di Paolo Repetto, 21 dicembre 2014
Lo sviluppo storico della nazione russa è all’insegna della duplicità. Sono presenti, forse più che in ogni altra nazione europea, direttrici culturali diametralmente opposte. In quanto zona di raccordo tra il mondo europeo e quello asiatico, sotto l’aspetto sia geografico che etnologico, l’area russa finisce per risultare costantemente eccentrica nei confronti di entrambi i continenti. Almeno fino al XVII secolo essa rimane soggetta agli influssi paralleli e discordi di due civiltà in progressiva ed accelerata diversificazione, col risultato di vederli spesso annullarsi o compensarsi reciprocamente. Il trapianto di esperienze politico-amministrative mutuate direttamente dall’uno o dall’altro continente si rivela pertanto sempre precario; in compenso si realizza un singolare amalgama, nel quale la componente dispotica orientale si sovrappone agli esiti socio-culturali della cristianizzazione e degli intensi rapporti con Bisanzio e col mondo occidentale. Proprio Gorkij, in un articolo comparso sulla rivista Letopis’ nel 1915, opponeva l’Europa libera, attiva, piena di fede nell’uomo e nella sua intelligenza, all’est servile, passivo, perso nei sogni. “I russi hanno due anime. Una deriva loro dai nomadi mongoli: è un’anima mistica, da sognatore, pigra e fatalista. L’altra è quello dello slavo: essa è pronta ad infiammarsi di una luce bella e viva, ma brucia in poco tempo. È incapace di resistere all’influenza asiatica. Quale che sia la sua appartenenza sociale il nostro popolo è duro con gli schiavi e servile con i potenti. Lo stato moscovita ha come fondamento il dispotismo asiatico”.
La Russia moderna, quella che emerge dalla dissoluzione del dominio mongolico, non nasce affatto come sintesi finale di una reale evoluzione del quadro sociale ed economico. Sono le necessità contingenti di sopravvivenza l’unico dato in comune tra un coacervo di entità culturali e nazionali tutt’altro che omogenee. Ad agire da collante sono, prima e più di ogni altro fattore, etnico, linguistico, culturale o religioso, le pressioni costanti sui due fronti, quello europeo e quello asiatico, che impongono la necessità di un apparato difensivo ed organizzativo possente. L’esistenza di uno stato russo si legittima dunque in un primo tempo con la capacità di resistere alla penetrazione; una volta stabilizzate le linee di frontiera la potenza militare si tradurrà in un fattore di spinta espansionistica.
Un apparato con queste origini è necessariamente dispotico e persegue un forte accentramento, ma al tempo stesso rimane estraneo alla concreta e diversificata realtà societaria delle aree che investe. Sacrifica pertanto al proprio consolidamento ogni dinamismo sociale, favorendo invece la cristallizzazione e la perpetuazione dell’originaria struttura rurale. Anche in seguito, la spinta verso il centro che normalmente è determinata da una politica estera di espansione non è comunque sufficiente a saldare assieme l’apparato di potere e la comunità dei soggetti: ragion per cui rimane profonda la frattura tra stato russo, in quanto organizzazione militare e burocratica, e nazione russa, in quanto popolo organizzato secondo particolari modalità di convivenza e di produzione. Nei tre secoli della sua storia il regime zarista mira costantemente ad eliminare questa frattura, ma per la sua stessa natura può farlo solo fagocitando ogni espressione o parvenza alternativa di potere e di organizzazione. Di conseguenza l’opposizione allo zarismo si manifesta in prima istanza nella difesa delle strutture antiche e tradizionali, e solo in particolari circostanze questa difesa coincide con la richiesta di un modello sociale meno dispotico. È un carattere gravido di ambiguità, e la cultura russa ne esce profondamente segnata.
In effetti la nazione russa esce dalla dominazione mongolica ereditandone quasi al completo le strutture politiche. L’offensiva che nel corso del XV secolo ha ricacciati gli antichi dominatori al di là degli Urali è condotta nel segno di una rivendicata appartenenza culturale, religiosa ed economica all’Europa: ma di fatto la nuova organizzazione statale si modella sui dispotismi asiatici, almeno per quanto riguarda i rapporti politici interni.
Esternamente, invece, la natura stessa dell’autocrazia russa la induce a seguire con interesse il decollo tecnico-militare degli stati occidentali e a misurare rispetto a questi ultimi la propria forza di sopravvivenza. Questa scelta permetterà successivamente l’espansione in direzione nordasiatica, ed assicurerà alla potenza russa un ruolo di primo piano nella moderna storia europea.
Proprio nella svolta della politica estera sono tuttavia da ricercarsi le premesse di un processo di “sradicamento” dell’intelligencija russa, destinato ad isolare politicamente il potere e a sottrargli ogni copertura ideologica o culturale. L’occidentalizzazione investe infatti solo la struttura militar-burocratica dello stato, e non comporta la nascita e lo sviluppo di una classe borghese, mercantile ed industriale, comparabile a quella che nelle nazioni europee si avvia alla conquista dell’egemonia economica e politica. Al contrario, vengono rapidamente soffocate anche le poche forme embrionali di una organizzazione economica pre-borghese, retaggio della penetrazione scandinava, che avevano trovate soluzioni di convivenza con la dominazione mongolica. Queste necessitano di larghi margini di autonomia, il che si rivela incompatibile con l’assetto rigidamente accentrato del nuovo sistema: in un contesto tanto eterogeneo non sono consentite deroghe.
A differenza quindi di quanto accade in occidente tra il XVII e il XIX secolo, la moderna classe intellettuale non nasce in Russia nell’ambito ideologico della crescita borghese. L’immobilismo del quadro socioeconomico non lascia spazio a prospettive di trasformazione graduale dei rapporti di potere; le reazioni antiautoritarie si manifestano necessariamente in forme esasperate e violente (le rivolte di Stenka Razin o di Pugacev). In tali condizioni la cultura non assolve al ruolo di promozione e giustificazione dei rinnovamenti in corso che, sia pure con diversi livelli di autonomia critica, le è proprio in altri contesti: si limita ad essere il grido di protesta o l’arma di difesa di quei gruppi, ceti sociali e minoranze che di volta in volta vengono in urto con il potere. Quei caratteri che Gorkij definisce tipici dell’intelligencija russa, il romanticismo soggettivistico ed individualistico, la tendenza all’anarchismo, l’incapacità di aderire alla realtà concreta dello sviluppo sociale, sono i risultati dell’oggettiva assenza di una dinamica politica e sociale, della stasi che si trascina quasi sino alle soglie del nostro secolo.
Le origini di questa classe colta completamente sradicata, congenitamente avversa ed estranea allo stato e alle sue strutture, sono complesse; senz’altro non sono riconducibili ad una matrice unica e ad un particolare periodo. La maggior parte degli storici della cultura russa individua la prima significativa presenza del ceto intellettuale nell’epoca di Pietro il Grande, ma non bisogna dimenticare che fermenti di resistenza culturale sono rintracciabili anche in precedenza. Nel XVII secolo, sciolto il nodo politico centrale con la sottomissione definitiva dei boiari, lo zarismo si è prodotto in un grosso sforzo di riorganizzazione e di sistematizzazione della vita societaria, arrivando a interferire anche nell’ambito religioso. Agli autocrati non sono sfuggite le conseguenze politiche del movimento riformatore e della immediata controffensiva cattolica: la componente religiosa può divenire il fattore coagulante fra le diverse nazionalità dell’area russa, e al tempo stesso fornire al potere un formidabile mezzo di controllo. Ma il disegno non arriva in porto senza provocare scosse. Se da un lato la chiesa ortodossa ufficiale non oppone resistenza, e trova anzi conveniente la nuova situazione, che elimina i tradizionali dissapori ed i conflitti di competenza, ben diversa è la reazione che l’iniziativa suscita presso alcuni gruppi (i Vecchi Credenti ed altre sette) che rimangono legati al rituale e all’interpretazione teologica tradizionale. Mal tollerati e confinati ai margini (anche in senso letterale, attraverso la deportazione e la dispersione geografica) della società russa, i dissidenti religiosi costituiscono la prima forma cosciente di opposizione all’ingerenza dell’autocrazia in campo sociale. Da parte di questi gruppi viene opposta una resistenza che è legata necessariamente, com’è nel caso di ogni minoranza religiosa e culturale, a forme superiori e più capillarmente diffuse di cultura, ed ha origine un movimento a sfondo religioso che, in contrapposizione allo stato, si rifà ai modelli sociopolitici indigeni di stampo comunitario.
In una prospettiva più lontana la strada al dissenso è aperta anche dall’assimilazione e dall’utilizzazione di altre minoranze, queste a carattere etnico, che offrono il vantaggio di un rapporto tradizionale più vivo con l’Occidente (Lettoni, Estoni, …). A questa prima espressione di una intelligencija tecnica fa capo il movimento riformatore a partire da Pietro il Grande. Attraverso essa infatti si fa strada in Russia non soltanto l’esigenza di un rapido rinnovamento delle strutture economiche ed amministrative dello stato, ma anche l’anelito ad una gestione meno dispotica del potere, a spazi politici più ampi e garantiti. Stante la realtà sociale del paese, depositaria di queste nuove istanze può essere in principio soltanto la parte meno conservatrice e reazionaria della nobiltà, acquisita da un lato allo spirito illuministico, ma allo stesso tempo desiderosa di ritrovare un ruolo attivo e dirigenziale.
Alla morte di Pietro il Grande della grossa spinta innovatrice rimane soprattutto la carica interlocutoria nei confronti dell’autocrazia: ed alla fine del XVIII secolo l’idillio col potere è già finito. Se Pososkov (Libro sulla miseria e sulla ricchezza, 1724) è l’espressione del momentaneo entusiasmo per lo svecchiamento strutturale operato dall’alto, in quanto vede nell’opera di industrializzazione accelerata intrapresa da Pietro lo sbocco per i problemi sociali e politici della Russia, in Radiščev (Viaggio da Pietroburgo a Mosca, 1790)[1] l’attacco allo stato e alla sua personificazione poliziesca nello zarismo denuncia l’esistenza di una frattura ormai insanabile. Alle soglie della rivoluzione francese intellettuali e potere si accorgono di essere giunti all’improvviso ad un bivio: e le scelte vanno in direzioni opposte. L’illusione di poter conciliare il progressismo riformatore con le istanze liberaleggianti di matrice illuministica svanisce rapidamente. Tanto il primo quanto le seconde si fondano, negli altri stati europei, sulla mediazione di una classe borghese ormai autonoma, che aspira ad un ruolo politico concreto e di primo rilievo per gestire senza interferenze lo sviluppo del nuovo modo di produzione. In assenza del naturale intermediario l’innesto in Russia della struttura economica capitalistica è tentato a freddo, direttamente dal trono, e si spoglia di ogni addentellato sovrastrutturale liberalistico. Al contrario, esso necessita di una concentrazione sempre più salda del potere e si accompagna alla drastica liquidazione delle forme economiche tradizionali, perseguendo un livello sempre più alto di asservimento della nazione.
L’atteggiamento dell’intelligencija si colora da questo momento di sensibilità romantica, e dopo la feroce repressione del moto decabrista[2] la incompatibilità di ogni speranza di democratizzazione con la presenza del regime zarista diviene un dato comune nel pensiero liberale. È quello che Struve[3] chiama “sradicamento” (otscepenstvo), una comune e continua disposizione antistatale che impedirà per il futuro alla classe colta di integrarsi, diversamente dagli strati intellettuali del resto d’Europa, nelle strutture del sistema, e di collaborare ad esso o di modificarlo dall’interno. Una disposizione del genere finisce naturalmente per privilegiare l’elaborazione teorica, di stampo idealistico, e all’interno di quest’ultima lo sviluppo di correnti di pensiero spesso apertamente antitetiche. Gli intellettuali russi ereditano infatti l’ambiguità che già emergeva nei presupposti dei principali teorici del decabrismo, e la portano alle estreme conseguenze nella contrapposizione tra “slavofili”[4] ed “occidentalisti”[5]. Il decabrista Pestel, ad esempio, si trova sulle stesse posizioni di Radiščev per quanto concerne la liberazione dei servi, ma in lui è già presente l’esigenza di una qualità diversa del lavoro e della produttività. Contrario all’introduzione in Russia delle nuove macchine industriali, ritiene al tempo stesso necessaria l’incentivazione agli imprenditori agricoli progressisti, capaci di razionalizzare la produzione. Ancora più esplicitamente il suo compagno Turgenev[6] parla di introduzione di moderni sistemi di coltura nel mondo agricolo e della graduale costituzione di piccole e medie aziende che vadano a sostituire il latifondo nobiliare e la conduzione comunitaria.
Nei primi decenni del XIX secolo le proposte politiche ed economiche rimangono quindi vincolate alla realtà contadina della Russia e alla presenza del sistema autocratico. Solo il fallimento del decabrismo sembra determinare un salto qualitativo. Da un lato i presupposti per una radicale riforma del sistema cominciano ad essere individuati nello sviluppo di una classe non così totalmente legata allo zarismo come quella aristocratica, cioè di una borghesia industriale e commerciale ansiosa di partecipare al governo della cosa pubblica: dall’altro, il rifiuto dell’occidentalizzazione induce a rivalutare quegli organismi comunitari di autogestione che avevano accompagnata la prima fase della crescita statale e che rispondevano ad una specifica situazione russa.
Alla base di questo mutamento di prospettiva è l’evoluzione, sia pure lenta ed affatto dissimile da quella dei paesi occidentali, del quadro economico e sociale, culminata nella liberazione dei servi. Fermo restando il rapporto politico fondamentale tra i gruppi dominanti e il resto del paese, sul piano del pensiero gli stimoli alla produzione ed alla diffusione si moltiplicano, determinando una trasformazione radicale anche nella natura della classe intellettuale. Intorno alla metà del XIX secolo essa ha cessato di fungere da portavoce dell’aristocrazia riformista e della burocrazia illuminata per diventare espressione di nuovi ceti sociali, dalla borghesia professionale alle classi inferiori, toccati in maniera alquanto più diretta e pesante dall’arretratezza economica e dal dispotismo. I nuovi intellettuali (raznočincy) non possono esimersi dal rapportare costantemente il problema russo alla realtà europea contemporanea, caratterizzata dal rapido sviluppo del modo di produzione capitalistico, e dal prendere posizione pro o contro l’estensione di quest’ultimo all’economia del loro paese.
Non si tratta più semplicemente di scegliere l’autonomia culturale o l’affiliazione al pensiero occidentale ed ai suoi modi espressivi: la questione concerne ormai il campo più vasto della struttura economica e, conseguentemente, di quella politica. Dalla sua posizione di “osservatrice esterna” l’intelligencija russa non nutre alcuna simpatia per il capitale e per l’organizzazione socio-economica che questo si sta dando in Occidente. I pericoli insiti nella crescita industriale, il prezzo da essa imposto al proletariato, l’inevitabile snaturamento delle peculiarità psicologiche russe sono lucidamente presenti ai pensatori radicali di questo periodo. In linea di massima l’ipotesi di un puro e semplice travaso del nuovo modo di produzione dall’Europa viene scartata a priori: l’intelligencija preferisce “partecipare” dei bisogni popolari, “sentire” all’unisono con i ceti più diseredati, e trarre direttamente dalle loro sofferenze, dalle loro richieste e dalle primordiali forme organizzative e difensive cui si sono affidati gli spunti per la trasformazione economica e politica. D’altro canto, la prospettiva di un adeguamento sia pure parziale all’idea e alle forme occidentali del “progresso” rimane la più congeniale per chi interpreta il suo ruolo di intelligent nell’ottica positivistica dell’educatore, dell’intermediario tra la cultura e le masse (che sarà poi l’ottica di Gorkij).
Si ripropone pertanto lo scontro tra due linee di tendenza da sempre compresenti nel progressismo russo: e questa volta, di fronte all’accelerazione impressa nella seconda metà dell’Ottocento dallo sviluppo del capitale al rinnovamento tecnologico e produttivo, non sono possibili mediazioni. Sarà il primo indirizzo a prevalere fino agli ultimi decenni del secolo, trovando la sua espressione più organica e fertile nel populismo: mentre l’introduzione in Russia del pensiero marxista determinerà, alle soglie del ‘900, il sopravvento della posizione occidentofila.
Il movimento populista nasce da una valutazione radicalmente negativa tanto dei principi ispiratori quanto delle risultanze sociali della crescita capitalistica occidentale; dalla volontà quindi di individuare un cammino meno tragico verso la realizzazione di una società libera. Sorto sulla traccia degli apporti più innovatori dell’utopia slavofila, che individuava nella struttura comunitaria contadina[7] l’alternativa alla dissoluzione individualistica borghese, il movimento si caratterizza per l’approfondita capacità critica e per la volontà di verificare nella prassi rivoluzionaria i presupposti teorici.[8] In questo senso il populismo russo si pone come la prima vera e propria forma rivoluzionaria russa, e non ha difficoltà ad accogliere i portati dell’analisi marxista, precocemente penetrata in Russia, pur rifiutandone la sostanziale accettazione del modo di produzione capitalistico.
A gettare le basi del populismo è Alexander Herzen[9], per il quale il riformismo di tipo occidentale, basato sull’avanzata del capitalismo e della sua fenomenologia socio-politica (individualismo e liberalismo borghese) non corrisponde all’indole nazionale del popolo russo e contrasta con le sue consuetudini comunitarie. Pur apprezzando l’evoluzione della tecnica produttiva occidentale egli non ne accetta le conseguenze sul piano sociale: identifica nel proletariato industriale la nuova forza rivoluzionaria europea, ma nel contempo nutre scarsa fiducia nelle sue reali possibilità. Proprio con Herzen si fa strada l’idea di un “socialismo istintivo” di matrice popolare anziché filosofica, tradizionalmente presente nelle forme più antiche di organizzazione sociale in Russia. Le comunità collettive contadine (obščina) diventano il punto di riferimento per il populismo russo, e consentono di ipotizzare un movimento rivoluzionario non vincolato allo sviluppo capitalistico e al deflagrare delle sue contraddizioni.
Partendo da basi alquanto diverse, Černyševskij[10] arriva a conclusioni altrettanto radicali, affermando che la Russia è in grado di saltare lo stadio del capitalismo industriale avanzato e di giungere direttamente ad una società libera ed egualitaria, basta su una classe contadina socialmente rigenerata. La difesa delle forme di produzione collettiva non contrasta affatto, a suo giudizio, con l’entusiasmo per l’adozione della nuova tecnologia produttiva. L’obščina non è legata, per la sua sopravvivenza, all’arretratezza tecnologica. Una sua rivalutazione può al contrario incentrarsi proprio sulla maggiore disponibilità di capitale, quindi sull’accresciuto potere d’acquisto e di utilizzo della tecnologia che un istituto del genere garantisce ai contadini.
I presupposti del populismo vengono portati alle estreme conseguenze da Michajlovskij[11]: egli non considera affatto (come invece altri, tra cui lo stesso Černyševskij, affermavano) il ritardo industriale della Russia un fattore positivo, che permette di sfruttare le esperienze altrui e di evitarne le scelte sbagliate; lo vede al contrario come un handicap incolmabile, qualora si volesse insistere sulla via della occidentalizzazione. Questo perché lo sviluppo industriale è stato falsato nel paese dal protezionismo statale, per motivazioni di ordine politico che prescindevano da ogni realistica valutazione economica. Si è trattato quindi di una crescita puramente deficitaria, che non ha permesso alla Russia di avvicinarsi minimamente a posizioni concorrenziali con quella occidentale. Pertanto l’abbandono dell’obščina comporterà, secondo Michajlovskij, conseguenze catastrofiche per il mondo rurale russo.
Nello stesso periodo dagli occidentalisti arriva una valutazione diametralmente opposta. Belinskij[12], e poi Pisarev[13], vedono nello sviluppo industriale un fattore imprescindibile della liberalizzazione e sottolineano il ruolo dell’intelligencija nella educazione sociale del popolo. Per il primo l’unità indifferenziata in cui la nazione russa appare chiusa è la causa primaria dell’arretratezza del paese. Occorre combattere la stasi sociale ed economica con la creazione di classi concorrenti, per arrivare alla ricostituzione di un unicum comunitario, una volta raggiunti livelli più elevati. Pisarev si spinge più oltre. Sacrificando la naturale crescita del modo di produzione occidentale per salvare organismi comunitari che da tempo hanno persa ogni funzione reale, si procrastina indefinitamente l’avvento della democrazia. Al contrario, la nuova classe “capitalistica” da lui vagheggiata dovrebbe farsi depositaria di un avanzato sapere scientifico e tecnico, e giungere ad un accordo equamente vantaggioso col proletariato, scavalcando e nullificando il potere autocratico.
Vale la pena, a questo punto, di anticipare che posizioni di questo genere, soprattutto per quanto concerne il ruolo culturale dell’industria e dell’intellighencija tecnica, saranno fatte proprie da Gorkij, il quale condividerà anche il giudizio totalmente negativo sulle potenzialità rivoluzionarie delle campagne e sulla interpretazione socialistica del collettivismo agrario precapitalistico. Ciò malgrado, lo scrittore rimane pesantemente ostile a questi pensatori, in particolare a Pisarev. Ne attacca in modo violento quella che gli pare una feticizzazione dell’individuo, da considerarsi non meno pericolosa della feticizzazione del popolo in cui sono caduti slavofili e populisti. Gli sembra mancare, da una parte e dall’altra, il senso della misura, la capacità di attenersi ad una valutazione realistica, che non arrivi ad accettare in nome di principi astratti tutto quanto è espressione del popolo e neppure si rifugi in una atomizzazione soggettivistica, estranea ed indifferente alle espressioni di vitalità popolare. In pratica si tratta per Gorkij di guardare al popolo per quello che può essere e può costruire, e non per ciò che è stato o ha fatto.
È il marxismo russo ad ereditare e contemporaneamente a superare la posizione occidentalista, la quale non è in grado di indicare sbocchi politici immediati e concreti, al di là di un confuso vagheggiamento di democrazia liberale. Marx stesso era in realtà già intervenuto nella polemica tra slavofili ed occidentalisti (nella introduzione alla versione russa del Manifesto, curata da Vera Zasulic), accogliendo l’idea di una “diversità russa”, e quindi della necessità di procedere ad una analisi differenziata. Il problema dell’esistenza di strutture economiche collettivistiche, della loro origine, del loro destino e di una eventuale utilizzazione paradigmatica ai fini della transizione diretta al socialismo non lo aveva lasciato indifferente: ed arrivava a prospettare un’appropriazione delle conquiste positive del sistema capitalistico “senza passare per le sue forche caudine”.
Soltanto in secondo tempo, di fronte ai nuovi problemi aperti dal ritmo forzato di crescita impresso all’industrializzazione russa verso la fine del secolo, il giudizio su una possibilità di transizione diretta a forme socialistiche è modificato da Engels, il quale non riconosce alle strutture comunitarie di villaggio una intrinseca potenzialità rivoluzionaria in direzione socialista, e mette in rilievo come nel giro di pochi decenni l’espansione capitalistica ne abbia minato definitivamente la consistenza.
Questa seconda interpretazione diviene propria dei marxisti russi per una ragione ben precisa, che va oltre le semplici motivazioni tattiche del confronto con il populismo o la rispondenza ad una ideale ortodossia scientifica dell’analisi. La costruzione del socialismo in Russia è da essi infatti subordinata al superamento dell’ “asiatismo”, di una particolare disposizione immobilistica che non ha favorito il divenire classista e l’autonomizzazione del capitale, e che ha mantenuto a livello endemico il problema della sopravvivenza immediata, altrove ormai superato con lo sviluppo con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico.
Si rende pertanto necessaria l’introduzione di quest’ultimo e la sua gestione più o meno esplicita da parte del partito rivoluzionario, per farne lo strumento decisivo del passaggio al socialismo. Tutto ciò significa proporsi di realizzare qualcosa ex novo, un progetto le cui componenti vanno preventivate, governate e dirette razionalmente. Non rimane quindi che puntare su un movimento ancora embrionale, passabile di essere imbrigliato e incanalato nella direzione voluta, quale risulta essere verso la fine del secolo l’espansione del capitalismo in Russia. Ben diversamente sfuggente ed autonoma è invece la realtà delle forze comunitarie preesistenti, che oppongono la forza di una tradizione secolare ad ogni tentativo di reinterpretazione.
È soprattutto Plechanov a spingere nel senso di una costruzione scientifica, ma anche le prime opere di Lenin risentono fortemente della polemica contro i populisti e della volontà di arrivare ad una definitiva liquidazione teorica del loro progetto. A prescindere comunque dalle considerazioni precedenti, ogni via alternativa e non scientifica al socialismo appare ai marxisti preclusa dalla nuova realtà economica e sociale della Russia. Il capitalismo, in barba a tutte le polemiche, è penetrato in Russia e vi ha attecchito profondamente, distruggendo in modo sistematico quelle forme comunitarie su cui si era appuntata l’attenzione dei populisti. Il nuovo protagonista delle speranze rivoluzionarie non può che essere il proletariato industriale, avviato sulla strada della piena autocoscienza e dell’acquisizione di una mentalità socialistica: la classe contadina, con la sua arretratezza ed indifferenza politica, fornisce all’assolutismo un formidabile baluardo.
Sono conclusioni sulle quali all’inizio del secolo si ha il pieno accordo di tutte le fazioni del movimento rivoluzionario di professione marxista: e d’altra parte, anche là dove questa analisi e le sue conseguenze tattiche non sono accettate, come avviene nel caso dei socialrivoluzionari, i fondamenti della fiducia in una rivoluzione contadina sono ben diversi da quelli su cui era basato il pensiero populista nell’800. La riforma agraria su basi cooperativistiche, essi sostengono, non avrebbe senso se non si accompagnasse ad una rivoluzione politica e al decentramento amministrativo, e pur tenendo conto di una tradizione radicata di collettivismo deve basarsi su un rinnovamento globale dei rapporti di lavoro.
Il dibattito sulle vie al socialismo, che pareva ormai definitivamente chiuso, viene riaperto in seno al movimento marxista dalle vicende rivoluzionarie del 1905-1906. Accanto alle forme autonome di organizzazione della classe operaia, che hanno colti di sorpresa ed in un certo qual modo intimoriti i fautori dell’analisi scientifica, una grossa impressione desta anche l’attività rivoluzionaria che si sviluppa nelle campagne, infliggendo un duro colpo al regime a dispetto della confusione e dell’assoluta mancanza di coordinamento. Il più pronto a cogliere il senso di questo fenomeno è Lenin, per il quale il movimento va recuperato ed allineato a quello operaio; mentre Trockij, pur non accettando la tesi della necessità di un gradualismo rivoluzionario, in direzione prima borghese e poi socialista, è portato a valutare come prioritaria l’esperienza operaia dei soviet. Tutti gli altri esponenti di rilievo del pensiero marxista dell’area russa, da Plechanov a Struve, dalla Luxenburg a Martov, si pronunciano contro il pericolo di attribuire un peso spropositato al ruolo rivoluzionario della classe contadina.
Lo stesso Lenin, comunque, non porta alle estreme conseguenze questo recupero. Ciò significherebbe infatti dare credito alle potenzialità rivoluzionarie di una situazione totalmente diversa da quella postulata dall’ortodossia marxista, ovvero dello sviluppo pieno del modo di produzione capitalistico. Fino al 1917 egli ha presente la necessità di non trascurare il coinvolgimento della classe contadina, capace di mutare radicalmente il rapporto di forza: ma continua ad apparirgli imprescindibile la guida, e quindi la posizione in ultima analisi egemonica, del proletariato industriale. A questa cautela non è forse estranea la considerazione della reale entità del movimento operaio, la cui debolezza non consentirebbe, nell’ipotesi pur remota di una situazione rivoluzionaria, di forzare in senso capitalistico la ristrutturazione delle campagne. Si può azzardare cioè che Lenin paventi, nel caso di una accelerazione del decorso rivoluzionario tale da sfuggire alle leggi marxiste, una soluzione comunitaria di tipo precapitalistico, o quanto meno il trionfo della tendenza al possesso e della fame cronica di terra del contadino, in un processo difficilmente reversibile.
Quando poi, nel corso della rivoluzione, Lenin si trova a gestire col partito bolscevico la dissoluzione dello stato autocratico e il passaggio immediato al socialismo, la palese incapacità della borghesia di dare una struttura ed un volto alla nuova entità statale e il grosso movimento prodottosi nelle campagne durante l’estate del 1917 lo costringono ad una scelta pragmatica, che non bada troppo al riscontro con quanto teorizzato e programmato. Il suo atteggiamento nei confronti della collettivizzazione agricola, però, non proponendo soluzioni alternative allo spontaneo proliferare delle forme comunitarie e alla reintroduzione della proprietà privata, lascia aperta la strada ad ogni tipo di soluzione; ciò che importa nell’immediato è consolidare il potere e sancire l’egemonia del partito nei confronti delle formazioni e degli istituti collettivistici di base. Lenin lascia quindi aperto il problema dei contadini: a chiuderlo ci penserà Stalin.
E con questo siamo tornati alla situazione dalla quale avevamo preso l’avvio. A chiusura e sintesi di questa presentazione credo che nulla possa valere meglio delle parole dello stesso Gorkij. In uno degli ultimi articoli apparsi su Novaia Zižn’, quasi presago della chiusura imminente e del bavaglio che di lì innanzi gli sarebbe stato imposto, Gorkij sembra voler lasciare un testamento spirituale, contrapponendo le due tipologie di rivoluzionario che nei momenti di grande trasformazione da sempre arrivano a fronteggiarsi. Sono due immagini stilizzate, ma sono anche molto realistiche, e non è difficile immaginare, in relazione al dibattito in corso, chi le stia impersonando.
“I rivoluzionari della nostra epoca, li si può distinguere in due tipi: uno che si potrebbe chiamare il rivoluzionario eterno, l’altro il rivoluzionario temporaneo, quello del momento presente.
Il primo […] incarna il principio rivoluzionario di Prometeo, appare come l’erede spirituale di tutta la massa di idee che ha condotta l’umanità alla perfezione, e tali idee non sono impresse solo nel suo spirito ma anche nei suoi sentimenti … In tutti i regimi sociali è costretto dai suoi sentimenti e dalle sue idee a rimanere un insoddisfatto, perché sa e crede che l’umanità ha il potere di trasformare in definitivamente il bene in meglio.
Vorrebbe animare e ispirare tutta la materia grigia del mondo, per tanta che ve ne sia nel cranio di tutti gli uomini della terra: ma non è capace di ricorrere alla violenza se non nei casi di estrema necessità, e con un sentimento di disgusto fisico per ogni atto di violenza.
Egli ha la ferma convinzione che l’orrore della storia e la sua più grande disgrazia stanno nel fatto che l’uomo è crudelmente oltraggiato: oltraggiato dalla natura, che lo creato e poi lo ha gettato nel deserto del mondo … oltraggiato dagli dei che egli ha creato troppo precipitosamente e troppo a sua immagine e somiglianza; continuamente oltraggiato dal suo prossimo furbo o forte, e ancora più amaramente da se stesso, per le sue esitazioni tra la vecchia bestia e l’uomo nuovo.
Ma il rivoluzionario eterno non nutre alcuna forma di risentimento personale nei confronti degli altri, perché sa sempre porsi al di sopra del piano personale e vincere il desiderio meschino e maligno di vendicarsi di coloro che gli hanno inflitto dolori e sofferenze.
Il suo ideale è un uomo forte fisicamente, un bell’animale, ma questa bellezza fisica è in perfetta armonia con la bellezza e la forza spirituale. L’umano è lo spirituale … qualcosa che un numero sempre crescente di uomini sente confusamente: la coscienza dell’unità dei loro scopi e dei loro interessi. Il rivoluzionario eterno […] cerca di allargare questa coscienza acciocché essa conquisti tutta l’umanità.
Il rivoluzionario temporaneo, quello del momento presente, è un uomo che sente con una sensibilità morbosa le offese e le ingiustizie sociali, le sofferenze inferte dagli uomini. Accettando in ispirito le idee rivoluzionarie ispirate dall’epoca, rimane conservatore nell’insieme di tutti i suoi sentimenti ed offre lo spettacolo triste di una creatura venuta tra gli uomini, sembrerebbe, per deformare, denigrare, abbassare sino al ridicolo, al volgare e all’assurdo il contenuto culturale, umanitario e universale delle idee rivoluzionarie.
Egli è completamente impregnato, come una spugna, del sentimento di vendetta, e vuole restituire centuplicate le offese. Nel fondo del suo animo è pieno di disprezzo nei confronti dell’uomo, in nome del quale ha sofferto una volta o cento volte, e che però soffre già troppo di per sé per poter far caso o dare valore alle sofferenze degli altri. Cercando di cambiare le forme esteriori della vita sociale, il rivoluzionario del presente non è capace di dare alle nuove forme un contenuto nuovo, e vi immette quegli stessi sentimenti che aveva combattuto.
Si comporta con la gente come uno scienziato meschino coi cani o con le rane destinati ai suoi crudeli esperimenti scientifici …. Gli uomini sono per lui un materiale tanto più utile quanto meno è spiritualizzato. È un fanatico freddo, un asceta; egli mutila la forza creatrice dell’idea rivoluzionaria e sicuramente non è a lui che si può attribuire la qualifica di creatore della nuova storia: non ne sarà lui l’eroe ideale”.
Sia pure con qualche concessione retorica, Gorkij coglie nel segno. In maniera più o meno sfumata sono queste le tipologie che la storia propone. Non è possibile semplificarle nell’idealista e nel pragmatico, perché in realtà si può essere un rivoluzionario eterno senza necessariamente viaggiare sempre sulle nuvole, o si può essere idealisti, come Robespierre, senza provare alcuna pietà per gli uomini. Forse varrebbe meglio usare i termini “rancoroso”, o “acido”, e “sereno”, o “basico, dolce”. In un altro articolo Gorkij riporta lo sfogo di un suo lettore: «Ricordo perfettamente i pensieri che mi tormentavano quando, ragazzo diciassettenne, spingevo l’aratro sotto un sole bruciante. Se vedevo passare un impiegato, un prete o un insegnante, mi domandavo invariabilmente: “Perché io devo lavorare mentre questa gente sguazza nella felicità?” Perché non c’era per me che il lavoro fisico, ed io aspiravo con tutte le mie forze ad essere liberato da ogni lavoro fisico. È questo stesso fenomeno che oggi constato presso un gran numero di coloro che aderiscono ai partiti socialisti. Quando vedo questi socialisti mi vien voglia di piangere, perché voglio essere socialista non solo a parole, ma anche nei fatti».
Gorkij commenta: “Ecco la voce di un autentico romantico, di un uomo che sente tutta la forza organizzatrice della verità, e che ama la sua fiamma purificatrice. M’inchino rispettosamente di fronte a quest’uomo. Gli uomini di questo genere hanno una vita difficile, ma le loro vite lasciano una bella impronta”.
Non si può che condividere in pieno, e inchinarci anche noi, sapendo benissimo, purtroppo, che ogni volta che una grande idealità si confronta con una grande massa finisce per battere in ritirata. La rivoluzione bolscevica ne è solo uno degli esempi più recenti.
Ma sappiamo anche che l’impronta lasciata dalla massa, a dispetto del peso e dell’ingombro, è labile, mentre l’idealità, sia pure in versioni costantemente aggiornate, abita ogni tempo e lo segna profondamente.
[1] Aleksandr Nikolaevič Radiščev (1749 – 1802) si era formato sugli illuministi francesi. Scrisse nel 1783 l’ode Vol´nost´ (La libertà), considerata la prima poesia rivoluzionaria della letteratura russa, e nel 1790 Putešestvie iz Peterburga v Moskvu (Viaggio da Pietroburgo a Mosca, 1972), in cui col pretesto del viaggio denunciava lo sfruttamento dei contadini e la corruzione della nobiltà. Per quest’opera fu condannato a morte, pena poi commutata in dieci anni di detenzione in Siberia. La persecuzione continuò anche dopo il suo ritorno in Russia, inducendolo alla fine al suicidio.
[2] I Decabristi (da dekabr′, dicembre) erano in gran parte ufficiali reduci dalle campagne antinapoleoniche, nel corso delle quali avevano toccato con mano il divario esistente tra la Russia e l’Europa, e avevano creato nel corso degli anni venti diverse società segrete miranti ad abbattere l’autocrazia zarista. Le idee relative al futuro assetto della società erano piuttosto confuse, andavano dalla monarchia costituzionale ad assetto decentrato sino alla repubblica centralistica. Non ci fu comunque l’occasione di metterle a confronto: una congiura per uccidere lo zar Nicola il giorno stesso della sua incoronazione, il 26 dicembre del 1829, venne scoperta, il sollevamento di alcuni reparti in punti diversi del paese fu facilmente contenuto e tutta l’insurrezione venne soffocata nel sangue. Ci furono oltre cento arresti, vennero eseguite cinque condanne all’impiccagione e comminate diverse centinaia di anni di lavori forzati. A dispetto del fallimento, però, la rivoluzione decabrista assunse grande importanza nella storia russa, perché aprì la strada alle riforme sociali realizzate nella seconda metà del secolo. I decabristi furono in sostanza dei patrioti mossi dalla volontà di riscattare la Russia dal suo degrado sociale, ma spinti anche da quel desiderio d’indipendenza e di difesa dell’originalità “culturale” che animò in seguito la teoria slavofila.
[3] Pëtr Berngardovič Struve, economista (1870 – 1944), fu l’autore del primo manifesto programmatico del Partito Operaio Socialdemocratico Russo (1898), in seno al quale fu esponente dell’ala dei “marxisti legali”, in netta opposizione ai bolscevichi. Passato al liberalismo, si unì nel 1905 ai Cadetti e nel 1917 fece parte del governo controrivoluzionario di Vrangel´. Fuggì poi a Parigi dove cercò di riunire i letterati russi dell’emigrazione intorno al giornale Vozroždenie (“Rinascita”).
[4] Il circolo degli Slavofili fu costituito a Mosca negli anni Trenta. Era composto principalmente da aristocratici terrieri che ammettevano la necessità di riforme politiche e sociali ed esaltavano il patrimonio spirituale del popolo russo. Ritenevano che la Russia dovesse intraprendere un tipo di sviluppo diverso da quello delle società liberali occidentali, considerate decadenti. Idealizzando i rapporti tra padroni e servi, che concepivano in termini patriarcali, chiedevano l’abolizione della servitù della gleba, ma ritenevano fosse lo zarismo a dover attuare le riforme sociali, rispettando i principi della primitiva comunità rurale russa, l’obščina. In quest’ultima vedevano in realtà un freno alle possibili tentazioni rivoluzionarie dei contadini.
[5] Gli Occidentalisti erano invece sostenitori di uno sviluppo liberale sul modello dell’Europa occidentale. Ritenevano inevitabile lo sviluppo capitalistico del paese, e quindi urgente il superamento delle strutture feudali, ma anche l’abbattimento o almeno una limitazione del potere assolutistico. Attraverso la rivista Otečestvennye Zapiski (Annotazioni patrie) si battevano per la diffusione in Russia della cultura occidentale e per la conquista dei diritti individuali.
[6] Nikolaj Ivanovič Turgenev (1789 – 1871) si era formato in Germania, nell’università di Gottinga, e aveva anche lavorato all’amministrazione delle terre liberate dalla riforma antilatifondista prussiana. Una volta rientrato in patria venne impiegato in diversi ministeri, scrisse un saggio sulla Situazione dei servi della gleba e si avvicinò, sia pure con posizione moderata (sosteneva un assolutismo illuminato) ai decabristi. Coinvolto nella congiura, venne prima condannato a morte e poi all’ergastolo, al quale sfuggì rifugiandosi all’estero.
[7] In realtà la comunità rurale russa (obščina) era tutt’altro che “comunitaria”, e men che mai comunistica. La terra coltivata non apparteneva al contadino, ma veniva periodicamente redistribuita dall’assemblea plenaria della comunità (mir). Ciascuno coltivava poi per proprio conto l’appezzamento assegnatogli, e a lui solo apparteneva il prodotto ottenuto: non esisteva quindi una produzione comunitaria, ma solo un possesso o diritto comune. Le deliberazioni del mir riguardavano non solo il controllo e la redistribuzione della terra comune e delle foreste, ma l’arruolamento delle reclute per il servizio militare statale, l’erogazione di punizioni per i crimini minori. L’obščina era peraltro obbligata al pagamento delle tasse dei singoli membri.
[8] Il 3 marzo 1861 lo zar Alessandro II emanava lo Statuto dei contadini liberati dalla servitù, che sanciva la fine della servitù della gleba e stabiliva i criteri per la redistribuzione della terra. Una parte delle terre dei latifondisti erano cedute al mir, dietro risarcimento da parte dello stato. Il mir pagava un terzo del valore delle terre e le assegnava poi ai singoli contadini, i quali avrebbero dovuto rimborsare allo Stato i rimanenti due terzi attraverso un canone per 49 anni. Dovevano anche prestare al vecchio proprietario una corvée annuale di 70 giorni. Il singolo contadino diveniva proprietario della casa ma non della terra, che rimaneva di proprietà della obščina, Egli poteva però acquistare privatamente singoli appezzamenti. Inoltre, il decreto imperiale sottraeva a favore dei proprietari anche un quinto della terra già in comune godimento dei contadini. Questi ultimi, anche se liberati dalla servitù, in realtà non avevano ottenuto alcun miglioramento economico: inoltre rimanevano legati al villaggio dal sistema dei passaporti individuali interni, detenuti dai proprietari. Coloro che non erano in grado di pagare i canoni finirono per rivendere la terra agli stessi proprietari o all’emergente borghesia agricola – i kulaki – e si trasformavano in braccianti o fuggivano in città, dove entravano come operai nelle fabbriche.
Il governo attuò anche riforme amministrative, con la creazione degli zemstvo, organi provinciali elettivi ma a maggioranza nobiliare, responsabili dell’istruzione e della sanità, e con l’istituzione delle dume cittadine, che avevano le stesse prerogative.
[9] Di origini nobiliari, anche se illegittimo, Herzen (1812 – 1870) dedicò la sua vita e la sua militanza alla difesa del popolo contadino russo, assumendo in seno al populismo posizioni slavofile (che lo portarono per un certo periodo anche a confidare nella volontà riformatrice dello zarismo). Herzen riteneva che l’obščina potesse costituire la base, sia economica che sociale, sulla quale costruire un socialismo autonomo russo. Credeva che nel contadino russo fosse innato, più che in qualsiasi altro uomo, lo spirito comunitario: “Il contadino russo conosce soltanto la moralità che nasce istintivamente e naturalmente dal suo comunismo […] la manifesta ingiustizia dei proprietari terrieri lega il contadino ancor più strettamente alle leggi della sua comunità […] l’organizzazione della comunità […] è sopravvissuta ed è rimasta integra fino allo sviluppo del socialismo”.
Al contrario degli slavofili conservatori, che in fondo consideravano l’obščina come l’alternativa ad un rivolgimento sociale, Herzen pensava che proprio per essa sarebbe passata la futura rivoluzione: “Noi russi, che abbiamo conosciuto la civiltà occidentale, non siamo altro che un mezzo, un lievito, una mediazione tra il popolo russo e l’Europa rivoluzionaria. L’uomo dell’avvenire è in Russia il mužik, esattamente come in Francia è il lavoratore”.
[10] Nikolaj Gavrilovič Černyševskij (1828–1889), editore del giornale “Sovremennik” (Il Contemporaneo), criticò dalle sue colonne i progetti di riforma contadina del governo (1861), con la quale i contadini erano solo nominalmente liberati dal giogo della servitù della gleba, senza poi ottenere il possesso della terra. A questo punto per Černyševskij l’unica soluzione era la rivoluzione contadina. Fondò nel 1861 la società rivoluzionaria segreta “Zemlja i Volja” (Terra e Libertà). Il suo giornale venne soppresso e lui stesso venne prima rinchiuso nella fortezza di Pietro e Paolo e poi inviato in esilio in Siberia per un quarto di secolo, sino a pochi mesi prima della morte. In prigione scrisse il romanzo “Che fare?”, destinato ad esercitare una fortissima influenza sulle successive generazioni di rivoluzionari russi.
[11] Nikolaj Konstantinovič Michajlovskij (1842 –1904) fu uno dei più eminenti rappresentanti del populismo russo: diresse a lungo riviste progressiste come Otečestvennye Zapiski (Annali patrii) e la Russkoe bogatstvo (La ricchezza russa).
[12] Vissarion Grigor’evič Belinskij (1811–1848), filosofo e critico letterario, collaboratore di diverse riviste, tra cui gli Annali patrii, aderente alle posizioni di Feuerbach e della sinistra hegeliana, pur facendo sue le premesse teoriche del socialismo rimase poi, a livello politico, su posizioni individualistiche. Il rischio del socialismo era per lui che l’individuo potesse scomparire nella collettività. In campo letterario sostenne il realismo, contro l’estetica dell’arte per l’arte, e fu per questo considerato il creatore dell’estetica “rivoluzionaria”.
[13] Dmitrij Ivanovič Pisarev (1840 –1868) auspicò apertamente, in un articolo comparso nel 1862 sulla rivista Russkoe slovo (La parola russa), la fine dello zarismo e il cambiamento del sistema politico e sociale in Russia. Fu naturalmente arrestato e scontò quattro anni di detenzione nella fortezza Pietro e Paolo. Una volta libero, dopo aver tentato invano di emigrare nell’Europa occidentale, morì suicida (forse) in mare. Fu un teorico del nihilismo, in nome di una individualistica liberazione da ogni forma di soggezione: e riteneva che questa liberazione potesse passare attraverso la divulgazione della scienza a tutti i livelli della società, in particolare tra i ceti più bassi.