di Paolo Repetto, 23 dicembre 2025
Ho appena letto l’ennesimo saggio sulla storia della schiavitù (Paul E. Lovejoy, Storia della schiavitù in Africa, Bompiani 2019). È un argomento che mi intriga da sempre, da quando bambino fui sconvolto da La capanna dello zio Tom. L’idea di esseri umani ridotti in una condizione disumana, soggetti a qualsiasi arbitrio, mi faceva inorridire già a sette anni. Col tempo, quando ho realizzato che in quella condizione hanno vissuto da seimila anni a questa parte milioni, anzi, miliardi di sventurati, l’orrore è diventato mostruosità e abominio, qualcosa di intollerabile solo a pensarsi. Parlo di seimila anni perché le prime testimonianze “documentali” dell’esistenza della schiavitù compaiono attorno a quell’epoca, contestualmente all’adozione dell’agricoltura, ma in realtà sono convinto che da sempre l’uomo abbia covato una malvagia propensione a soggiogare e sfruttare i propri simili: e che se presso i popoli paleolitici di cacciatori-raccoglitori questa pratica sembra essere stata meno diffusa – è una congettura, ma pienamente giustificabile – ciò dipenda solo dal fatto che non era funzionale a quel tipo di economia.
Da quest’ultima lettura non ho tratto granché di nuovo o di particolarmente illuminante; solo conferme di quanto conoscevo da un pezzo (oltretutto è la riedizione ampliata e aggiornata nelle cifre e nella bibliografia di un altro testo dello stesso autore, edito nel 2000, che già possedevo). Sembra quasi però che io abbia bisogno di queste conferme, perché ciò che vado a leggere è inenarrabile, e l’entità stessa dell’orrore finisce per impedirti di pensarlo, ti spinge a cercare di distrartene. Invece credo che tra i tre o quattro cartelli da appendersi nelle classi delle elementari, e poi da riprendere come tabelloni alle medie e infine come vere e proprie schede esplicative alle superiori, dovrebbe esserci quello che ogni giorno, con immagini, e cifre e descrizioni, ricordi agli studenti quanto in basso può scendere l’uomo e quanto sia necessario non permetterglielo più.
Se non fossi così ossessionato dalle immagini, dalle testimonianze, dalle cifre spropositate che ho acquisito in tutti questi anni di ricerca, dovrei dunque essere contento del fatto che dal 2007 l’ONU abbia fissato per il 25 marzo la Giornata internazionale del ricordo delle vittime della schiavitù e della tratta transatlantica degli schiavi. Invece non lo sono affatto. Intanto, più genericamente, perché le “giornate internazionali” si moltiplicano ormai a dismisura e si sovrappongono le une alle altre, tanto che sembra che l’ONU non abbia altro compito. Poi perché la creazione stessa di una “giornata del ricordo” mi pare da un lato solo un espediente sfacciatamente ipocrita per tacitare le innumerevoli coscienze sporche collettive e demandare ad un unico giorno l’anno un loro improbabile risveglio, dall’altro un modo per spezzettare la storia in tanti segmenti di memorie particolaristiche. Infine, perché in realtà di queste celebrazioni a nessuno importa (mi chiedo quanti conoscano ad esempio l’esistenza di questa specifica giornata: io stesso l’ignoravo sino a un paio di anni fa), e ciò malgrado la loro istituzione porta spesso a feroci dibattiti, visto che è d’obbligo non urtare nessuno. Nel nostro caso poi la titolazione lascia trasparire un’odiosa malafede.
Dal titolo sembra infatti che ad alimentare il traffico di poveri disgraziati dall’Africa abbia contribuito solo o principalmente la Tratta Transatlantica. Questo è un falso storico clamoroso, ma da come recita la titolazione pare non ci sia alcuna volontà di chiarire la faccenda. Anzi, sembra essere un tributo pagato alla cancel culture, un ulteriore capo d’accusa da imputare, tra i molti altri, alla “civiltà” occidentale. Forse per chiarire di cosa stiamo parlando può tornare allora utile una rinfrescatina alla memoria (anche se credo che per i più non si tratti di rinfrescare, quanto piuttosto di farsene una). Non intendo negare o sminuire le “nostre” responsabilità, che ci sono e sono enormi, ma distribuirle un po’ più equamente, chiamando al banco anche coloro, uomini e popoli, che di questa aberrazione sono stati ampiamente partecipi e che non hanno mai dato segno di pentirsene e di vergognarsene.

Va innanzitutto rammentato che la schiavitù non è stata inventata dal mondo occidentale. Esisteva nell’Africa mediterranea (in Egitto è documentata già nel quarto millennio avanti Cristo), nel Medio Oriente (il codice di Hammurabi la disciplina esplicitamente) e in Cina, ben prima di svilupparsi nel mondo greco–romano; esisteva sul continente americano, presso gli Aztechi e gli Incas, ma anche tra le popolazioni amerindie settentrionali, da molto prima dell’arrivo di Colombo. Esisteva in Africa, dove le guerre intertribali erano endemiche, e i prigionieri di guerra diventavano automaticamente degli schiavi. Esisteva quindi indipendentemente dai modi di produzione, dai tipi di economia e dagli assetti sociali conseguenti. È una cosa ovvia, ma a quanto pare non abbastanza.
Qui non si tratta però nemmeno di priorità, ma di ristabilire quale è stato il peso di questa pratica in tempi storici, e quali ne sono stati gli sviluppi, e chi ne è stato protagonista in qualità di carnefice, e quanti ne sono stati vittime.
Il fenomeno è conosciutissimo anche per quanto riguarda le epoche più antiche, ma non è facilmente quantificabile. Le stime variano moltissimo, anche perché non c’è un accordo unanime su quali condizioni rientrino nella definizione di schiavitù, al di là della generica privazione di libertà. Dobbiamo limitarci pertanto a partire dalla metà del primo millennio dopo Cristo, dal momento cioè della grande espansione arabo–musulmana, e occuparci solo delle vicende relative al continente africano: le uniche peraltro che sono state tirate in ballo dai “cancellatori”, a supporto di una crescente campagna di incriminazione dell’Occidente.
Le cose in realtà stanno così. La pratica di razziare e deportare schiavi era già diffusa nei regni africani sub sahariani ben prima del VII secolo d.c. Con l’arrivo dell’espansione araba si è decisamente intensificata, e ha dato vita per circa tredici secoli ad una “tratta” verso oriente che aveva come vie marittime maggiori quella del Mar Rosso e quella di Zanzibar, e come vie di terra quelle che attraversavano il Sahel e il deserto del Sahara. Paradossalmente, come scrive Bernard Lewis, forse il più autorevole studioso della civiltà islamica “in uno dei tristi paradossi della storia umana, sono state proprio le riforme umanitarie portate dall’Islam che hanno condotto ad un vasto sviluppo del commercio degli schiavi dentro – e ancora più all’esterno – l’impero islamico”. Lewis si riferisce alle ingiunzioni coraniche che vietano di ridurre in schiavitù i musulmani, mentre consentono, e di fatto favoriscono, l’applicazione di tale status agli “infedeli”. Ciò che ha avuto come diretta conseguenza una massiccia importazione di schiavi dall’esterno. Questo traffico è durato sino agli inizi del Novecento, e sia pure in forma ormai ridottissima dura ancora oggi (si stima che tra i 25 e i 40 milioni di persone vivano ancora attualmente in uno stato di effettiva schiavitù).

Quindi: nel corso di tredici secoli, dal VII al XIX, furono coinvolti nella tratta soprattutto gli abitanti dell’Africa subsahariana. Paul Bairoch, uno dei maggiori studiosi di storia economica del secondo dopoguerra, che si è occupato soprattutto del mancato sviluppo del Terzo mondo, ha calcolato il numero dei deportati in una cifra compresa tra 14 e 16 milioni di persone, mentre ricerche precedenti e successive, ad esempio quella di Tidiane n’Diaye, uno storico senegalese che ha scritto Le génocide Voilé (Gallimard 2008, naturalmente mai pubblicato in Italia) propongono un totale di oltre 17 milioni. A questi vanno aggiunti 1,2 milioni di schiavi provenienti dall’Europa occidentale, catturati durante le guerre nella penisola iberica o con le incursioni saracene e le razzie dei pirati barbareschi, e un numero non quantificabile ma senz’altro molto maggiore di quelli provenienti dall’Europa orientale (soprattutto abitanti dell’impero bizantino prima e slavi poi) e dall’area caucasica. Per avere un’idea comparativa del fenomeno, gli schiavi coinvolti nella tratta atlantica sono calcolati tra i dieci e i dodici milioni.
Concentriamoci però sull’Africa. Abbiamo visto che le stime variano, sia pure non di molto, perché a differenza degli studi sulla tratta atlantica qui gli storici non possono fare conto su una documentazione diretta, per l’assenza di archivi e biblioteche nei luoghi in cui il commercio si svolgeva, o di una qualsiasi letteratura abolizionista araba. Ci si è basati quindi sulla demografia, sulla tradizione orale, sugli scavi archeologici e persino sulla numismatica, nonché naturalmente sulle testimonianze di esploratori e di viaggiatori, nella quasi totalità occidentali. Solo per l’ultimo periodo, a partire dai primi dell’800, hanno potuto essere utilizzati registri navali, documenti doganali e commerciali, testimonianze dirette delle vittime e da ultimo anche una documentazione iconografica (disegni e fotografie)
Ma il problema non sta nelle discordanze numeriche, perché quando si parla di decine di milioni di persone un milione in più o in meno non cambia la sostanza della tragedia. Il vero problema sta nel fatto che tutti gli storici che hanno studiato le modalità della tratta araba convengono sul fatto che i costi umani di questa pratica debbano essere moltiplicati (per qualcuno sino a cinque volte). Sono da mettere in conto, infatti, le vittime “collaterali”. Oltre alla perdita delle persone deportate, vi furono infatti quelle decedute per le devastazioni prodotte dalle guerre e dalle razzie degli schiavisti. L’esploratore Richard Burton, ad esempio, parla di una razzia nel corso della quale per catturare cinquanta donne si ebbero oltre mille morti. E proporzioni analoghe sono riportate da Henry Drummond, in Slavery in Africa (1889), laddove riferisce di 30.000 morti per 5.000 schiavi. Questo in ragione del fatto che gli arabi erano interessati soprattutto alla cattura di giovani donne e bambini, mentre gli uomini e gli anziani spesso venivano trucidati direttamente sul posto.

Una volta catturati, gli schiavi dovevano poi affrontare marce di trasferimento terrificanti. Quella che passava per il deserto, ad esempio, comportava percorrere a piedi, incatenati, affamati e continuamente percossi, oltre mille chilometri in due mesi; e lungo questo calvario le perdite erano impressionanti. Chiunque rallentasse la marcia, uomini, donne o bambini, veniva abbattuto a bastonate. Ancora Drummond scrive: “Se un viaggiatore dovesse perdere la strada che porta dall’Africa Equatoriale alle città dove gli schiavi vengono venduti, potrebbe ritrovarla facilmente grazie agli scheletri dei negri che la pavimentano”. Il giornalista e geografo John Scott Keltie, in The Partition of Africa (1920) reputa che per ogni schiavo che raggiungeva il mercato ne morivano almeno sei, mentre Livingstone parla addirittura di dieci.
E non era finita. Giunti a destinazione, i sopravvissuti erano ulteriormente decimati per via delle invalidità sopravvenute durante la marcia e della castrazione dei ragazzi. Nel mondo islamico infatti erano molto richiesti gli eunuchi, da destinare non solo alla guardia degli harem ma a funzioni di servizio o addirittura amministrative diverse. Il tasso di mortalità conseguente questa operazione era altissimo. Lo studioso olandese Jan Hogendorn in uno studio su “l’orribile commercio” (The Hideous Trade. Economic Aspects of the “Manufacture” and Sale of Eunuchs, 1999) lo valuta attorno all’80/90%.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’avvento della concorrenza europea, a partire dal XVI secolo, non frenò affatto il traffico arabo: diede anzi la spinta ad un suo incremento. Gli europei infatti non avevano né la voglia né l’esperienza per inoltrarsi nel cuore del continente, e quindi per procacciarsi gli schiavi facevano riferimento o alle popolazioni locali (sulle coste occidentali) o, e soprattutto, ai mercanti arabi, che avevano il controllo di tutta l’area sub sahariana di “reclutamento”, e in particolare dei porti d’imbarco della costa orientale. Da questi si diramava dunque una duplice tratta, ad est verso il Medio Oriente, il subcontinente indiano, l’Indonesia e l’arcipelago della Sonda, a ovest verso il continente americano.
Insomma: sommando tutti questi aspetti la più prudente delle valutazioni dello scompenso demografico creato da questo traffico nell’Africa sub sahariana tra il XV e il XX secolo non scende al disotto dei cinquanta milioni di individui, mentre quelle più esasperate vanno dai cento ai centoventi milioni.

Sin qui ho riportato cifre e commenti dovuti soprattutto agli esploratori e ai missionari europei che percorsero l’Africa nell’Ottocento, testimonianze che certamente vanno prese con beneficio d’inventario. Come dicevo in precedenza, però, sarebbe difficile fare altrimenti, dal momento che non esiste una letteratura araba in proposito. E non esiste anche perché nel mondo islamico, a differenza che in Occidente, non si è mai sviluppato un movimento abolizionista. La deportazione degli schiavi terminò solo a seguito delle pressioni diplomatiche e militari della comunità internazionale, i cui avamposti erano costituiti dalle missioni protestanti e cattoliche. A dispetto di tutte le successive proclamazioni, però, a partire dallo Slave Trade Act inglese del 1807 fino alla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, lo schiavismo è stato ufficialmente abolito nell’Arabia Saudita solo nel 1962 (ultimo paese al mondo, a parte la Mauritania). E l’abolizione è avvenuta molto in sordina, come si trattasse di riparare ad una sventata dimenticanza, e senza alcuna profusione di scuse.
Resta così da comprendere cosa ha tanto diversificato (o ha fatto percepire in maniera così diversa) ad un certo punto una vicenda che per buona parte aveva visto accomunate in un identico viaggio nell’orrore la tratta orientale e quella atlantica, fermo restando che l’abolizionismo occidentale è stato indubbiamente mosso anche da motivazioni politiche e da interessi economici che col sentimento umanitario avevano poco a che vedere. In effetti, il contrasto alla tratta araba invocato dall’opinione pubblica europea e presentato come il principale obiettivo degli interventi nel continente africano ha poi portato all’istituzione di protettorati e alla conquista di colonie, nelle quali – vedi il caso clamoroso del Congo – l’orrore è stato replicato direttamente in loco (questo argomento l’ho diffusamente trattato già mezzo secolo fa, nei capitoli centrali di In capo al mondo, vol. II, e soprattutto nel capitolo “Mutamenti nel mondo coloniale”). All’epoca però avevo preso in considerazione solo la tratta atlantica. Nei confronti di questa un sentire abolizionista si diffuse in Occidente sin dagli inizi del XIX secolo, e al di là di ogni strumentalizzazione ha portato gli europei al rifiuto, al senso di colpa e all’assunzione di responsabilità. C’è una letteratura infinita a testimoniarlo.
L’abolizione della schiavitù in Oriente è stata al contrario imposta proprio dagli occidentali, che hanno prima sguinzagliato flotte a caccia delle navi negriere e sono poi penetrati all’interno stesso dell’Africa per stroncare il traffico alla radice (personaggi come Carlo Piaggia o Romolo Gessi, e il loro amico Emin Pasha, per quanto controversi, furono tra i principali protagonisti di questa guerra allo schiavismo). E l’ambiguità di tutta la vicenda non può comunque mascherare il fatto che persino a dispetto della legge coranica la schiavitù abbia continuato ad esistere nei paesi islamici e ad essere considerata una condizione normale per tanto tempo.
Ora, a fronte di tutto ciò può apparire sorprendente che le stesse popolazioni africane ne abbiano cancellata la memoria (ma non sempre: negli anni ‘70, quando in Tanzania salì al potere Nyerere, scalzando l’elite araba che aveva governato il paese subito dopo l’indipendenza, la diffusione dei dati della tratta scatenò un feroce massacro da parte delle genti di colore contro gli arabi presenti nel Paese). Questa rimozione non è dovuta al divieto iconoclasta per gli islamici di erigere statue o creare comunque immagini che sviino l’attenzione dall’unico dio (tantomeno se di “negrieri” o di personaggi compromessi con l’infame commercio), e quindi al fatto di non avere nulla da abbattere o da deturpare. È spiegabile invece con l’azione di proselitismo avviata dal secolo scorso dall’Islam nella fascia centrale e in quella meridionale del continente africano. Soprattutto nelle aree che affacciano sull’Oceano Indiano i musulmani si sono inseriti profondamente nel tessuto sociale e nelle attività economiche, rimodellando anche la lettura delle vicende storiche e cancellando il più possibile la brutale verità sul trattamento riservato in passato alla popolazione di colore.
Sono da considerare comunque tutta una serie di altre motivazioni. Una va ritracciata senz’altro nel fatto che, a differenza di quanto accaduto oltre Atlantico, dove i discendenti di quasi dodici milioni di schiavi rappresentano oggi un quarto (più di duecento milioni) di tutta la popolazione continentale, e soprattutto nel nordamerica hanno maturato una forte identità “diasporica”, cioè una forte coscienza della marginalità cui sono stati per secoli costretti, la discendenza dai disgraziati deportati in oriente è riconoscibile solo in una percentuale esigua della popolazione (con differenze notevoli tra le diverse aree. In Oman, ad esempio, che fu uno dei centri principali di smistamento della tratta proveniente dalla costiera swahili e da Zanzibar, è molto più evidente. Ma anche nell’Arabia Saudita la percentuale degli afro–arabi sfiora il dieci per cento) e soprattutto non si è mai tradotta in una percezione identitaria.

La differenza nell’eredità demografica e storica non può essere semplicisticamente liquidata accampando che la mortalità tra gli schiavi orientali fosse più alta per via delle castrazioni, delle violenze cui erano soggetti, ecc, e che questo spieghi l’assenza di una discendenza (e quindi di una memoria): anche se è probabilmente vero che le perdite durante i trasferimenti atlantici, a dispetto delle condizioni atroci nelle quali questi si svolgevano, fossero inferiori rispetto a quelle delle marce forzate, e che per la mentalità “produttivistica” dei mercanti europei i deportati venissero considerati una merce da salvaguardare il più possibile ( la percentuale dei decessi in mare non era comunque inferiore al quindici per cento). Ed è altrettanto vero, per contro, che le piantagioni americane di zucchero, di cotone e di caffè non erano ovunque dei campi di sterminio dove gli schiavi venivano sfruttati spietatamente, con orari e con carichi di fatica che li conducevano alla morte in pochissimi anni. Situazioni di questo tipo, che pure esistevano, sono testimoniate solo per alcuni casi, in aree particolari e durante la prima fase della tratta, quando l’offerta negriera era più abbondante. Questo non significa negare che l’economia basata sulle piantagioni, soprattutto nei Caraibi britannici, fosse orribile per intensità e per condizioni materiali assolutamente crudeli e umilianti; semplicemente, anche in questi contesti i registri delle aziende che sono stati conservati e cui si è potuto accedere segnalano un accrescimento demografico della popolazione schiavile, il che lascia intravvedere nel complesso situazioni non meno degradanti ma forse meno tragicamente estreme.
Le ragioni effettive sono dunque ben altre, e concernono sia le diverse condizioni di vita cui gli schiavi accedevano sia la diversa autopercezione che maturavano. È quanto sostengono gli storici più autorevoli dell’Islam e dello schiavismo orientale, come Gwyn Campbell e lo stesso Bernard Lewis. Gli schiavi del Golfo (e dell’Asia in generale, forse con la sola eccezione dell’Indonesia olandese) non erano importati per rispondere alla necessità di manodopera servile nel settore agricolo, o almeno non esclusivamente. Al di là del fatto che buona parte della richiesta riguardasse corpi femminili da inserire negli affollatissimi harem, anche i maschi non erano attesi da grandi piantagioni dove vivere isolati: erano impiegati in tutti i settori lavorativi, dall’agricoltura pre–industriale al commercio, e svolgevano i propri compiti fianco a fianco con i nativi. Ciò permetteva loro di entrare subito in contatto con la lingua e la società di arrivo, e di integrarsi molto più facilmente, indipendentemente dal fatto che fossero o meno emancipati. E proprio questo era il punto di snodo.
In fondo al tunnel della schiavitù orientale, per chi arrivasse indenne a percorrerlo tutto, c’era infatti la prospettiva di un ritorno alla libertà. Secondo i dettami coranici tutti i convertiti sono uguali e nessun musulmano può essere ridotto o mantenuto in schiavitù. Anzi, la liberazione degli schiavi è considerata un atto di grande devozione (sia pure solo volontario: per il resto la schiavitù è considerata lecita dal Corano, che provvede anche a normarla, soprattutto quella sessuale femminile). Una volta consapevoli di questa possibilità, la gran parte degli schiavi e degli ex schiavi si convertivano all’Islam, compiendo il passo che conduceva, una volta liberati, all’assimilazione. Inoltre la religione musulmana favoriva anche l’integrazione dei figli di coppie miste: i figli di una schiava o concubina e di un uomo libero avevano gli stessi diritti di quelli nati da una moglie legittima. La madre stessa non poteva più essere rivenduta e, alla morte del padrone, diventava una donna libera.

Questo spiega, sia pure solo parzialmente, perché non ci fu in Oriente una crescita naturale delle popolazioni interne di schiavi, sufficiente a mantenerne almeno invariato il numero fino ai tempi moderni, e perché queste popolazioni non abbiano sviluppato il senso di una condizione e di una identità comune. A ciò bisogna aggiungere, per quanto concerne in questo caso sia i numeri interni che quelli delle importazioni dall’esterno, che quando alla fine del XIX secolo gli effetti della prima globalizzazione mandarono in crisi i principali settori di impiego della manodopera servile nel mondo arabo, ad esempio il commercio dei datteri e quello delle perle, non solo venne a cadere drasticamente la richiesta di nuova forza lavoro, ma ne venne liberata molta che a quel punto risultava superflua, e che si disperse nelle direzioni e nelle attività più disparate.
Per converso, nel Nuovo Mondo la componente schiavile endogena aveva conosciuto nel frattempo un rapido accrescimento. Nell’America anglosassone, infatti, che peraltro non rappresentava la meta principale della Tratta Atlantica e dove in poco più di tre secoli le navi negriere hanno depositato meno di un milione di schiavi africani (gli altri dieci furono distribuiti tra il Brasile, i Caraibi e l’America spagnola), le cose funzionavano in maniera molto diversa. La vita degli schiavi nelle piantagioni era organizzata in modo da consentire la formazione di nuclei familiari e da garantire il ricambio, in un mondo a parte che non aveva contatti di sorta con ciò che stava oltre i confini del latifondo, e all’interno del quale vigevano solo le leggi dettate dal padrone e spesso si comunicava in lingue ibridate dai linguaggi tribali di provenienza. Le piantagioni erano anche (a volte principalmente) degli allevamenti intensivi di nuova forza lavoro, e a un certo punto il volume del traffico interno di schiavi da uno stato all’altro arrivò a superare di gran lunga quello dell’importazione diretta dall’Africa. Si guardava quindi allo schiavo non più solo come mezzo di produzione, ma come strumento di riproduzione.
Questa aberrante finalità poteva però essere perseguita e giustificata solo attraverso l’elaborazione di una vera e propria ideologia della razza, che creava distinzioni molto nette tra neri e bianchi, (rimando in proposito al capitolo “Schiavitù, diversità, razza”, da In capo al mondo, vol. II), classificando i primi come intrinsecamente inferiori e bisognosi di essere guidati per il loro stesso bene col pugno di ferro. La schiavitù diventava pertanto, sulla scorta di tale concezione, una condizione ereditaria, e addirittura un’istituzione benefica. Tale ideologia ha creato soprattutto negli Stati Uniti una barriera di segregazione razziale che presso gran parte della popolazione bianca è rimasta in piedi anche dopo l’abolizione, e che naturalmente escludeva ogni possibilità di relazione interrazziale. Dal momento poi che queste “relazioni” in realtà c’erano, sotto le specie dello stupro autorizzato, gli eventuali loro frutti, i bambini nati da un bianco e da una donna di colore, non erano riconosciuti, né legalmente né culturalmente, ed erano ricacciati nella condizione servile. Va precisato che nel resto del continente le cose sono andate un po’ diversamente, in primo luogo perché il rapporto numerico tra bianchi e colorati era inverso, e poi perché, soprattutto in Brasile, ma anche nei Caraibi, il confronto era con culture cattoliche, più “permissive”, e non con quelle protestanti.
In sostanza, la reclusione nelle piantagioni prima, e la persistenza poi di una segregazione successiva anche all’abolizione, hanno contribuito nel nuovo continente alla creazione di un’identità afroamericana. Cosa che non è affatto avvenuta nei paesi del Medio e del Vicino Oriente, dove ha invece prevalso il processo di integrazione e di assimilazione (in tal senso però non mi sembra particolarmente rilevante il fatto, sottolineato dagli storici che ho menzionato sopra, che solo pochissimi degli ex–schiavi orientali una volta liberati abbiano espresso la volontà di tornare nei loro luoghi di provenienza – a fare che, e per trovare cosa? –, e che quelli che lo fecero perlopiù si trasferirono nell’Africa mediterranea, mescolandosi con le popolazioni locali arabe, beduine e berbere. Anche nella diaspora afro–americana, se si eccettua l’episodio controverso della Liberia, motivato principalmente dalla stessa concezione razzista per cui bianchi e neri non potevano coesistere pacificamente, questa volontà ha coinvolto un’esigua minoranza).
Ora, penso sia evidente che il diverso esito delle due vicende non implica affatto che debbano essere adottati rispetto alle vicende stesse criteri differenti di giudizio morale, o che possa essere addotta per l’una o per l’altra qualsivoglia giustificazione. La macchia lasciata nella storia dell’umanità è indelebile, in qualunque modo la voglia mettere. Ma proprio questo mi ha spinto a riprendere il tema e a proporre delle precisazioni. Non intendevo stilare graduatorie di demerito, classifiche dell’abiezione. Ho cercato di spiegare, sia pure molto approssimativamente, come mai le cose siano andate così, e perché ne sia rimasta una memoria disuguale, o addirittura nessuna memoria. Non è la semplice correzione di una smemoratezza: è un contributo, per quanto infinitesimale, al ristabilimento di una verità che renda almeno un po’ di giustizia a milioni di esseri umani umiliati, sfruttati, torturati e uccisi dal peggiore degli istituti che la nostra specie abbia mai concepito.
Che non lo abbia fatto l’ONU è già estremamente grave, ma altrettanto grave mi sembra il fatto di non aver potuto rintracciare in tutti i lavori storiografici italiani che ho esaminato alcun accenno o commento a tanta disonestà. Temo proprio che quanto a memoria le classifiche si debbano fare, e che noi navighiamo proprio nel fondo. Comunque, se può servire a risvegliare un po’ l’attenzione, sia pure di sponda, ricordo che nello stesso giorno dedicato alle vittime della tratta atlantica si celebrano la Giornata per l’Apprezzamento dei Lamantini (!?) e quella del Waffle, e che il giorno dopo cade la Giornata Internazionale degli Spinaci.
E allora si spiega tutto.

*****
P.S. A questo punto andrebbe però aperto un altro capitolo: quello della deportazione in Oriente di schiavi bianchi. Anche questi sono stati tranquillamente esclusi dalla giornata del ricordo istituita dall’ONU. E non si tratta di un fenomeno marginale: lo dimostrano le cifre. Tra il 1530 e il 1780 è documentata la riduzione in schiavitù da parte dei musulmani della costa barbaresca del Nord Africa di oltre un milione di cristiani bianchi europei. I corsari barbareschi erano molto interessati alle donne bianche, e nella loro caccia si spinsero fino alla Groenlandia, avendo come meta preferita l’Irlanda. Per il periodo precedente, dal 650 al 1500 circa, il problema è il solito: manca una documentazione attendibile e coerente. Si stima comunque, facendo tutte le dovute tare alle testimonianze e considerando qual era la prassi usuale dopo le guerre di conquista, che gli Arabi e gli Ottomani abbiano ridotto in schiavitù un numero di “bianchi” (latini, visigoti, slavi, ma anche armeni e popolazioni caucasiche) superiore ai 5 milioni. Anche di questi si è persa traccia e peggio ancora, memoria. E all’ONU dicono che il calendario è pieno.
Infatti.

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