La lingua batte …

di Nicola Parodi, da un colloquio con Paolo Repetto, 18 ottobre 2025

Sono abbastanza vecchio da aver prestato servizio di leva obbligatorio (quello pre-riforma, quindici mesi di naia), e abbastanza poco raccomandato da averlo prestato come soldato semplice, non dietro il tavolo di un ufficio ma secondo il modello old style, marcia o crepa: e per di più in un reparto dell’artiglieria someggiata (muli e mortai). Tutto sommato, al netto dei residui quasi solo linguistici del nonnismo (nel frattempo era arrivata la contestazione sessantottina), delle prevaricazioni e dell’imbecillità diffusa nelle gerarchie di comando (cose che peraltro non sono affatto scomparse, si sono soltanto ulteriormente diffuse in altri ambiti della società), di quella esperienza ho un ricordo positivo: tanta fatica, disagi, a volte arrabbiature, ma anche tanto sano cameratismo, tanta reciproca solidarietà, un po’ di avventura: la consiglierei oggi ai nostri nipoti (naturalmente in tempi di pace), per evitare loro la ricerca di prove fisiche a volte insensate, di rischi fini a se stessi, di guerriglie urbane.

Comunque: oggi le chiacchiere con un amico convalescente hanno fatto riemergere un ricordo vecchio di oltre mezzo secolo. Sono ai campi estivi, ormai quasi in chiusura, con la 8a batteria del Gruppo artiglieria da montagna Pinerolo. Abbiamo trascorso diversi giorni sulle Dolomiti Friulane senza incontrare un paese e nutrendoci solo delle famigerate razioni K, e stasera ci siamo accampati presso una diga della val Tramontina. A me e ad un commilitone è toccato il primo turno di guardia. Ci aggiriamo così fra le tende che ospitano un piccolo plotone di artiglieri, mentre poco più in là sonnecchiano le file dei muli.

Nelle tende sparse aspettano il sonno giovanotti ventenni robusti e di sani appetiti, che conversano pacatamente, anche per via della stanchezza cumulata durante la marcia del giorno precedente. Quel che ci sorprende (ma neanche poi tanto) è che l’unico argomento di conversazione sia il cibo. Non che ci aspettassimo disquisizioni filosofiche, ma da ragazzi di quell’età sarebbe lecito attendersi qualche struggente riferimento al sesso, alle donne, ai motori. Invece si parla esclusivamente di pesto, magari associato alle trenette o alle trofie, di torte pasqualine, di lardo (circa la metà dei soldati proviene dalla Liguria).

Siamo stupiti ma, ripeto, non troppo: in fondo anche nella nostra testa (e per il nostro fisico) la priorità è quella. Rimarchiamo la cosa, ci scherziamo sopra, senza tuttavia avventurarci in considerazioni più generali. Ciò che invece vado a fare ora.

Si tratta di una gerarchia naturale di priorità. La prima preoccupazione di qualsiasi essere vivente è la propria sicurezza, e in quel frangente in rischio era contenuto, fatta salva l’eventualità di un calcio di mulo. Subito dopo viene la necessità di nutrirsi adeguatamente e abbondantemente: il miraggio era quindi in quel caso una bella tavola imbandita. Solo quando sono soddisfatti i primi due istinti si passa al resto. Oggi, a più di mezzo secolo di distanza possiamo dire che, almeno dalle nostre parti, questi istinti prioritari sono sufficientemente garantiti: momentaneamente nessuno corre il rischio di essere sbattuto in trincea, e nessuno – tranne casi estremi – conosce i morsi della fame. A quell’epoca, e in quella situazione, invece, non lo erano affatto. O almeno, non del tutto. Il servizio militare era obbligatorio, il rancio e, peggio ancora, le razioni K (confezionate in scatole metalliche, per durare anni nei magazzini, e contenenti, fra l’altro, delle gallette così dure che solo i muli riuscivano a rosicchiarle. Per mangiarle bisognava bollirle!), non seguivano le indicazioni del dietologo ma quelle dei marescialli di fureria: quindi facevano schifo. Soprattutto durante le esercitazioni e i campi esterni era normale dover tirare la cinta fino all’ultimo buco. Per questo le chiacchiere sotto le tende giravano tutte attorno allo stesso argomento: era un modo per condividere un bisogno primario impellente, creando socializzazione, ma anche per esorcizzarlo, scaricarlo, scherzandoci magari sopra.

Ora, per non tirarla troppo in lungo e per trarne un paio di considerazioni magari elementari ma pienamente fondate, il fatto è che noi siamo condizionati molto più di quanto vorremmo credere dai nostri istinti. La storia della “umanizzazione” è quella del progressivo controllo sulla nostra istintualità, dell’emancipazione dal dominio biologico: ma è una storia ben lontana dall’essere arrivata a compimento. E anzi, è una storia periodicamente smentita dai fatti, dalle necessità, dalla ricaduta nella precarietà e nella barbarie. Per questo le vicende umane andrebbero lette con minor presunzione: non possiamo hegelianamente spiegarle come vicende “dello spirito”. C’è altro che si muove, e che ci muove, dentro di noi. Questo non significa che siamo delle “bestie”, ma che siamo comunque degli animali, ufficialmente pensanti, ma spesso anche no (basta guardarci attorno): e voler negare questo dato significa metterci in condizione di non capire o di male interpretare le reazioni altrui, di relazionarci sulla base di convenzioni estremamente fragili, diverse nei tempi e nelle svariate aree culturali, e pretendere che le risposte che otteniamo siano sempre conseguenti. Significa negare il nostro sostrato naturale e il condizionamento da esso esercitato. Anzi, ci siamo talmente convinti del potere dell’intelligenza culturale sull’istinto naturale da attribuire la prima anche ai nostri cugini più o meno prossimi, con zampe, ali e piume, e siamo finiti ad adottare nei loro confronti comportamenti stupidamente esasperati.

Mio padre, che il militare lo aveva fatto durante l’ultima guerra, mi raccontava come sul fronte greco/albanese alcuni suoi commilitoni, comandati di pattuglia, stanchi ed affamati, avessero preso a sparare contro i loro stessi compagni in fila per il rancio giù nella vallata. È probabile che la sera, nelle loro tende quei pochi fortunati che ne disponevano, quei ragazzi ragionassero di giacigli caldi, di mura sicure, di volti amici, e cercassero di scacciare dalla mente le immagini dei corpi straziati di morti e di feriti che impedivano loro di chiudere occhio. A volte magari lo facevano nella maniera più stupida, reagivano inconsultamente, ma si trattava appunto di una reazione sfuggita al controllo che chi non ha vissuto quei momenti non è in grado di valutare né di giudicare.

Oggi, alla loro stessa età, i ragazzi stazionano la sera non sotto le tende, tremando di paura o rosi dalla fame, ma nei dehors spuntati come funghi, sorseggiando l’apericena: e quando non si inchiodano al loro iPhone sproloquiano del nulla, annichiliti dal deserto di senso e di idealità che li circonda. Si badi bene: non sto dicendo che siano degli idioti, o abbiano meno risorse mentali delle generazioni che li hanno preceduti. Dico che ogni generazione reagisce in base agli stimoli, negativi o positivi, che arrivano dall’ambiente, e sono questi stimoli a determinare l’ordine delle priorità. Può sembrare un ossimoro, e può sembrare in contraddizione con quanto detto sinora, ma esistono anche “priorità secondarie”, apparentemente solo “culturali”, in realtà dettate anch’esse da un input biologico. In questo caso ad agire è una somma confusa di stimoli, da quello riproduttivo a quello del dominio, tradotti e ricondizionati dal nostro cervello per essere compatibili con i modelli in costante evoluzione della socialità, ma pur sempre basilari per indirizzare i nostri comportamenti.

Insomma, anche là dove non intervengono la fame o il rischio fisico noi reagiamo in primo luogo a bisogni originari, per quanto mascherati e rimossi, e faremmo bene a non dimenticarlo mai, quando parliamo di educazione, di politica, di socialità, di tutto ciò che consideriamo erroneamente di assoluta pertinenza “culturale”, e quindi passibile di un controllo quasi completo. Il pensiero risponde prima di tutto alle istanze della biologia.

Ovvero, come dicevano gli antichi, la lingua batte dove il dente duole.

Sterminate i nativi digitali!

di Paolo Repetto, gennaio 2018, da sguardistorti n. 01 – gennaio 2018

Mentre assaporo la prima tazza di caffè bollente, quella che permette di affrontare la giornata e darle un senso, arriva dal teleschermo uno di quegli squarci che ti fanno andare di traverso tutto, il caffè e la giornata. “Non si deve aver paura dei giovani. Non sono un problema. I giovani sono una risorsa.”

Avevo dimenticato di spegnere il televisore dopo il meteo di Paolo Sottocorona (non che mi interessino le previsioni, faccio prima a uscire sul terrazzo e guardare per aria, ma mi è simpatico lui), che ho seguito mentre la caffettiera gorgogliava, e ora mi becco a tradimento il primo dibattito quotidiano con i soliti cinque o sei esperti che cianciano del nulla. Il fatto che non me ne sia accorto la dice lunga sul mio stato di semi-incoscienza e sul livello d’interesse della trasmissione: ma certe frasi fanno scattare una reazione istintiva, un sensore, come sembra accadere per termini sospetti nei sistemi sofisticati di intercettazione. “Sono una risorsa”. Che cavolo vuol dire? Si può sparare in pubblico un’idiozia di questo genere alle sette del mattino, ed essersi quindi alzati presumibilmente alle sei, o anche prima, per farlo?

Eppure è un ritornello che torna ossessivo, cantato da destra e da sinistra, di qualsiasi argomento si stia trattando. Per quanta attenzione uno metta nello schivare gli imbecilli ci si imbatte comunque. È un concentrato micidiale di banalità: fosse energia, saremmo a rischio di un nuovo Big Bang. Non si può neppure parlare di ipocrisia, perché l’ipocrisia è un esercizio che richiede un minimo di base concreta. Qui invece in una proposizione semplicissima costituita da tre termini (di cui uno è la copula, e potrebbe essere benissimo sostituito dal simbolo dell’uguale) sono insensati sia il soggetto che il predicato. Il risultato è il nulla all’ennesima potenza.

Non varrebbe nemmeno la pena parlarne, va a fare mucchio con le vagonate di frasi fatte di cui si nutre la società del dibattito: ma col caffè di traverso non riesco ad affrontare serenamente la giornata, devo liberarmene. Faccio dunque un po’ di esercizio sul nulla.

Per cominciare, i giovani non esistono. Metternich direbbe che sono solo una convenzione anagrafica, neppure una condizione, perché l’età nella quale si è giovani varia a seconda delle culture e delle epoche. Nella generazione di mio nonno i sedicenni si guadagnavano la zuppa da un pezzo: oggi, se a criterio per l’inclusione nella categoria ulteriore assumiamo quello della indipendenza economica, un sacco di quarantenni sarebbero da considerare giovanissimi. La gioventù poi non è nemmeno un’età mentale, né in negativo, perché l’irresponsabilità non è una prerogativa dei minorenni, né in positivo, perché coloro che smettono di sognare o mandano in pensione il cervello a quindici anni sono una fetta più che significativa. Insomma, inutile giraci attorno: i giovani non costituiscono una categoria antropologica separata, non sono identificabili per qualche particolare caratteristica se non per l’aspettativa statistica di vita (droghe e balconing permettendo). E anche biologicamente non fanno specie a sé, sono interfecondi. Per cui, se qualcuno vi tira in ballo “i giovani” chiedetegli immediatamente chi fa rientrare in quella definizione: lo spiazzerete ed eviterete di perdere altro tempo.

I giovani esistono solo se intesi (molto vagamente) come classe sociale. Anche questa però è un’invenzione recente, che non risale oltre Rousseau. Anzi, a dispetto di tutte le anticipazioni romantiche (c’è ad esempio tra i romantici un vero e proprio culto di Thomas Chatterton, morto suicida a diciott’anni e riscoperto da Shelley, da Wordsworth, da Kests e da Coleridge) fino ai primi del Novecento l’idea che la giovinezza potesse essere considerata come una età a sé stante della vita, con problemi ed esigenze specifiche che chiedevano specifiche risposte, aveva ancora una circolazione clandestina. Poi qualcosa si muove. Libri come Peter Pan, Il mago di Oz e I ragazzi della via Pàl, pubblicati tutti nel primo decennio del ventesimo secolo, che parlano di ragazzi che escono dal guscio familiare o si organizzano autonomamente, sono sintomatici. Ma nello stesso periodo scatta anche immediata e subdola la reazione: le energie espresse da questa nuova autocoscienza adolescenziale vanno disciplinate, incanalandole in movimenti che possano essere tenuti sotto controllo e all’occorrenza strumentalizzati. I Rimbaud sono pericolosi. Allo scoppio della prima guerra mondiale boyscout e wandervogel tedeschi, ma anche i futuristi nostrani, corrono invece ad arruolarsi entusiasti.

Nel periodo tra le due guerre il concetto di una “condizione giovanile” che accomuna tutta una fascia d’età e alla quale spetta il compito di costruire un mondo nuovo viene enfatizzata e istituzionalizzata soprattutto dai regimi totalitari. È il periodo di “Giovinezza, giovinezza”, dei balilla e della gioventù hitleriana, del Komsomol sovietico, ed è in questi contesti che la gioventù acquisisce per la prima volta lo status di “valore in sé”. Ma si tratta di un “valore” definito e attribuito dall’alto.

Solo nel secondo dopoguerra questo riconoscimento si traduce in una “cultura giovanile” apparentemente autonoma (capace cioè di esprimere dall’interno i suoi codici, la sue finalità e le sue regole). Nella realtà, però, dietro il ribellismo e la presunta autocoscienza giovanile si compie la fase finale della domesticazione.

Mi spiego. Nel Novecento in sostanza arriva a compimento un processo avviato cento anni prima: la rivoluzione industriale ha cambiato completamente gli assetti e i rapporti economici interni alla famiglia. Dalla totale dipendenza nella quale vivevano entro la cultura patriarcale contadina i ragazzi sono passati ad una relativa emancipazione, o perché il lavoro esterno consente loro l’indipendenza economica, o perché lo studio ne fa dei potenziali strumenti di riscatto sociale per la famiglia, e quindi non forza lavoro da sfruttare ma investimenti da tutelare. Ciò spiega la maggiore attenzione che i giovani possono riservare ai loro sogni, e la voglia di rivendicarli. Ma sia in un caso che nell’altro essi diventano anche e soprattutto soggetti economici: non sono solo produttori, ma potenziali consumatori. L’emancipazione arriva dunque dall’esterno, ed è tutt’altro che disinteressata. Come scrive Jon Savage ne “L’invenzione dei giovani” (Feltrinelli 2009): “Nel 1944 gli americani cominciarono a utilizzare il termine “teenager” per designare la categoria di giovani che andava dai quattordici ai diciotto anni. Fin da subito si trattò di un termine specifico del marketing, usato da pubblicitari e produttori, che rispecchiava la nuova tangibile capacità di spesa degli adolescenti. Il fatto che per la prima volta i giovani fossero diventati un target significava anche che erano diventati un gruppo anagrafico distinto, con rituali, diritti ed esigenze propri”.

Si chiude così quel cerchio aperto proprio da Rousseau, che nell’Emilio predicava un’educazione “capace di favorire lo sviluppo spontaneo e libero del giovane”, ma giungeva poi a questa conclusione: “… non deve voler fare altro che quel che vogliamo che faccia: non deve muovere un passo senza che noi l’abbiamo previsto: né aprir bocca senza che noi sappiamo quel che egli sarà per dire”.

Ecco cos’è accaduto: i giovani sono diventati un target. Un target innanzitutto economico, ma in seconda battuta, e in correlazione, anche politico. Industrializzazione e riarmo ne hanno fatto nei primi del Novecento dei soggetti privilegiati di interesse sociale. Ora vanno a costituire la fascia alla quale faranno sempre più appello non solo i pubblicitari ma anche gli aspiranti dittatori, i populisti, i nuovi redentori del mondo.

E allora, “Non bisogna averne paura”? Certo non più di quanta bisogna averne di tantissime altre categorie, in pratica della stragrande maggioranza degli umani, di ogni genere, razza o età. Perché è degli idioti che bisogna avere paura, e la percentuale degli idioti tra i giovani è uguale a quella tra gli anziani: anche se magari non sembra, perché i primi fanno più casino, hanno meno malizia e si notano di più. Quindi, si, bisogna averne paura se sono stupidi, mentre non è il caso se sono solo giovani. Un po’ di margine all’inesperienza bisogna concederlo, anche se dubito che l’esperienza possa trasformare un idiota in una persona saggia. Di norma è quel che facciamo: infatti di un giovane idiota diciamo è un giovane, mentre di un vecchio idiota diciamo che è un idiota.

Si capisce allora perché “I giovani non sono un problema”. E vorrei vedere che lo fossero. Come lo affronteremmo? Abolendoli, o aspettando che crescano? Come si può essere un problema per il fatto di essere giovani? Si diventa un problema quando si hanno comportamenti stupidi o si dicono cose stupide, come chi ha pronunciato questa fesseria alle sette del mattino (era tra l’altro una tizia piuttosto giovane). Ma questo evidentemente non ha a che fare con l’età. Anzi, a dire stupidaggini del genere sono piuttosto gli anziani, e comunque tutti coloro che associano i predicati alle categorie, anziché alle persone.

Il che ci porta direttamente alle risorse. Cosa significa dire che “i giovani sono una risorsa”? Forse si vuol intendere che potrebbero fornire organi sani per i trapianti? O che pagheranno le nostre pensioni? Anche se a volte non sembra, i giovani sono degli esseri umani. Tanti esseri umani, diversi l’uno dall’altro. Considerarli risorse, quindi un qualcosa che può rivelarsi utile per qualcos’altro, mi sembra un po’ riduttivo e degradante. Magari questi esseri umani hanno anche qualche sogno in proprio, immaginano una destinazione diversa della propria esistenza e di essere utili non ce l’hanno neanche per l’anima. Ma ormai, nella visione economicistica che abbiamo abbracciato, tutto è misurato e ricondotto a “risorsa” – per quelli politicamente più corretti, a “opportunità”: i migranti, gli handicappati, gli zingari, i rifiuti, gli anziani (non per l’espianto di organi, ma per le pensioni che ci siamo pagate e che giriamo ai giovani). L’unica risorsa che scarseggia è l’intelligenza, ma con tutte le altre che abbiamo in casa dovremmo cavarcela comunque.

L’ho fatta un po’ lunga, ma me lo dovete concedere. Anche perché, essendo ancora mezzo addormentato quando la botta è arrivata, la mano non è corsa veloce come avrei voluto al telecomando. Ho dovuto accusare quindi anche un accenno ai “nativi digitali”, che non so dove volesse parare ma so per certo che non preludeva a nulla di intelligente. E mi è andata a bene, perché se si fosse arrivati alle fake news, che poi significa balle, sarei finito al pronto soccorso di primo mattino.

Ecco, mi sono sfogato. Ho spento la televisione, ho verificato dalla finestra il cielo e la temperatura esterna e ho caricato una nuova caffettiera. A scanso di sorprese mi rifugio in salotto con la rivista culturale che ho comprato ieri e ancora non ho sfogliato. Apro a caso. “Il cervello diffuso dell’insalata. Il filosofo Coccia: le piante sono a pieno titolo esseri razionali”. Spengo al caffè e cerco la bottiglia della grappa.

Sottocorona, aiutami tu.


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