre inglese a tutti gli effetti.

Ebbe un’infanzia abbastanza complicata; perse infatti prematuramente entrambi i genitori, a due anni di distanza uno dall’altro, e venne affidato allo zio, Henry Maugham, Vicario di Whitstable, una persona rigida e formale, incapace di affetto. Peggio ancora fu il suo rapporto con le scuole inglesi: non parlava perfettamente l’inglese, perché la sua prima lingua era in effetti il francese, e veniva bullizzato dai compagni. Ne risentì a tal punto da mettersi a balbettare, e questo disturbo lo accompagno per tutta la vita, con alti e bassi a seconda delle situazioni e delle emozioni. L’insieme di queste esperienze formò in lui un carattere severo, critico e amaro, quello che avrebbe poi espresso nelle sue opere.

Cinque anni al Kings College di Londra, a studiare medicina, gli permisero di affrontare con maggiore conoscenza la vita da adulto. Gli diedero modo soprattutto di confrontarsi con una classe sociale inferiore alla sua, che finalmente lasciava libero corso a emozioni e sentimenti che lui non aveva mai potuto esprimere nella sua repressa adolescenza. Fu proprio la conoscenza e lo studio delle condizioni di vita del mondo piccolo borghese e operaio a determinare il successo del suo primo libro, Liza di Lambeth, pubblicato a ventitré anni, che narra di un adulterio ed è ambientato nei sobborghi operai della capitale. È un racconto molto realistico, basato su una vicenda che Maugham aveva conosciuto e seguito in prima persona. Visti i riscontri positivi, il nostro lasciò perdere la medicina e si dedicò totalmente alla scrittura.

Ma non siamo qui per parlare dei successi di Maugham nella letteratura del Novecento. Capolavori come Schiavo d’amore, Lo Scheletro nell’Armadio e La Luna e Sei Soldi sono ben noti ai più e non sono certo queste quattro righe a volerli riscoprire. È fuor di dubbio comunque che Maugham scriva divinamente, e se a volte i suoi racconti trasudano dolore e pessimismo e allontanano un certo tipo di lettore, restano letture impagabili.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte quarta 02Quello che conta, per la mia breve indagine sui giallisti figli della perfida Albione (o, come in questo caso, dell’Ambasciata della perfida Albione) è scrivere appunto dei loro racconti polizieschi o di spionaggio, e con William Somerset Maugham il mio compito è estremamente facilitato. Mi risulta infatti che lo splendido Ashenden, l’inglese (nella mia vecchia edizione Garzanti del 1966, mentre oggi è ristampato come Ashenden, o L’agente inglese) sia il suo unico romanzo del genere; e non è un giallo ma un romanzo di spionaggio.

È anche un romanzo d’ispirazione autobiografica, perché Maugham ricama su basi conosciute, cioè su fatti da lui vissuti durante il periodo in cui collaborò con il S.I.S., il Secret Intelligence Service inglese, tra i quali una lunga e complessa missione in Russia nel 1917, e altre più brevi.

Nella realtà, Maugham viene mandato dal S.I.S. in Svizzera, con la scusa della stesura di una commedia, per “curiosare” tra i vari agenti ed ex-agenti infiltrati che a quel tempo rendevano la tranquilla Confederazione un posto interessante. Lì si potevano raccogliere le più svariate informazioni, comprese le finte fughe di notizie fornite da agenti dediti al doppio gioco.

Maugham quindi riversa in Ashenden le doti di un tranquillo e distinto Gentleman inglese, curioso ma non troppo, attento quanto basta, riservato il necessario e ottimamente introdotto nel tessuto delle piccole città svizzere. Più complesso invece il viaggio in Russia del 1917, con un compito decisamente più impegnativo se non improbo (rallentare o fermare l’ascesa dei bolscevichi nel paese), ed incentrato su un lungo dialogo in treno con un viaggiatore americano, personaggio decisamente fuori dal normale, per quei luoghi e tempi.

Leggo un commento che dice che il libro “costituisce una lettura affascinate e irritante allo stesso tempo”. È vero, è affascinante per come è scritto, per la sua profondità d’indagine e per la sua chiarezza d’intenti. Irritante perché a volte è tortuoso come il passo dello Stelvio. Interessante una riflessione di Ashenden: “C’è una certa eleganza nello sprecare il tempo. Qualunque stupido può sprecare il denaro, ma quando si spreca il tempo si spreca qualcosa che non ha prezzo”. Varrebbe da sola a consigliare il libro, che si raccomanda comunque per la qualità della scrittura, incantevole per i miei gusti un po’ barocchi.

Lo si trova sul web o sui banchi dei mercatini della domenica a pochi euro, ma ne vale molti di più.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte quarta 03

I romanzi gialli e gli autori inglesi (parte terza)

di Vittorio Righini, 11 ottobre 2024

Prosegue la breve panoramica di giallisti inglesi dei quali ho letto qualche romanzo.

Oggi è la volta di Richard (Horatio Edgar) Wallace (Inghilterra, 1875 – Stati Uniti, 1932), noto come Edgar Wallace.

Il personaggio è notevole, paragonabile ad Arthur Conan Doyle e ad Agatha Christie: uno dei maggiori scrittori di romanzi gialli, almeno quantitativamente, con all’attivo oltre 150 lavori tra il 1905 e il 1932, ma noto anche come commediografo, giornalista, drammaturgo e sceneggiatore. Era un uomo pieno di luci e di ombre: facile ad entusiasmarsi come a cadere nella depressione, tutt’altro che ordinato nella gestione della propria vita, fumava 80 sigarette al giorno e beveva 40 tazze di tè (secondo me i biografi esagerano, ma dobbiamo fidarci di quel che troviamo, non potendolo chiedere a lui). Guadagnò moltissimo, ma spese ancor di più, e quando si spense era sommerso da una montagna di debiti. Vulcanico, iperattivo, geniale, scriveva un romanzo o una commedia in un week-end (e qui mi ricorda un altro come lui, il caro Simenon, gran fumatore e sciupafemmine).

Aveva iniziato come corrispondente estero nel 1898, raccontando la Guerra Boera sul Daily Mail. Per qualche anno campò dello stipendio di giornalista in Sud Africa, spendendo sempre più di quanto guadagnava, tanto che quando tornò in Inghilterra, nel 1902, aveva solo 12 scellini in tasca e una moglie a carico: ma aveva anche tante idee da sviluppare. Voleva intraprendere la carriera di romanziere, non per una vocazione irrinunciabile, ma per mettere a frutto economicamente l’innegabile facilità di scrittura e le esperienze che aveva maturato. Per campare dovette però affidarsi ancora per qualche tempo all’attività di corrispondente, e tra il 1904 e il 1905 raccontò la guerra russo-giapponese: occasione che gli fornì ulteriori spunti per i successivi romanzi.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte terza 02Il primo di questi, I Quattro Giusti, uscito nel 1905, conobbe subito un largo successo, e può essere considerato il prototipo degli odierni thriller. In Italia è stato tradotto solo nel 1930. Non va confuso con un altro successivo, della stessa serie, nel quale i Giusti erano diventati tre, con un percorso inverso a quello dei Tre Moschettieri. A questo romanzo ne seguirono comunque altri 174, ai quali vanno sommati 24 lavori teatrali e un numero indefinito di racconti, di articoli giornalistici e di soggetti cinematografici (Pare abbia avuto una parte importante anche nella stesura del copione del film King Kong). Una produzione a livelli industriali, e di qualità molto diseguale.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte terza 03Una caratteristica interessante dei suoi romanzi è che non sono collegati uno all’altro: non c’è un personaggio (un detective, un ispettore, un commissario) che funga da trait d’union tra i racconti: le ambientazioni sono le più varie immaginabili, e le vicende sono slegate l’una dall’altra. Le indagini vengono spesso risolte da poliziotti anonimi, ma evidentemente dotati di grande fiuto. L’unico detective che compare con una certa frequenza è Mr. J.G. Reeder, uomo dall’aspetto risibile ma dotato di una mente “criminale”, che fortunatamente è al servizio della Polizia.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte terza 04Nell’estate scorsa ho letto un paio di questi romanzi: Stanza n. 13 del 1924 e Moneta Falsa del 1927. Curiosamente, entrambi trattano di falsari, di riproduttori di banconote false (per i quali Edgar provava evidentemente una certa ammirazione, magari anche un po’ d’invidia – per uno scialacquatore come lui avrebbe potuto essere una soluzione). Il primo è una storia abbastanza leggera, non priva di originalità ma piuttosto forzata, soprattutto nel finale. L’ambiente è quello della malavita inglese, la vicenda verte sulla ricerca del falsario imprendibile, tra ricatti famigliari, storie d’amore, infinite bassezze e vari morti sparati: comunque accettabile.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte terza 05Il secondo romanzo è più interessante; nell’edizione inglese si intitola The Forger (Il Falsario), in quella italiana Moneta Falsa; non sarebbe stata difficile o sgradita la traduzione del titolo inglese, tutto sommato.

L’ho letto in una edizione del 1935, la prima, comparsa nei Gialli Classici, in un paio di sere: mi si sbriciolava tra le mani, sul lettone, con gran gioia di mia moglie … Il traduttore doveva evidentemente rispettare i dettami fascisti, niente nomi stranieri ma italiani: così ha trasformato i bei nomi inglesi come Basil, Peter e Jane a favore di Basilio, Piero e Gina. Ora, Basilio Bianchi, per fare un esempio generico, è un bel nome e cognome italiano, abbinato con gusto, ma Basilio Hale non lo è; Gina Leith o Jane Leith? Peter Clifton o Piero Clifton? a voi l’ardua sentenza, saggi lettori dei Viandanti. Saranno delle belinate, come si dice anche qui nell’Alto e nel Basso Monferrato, ma per me hanno un valore. La storia invece è più interessante della precedente, e viene dato molto risalto a una presenza femminile, finalmente; in questi gialli inglesi le donne non hanno quasi mai nessuna importanza, qui invece hanno il ruolo di protagoniste.

Non ne ho letti altri perché, a mio modesto parere, il livello dei lavori di Wallace è inferiore a quelli di altri, meno noti e acclamati. Le storie si dipanano con molti colpi di scena, il lettore non si annoia, anzi, fino al finale resta avvinto al testo, e non nascondo di aver apprezzato una certa originalità nelle storie che ho letto: ma poi i finali, almeno quelli di questi due romanzi, lasciano il tempo che trovano, del tipo “e vissero felici e contenti”. Le vicende sono abbastanza truculente, la violenza psicologica è insita in molte pagine, c’è una abbondanza perfino eccessiva di eventi, che mi fa pensare che questi romanzi siano più americani che inglesi (d’altronde Wallace lavorò molto negli Stati Uniti, per conciliare le sue altre occupazioni come commediografo, giornalista, drammaturgo e sceneggiatore). Per capirci, nel romanzo della Tey che ho recensito la volta scorsa non compare un’arma o un fatto di sangue in tutto il libro, ma le sequenze narrative sono appassionanti anche senza queste componenti.

Dare un giudizio su Wallace dopo averne letti solo due titoli è riduttivo, ma mi sembra, da quanto ho letto, che non ci sia un romanzo capolavoro, un “faro” che sovrasta gli altri. Come non ce n’è uno indecente. Insomma, prevale un livello costante di mediocrità, sia pure intelligente, che temo faccia in definitiva somigliare una all’altra le varie storie. Non era di questo genere di autori che volevo scrivere, quando ho cominciato, ma non ho ritenuto giusto saltare Wallace solo perché lo trovo meno intrigante di altri.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte terza 06

I romanzi gialli e gli autori inglesi (parte seconda)

di Vittorio Righini, 27 settembre 2024

Non avevo intenzione di accettare la richiesta di Paolo di fornire, con cadenza settimanale, i miei articoletti da quattro soldi ai Viandanti. Perché pur essendo scritti molto semplici, frutto della lettura di questi romanzi a me cari, logicamente mi portano via del tempo, e la voglia è quella che è; inoltre, non sono mica Bonelli, che con le strisce di Tex ci campava … Ma Paolo mi ha fatto un’offerta che non ho potuto rifiutare: mi ha offerto il doppio di prima (prima mi offriva 0, ora mi ha offerto 00, come la farina). Così, all’incirca ogni due o tre settimane, scriverò per i Viandanti dei brevi saggi (?) commentando un autore per volta.

Nel leggere la sua introduzione alla mia prima parte, garantisco che nessun lettore sano di mente “attenderà con ansia ma con disciplinata pazienza gli imprevedibili (insomma!) sviluppi”. Per fortuna che c’è quel “insomma!”; ma non escludo che qualche autore meno noto vi incuriosisca, e questo sarebbe già un grande successo.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte seconda 02

Vi racconto quindi brevemente di una tizia di nome Elizabeth Mackintosh, una scozzese nata a Inverness nel 1894, e morta a Londra nel 1952. Avendo un cognome comune nel nord della Scozia, e in base alle consuetudini dell’epoca, utilizzò uno pseudonimo: Josephine Tey (e in un paio di casi pure maschile, Gordon Daviot, pare per avere maggiore credibilità presso gli editori del tempo).

Figlia di un fruttivendolo e di una insegnante, crebbe a Inverness, che è una località che, ve lo posso garantire per esserci passato brevemente, non mi è sembrata il massimo della mondanità e della vita sociale, nel classico clima spesso freddo, grigio e piovoso del Nord della Scozia.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte seconda 03Dopo le scuole dell’obbligo studiò in vari Istituti scolastici in città più grandi e seguì la professione della madre; intorno ai 25 anni, complice il lungo periodo di assistenza sanitaria che dovette fornire alla madre, interruppe il lavoro e cominciò a scrivere romanzi gialli. A volte erano ispirati a fatti da lei vissuti in prima persona nel suo periodo di insegnamento, con ambientazioni assimilabili a quelle conosciute in quei tempi, oppure si trattava di fatti riportati da altri, sui quali la grande fantasia e la profonda cultura della Tey intervenivano con successo. Scrisse dal 1926 al 1952, anno della sua scomparsa.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte seconda 04In Miss Pym, pubblicato tardi in Italia (in Inghilterra come Miss Pym Disposes), la Tey assiste a un’incidente in palestra che poi utilizza come la causa di un decesso nel romanzo, e non prevede ancora la figura dell’Ispettore Alan Grant, futuro punto di riferimento. Il primo romanzo che le procura una certa notorietà è The Man in the Queue (L’uomo in Coda, uscito da noi negli Oscar Mondadori). Qui compare per la prima volta Grant, e il romanzo, benché sia un poliziesco del tutto anomalo, ottiene un ottimo successo di critica e invoglia la Tey a proseguire nella sua carriera.

La Tey, al contrario di quanto ho scritto per gli autori della puntata precedente, sembra presentare un tipo di romanzo che rivela caratteristiche non molto difformi da quelle del classico “giallo”. Quindi sto per contraddirmi, perché ci sono l’ispettore, il morto ammazzato, l’indagine, insomma, niente di nuovo. Invece i due romanzi precedenti hanno un impianto e un andamento diversi da quelli classici, risultando molto originali rispetto alla produzione del tempo. E nel 1951, l’anno prima della sua morte, dà alla stampa quello che ritengo il suo lavoro meglio riuscito: La figlia del tempo.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte seconda 05C’è sempre l’Ispettore Grant, ricoverato però in ospedale per una caduta in una botola (mentre inseguiva un ladro), con relative fratture e contusioni. L’avvio può sembrare quello di La finestra sul cortile di Cornell Woolrich, uscito nel 1942 col titolo Ithad to be murder a nome Wiliam Irish (uno degli pseudonimi dell’autore americano) e poi ripubblicato nel 1944 come Rear Window, e infine ben più noto per la versione cinematografica di Alfred Hitchcok, con la splendida Grace Kelly e il bravo James Stewart. Ma il parallelismo finisce lì, con l’incidente che obbliga James Stewart e l’Isp. Grant nel letto di casa il primo e in quello d’ospedale il secondo.

Nel romanzo della Tey non ci sono finestre da cui sbirciare il vicinato, ma solo libri da consultare e amici con cui condividere i dubbi e le certezze di una curiosa indagine nel passato. Un’amica gli porta una serie di ritratti comprati in una libreria, perché confida nell’abilità di Alan Grant nell’interpretare i volti, una caratteristica che non dovrebbe mancare a un buon Ispettore di Polizia, insomma un “occhio clinico” (si fa per dire …).

Un Grant annoiato, a volte burbero con le infermiere e innervosito dalla lunga degenza, in effetti si incuriosisce per i tratti del volto di Riccardo III, l’ultimo Plantageneto (che regnò sull’Inghilterra fino alla sconfitta nella battaglia di BosworthField del 22 agosto del 1485, a conclusione della lunga Guerra delle Due Rose).

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte seconda 06Alan Grant nota che l’aspetto di Riccardo III nella stampa non sembra quello di un mostro, capace di uccidere i suoi due nipotini, figli di suo fratello Edoardo morto in battaglia (al quale Riccardo tra l’altro era legatissimo) per evitare che possano subentrargli un giorno come regnanti. E in effetti, rileggendo vari libri nel periodo di degenza, si rende conto di alcune sviste nella narrazione storica, e della controversa figura di Tommaso Moro (Sir Thomas More, o per i cattolici San Tommaso Moro), che pur non essendo presente fisicamente in quegli anni (quando morì Riccardo III, Moro aveva 5 anni) fu un netto propagandista della teoria Tudor che vedeva in Riccardo III un uomo abbietto e meschino, limitandosi a riportare informazioni di seconda o terza mano.

Da qui si dipana tutta la storia, che non sto a ‘‘spoilerare’’ nel caso qualcuno volesse leggersi il libro. Non nascondo che per andare avanti nella lettura ho dovuto dare una bella ripassata alla storia inglese di quel periodo, ma male non mi ha fatto. Mi sono appassionato fino all’ultima pagina quasi come se ci fosse la tensione di un tipico romanzo giallo, sebbene tutto avvenga solo nella mente dell’Ispettore. Un’inchiesta poliziesca su un fatto avvenuto quasi 500 anni prima, fatta in un letto di ospedale, che mette in dubbio gli scritti di molti storici … se non è un giallo originale questo, non so quale altro lo possa essere.

I romanzi gialli e gli autori inglesi parte seconda 07 The Daughter of Time

I romanzi gialli e gli autori inglesi (parte prima)

di Vittorio Righini, 15 settembre 2024

Quando Vittorio ha proposto una serie di brevi interventi, scanditi nel tempo ma strettamente consequenziali, su uno stesso argomento (la fiction “giallistica” inglese di alto livello), mi sono detto: eccola qui, ci arrendiamo anche noi al modello seriale di Netflix. Poi ci ho riflettuto, e ho realizzato che sul nostro sito quel modello lo abbiamo anticipato da quel dì, esplicitamente, e che il proto-modello nostro semmai era debitore degli albi settimanali a fumetti degli anni Cinquanta, dalle strisce di Tex e de Il grande Blek alle saghe che comparivano su L’Intrepido, su Il Vittorioso e su Il Monello, nei quali ogni puntata terminava invariabilmente con un (continua). A volte quelle storie andavano avanti per mesi, e ti educavano ad attendere con ansia ma con disciplinata pazienza gli imprevedibili (insomma!) sviluppi. Sono convinto che il dilagare di femminicidi e delitti insensati sia legato anche alla scomparsa delle storie a puntate e al prevalere di quelle autoconclusive e dei tempi da telefilm (o addirittura da spot). Bene, attendo allora con pazienza le prossime puntate, con la speranza che rispettino la vecchia cadenza settimanale. (il commento di Vittorio ve lo risparmio, è prevedibile come l’uscita di Capitan Miki da ogni sorta di guaio) (P.R.).

Ho dedicato parte delle letture estive ai vecchi autori inglesi che scrissero romanzi gialli nel secolo scorso, ma non so esattamente che terminologia usare in queste che sono anche storie di spie, di oscuri processi, di complicate ricerche legali nel passato, di lunghi viaggi, insomma un guazzabuglio di argomenti che non so come indicare.

Il giallo, come tutti sanno, è (copio e incollo): ‘‘un popolare genere di narrativa di consumo nato verso la metà del XIX secolo e sviluppatosi nel Novecento’’. Fu Edgar A. Poe, si dice, il primo nel 1841, con I Delitti della Via Morgue, ambientato a Parigi. Romanzi osteggiati dagli amanti della letteratura pura, vennero però premiati dalla gente comune che li apprezzarono moltissimo e da allora si sono moltiplicati, come potete ben notare guardando in una vetrina di una qualunque libreria al giorno d’oggi. (A puro titolo di curiosità, ho letto che il primo romanzo giallo italiano fu Il mio cadavere di Francesco Mastriani, uscito nel 1852 per l’editore Rossi di Genova, e che già conteneva tutti gli ingredienti del buon giallo).

Io in questa torrida (sebbene decorosamente piovosa) estate ho letto romanzi di Eric Ambler, Somerset Maugham, Graham Greene e altri. E tra questi romanzi, di gialli veri e propri (che so, il commissario, il morto ammazzato, il medico legale …) ne ho trovati proprio pochi. Per questo motivo vorrei analizzare, un poco alla volta, gli autori che ho letto (o riletto) recentemente.

I romanzi gialli e gli autori inglesi 01

Cominciamo dal primo autore, Eric Ambler, Londra, 1909 – 1998.

Parto dal libro più semplice, Topkapi – la luce del giorno perché mi è piaciuto tantissimo; avevo visto il film del 1964 alcune ere geologiche fa, con Melina Mercouri, Peter Ustinov e Maximilian Schell, ma il libro è sempre il libro; la narrazione parla di Atene e Istanbul, e questo per me è già un must, e la figura di Arthur Simpson (uno stordito ladruncolo e trafficone inglese che vive di espedienti e trucchi ad Atene, di padre inglese e madre egiziana, sempre alla ricerca di un passaporto che sia l’Inghilterra che l’Egitto gli negano per i suoi precedenti truffaldini), mi ha veramente rallegrato. Graham Greene deve aver studiato a memoria questo personaggio, perché Il Console Onorario gli deve molto … o viceversa? Vedremo …

La storia in sé non è trascendentale, ma scorre agevolmente, e se pensiamo che è ambientata nei primi anni Sessanta del Novecento, è certamente moderna e audace, ma non è la sua opera prima.

Molto più interessante e apprezzato in tutto il mondo, sempre di Ambler, La Maschera di Dimitrios, pubblicato nel 1939. Questa è una vera storia di spie, ma depurata dalle raffinatezze di certi autori; la storia è nuda e cruda, complessa, violenta e sporca, e si svolge tra Atene, Istanbul, Parigi, Smirne e la Bulgaria. Ricca di colpi di scena intelligenti, non facili semplificazioni, porta il lettore fino alla fine all’oscuro di quel che potrà succedere. Anche questo non è giallo, lo definisco una storia di spie ma siamo al limite dell’interpretazione, ed è vero che è il capolavoro di Ambler.

I romanzi gialli e gli autori inglesi 03

Ho poi letto Il caso Schirmer, del 1953, che definirei un legal thriller ante litteram, in riferimento alla moda degli ultimi anni di infilare avvocati d’ogni genere nei romanzi. Qui le componenti sono un’eredità, un morto del 1806 e la ricerca degli introvabili eredi, tramite un attento avvocato che 150 anni dopo la morte del de cuius fa un gran viaggio alla ricerca di notizie utili al suo compito. Non è trascinante né noioso, è solo un po’ lento ma, anche in questo caso, molto ben scritto e i personaggi sono curatissimi.

Facile e scorrevole Una sporca storia, che ho finito non tanto per la storia in sé, ma perché ricompare un sempre più stolto Arthur Simpson che, alla ricerca di un passaporto, si infila in una storia abbastanza improbabile. Difficile invece per i miei gusti Il Processo Deltchev, perché sembra più un articolo giornalistico freddo e impersonale che il racconto di un complicatissimo processo. Comunque, è difficile abbandonare un libro di Ambler una volta cominciato; anche senza essere notevole, lo si porta sempre alla fine, cosa che ultimamente non mi riesce con tutti i libri che affronto …

Ambler ha scritto molti altri romanzi, mi sono ripromesso di leggere il primo, La frontiera proibita, del 1936, e Dottor Frigo, del 1958, che, al contrario di Topkapi, presenta un personaggio molto simile a quello di Il Nostro Agente all’Avana di Greene; qui si tratta di capire chi si ispira a chi …

Ma ne scriveremo alla prossima puntata …

Dejà vu: … e il povero Abele?

di Paolo Repetto, 26 novembre 2023

e il povero Abele 02Lo “sfogo” (come lui stesso l’ha definito inviandocelo) di Carlo Prosperi è ben comprensibile in giorni nei quali da tutti gli organi di informazione gronda il compianto per l’ennesima donna massacrata da un fidanzato, da un compagno o da un marito respinto. Non bastano l’insensatezza e l’efferatezza della vicenda (e delle cento e passa altre analoghe che hanno intriso di sangue quest’anno già disgraziato), dobbiamo anche sorbirci la morbosa caccia televisiva ai dettagli più macabri e ai pareri e alle testimonianze più stupide, l’insurrezione di ragazzine che hanno scoperto i misfatti del patriarcato senza avere la minima cognizione di cosa significhi quel termine e se non bastasse le lezioni di chi mette loro in bocca gli slogan, le reazioni dell’autorità, che tuona e minaccia il pugno duro e non riesce una volta a prevenire un delitto che sia uno, anche quando più che annunciato è addirittura gridato in anticipo ai quattro venti (e in compenso concede gli arresti domiciliari ai recidivi, facendo sì che ammazzino o sfregino un’altra disgraziata). Da ultimo poi è scesa in campo la corporazione degli psicologi, gli stessi che sino a dieci anni fa suggerivano un’educazione soft, permissiva e “amicale”, che chiedono di entrare nelle scuole ma non offrono di attenersi al salario minimo sindacale. Uno schifo la vicenda, ma uno schifo ben maggiore la sua nauseabonda strumentalizzazione.

e il povero Abele 03 Arancia meccanicaMi ero ripromesso per decenza di sottrarmi al coro, ma le amare considerazioni di Carlo mi hanno ricordato che queste cose le scrivevo già dieci anni fa, quando ancora c’era Berlusconi al governo e non c’era invece il nostro sito, e il termine “femminicidio” era stato appena coniato (cfr. …e il povero Abele? in Reazionario controvoglia, 2013). Da allora le cose sono andate solo peggio, ogni anno viene battuto il record di omicidi di questo genere (in questo mi dissocio da Carlo. Io non credo alle statistiche, credo ai miei occhio, e questi mi dicono di un aumento esponenziale e incontrollato della violenza). Quindi sono arrivato ad un compromesso: non scriverò nulla di nuovo, ma ripropongo lo scritto di quindici anni fa. Non per accampare delle priorità o una particolare lungimiranza (non ce n’era bisogno per capire in che direzione stavano scivolando le cose), ma per testimoniare come la situazione ci sia nel frattempo sfuggita ulteriormente di mano e quanto ipocrite siano le voci che gridano allo scandalo per quest’ultima vicenda. Forse in questi termini un senso quello scritto lo ha ancora.

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… e il povero Abele?

E il povero Abele Tintoretto,_caino_e_abeleQuasi mezzo secolo fa, negli “anni formidabili” in cui la mia generazione giocava a cambiare il mondo senza accorgersi che il mondo era già cambiato da un pezzo, per conto suo e nella direzione opposta, io ero molto impegnato a verificare le possibilità di una rappresentazione terrena di quel sogno: ma avevo anche già imparato a prendermi intervalli di istruttiva ricreazione. Avevo ad esempio scoperto che per capire qualcosa della vita era più utile frequentare le aule dei tribunali (come spettatore, naturalmente) che quelle universitarie, e che il banco degli imputati era un’ottima cartina di tornasole per ogni laboratorio di chimica sociale. Seguivo, al palazzo di giustizia di Genova, nelle pause tra un esame e un’assemblea e quando il lavoro part-time me lo consentiva, le cause più clamorose o le vicende più bizzarre. Un giorno mi trovai ad assistere ad un processo che vedeva alla sbarra un magnaccia di mezza tacca, accusato di aver ucciso a coltellate la convivente nei bagni di un cinema. L’imputato ad un certo punto, dopo aver ammesso il fatto …