Lingue, sudore e metrica

di Carlo Prosperi, 2 marzo 2024

(Pubblichiamo un contributo inviatoci recentemente da Carlo Prosperi. Non avrebbe bisogno di alcuna presentazione, più chiari di così è impossibile, ma consideriamo parte integrante del testo anche le parole che lo accompagnavano, e pertanto le premettiamo.)

Caro Paolo,
in attesa di mandarti alcune mie considerazioni sull’A. I. e sugli ultimi sviluppi della tecnologia macchinistica e robotistica, ti invio – se pensi che possa interessare – l’introduzione da me scritta all’ultima antologia (uscita tre o quattro anni or sono) dei vincitori del Concorso Guido Gozzano di Terzo. Ho provveduto a qualche ritocco e, comunque, se vuoi, puoi tranquillamente pubblicarla. Puoi considerarla una prefazione, poeticamente orientata, a quanto mi riprometto di scrivere sull’infatuazione forsennata per la tecnica (e la tecnologia): un’ulteriore tappa della folle corsa di un’umanità di piromani che gioca con una rivoluzione sociale, culturale e filosofica di cui s’ignorano i confini. O, se preferisci, un viaggio a fari spenti nella notte per vedere se sia poi davvero così difficile morire, come nella nota canzone di Lucio Battisti. La macchina, che – a dire di Spengler – ha preso il posto di Dio detronizzato e morto, prima o poi si sbarazzerà dell’uomo, il quale già vive con il timore di stare qui per caso, senza uno straccio di ragione, in balìa di un Lord of game imperscrutabile, “che gioca a dadi o a nascondino”. Pensa alle masse analfabete in fatto di informatica e di elettronica (nel numero mi ci metto anch’io, per primo) alla mercè dei pochi sapientes tecnocrati … Ti dicono che, con lo sviluppo dei robot, aumenterà il tempo libero, ma anche questa prospettiva mi spaventa: ti immagini le masse spaesate dal tempo libero che cercano sfogo nei vizi, rimbecillendo, o, peggio ancora, nelle contese sportive o politiche, negli scontri tra opposte fazioni, come accadeva nella Roma del primo secolo a. C., quando le bande fanatiche di Clodio e Milone si massacravano in una sorta di guerra civile? Ma non voglio, per ora, anticipare i tempi. E mi fermo qui. Augurandoti una rapida ripresa. Un abbraccio, Carlo.

Lingua, sudore e metrica 06

Lo stato dell’arte

Presero alcuni a invilupparsi dentro
ragnatele di versi senza capo
né coda, coltivando un metro sciapo,
persuasi della perdita del centro.

Altri, scioccati dalla malattia
dell’anima, smarrirono ogni fede
nella parola e piede dopo piede
sconfinarono, ahimè, nell’afasia.

Non più che balbettìi e borborigmi
udivi uscire dalle loro labbra:
qualche sillaba storta, qualche scabra
reliquia degli antichi paradigmi.

Altri ancora lucravano sul corpo
dell’arte vilipesa ed il cadavere
straziato e pesto dalle loro clave
defraudavano d’ogni regia porpora.

Per altri infine era ludibrio e gioco
l’arte dei versi: non più soglia mistica,
ma frigido esercizio di enigmistica,
cervellotico show e fatuo fuoco.

Aura non v’era più, non più profumo
d’ambrosia auliva dalle dirute are:
lassù un miraggio di stella polare
sprofondava in un vortice di fumo.

Ma rima dopo rima, Pollicino
testardo, senza indulgere ai sinistri
presagi o al suono futile dei sistri,
proseguìi tutto solo il mio cammino.

Sapevo che ad attendermi là fuori
del bosco c’era la mia casa, il noce
che l’adombrava: udivo già la voce
querula di mia madre nei canori
versi dei merli, nei loquaci ingorghi
dei ruscelli. Le tracce erano vaghe:
segni sui tronchi di vetuste piaghe,
frusci di vento, fremiti di sorghi.

Ma la mia fede era inconcussa: l’eco
che mi vibrava dentro nei precordi
(o forse la risacca dei ricordi?)
mi era di guida nell’intrico cieco.

Cantavo dunque contro le paure,
fedele alla mia Musa, ai miei princìpi,
senza nutrirmi di vivande insipide
e senza abbeverarmi ad acque impure.

Sarà per questo che per qualche grazia
del cielo avverto prossima la meta
dove sgorga la polla che disseta
e nevica la manna che mi sazia.

Lingua, sudore e metrica 02

Era il 2011: due lustri or sono. Tiravo allora le somme degli ultimi decenni di poesia, anche nel tentativo di dar conto della mia personale poetica. Ebbene, nel frattempo mi sembra che le cose siano in parte cambiate e che vadano tuttora cambiando, e proprio nel senso da me allora auspicato. I giovani poeti, per quanto almeno mi è dato giudicare dalla mia specola di presidente del Premio Guido Gozzano di Terzo, sia pure a fatica, si vanno via via affrancando da certi vieti condizionamenti del passato che rischiavano di portarli ad incagliarsi tra le secche dell’afonia, se non dell’afasia, o a perdersi nei più insulsi e insensati blateramenti in nome o con la scusa dei più arditi e talora ignobili sperimentalismi. Ah, le seduzioni della modernità e dei cattivi maestri che hanno invitato a fare tabula rasa della tradizione ed insegnato a «ribellarsi alle regole, dando prevalenza al gesto, alla libertà sconfinata dell’io dell’artista-demiurgo capace, con il proprio comportamento creativo, di rovesciare ogni precetto»! La poesia, come in generale l’arte, è «una meravigliosa costrizione con regole stabili, come le migliori partite di scacchi che si svolgono per forza sulla scacchiera e non fuori da essa, pur con mosse geniali» (Alzek Misheff). Diceva giustamente Auguste Rodin: «L’arte viva è un proseguimento di quella del passato». Non nel senso della ripetizione, ma della continuità. La tradizione non è un fossile, ma un modello dinamico. Un punto di riferimento per chi voglia andare oltre.

Lingua, sudore e metrica 03

Si è parlato per molto, troppo tempo di crisi dell’io, della sua irrimediabile dissoluzione. Tutto è cominciato con la fine dell’antropocentrismo e la scoperta delle screpolature nel cielo di carta sopra di noi. Nessuno può più mettere in discussione la rivoluzione copernicana, che ha fatto della Terra un atomo insignificante nell’economia dell’universo. E, venuta meno la centralità della Terra, anche le sorti dell’uomo hanno subito un’analoga destituzione. «Ormai – dice il pirandelliano Mattia Pascal – noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai, le nostre». Lo svilimento dell’uomo è quindi proseguito con la scoperta che anche l’io, lungi dall’essere un’unità più o meno armonica ovvero “un continente”, è in realtà “un arcipelago”, di labile e precaria consistenza. La stessa esistenza individuale si è rivelata «un relitto alla deriva nel mare della storia e nel flusso della corrente psichica» (Claudio Magris). Stando così le cose, c’è chi ha avvertito l’esigenza di abolire o di superare i tradizionali confini dell’io umanistico per approdare al nuovo modello antropologico dell’“oltre-uomo” e chi per contro ha preteso di accelerare e di incentivare la disgregazione dell’io, senza risparmiarne le espressioni culturali, a cominciare dal linguaggio. Di qui le elucubrazioni, spesso sofistiche e fumose, di maîtres à penser come Guattari, Deleuze, Foucault, Lacan, Derrida: tutti impegnati in un’opera tanto forsennata quanto gratuita di decostruzione e di disgregazione. In nome del caos. Puro masochismo a volte, a volte manifestazione di squisito e compiaciuto narcisismo. In ogni caso, forme luciferine d’intelligenza.

Lingua, sudore e metrica 04

Non si vuole con ciò negare o mettere in dubbio che ci sia molto di vero in tutto questo. Ma che senso ha indulgere in tal modo – in un accesso di cupio dissolvi – a Thanatos, assecondare il principio di morte e di distruzione, di suo già così attivo e pervasivo? E perché complicarsi oltre modo la vita? Ecco, in quegli anni è mancata una reazione positiva: pochi hanno davvero sentito l’esigenza di opporsi a tale deriva, di contrastare tanta disgregazione, di imporre cioè un ordine e un controllo, questi sì umani, ai disiecta fragmenta che ne conseguivano. È mancato chi difendesse le ragioni di Eros. E dell’uomo. Perché non si deve dimenticare che, con tutti i suoi limiti, l’uomo resta pur sempre misura di tutte le cose. Senza l’uomo non ci sarebbe né etica né estetica. L’umanesimo può – deve! – essere pertanto recuperato in forme nuove, che potremmo dire leopardiane, perché proprio ne La ginestra trovano la loro enunciazione più alta e limpida. La dignità dell’uomo non consiste nel suo sentirsi “signore e fine” del Tutto, bensì, al contrario, nella consapevolezza della sua miseria, nel «poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degl’infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero dell’immensità delle cose, e si trova quasi smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose». È prerogativa dell’uomo quella di essere «autocoscienza del cosmo» e la sua stessa infelicità è indizio della sua «capacità d’infinito». «Tutto [infatti] è o può essere contento di se stesso eccetto l’uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella dell’altre cose». C’è, insomma, nell’uomo – che è pascalianamente «una canna», ma «una canna pensante» – un’esigenza di senso che non sempre trova corrispondenza nella realtà. Che tocca a lui soddisfare. Senza pretese di sostituirsi a Dio, ma ordinando il mondo, foss’anche solo il suo piccolo mondo, orientando per quanto possibile la propria vita secondo la propria volontà o cercando comunque in essa e nella realtà che lo circonda una qualche coerenza, le tracce di un disegno, le spie magari di un’oltranza, di una possibile armonia. Oltre il caso e il caos, così da sentirsi «una docile fibra dell’universo».

Lingua, sudore e metrica 05

Questo è compito dell’uomo faber e di quel faber sui generis che è il poeta. Ma per fare questo bisogna essere dei costruttori, non dei distruttori. E visto che la poesia è fondamentalmente una lotta con l’angelo, non è detto che l’esito ne sia sempre positivo. In tal caso, però, il poeta potrà esprimere il proprio disagio o l’angoscia che nasce dai suoi sforzi frustrati. Dovrà comunque essere compos sui e sapere organizzare i molteplici e dissonanti nuclei psichici che, almeno provvisoriamente, compongono la sua unità individuale. Perché la poesia sarà anche un sogno, ma è sempre «un sogno fatto in presenza della ragione». Voglio dire con questo che la poesia è essenzialmente forma, struttura, metrica. E mi sembra che in questi ultimi anni, sia pure con soluzioni e con spiriti diversi, si vada in questa direzione. Rinunciando alla pretesa della novità ad ogni costo, alle provocazioni per partito preso, alle manie incendiarie ispirate dalla sindrome di Erostrato. Nel solco di una tradizione finalmente non più intesa come un ingombro, ma come un faro che agevola il cammino. «Dove il passato non getta più la sua luce dinanzi a sé – diceva Alexis de Tocqueville – lo spirito dell’uomo vagola nelle tenebre».

Per una storia della letteratura di viaggio in Italia

di Paolo Repetto, 2002

I percorsi e le scoperte (letterari) di questi ultimi anni mi hanno portato a rivedere, almeno parzialmente, il giudizio negativo sull’attenzione riservata in Italia alla letteratura di viaggio. Giudizio che avevo espresso diverso tempo fa e che ho volutamente riportato nel mio precedente articolo.

L’assenza di interesse cui mi riferivo caratterizza soprattutto il periodo del secondo dopoguerra (guarda caso, quello della mia formazione), quando gli italiani avevano un sacco di altre cose da sistemare e di cui occuparsi e il clima culturale era tutt’altro che propizio alla rievocazione delle scoperte e delle conseguenti avventure coloniali.

Ma nella prima metà del Novecento, per ragioni opposte, questo interesse c’era stato, e lo testimonia ad esempio un’iniziativa editoriale della Paravia dedicata a I grandi viaggi di esplorazione, che contava decine e decine di titoli. Si trattava di operette divulgative, caratterizzate da un marcato taglio agiografico e intrise, soprattutto quelle degli anni Trenta, dello sciovinismo di regime: avevano comunque il merito di portare all’attenzione degli adolescenti, ma non solo, la storia delle esplorazioni e dei viaggi. E anche quello di proporre, accanto alle biografie di Colombo, Magellano e Cook, vicende come quelle di Boggiani e Carlo Piaggia, e persino di Ludovico de Varthema. A giudicare da ciò che trovo nei mercatini dovette godere di una certa diffusione, almeno nelle librerie delle case borghesi, ed è l’unico mio motivo di rammarico per non essere nato in una famiglia benestante (in verità ce n’è un altro, legato alle riduzioni a fumetti dei grandi classici della letteratura avventurosa che anni dopo la Magnesia San Pellegrino distribuiva in omaggio ai clienti: a casa mia nessuno aveva problemi di digestione).

Rivista oggi, sotto un’altra luce, e ferme restando le differenze qualitative e quantitative rispetto a tradizioni letterarie come quelle inglese e francese, la letteratura italiana rivela in realtà un rapporto intenso col tema del viaggio, soprattutto fino al XVIII° secolo. Una breve carrellata lo dimostra.

Si può idealmente partire da Dante e da Brunetto Latini (Il tesoretto) per il viaggio allegorico, ma per il resoconto di viaggi reali occorre attendere Petrarca. Quest’ultimo è costantemente a caccia di manoscritti nelle biblioteche europee, e quindi visita Parigi, le Fiandre e i paesi della valle del Reno: ma nel frattempo attraversa anche a cavallo la selva delle Ardenne, e scala il Monte Ventoso (Ventoux). La sua irrequietudine è documentata nelle Epistole Familiari (I, 4 e 5).

È però già possibile ravvisare un atteggiamento tutto italiano nei confronti del viaggio nello stilnovista Guido Cavalcanti, che parte da Firenze nel 1294 per un pellegrinaggio a San Jacopo in Galizia, ma si ferma a Tolosa perché lì ha trovato una bella donna (lo confessa nel Canzoniere). Ed è questo, tra l’altro, l’unico motivo per cui abbiamo notizia del pellegrinaggio.

Il primo resoconto di un viaggio extraeuropeo di qualche interesse è invece quello di Giovanni dal Pian del Carpine, frate francescano inviato nel 1245 dal papa a Karakorum, presso il sovrano dei Tartari, nipote di Gengis Khan (Viaggio ai Tartari). Tira un po’ sul meraviglioso, ma la narrazione è sostanzialmente attendibile. Descrive il clima e l’estensione del paese, il modo di vestire, le abitazioni, la religione, l’alimentazione, l’organizzazione politica e militare dei mongoli, il modo di trattare i popoli sottomessi ecc… Per essere un religioso medioevale, si dimostra assolutamente libero da pregiudizi.

Un quarto di secolo dopo (1271) ha inizio il viaggio di Marco Polo, narrato poi (in francese) nel Livre des merveilles, e oggi conosciuto come Il Milione. Dal momento che il libro non fu scritto da Marco stesso, ma dettato a Rustichello da Pisa, si ha motivo di credere che molti degli elementi favolosi presenti nel racconto siano frutto della fantasia e della cultura di quest’ultimo. Ma il risultato non cambia. È una pietra miliare nel genere, e sorprende un po’ costatare che non ha trovato imitatori (almeno in Italia) per oltre due secoli.

Un piccolo boom della letteratura di viaggio si ha invece nel periodo rinascimentale. Tengono diari minuziosi dei loro spostamenti i diplomatici come Machiavelli e Guicciardini, soprattutto quest’ultimo (Diario del viaggio in Spagna), mentre raccontano viaggi fantastici su e giù per l’Europa e per il vicino oriente i poeti come Boiardo (Orlando innamorato) e Ariosto (Orlando furioso, con un salto anche sulla Luna). Tuttavia quando parla dei suoi viaggi reali (nelle Satire) Ariosto non manifesta grandi entusiasmi.

L’elemento cruciale di novità è però la scoperta di un continente nuovo. Cominciano a fioccare i resoconti dei viaggi oltre oceano, a partire da quelli di Cristoforo Colombo (Diario), di Amerigo Vespucci (Lettera a Pier Soderini, 1506) e di Giovanni Verrazzano (Lettera a Francesco I, re di Francia, 1524), destinati a diventare dei classici del genere. Sono altri però, molto meno noti, a lasciare le tracce più succose e intriganti del nuovo spirito nomade e avventuroso che anima il Cinquecento. Tra questi spicca il già citato Lodovico de Varthema (Itinerario dallo Egypto alla India, 1512), un incredibile avventuriero che arriva in India prima dei Portoghesi stessi, viaggiando per via di terra e attraversando tutto il mondo mussulmano. È difficile distinguere nel racconto di de Varhema la verità dalle millanterie, ma anche queste sono divertenti, di fatto comunque la gran parte delle sue avventure è testimoniata da riconoscimenti ufficiali.

Un secolo dopo il romano Pietro della Valle percorre un itinerario quasi identico (narrato nel Diario di viaggio in Persia), ma reso più complicato dal fatto che buona parte del percorso la fa in compagnia della salma imbalsamata della giovane moglie. Credo sia un’esperienza unica nella storia della letteratura di viaggio.

Il grande coordinatore di quest’ultima è Giovan Battista Ramusio, veneziano, che tra il 1550 e il 1559 pubblica i tre volumi delle Navigazioni e viaggi, dove sono raccolti tutti i materiali editi ed inediti relativi ai viaggi di scoperta del mezzo secolo precedente. Tra questi, la drammatica Relazione del primo viaggio attorno al mondo, scritta dal vicentino Antonio Pigafetta, compagno di Magellano e diarista ufficiale dell’impresa. La circumnavigazione è ripetuta verso la fine del secolo da un fiorentino, Francesco Carletti, che la descrive nei Ragionamenti del mio viaggio attorno al mondo, (editi solo nel 1701), magari meno emozionanti del racconto di Pigafetta ma di grande interesse per le descrizioni dei popoli delle Americhe e dell’Asia e delle loro culture.

Nel Seicento sono soprattutto i Gesuiti a raccontare le missioni evangelizzatrici proprie, come Matteo Ricci (Lettere e Storia dell’introduzione del Cristianesimo in Cina, 1608)), o altrui, come Daniello Bartoli (Missione al Gran Mogor, 1653). Per il resto, non essendosi sviluppata in Italia una cultura “libertina”, il tema del viaggio è relegato in secondo piano.

Un risveglio si ha nel secolo successivo. Gli stimoli che arrivano dall’Illuminismo, il clima cosmopolita e il desiderio di entrare nel Grand Tour invertendone la direzione inducono nuovamente i letterati italiani a muoversi. Lo fanno animati da un forte spirito critico nei confronti del proprio paese, ma non mancano di esercitarlo anche verso gli altri. E soprattutto lo riversano nei loro diari. A dare l’esempio è Francesco Algarotti, grande divulgatore scientifico e viaggiatore lungo un ventennio per tutti i paesi del Nord-Europa, autore tra l’altro dei Viaggi di Russia. Quasi contemporaneamente Giuseppe Baretti lascia nelle Lettere familiari ai suo’ tre fratelli (1762) delle pungenti annotazioni sui suoi itinerari attraverso Portogallo, Spagna e Francia e sul suo soggiorno in Inghilterra. Baretti quando è in giro non fa sconti a nessuno, ma è evidente che a stargli stretta è proprio l’Italia (e sceglierà infatti di rimanere in Inghilterra). Un altro bello spirito, Vittorio Alfieri, gira l’Europa per cinque anni, tra il 1767 e il 1772, toccando la Francia, l’Inghilterra, l’Olanda, l’Austria, la Prussia, la Danimarca, la Svezia, e ce ne dà conto ne la Vita scritta da esso. Ne ricaviamo poco sulla situazione dei vari paesi, ma del carattere del conte alla fine non ignoriamo più nulla. Così come di Giacomo Casanova, che fa avanti e indietro per tutta la vita, battendo l’intero continente e raccontandolo (nella Storia della mia vita, 1798) da un punto di vista senz’altro singolare.

Meno attento a sé e più a ciò che lo circonda è Luigi Angiolini, che lascia delle interessantissime Lettere sopra l’Inghilterra, Scozia e Olanda (1790), nelle quali, come avviene per tutti gli altri autori di questo periodo, coglie l’occasione per lamentare il degrado culturale e civile dell’Italia a confronto con i paesi europei del Nord. Altri, come Giovan Battista Malaspina (Relazione del viaggio in Francia e in Spagna, 1786), sono meno esterofili, ma non mancano di sottolineare i ritardi italiani.

Il romanticismo nostrano, a differenza di quello europeo, non segna un ritorno alla grande del viaggio nella letteratura e della letteratura di viaggio. I nostri maggiori romantici magari si spostano all’estero (Foscolo in Francia e in Inghilterra, Manzoni in Francia), ma non reputano importanti queste esperienze. Meno che mai il viaggio costituisce un tema significativo nella narrativa e nella poesia. C’è molto attaccamento al focolare domestico, ai tetti e al campanile. Chi si sposta in genere non è un viaggiatore, ma un esule (Renzo, Jacopo Ortis, Carlino Altoviti ne Le confessioni di un Italiano del Nievo) o un emigrante. E solo nel tardo Ottocento compare qualche accenno a quest’ultimo tema. Edmondo de Amicis è l’unico autore italiano a raccontare, in Sull’oceano, un fenomeno che forza milioni di persone a cambiare latitudine o emisfero. Fioriscono in compenso le pubblicazioni periodiche destinate ad un pubblico di media e bassa cultura (il Giornale illustrato dei viaggi), infarcite di esotismi da salotto e di inverosimili peripezie, ed esplode il viaggio immaginario e popolar-avventuroso nei romanzi d’appendice di Emilio Salgari.

Tra i resoconti genuini di viaggi di esplorazione qualche valore anche letterario hanno La scoperta delle sorgenti del Mississippi di Giacomo Beltrami, Sette anni nel Sudan egiziano di Romolo Gessi, Due anni tra i cannibali di Carlo Piaggia e soprattutto il Viaggio allo Yemen di Renzo Manzoni, quest’ultimo forse l’unico in grado di reggere il confronto con i viaggiatori-narratori anglosassoni e francesi.

Ancora nella prima metà del Novecento il racconto di viaggio rimane confinato in un genere minore. Non mancano letterati che vi si cimentino (a partire da Guido Gozzano con Verso la cuna del mondo, o da Emilio Cecchi con America Amara e Viaggio in Grecia); ma sono soprattutto i giornalisti come Luigi Barzini (Il libro dei viaggi), Bruno Barrili (Il viaggiatore volante), Virgilio Lilli (Penna vagabonda) e Vittorio G. Rossi (Tropici) a produrre le cose migliori. In qualche caso, come per il Viaggio in India (1966) di Alfredo Todisco, sono le profonde trasformazioni intervenute nel frattempo a rendere interessante la fotografia di un mondo scomparso. In altri, come per Un’idea dell’India e Passeggiate africane di Moravia, ma anche L’odore dell’India di Pasolini, riesce fin troppo evidente come spesso nei viaggi si trovi null’altro che ciò che ci si porta.

Solo nell’ultimo scorcio del secolo il rinnovato interesse per l’argomento ha portato alla creazione di veri capolavori (come Danubio, di Claudio Magris), oltre che alla emersione (o in qualche caso, riemersione) di un paio di generazioni di bravi narratori di esperienze di viaggio, da quelle asiatiche di Fosco Maraini (Incontro con l’Asia), Tiziano Terzani (In Asia) e Giorgio Bettinelli (In Vespa), a quelle americane di Pino Cacucci (La polvere del Messico), Cesare Fiumi (La strada è di tutti) e Alessandro Portelli (Taccuini americani), a quelle africane di Carla Perrotti (Deserti), fino a quelle mondiali di Walter Bonatti (In terre lontane).

Si è ridestato anche l’interesse per la storia del viaggio e dei viaggiatori, che ha trovato ottimi narratori in Stefano Malatesta (Il cammello battriano, Il mare di sabbia) e soprattutto in Attilio Brilli (a partire da Quando viaggiare era un’arte). Brilli è il grande maestro della loggia dei viaggiatori “in su le carte”, una enciclopedia ambulante (appunto) della letteratura odeporica, e ha al suo attivo un numero straordinario di titoli.

La riscoperta del piacere e del valore culturale del viaggio, che nell’articolo sopra citato attribuivo soprattutto ad una moda di importazione (e confesso che sostanzialmente ne sono ancora convinto), ha dato nel nuovo secolo frutti notevoli, non inferiori a quelli anglosassoni. Il merito va ad autori del calibro di Paolo Rumiz, che con La leggenda dei monti naviganti ha toccato le vette della migliore letteratura, raccontando un fantastico itinerario dalle Alpi marittime alla Sicilia compiuto a bordo di una vecchia Topolino, seguendo a zig zag la dorsale appenninica, quindi la parte più sconosciuta e relativamente intatta della nostra penisola. Rumiz aveva già pubblicato il resoconto di un viaggio attraverso i Balcani in direzione di Costantinopoli (É oriente) ed ha poi proseguito nella riscoperta dell’Italia con Annibale. Un viaggio, una rivisitazione-confronto tra il passato e l’oggi sulle orme del grande condottiero cartaginese, per spostarsi infine nuovamente fuori dell’Italia con Trans-Europa Express, un itinerario che segue il vecchio confine della cortina di ferro dal circolo polare sino all’Adriatico.

Anche in Italia incontrano infine un crescente successo i “viaggiatori estremi”, in sostanza quelli che si muovono a piedi su lunghe distanze. Una traversata latitudinale completa della penisola è raccontata da Enrico Brizzi, sia pure con qualche eccessiva concessione al romanzesco, ne Gli Psicoatleti. Quella longitudinale, dall’Argentario al Cònero, l’aveva già narrata in Nessuno lo saprà. Brizzi percorre preferibilmente i vecchi itinerari del pellegrinaggio, quelli della Via Francigena o del Camino di Santiago di Compostela. Come Rumiz, e come tutti gli altri citati, sa scrivere bene. E questo è sempre un vantaggio per la letteratura, se non una condizione imprescindibile, ma per quella di viaggio può costituire anche un rischio. Perché chi ama le narrazioni di viaggio in realtà bada molto più alla sostanza che alla forma, vuole identificarsi con i luoghi e con le storie, più che lasciarsi coinvolgere dalla malìa delle parole. Oggi i viaggi vengono intrapresi sempre più solo per poterne poi scrivere, e c’è il rischio che il piacere letterario lasci poco spazio a quello della fantasia. Quando si legge per immaginare noi stessi a compiere il viaggio un racconto troppo perfetto ci esclude, non consente di figurarci qualcosa di diverso da ciò che viene raccontato.

È quanto sembra aver capito molto bene Roberto Giardina, che in due poderosi volumi (L’altra Europa. Itinerari insoliti e fantastici dell’Europa di ieri e di oggi e L’Europa e le vie del mediterraneo ha condensato un repertorio vastissimo di itinerari possibili e di suggestioni storiche da inseguire. Pochissime pagine per ciascuna tappa, descrizioni all’osso, rimandi storici a vicende e personaggi spesso sconosciuti: un liofilizzato di indicazioni che l’autore consegna al lettore come una possibilità, un ricettario con gli ingredienti essenziali: il gusto, sembra dirgli, ora devi mettercelo tu.

 

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