Rassegne e rassegnazione

di Paolo Repetto, 5 aprile 2024

Se la classe dirigente è fatta di imbecilli
immaginiamoci cosa possa essere la clientela media.

Fino a qualche anno fa comparivano regolarmente su La Settimana enigmistica (o magari compaiono ancora, non ho verificato) un paio di storiche rubriche, l’una titolata “Spigolature”, l’altra “Strano ma vero”. Raccoglievano in ordine sparso, senza alcun visibile criterio e con trattazione telegrafica, aneddoti e curiosità del tipo più disparato, dal gatto svizzero che giocando col telefono allerta la polizia all’invenzione dei catarifrangenti stradali (nel 1934, per chi fosse interessato), dalla storia di sant’Irmina di Treviri all’esistenza di oltre quattrocento varietà di agrifoglio. Se ricordo bene, l’unica differenza tra le due pagine stava nel fatto che la seconda era illustrata da vignette.

Si trattava in genere di informazioni banalissime, e quando non riuscivano tali erano comunque bizzarrie buttate lì a fare mucchio, e quindi totalmente inutili. Ciò nonostante, sino a quando La settimana enigmistica è rimasta l’ultimo nutrimento culturale di mia madre ho continuato a scorrerle avidamente: un po’ per una congenita coazione alla lettura, quella che m’imponeva di divorare tutto ciò che di scritto mi capitava sotto gli occhi, a tavola persino l’etichetta dell’acqua minerale (malgrado la conoscessi a memoria, perché si trattava sempre della stessa bottiglia, riempita con l’acqua del rubinetto), un po’ per la precoce e morbosa curiosità di indagare sino a che punto potesse spingersi la stupidità umana: e devo dare atto che entrambe le rubriche ne fornivano, non ho mai capito quanto involontariamente, degli esempi spassosissimi.

Bene, ho pensato di continuare a divertirmi proponendo io stesso una piccola antologia di “spigolature” recuperate nei quadernoni dalla copertina nera che ingombrano le mie scrivanie e i ripiani della mia biblioteca. Non ho seguito un criterio cronologico, e nemmeno avrei potuto farlo, perché si tratta di appunti, stralci di notizie e citazioni annotati frettolosamente sul primo spazio bianco disponibile, a margine di letture o di riflessioni estemporanee. Ho cercato qui di raccogliere quelli più recenti o che mi sembravano conservare un’inquietante (e tragica) attualità. Negli intenti avrebbero dovuto fornire lo spunto per futuri pezzi di costume o di approfondimento, di fatto sono poi rimasti lì, e forse è stato meglio così: nella forma grezza, e nel disordine sparso, sono più eloquenti di qualsiasi trattazione.

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Rassegne e rassegnazione 02Settembre 2023 – A Modena 160 persone hanno sborsato settanta euro a testa per seguire dal vivo il seminario di un “contattista”, un ex-ferroviere che parla coi marziani, razzola liberamente nelle basi nucleari russe ed è ospite quasi fisso di Red Ronnie (un giorno si dovrà anche parlare del dramma dei pensionamenti anticipati, in ferrovia o altrove, che hanno gettato un sacco di gente nella necessità di inventarsi le occupazioni più peregrine). L’incontro è durato otto ore e non comprendeva il servizio di buffet: chi voleva rifocillarsi durante la pausa pranzo o si accomodava al ristorante (pagando, naturalmente) o mangiava un panino sulla strada. Allo stesso prezzo si poteva anche seguire il seminario da remoto – risparmiando in questo caso le spese di viaggio e del pasto, ma perdendo la magia dell’incontro dal vivo col bagonghi. Comunque, a seguire tutta la faccenda via web erano iscritte diverse altre centinaia di persone.

Autunno 2023 – A Trevigiano Romano, vicino al lago di Bracciano, una veggente parla da sette anni a intervalli regolari con la Madonna (o con Gesù, se la Madonna ha altri impegni). Ultimamente s’intrattiene in realtà molto più con gli inquirenti, perché la fede di alcuni dei seguaci, che le avevano intestato piccoli patrimoni, comincia a vacillare.

In compenso a Manduria, nei pressi di Taranto, da trent’anni la Vergine dell’Eucaristia (o suo figlio) appaiono ad un’altra veggente – ecco dov’erano impegnati –, una che ha intrapreso la carriera giovanissima, e le trasmettono messaggi accorati. Il fenomeno non ha la stessa risonanza mediatica, mantiene un basso profilo, ma non manca del suo bravo seguito ed è approdato sui social. Chi volesse partecipare alla preghiera in diretta dalla Cappella della Celeste Verdura (si chiama così, lo giuro, il piccolo santuario che ospita periodicamente il miracolo), può farlo in qualsiasi momento su Facebook o sul canale ufficiale accessibile da Youtube.

Dov’è la novità? Infatti. Nulla di nuovo sotto il sole. Sono solo tre banalissimi casi di citrullaggine tra i mille altri analoghi che si possono raccattare con un giro in rete o spulciando i quotidiani. Niente naturalmente a confronto delle stigmate di Padre Pio, o di fenomeni “globali” come quelli dei rettiliani o dei terrapiattisti. Rispolverano però per l’ennesima volta le domande fondamentali, alle quali varrebbe la pena ogni tanto provare a rispondere, per un esercizio di igiene mentale. E cioè: possiamo ancora liquidare queste cose con una risata, o sarà bene cominciare seriamente a preoccuparci? E in un contesto del genere, non sarà opportuno ripensare il significato di “democrazia”?

Rassegne e rassegnazione 03Marzo 2019 – «La verità è che George Orwell era una creazione della CIA, indipendentemente dall’opinione che si ha sulla qualità letteraria delle sue opere. La CIA non aspettò un momento ad investire fondi per promuovere la sua opera. Era consapevole dell’effetto devastante che il messaggio di un presunto rappresentante dei valori della sinistra poteva avere su ampi settori dell’opinione pubblica. Come altri intellettuali di quel, e di questo, periodo, Orwell soccombette alla seduzione del facile successo e della rapida notorietà che rese possibile la trasmissione di un messaggio costruito dai creatori della “guerra fredda”. Ma la tragedia della sua memoria fu duplice. Da un lato, l’apertura di alcuni fascicoli polverosi del Foreign Office ne rivelò la personalità fraudolenta. L’assenza di scrupoli dello scrittore inglese era paragonabile solo a quella dei più spregevoli protagonisti dei suoi stessi romanzi.» (Manuel Medina, George Orwell: Breve biografia di un magnaccia al servizio della CIA, da Forum Marxismo Leninismo)

Medina è palesemente un idiota, e il sito che lo ospita potremmo considerarlo semplicemente patetico, da non spenderci neppure un secondo: non fosse che, al pari di molti altri blog (personalmente ne ho rintracciati almeno una quindicina: quando sono giù di corda amo perdere tempo in queste cose) testimonia il persistere in quella che si arroga l’etichetta di “sinistra dura e pura” di un atteggiamento antico nei confronti della cultura autenticamente libertaria. Mi è tornata infatti immediatamente in mente la stroncatura di 1984 pubblicata da Togliatti su Rinascita (1950): «Con la pubblicazione di 1984 di Orwell […] la cultura borghese, capitalistica e anticomunistica, dei nostri giorni, ha aggiunto al proprio arco sgangherato un’altra freccia: un romanzo d’avvenire! […] L’autore accumula con la maggiore diligenza tutte le più sceme tra le calunnie che la corrente propaganda anticomunista scaglia contro i paesi socialisti.

Nel “partito” (metafora del Pcus) si insegna a commettere, per il “partito”, le azioni più stolte, a mentire, a negare la evidenza dei fatti […] Il capo del partito ha i baffi neri e il suo nemico mortale la barbetta a punta, a questo punto si scopre invece proprio soltanto l’autore, nella meschinità e abiezione che a lui stesso sono proprie.

Le botte servono davvero a troppe cose, nel libro di George Orwell […] doveva aver davvero una grande esperienza di bastonature e torture, questo poliziotto coloniale, per giungere a porre la fiducia nelle torture e nelle bastonature più in alto che la fiducia nella ragione umana.»

Questo era lo stile di Togliatti, aggressione, insulto e menzogna, fatto immediatamente proprio da tutta quell’intellighentjia comunista che “il migliore” aveva ramazzato nell’immediato dopoguerra, pescando in gran parte dalle file dei transfughi dell’ultima ora dal fascismo.

Ora, devo ammettere che nel clima di incipiente guerra fredda degli anni tra i Quaranta e i Cinquanta quel linguaggio, persino quel livore, ci stavano: voglio dire, non che fossero giustificabili, ma almeno era comprensibile perché se ne facesse uso.

Quella modalità polemica (soprattutto il “negare l’evidenza dei fatti” che Togliatti contestava alla vittima del suo attacco), e, ciò che è peggio, la forma mentis sottostante, sono state fatta proprie però anche dalle generazioni successive: lo testimonia ad esempio lo sprezzo col quale Calvino liquidava Orwell nei tardi anni Sessanta, definendolo un “libellista di second’ordine” (in una lettera “aperta” a Geno Pampaloni) “portatore di uno dei mali più tristi e triti della nostra epoca: l’anticomunismo”. All’epoca Stalin era morto da un pezzo, e il regime sovietico aveva mostrato il suo vero volto. soffocando nel sangue dimostrazioni e rivolte popolari in Germania, in Polonia e in Ungheria. La miopia e il livore non erano più nemmeno comprensibili. Calvino avrebbe poi parzialmente ritrattato il suo giudizio solo vent’anni dopo, dicendo che il libro era stato mal compreso perché sin troppo anticipatore. Ma altri, come ad esempio Vattimo, ancora a metà degli anni Ottanta, dopo che Orwell era stato “riabilitato” persino da L’Unità, hanno insisto a ribadire che 1984 è “lontano dal nostro mondo, tranne che per un particolare: l’impotenza del potere, la sua disfunzione, la sua fatiscenza” e che “segue la moda della fantascienza stracciona, dell’utopia delle rovine”.

È un fiele che corre ancora oggi tanto nelle vene della sinistra nostalgica quanto in quelle dei sinistrati dalla decostruzione post-moderna, e non è affatto prerogativa di un uno sparuto branco di anime povere. Lo si nomini putinismo, o madurismo, o più genericamente anti-occidentalismo, ha i suoi referenti culturali proprio in quelle “aristocrazie intellettuali” che si chiamano ipocritamente (e spettacolarmente) fuori dalla società dello spettacolo.

Rassegne e rassegnazione 04Gennaio 2013 – “La Digos di Firenze ha operato il fermo di un giovane fiorentino ritenuto un componente del commando che la notte di capodanno ha incendiato otto automezzi di una ditta di latticini di Montelupo Fiorentino e provocato anche gravi danni al deposito merci. Il ventiduenne Filippo Serlupi D’Ongran, rampollo di una nobile famiglia, è ritenuto fra i responsabili anche di altri quattro episodi a firma ARD (Animal Liberation Front) commessi in Toscana a danno di strutture di macellazione.” Gli altri componenti del commando sono riparati all’estero e all’epoca erano ricercati. Non mi risulta abbiano subito condanne.

Ottobre 2019 – È morto Beppe Bigazzi, prima vittima italiana dell’intolleranza animalista, sospeso dalla Rai nel 2010 per aver osato ricordare un necessario ingrediente della sua remota infanzia toscana: il gatto.

Dicembre 2020 – Uno spot di Telefono Azzurro, lanciato in occasione della Giornata universale dei diritti dell’infanzia (il 20 novembre), mostra una casa in fiamme. Si sente un cane abbaiare, e un uomo entra in una stanza già aggredita dal fuoco. Su un divano ci sono due bambini terrorizzati e con loro un cane, quello appunto che ha abbaiato. L’uomo prende il cane in braccio e lo porta in salvo, lasciando i bambini al loro destino. Messaggio crudo e schiettamente esplicito: c’è troppa gente che si preoccupa degli animali e dimentica e trascura i cuccioli d’uomo, ribadito dall’hashtag: #Primaibambini. Lo spot è stato immediatamente sepolto dagli insulti e travolto dalle polemiche, ed è stato ritirato.

Agosto 2021 – Paul Farthing, un politico inglese, ex-deputato liberal-democratico, ha evacuato per via aerea dall’ Afghanistan in Inghilterra centosettanta cani e gatti. Ha poi dichiarato “Sono davvero profondamente triste per gli afghani”, e non si riferiva ai levrieri, ma agli umani. Che non ha ospitato sull’aereo, non c’era spazio.

28 Luglio 2022 – “Tante sono le storie d’amore che legano le persone ai loro animali che spesso diventano compagni di vita da cui è difficile separarsi. Adesso qualcosa è cambiato, a Santa Margherita potranno rimanere insieme “per sempre”, anche dopo il decesso, dove (!?) è arrivata in consiglio comunale la richiesta della sepoltura con le ceneri del proprio animale da compagnia”. (Comunicato del sito comunale)

Quanto costa uno psicologo per cani? La tariffa oraria per la visita comportamentale è di 90 €. Indicativamente la prima visita comportamentale richiede 75-90 minuti. Gli incontri successivi generalmente richiedono 60 minuti. Nel caso sia necessaria una visita a domicilio, verrà addebitato un costo di viaggio pari a 0,30 € /km (andata e ritorno).

Rassegne e rassegnazione 054 Dicembre 2023 – Gli attivisti del movimento ambientalista Ultima generazione hanno occupato le carreggiate dell’autostrada Roma-Civitavecchia all’altezza di Torrimpietra. Nel corso della protesta hanno utilizzato del mastice per incollare le mani sull’asfalto dell’autostrada. Secondo il racconto degli ambientalisti durante la loro iniziativa un automobilista è sceso dalla sua vettura e ha aggredito un attivista, quindi è risalito a bordo e ha tentato di investirne un altro. Le due persone non sono rimaste ferite in modo serio. La polizia ha poi (con tutta calma) rimosso il blocco e identificato i responsabili dell’iniziativa (organizzata contro l’utilizzo di carboni fossili). Sono stati tutti accompagnati negli uffici della polizia stradale, e prontamente rilasciati.

19 Dicembre – Roma: nuovo blocco di Ultima generazione sulla Salaria, un automobilista schiaffeggia l’attivista e si becca una denuncia.

23 Dicembre – Blitz di Ultima Generazione sotto Palazzo Chigi. I poliziotti portano via due attivisti, che urlano: “Mi stanno facendo male”!

Commento di un mio coetaneo: “Se questi rappresentano l’ultima generazione, sono fiero di essere avanti con gli anni”.

5 Marzo 2024 – Condannati ad 8 mesi per il reato di danneggiamento aggravato i tre attivisti di Ultima Generazione che il 2 gennaio dello scorso anno erano stati arrestati per aver imbrattato con vernice rosa la facciata di Palazzo Madama. “Un fatto commesso con violenza – ha detto il pubblico ministero – che ha provocato danni considerevoli: l’ingresso a Palazzo Madama è stato interrotto per 30 minuti (che sarebbe il male minore) e sono servite decine di migliaia di euro per il ripristino (questo sì che è grave)”.

Autunno 2023 – Nei giorni scorsi, a chi gli aveva chiesto cosa pensasse dell’iniziativa dei giovani di Ultima generazione, Luca Mercalli ha risposto: “Quante opere d’arte sono state irrimediabilmente distrutte dalle alluvioni causate dal cambiamento climatico? Gli attivisti le hanno imbrattate? No, perché c’era sempre una lastra di vetro a proteggere i dipinti. Ecco, i giovani che protestano per il clima hanno ragioni sacrosante. Tutte le persone che stanno protestando fanno benissimo a farlo: chiedono un maggior impegno ai loro governi, chiedono la vivibilità del pianeta, per loro e per le future generazioni”. Fantastico. Sono convinto anch’io che il pianeta stia andando a ramengo. Al contrario di Mercalli ho però qualche dubbio sul tipo di “sensibilizzazione” che queste iniziative promuovono. Senza parlare poi del reale livello di consapevolezza e della coerenza comportamentale di chi le mette in atto.

Rassegne e rassegnazione 06Marzo 2024 – L’Università di Trento ha varato un nuovo regolamento. La novità è il femminile sovraesteso per le cariche e i riferimenti di genere. Si useranno “la decana”, “la rettrice”, “la professoressa”, “la candidata”, tutto declinato al femminile, anche se le persone indicate sono uomini.

Nel 2017 l’università di Trento aveva approvato un vademecum per un uso del “linguaggio rispettoso delle differenze”, con l’obiettivo di “promuovere un uso non discriminatorio della lingua italiana nei vari ambiti della vita quotidiana della comunità universitaria” come durante gli eventi pubblici o nel la produzione di testi amministrativi. Il nuovo Regolamento avrebbe dovuto essere scritto riferendosi ai gruppi di persone (studenti, docenti, eccetera) sia con il femminile che con il maschile. Questo secondo il rettore Deflorian avrebbe finito per appesantire eccessivamente tutto il documento e quindi, per “facilitare la fase di confronto interno”, gli uffici amministrativi avevano iniziato a lavorare a una bozza che conteneva solo femminili.

La demenzialità del tutto è stata denunciata proprio dalle rappresentanti femminili dei gruppi studenteschi. «Basta con la retorica vuota e paternalista che suggerisce che l’inclusione nelle università sia una questione di linguaggio. L’ambiente accademico richiede rispetto per l’intelligenza e la competenza di ogni individuo, indipendentemente dal genere […] L’uso del cosiddetto “linguaggio femminile sovraesteso” vuole essere un tentativo di compensare decenni di discriminazione di genere, tuttavia, potrebbe avere l’effetto contrario, finendo con il far sentire esclusi alcuni ragazzi e ragazze compromettendo quindi l’obiettivo di inclusione». Difficile sostenere il contrario. E ancora: «Riteniamo che porre l’accento in modo così esasperato sulla diversità sia esso stesso un modo per discriminare».

In Occidente c’è un’attività politica antagonista, ma si scioglie in questa specie di attivismo sostitutivo, nei confronti del resto del mondo e nei confronti del nostro passato. Alla fine, gioco di prestigio, la battaglia scompare, le cannonate non si sentono più e faccende come la lotta all’odio e all’intolleranza sul web sembrano importanti, persino coraggiose, per mancanza di termini di paragone.

L’asterisco e lo schwa, la comunicazione non ostile, genitore 1 e genitore 2, sono faccende irrilevanti e, quindi, non sono imboscate ideologiche tese ai valori e alla libertà. Sono, invece, un minuscolo sogno totalitario, inconsapevole e sfiatato, il passatempo di gente che gioca ai soldatini con la neolingua di Orwell e finisce per crederci.” (Claudio Chianese, Il linguaggio represso)

Rassegne e rassegnazione 07«Ogni nuova generazione di neonati è una invasione di barbari che invadono non dall’esterno, ma dall’interno e dal basso la società; la società ha il compito di educarli, disciplinarli, renderli civili prima che diventino adulti. Il che significa anche – soprattutto – fargli subire dei sacrifici e delle sconfitte esistenziali, in modo da far maturare i loro caratteri.

Ora, pensate a uno di questi piccoli mostri che entra in una società che si gloria di essere adulta e matura, di avere abolito ogni forma di “repressione”, che ogni giorno celebra la propria liberazione da tutti i pregiudizi, quindi da ogni gerarchia e di tutti i tabù moralistici, tipo l’antipatica distinzione fra “bene” e “male” (cosiddetti); dove i genitori prendono ogni cura per risparmiargli ogni “frustrazione”, ogni pressione dell’ambiente, tensione, sforzo e ogni dovere; scansano ogni ostacolo che si trovi davanti, vogliono essere suoi amici invece che suoi superiori. Lo mandano in una scuola che si vanta di essere “non repressiva”, di non bocciarlo mai e poi mai, che si sforza di “farlo divertire”, anzi prova a confondere il confine tra “studio” e “divertimento”; una scuola che sostanzialmente lo incita a “esprimere le proprie inclinazioni, ed opinioni”, ossia (a quello stadio) le proprie narcisistiche emozioni.

È inutile che vi dica come dovrebbe essere una società capace di civilizzare i barbari verticali, che sappia renderli virilmente adulti, continenti, cavallereschi, dotati di senso della dignità e dell’onore – ossia della vergogna di compiere atti bassi contro i più deboli. Inutile che vi canti le lodi del “controllo sociale”, del giudizio sociale che premeva su molti dei peggiori e li faceva essere meno pessimi; strillereste che voglio la società bigotta, insopportabilmente repressiva, ormai superata dal progresso e dalla libertà […].

È possibile che debba riconoscermi, sia pure in parte, sia pure con tutti i distinguo che vogliamo, in queste parole di Maurizio Blondet? Di uno dei personaggi più esecrabili della sottocultura complottista (gli ultimissimi pezzi comparsi sul suo blog titolano: Il grafene nel siero c’è, e serve ad hackerare l’uomo; Neonati uccisi e traffico di organi in Ucraina)? Dovrei chiedermi piuttosto come ci sono finito su quel blog, ma a questo ho una risposta immediata: Blondet aveva scritto a suo tempo Gli Adelphi della dissoluzione, praticamente sotto dettatura di un altro personaggio inquietante, Gianni Collu, che ho avuto la ventura di conoscere bene, e la cosa mi aveva incuriosito. Blondet di per sé non è nemmeno inquietante, è solo un paranoico (o uno squallido furbastro che specula sulla dabbenaggine diffusa) che vede poteri iniziatici e trame occulte ovunque: inquietante è invece il fatto che venga preso sul serio, non solo dallo stuolo di mentecatti che lo seguono, ma anche da coloro che lo combattono (e chissà perché, non mi meraviglia il fatto che il blog ospiti, tra gli altri, dei pezzi di Travaglio).

Ma questo è un altro discorso. La domanda era: perché mi sono riconosciuto in quelle parole, pur sentendomi distante anni luce dalle mefitiche esalazioni che circolano tra le righe? È presto detto: mi rode che come al solito un tema concreto, di evidente urgenza e rilevanza, in questo caso quello dell’educazione, venga lasciato cavalcare e snaturare e strumentalizzare a personaggi del calibro di Blondet, oppure venga trattato con la solita mielosa attitudine “buonista”. Mi cascano le braccia, ogni volta che le cronache raccontano episodi di bullismo o di violenza, per strada o nelle scuole, dei quali sono protagonisti bambini o adolescenti, al sentire psicologi e sedicenti educatori che sproloquiano di assenza di strutture, di specializzazioni, di attenzione, di stanziamenti, senza arrivare mai al dunque: al fatto cioè che le uniche vere assenze sono quelle di autorità e credibilità delle istituzioni, e di assunzione di responsabilità da parte di chi dovrebbe farle funzionare, a tutti i livelli.

La chiudo qui, per ora. Ma lo faccio proponendo un paio di altri piccoli stralci, questi recentissimi, nei quali Guia Soncini dice apparentemente le stesse cose di Blondet, ma per come le dice suonano immediatamente diverse. Non usa il “linguaggio femminile sovraesteso”, ma parla chiaro. Non si potrebbe ricominciare da qui?

Dicevo, il gruppo di madri di piccoli teppisti. Uno non voleva fare la doccia. Ma tipo costringerlo, come si è sempre fatto con tutti i bambini del mondo? Avessi suggerito di farlo al forno, si sarebbero indignate meno. Non capivo il trauma dell’acqua. Non capivo i bisogni del bambino. Ero praticamente la Franzoni.

Tempo fa Minnie Driver ha raccontato a Conan O’Brien che i bambini americani sono molto maleducati a tavola, e per lei è inconcepibile perché ha avuto un’educazione inglese e insomma, ha rassicurato i presenti e la madre dietro le quinte, non dico che mi menassero, ma se mi comportavo male al ristorante mi portavano in macchina e mi lasciavano lì chiusa finché loro non finivano di cenare.

Oggi se lasci un figlio in macchina scoppia un casino non dico pari a quello che ti toccherebbe se osassi lasciar solo un cane, ma insomma la potestà genitoriale secondo me te la levano, e qualcuno che per strada ti riconosce e ti sputa come fossi il simbolo d’ogni immoralità lo trovi. È perché i bambini in cent’anni sono passati da gente abbastanza piccola da esser mandata nelle miniere a creature sacre, certo.” (da linkiesta.it, 11 marzo)

Giornate di stremanti interrogativi per gli ufficialmente adulti che, pur di non crescere, sono determinati ad avere un rapporto alla pari coi figli, figli ai quali non s’è completata la mielinizzazione del cervello ma lasciamo stare i termini scientifici: quel che è importante è dar loro il diritto di voto anche se non sanno allacciarsi le scarpe.

Dunque abbiamo da una parte un sedicenne che accoltella una professoressa, dall’altra una undicenne che lascia un commento a Chiara Ferragni su Instagram. Poiché non sappiamo come giustificare il primo – certo, possiamo dire che non l’abbiamo ascoltato abbastanza, ma ecco, l’accoltellamento appare comunque difficile da inserire nella nostra lettura “i giovani hanno sempre ragione e c’insegnano la vita” – decidiamo che il problema è la seconda.

Adulti perlopiù scemi ma in qualche caso persino normodotati si aggirano per i social chiedendosi con aria dolente “cosa ci fa una undicenne su Instagram, non ci può stare, non è giusto che ci stia”. Le loro figlie avranno come minimo un OnlyFans su cui fanno vedere il contenuto delle mutande, senza che i genitori se ne siano mai accorti, ma non è neanche questo l’importante. […]

Se provi a dire che tutto ciò non è sano, vieni accusata d’invocare il ripristino delle punizioni corporali, punizioni corporali che peraltro nessuno di coloro che partecipano al dibattito ha conosciuto: siamo andati a scuola in anni in cui nessuno ci bacchettava e si cominciava persino a dar del tu alle maestre; ma, se oggi qualcuno osa dire che no, i sedicenni non hanno capito il mondo meglio di noi, non foss’altro perché non hanno avuto il tempo di capirlo, allora i giovanili, gli alleati dei giovani, gli interiormente sedicenni si poggiano il dorso della mano sulla fronte e sospirano: ah, quindi vuoi il ritorno del libro Cuore. (da linkiesta.it, 4 aprile)

Magari! Farebbe senz’altro meno danni delle diagnosi di “disturbo oppositivo provocatorio” o di “disforie di genere”.

Rassegne e rassegnazione 087

Sul buon uso dei gatti (e delle illusioni)

di Paolo Repetto, 2013

Si possono anche costruire casi del tutto burleschi. Si rinchiuda un gatto in una scatola d’acciaio insieme alla seguente macchina infernale (che occorre proteggere dalla possibilità d’essere afferrata direttamente dal gatto): in un contatore Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza radioattiva, così poca che nel corso di un’ora forse uno dei suoi atomi si disintegrerà, ma anche, in modo parimenti probabile, nessuno; se l’evento si verifica il contatore lo segnala e aziona un relais di un martelletto che rompe una fiala con del cianuro. Dopo avere lasciato indisturbato questo intero sistema per un’ora, si direbbe che il gatto è ancora vivo se nel frattempo nessun atomo si fosse disintegrato, mentre la prima disintegrazione atomica lo avrebbe avvelenato. La funzione dell’intero sistema porta ad affermare che in essa il gatto vivo e il gatto morto non sono degli stati puri, ma miscelati con uguale peso”.

Erwin Schrödinger, premio Nobel per la Fisica 1933

L’idea di cacciare un gatto dentro un simile marchingegno poteva venire solo al Vil Coyote o ad un Nobel austriaco. Capisco che si tratti di un paradosso, e che il buon Schrödinger voleva solo dimostrare come nello stesso istante una particella elementare possa trovarsi in posizioni diverse e possedere una diversa quantità d’energia, per cui a livello di quanti le leggi classiche non reggono: ma anche i paradossi andrebbero trattati con un po’ di serietà (soprattutto se si dicono queste cose nel 1935, e c’è il rischio che qualche connazionale le prenda sul serio, e tenti l’esperimento su scala industriale, magari non con i gatti).

Per essere seri con un paradosso bisogna intanto formularlo in maniera tale che soddisfi ad alcuni requisiti fondamentali. Deve reggere a dispetto della apparente insensatezza e deve contenere un elemento di verità, ma non basta: deve soprattutto superare la prova bambino.

Vediamo cosa opporrebbe un bambino al nostro Schrödinger. Supponiamo sia un bambino intelligente, di quelli che rompono le scatole quando racconti loro una fiaba, che esigono precisione, risposte chiare, una certa consequenzialità logica anche nell’irrazionale. La prima domanda, dopo quelle immancabili sul perché non un cane o un topo o il cugino Mirco, e la richiesta di specificare di chi è il gatto, e se è nero o rosso, o maculato o striato, potrebbe essere: ma il gatto se ne sta di rimanere chiuso al buio nella scatola? Non è che si ribelli, e che la sua agitazione alteri il funzionamento del meccanismo e provochi la rottura della fialetta, e quindi il gatto la faccia finita subito, senza aspettare i sadici comodi dello sperimentatore? Ha voglia Schrödinger di precisare che non deve avere la possibilità di afferrare il meccanismo: ma vuoi mettere, un gatto furioso?

Ammettiamo però che il gatto sia sedato, o che sia particolarmente pigro: non avrà sete? Come, cosa c’entra? Provate a uscire con vostro nipote per una breve passeggiata: a cento metri da casa comincerà a morire di sete. È normale che si preoccupi per il gatto. Dunque, è necessario che nella scatola ci sia una ciotolina. Non parliamo poi della pipì. Un gatto spaventato, chiuso al buio, come si può pretendere che non gli scappi? Ci vuole una lettiera di sabbia.

E ancora: diamo per scontato che l’esperimento sia (felicemente) riuscito, e che il gatto dopo un’ora sia morto (non di sete): lo si dovrà seppellire? E dove?

A questo punto direi che il paradosso è già bello che smontato. Non regge, paradossalmente, perché non è nemmeno un paradosso. Un paradosso è qualcosa che si pone fuori da ciò che è comunemente pensato, dalla doxa corrente. Ora, se avessimo chiesto a mio zio Micotto, che nulla sapeva di meccanica quantistica e poco anche delle altre scienze, ma era un uomo sensato, avrebbe detto: il gatto potrebbe essere sia morto che vivo, e in quest’ultimo caso senz’altro molto incazzato, né più né meno come pensava Schrödinger, ma avrebbe aggiunto: e adesso per favore tiratelo fuori di lì, povera bestia. Voglio dire che un paradosso è qualcosa che riesce difficile pensare di primo acchito, che spiazza, mentre l’incertezza sulla sorte del gatto (non quella sull’opportunità dell’esperimento) si impone al senso comune. Paradossale è semmai in questo caso tutto ciò che ci sta dietro, e cioè la meccanica quantistica: che è come l’amore, nel senso che tanto io come la stragrande maggioranza ci capiamo un accidente.

Per questo non del gatto di Schrödinger voglio parlare, ma di quello con gli stivali. Dell’immaginario infantile, delle semplici regole che lo caratterizzano e di come sarebbe opportuno che le facessimo anche nostre.

Non sono un esperto di psicologia infantile, e a dirla tutta nemmeno di quella adulta. Ma due o tre cose, maneggiando figli e nipoti, credo di averle capite. La prima è che l’immaginazione infantile viaggia sul terreno aperto e sconfinato della possibilità, non sul calcolo limitante delle probabilità. È un’idea di possibilità radicalmente diversa da quella di Schrödinger, ed è ciò che fa la differenza tra il mondo della quantistica, ma più in generale tutto il mondo adulto, e quello del bambino. Nel primo le possibilità sono due, il gatto o è vivo o è morto. Per il bambino sono infinite: è riuscito a scappare, finge di essere morto, si è reso invisibile, ha trattenuto il respiro per un’ora, ecc…. Nella fantasia infantile non esiste il paradosso: ciò che riesce paradossale rispetto ad un’attitudine per la quale una cosa è o non è, risulta perfettamente normale se accetto che le diverse possibilità non siano alternative, ma possano coesistere. Se il Vil Coyote dipinge su una parete rocciosa l’ingresso di una galleria noi cominciamo a sorridere, perché già pregustiamo il momento in cui da quella galleria sbucherà un treno che lo centrerà in pieno: ma il bambino non ride nell’attesa, ride semmai dopo, e non per il nonsenso, ma solo perché il Vil Coyote non riesce a beccare il Beep Beep. Anzi, se è un bambino sensibile non ride affatto, perché prova un’istintiva simpatia per il perdente. Il fatto che il treno sbuchi da una finta galleria non lo stupisce. I bambini sono hegheliani: tutto ciò che accade ha senso.

Questo vale appunto anche per i gatti delle fiabe. Nel dominio del signore di Carpentras infatti gli animali parlano e ragionano, in genere molto meglio dei cristiani (il gatto di Schrödinger avrebbe un sacco di cose da dire in proposito). A volte lo fanno anche le piante o le cose, ma in questo caso si va già nel difficile e nel sofisticato (vedi il mago di Oz). È pur vero che le fiabe con gli animali parlanti le hanno scritte gli adulti, e che se le racconti al bambino di cui sopra puoi cacciarti nei guai: ma è altrettanto vero che mentre gli adulti per leggerle devono traslarsi in una dimensione diversa, dove vigono regole fisiche e biologiche, o anche sociali e morali, differenti, per i bambini normali, quelli che non ti chiedono se gli stivali erano due o quattro, i gatti parlanti rientrano tranquillamente in quella dimensione unica e indistinta che non concepisce nemmeno l’idea di un dentro o di un fuori. Ci sta tutto.

Un’altra cosa che ho imparato è che i bambini, a differenza degli adulti, sono coerenti. Quando scelgono di entrare in una parte la recitano fino in fondo (ma dire recitano è limitativo: la vivono): non certo nel senso che la portino avanti a lungo, perché da un momento all’altro possono decidere di cambiare gioco, quanto piuttosto perché sin che giocano quel gioco è la realtà. Se fingo con mio nipote di entrare in uno spazio chiuso, e apro un’invisibile porta, devo poi stare ben attento a riaprire la stessa porta e ad attraversarla per uscirne, pena il mandare all’aria tutto. Allo stesso modo, per citare un classico, e ammettendo che qualche bambino ancora cavalchi il vecchio manico di scopa, sottrarglielo sarebbe come rubare il dromedario ad un tuareg, motivo sufficiente per una sanguinosa rappresaglia. A nulla varrebbe dargli un manico sostitutivo: perché quello, in quel momento, non è un manico di scopa che simboleggia un cavallo, è il suo cavallo. Questo non significa che non sappia distinguere un cavallo da un manico di scopa: è un bambino, non un cretino. All’interno della sua onnicomprensiva dimensione, però, lo scambio avviene per analogie, a volte spicciole ma a volte imperscrutabili, tra oggetti ai quali la dignità è conferita dalla momentanea funzione, e non dalla banale destinazione d’uso.

La terza cosa che ho capito è che non si deve mai fingere di condividere appieno questa dimensione. I bambini, come i cani, fiutano il falso ad un chilometro di distanza (i gatti sono ancora più sospettosi, degli umani non si fidano proprio: e alla luce di Schrödinger non è facile dargli torto). Istintivamente percepiscono che hai i piedi dentro e la testa fuori, e che prima o poi finirai per piegare il gioco a logiche che a loro non appartengono: sono quindi risoluti ad opporre mille resistenze, e a portarti all’esasperazione. Preferiscono chi gioca allo scoperto: non importa se non capiscono tutto, non ne fanno un problema, reinterpretano a modo loro e si adattano tranquillamente. Devono solo avvertire che stai facendo sul serio, che non sei lì per farli giocare, ma per divertirti, anche loro malgrado. L’altro ieri giocavo ai soldatini con mio nipote. Ci siamo equamente divisi il suo esercito di crociati (in verità, quando si è accorto che me ne ero tenuti di più si è incavolato, e dato che erano in numero dispari abbiamo dovuto farne morire uno subito), dopodiché lui ha ingaggiato una sua guerra contro i pigmei (che sono i soldatini più piccoli, quelli brutti, di plastica) e contro i Fantastici Quattro, mentre io ho condotto il mio drappello in una spedizione punitiva contro una tribù berbera. Ha funzionato perfettamente: per dieci minuti ha sterminato pigmei, sbirciando ogni tanto le mie mosse, poi ha risparmiato i pochi sopravvissuti nascosti nell’erba e si è fatto assorbire dalla missione nel deserto, intervenendo ogni tanto per prestarmi qualcuno dei suoi (“facciamo che c’era un altro esercito che aveva sconfitto i pigmei e veniva in aiuto?”) quando i miei ranghi si assottigliavano (i berberi sono tosti). Ora vuole solo guerre contro i beduini, il che potrebbe essere un antidoto contro future conversioni all’islamismo radicale.

L’ultima cosa l’ho imparata direttamente sulla mia pelle (per cui è anche la più importante: le altre in fondo sono soltanto psicologia da giardino pubblico). Penso che a rigor di termini l’illusione abiti solo il mondo degli adulti. Illudere, o illudersi, ha infatti radice in ludus, in una idea di gioco consapevole che non può essere applicata al mondo infantile, checché ne pensino gli specialisti dell’età evolutiva. Sarebbe come dire che il bambino vive una sessualità consapevole perché si tocca le parti intime (sorvoliamo per il momento sul fatto che questa consapevolezza, del gioco come della sessualità, non è presente nella gran parte dei casi nemmeno negli adulti). Il bambino si limita a fare tutto quello che istintivamente gli procura piacere, e non è il caso di attribuire significati libidici al fatto che si gratti il sedere. Allo stesso modo, quando gioca non crea dal nulla un mondo alternativo dal quale entrare o uscire: sposta semplicemente lo sguardo sugli altri possibili e infiniti aspetti del mondo nel quale vive. Volendo schematizzare al massimo, si potrebbe addirittura affermare che non gioca mai. Tutto ciò che gli accade o che è da lui agito è egualmente serio ed egualmente leggero.

Quindi il bambino non si illude. Il momento in cui il termine illusione può essere correttamente utilizzato è semmai proprio quello di confine, quello dell’adolescenza. È qui che entra (letteralmente) in gioco, quando ci entra, la consapevolezza. La perdita dell’innocenza (o meglio, dell’incoscienza) corrisponde alla scoperta che le scope non consentono di volare o di cavalcare. Quando ti accorgi di non riuscire più a decollare, per quanta rincorsa tu prenda, la pacchia è finita. È una scoperta drammatica, e infatti in genere gli adolescenti sono parecchio incazzati, e noi ci chiediamo il perché, e ripetiamo loro che hanno tutta una vita davanti. Appunto. È proprio questo il problema. Una vita intera senza poter decollare, o potendolo fare solo con prenotazione, pagando un biglietto e lasciando guidare gli altri.

Il bisogno di illudersi nasce quindi per compensare una perdita, nel momento in cui si percepisce la differenza tra i due piani, quello della realtà e quello della fantasia; o la si istituisce, a seconda dei punti di vista. Anche se non sempre si è poi capaci di tenerli distinti, e soprattutto non se ne ha alcuna voglia. Come scriveva Foscolo, anche una volta realizzato che le illusioni sono autoinganni non possiamo fare a meno di crearcene altre, e la prima è proprio quella di poter conservare il completo dominio sulle illusioni consapevoli, magari chiamandole miti. L’illusione è insomma lo sforzo di mantenere uno sguardo infantile su un mondo che si rivela prosaicamente adulto.

A questo punto, visto che la riflessione su come si divertono in Austria mi ha preso mano e ha fatto una strada tutta sua, mi converrebbe forse chiudere il discorso. Ma ho l’impressione che un filo sotterraneo tra Schrödinger e il gatto con gli stivali esista, e mi piacerebbe trovarlo; per cui provo ad andare avanti. Senza una traccia precisa e senza garantire nulla.

Vorrei rendere più chiara la questione della perdita dell’innocenza (o dell’acquisto di coscienza, dipende da come la vogliamo mettere) con un’altra immagine classica, quello dello specchio infranto. Per tutta la vita noi guardiamo in uno specchio. Questo è vero anche fuor di metafora, in quanto ciò che conosciamo ci arriva attraverso la mediazione dei sensi e dell’intelletto (per Kant, attraverso le categorie), che funzionano come un otturatore fotografico: quindi in realtà cogliamo solo il riflesso delle cose nella nostra mente. Col tempo naturalmente vediamo riflesse cose diverse, e soprattutto impariamo a guardare da nuove angolature e a mettere a fuoco particolari o assiemi differenti. Certo, questo avviene in qualche modo anche nell’infanzia, ma in quel periodo la storia della separazione dei piani, tra ciò che è e ciò che vediamo, non è ancora affatto chiara.

Un bambino che si guarda allo specchio realizza infatti che quello che gli sta rimandando lo sguardo è lui stesso, o quantomeno che quella è la sua reale immagine. La prima volta trova magari la cosa un po’ strana, se non è particolarmente sveglio ci mette un po’ a capirlo e torna più volte a guardare dietro lo specchio, ma poi se ne fa una ragione. In genere considera la faccenda della duplicazione piuttosto divertente, e non credo si ponga tanti problemi rispetto a quale sia la realtà. Per lui è reale tutto, di qua e di là dalla superfice riflettente. Semmai al di là può immaginare possibilità ulteriori, come racconta Lewis Carroll, che di bambini se ne intendeva (Oltre lo specchio): resta comunque il fatto che quello specchio è la testimonianza inoppugnabile di una esistenza, e la veridicità di quanto racconta è confermata al bambino dal fatto che lo specchio riflette anche gli altri, o le altre cose, mostrandoglieli esattamente quali appaiono “fuori”. È come se gli dicesse: tutto quello che vedi attorno a te è vero, ed anch’io lo vedo così.

Col tempo le cose si complicano. Succede, come abbiamo visto, quando il manico di scopa non ci stacca più da terra, perché una volta usciti dall’infanzia non ci vediamo altro che un bastone, e a specchiarci a cavalcioni ci troviamo ridicoli. Mentre il bambino che si guarda può farsi le boccacce, o fingere il pianto o il riso, cercando di cogliersi in situazioni diverse, curioso di come potrebbe apparire “se”, e si diverte, noi pur continuando a farlo ci vergogniamo. Soprattutto lo sguardo lo rivolgiamo all’interno, e qui nasce il problema, perché ci rimiriamo in uno specchio rotto. I nostri personalissimi specchi interiori sono infatti molto fragili: hanno la scadenza come il burro, e vanno facilmente in pezzi. Di questa fragilità gli umani sono consapevoli da quel dì, e non a caso nella cultura popolare la rottura di uno specchio è sempre stata considerata un evento particolarmente funesto; un tempo magari perché gli specchi erano preziosissimi e non era facile procurarsene altri, oggi solo per un residuo superstizioso, che non manca però di alludere a un reale disagio psicologico. Quando la rottura non avviene significa che il meccanismo era programmato male, e la conseguenza si chiama narcisismo. Se al contrario lo specchio per qualche motivo si rompe anzitempo, il bambino magari per un po’ si diverte, vedendosi moltiplicato, ma rischia poi seriamente di scivolare in quello stato patologico che è la schizofrenia.

Quando invece le cose funzionano come da programma diventiamo semplicemente adulti. Le mille immagini di noi che lo specchio infranto ci rimanda corrispondono a quelle che scopriamo esserci rimandate dagli altri, di mano in mano che si acuisce la nostra coscienza del mondo. A differenza del bambino, che è sicuro di essere “quello” e che come tale gli altri lo vedano, l’adulto questa sicurezza la perde, perché scopre la molteplicità dei “punti di vista”, propri e altrui (i centomila di Pirandello). E comincia a dubitare che la realtà esista, o meglio, che esista una sola realtà (ma se le realtà sono tante, nessuna è quella reale).

Noi cominciamo dunque a dubitare della realtà quando cominciamo a dubitare di noi stessi. E cominciamo a dubitare di noi stessi quando realizziamo che “fuori” esistono di noi molteplici immagini, ma soprattutto che non siamo il centro del mondo e che tantomeno siamo immortali. Di qui nascono i miti di foscoliana memoria, di qui l’illusione consapevole. Possiamo sopravvivere alla scoperta della nostra insignificanza solo inventandoci significati altri, religiosi, politici, sociali, affettivi, ognuno secondo le sue possibilità e i suoi bisogni. Ciò avviene attraverso la proiezione della nostra breve e sempre incompiuta esistenza in una prospettiva temporale senza limiti, ponendoci in continuità con gli ideali di chi ci ha preceduto e aspirando ad essere riferimento, o almeno tramite, per coloro che verranno.

Alla base di tale proiezione c’è un processo assolutamente naturale: in fondo, se invece che in termini di individui ragioniamo in termini di geni, tutto il vivente punta ad una sia pur relativa eternità. Solo che l’egoismo genetico, invece di riproporsi nudo e crudo generazione dopo generazione, come avviene per tutti gli altri animali, nell’uomo cerca di darsi una giustificazione e un senso. E per poterlo fare l’uomo deve trovare una spiegazione anche della realtà entro la quale agisce: o meglio, “delle” realtà, quella naturale e quella culturale. Muovendosi nella prima, non assecondandola passivamente ma cercando di addomesticarla, di manipolarla, di piegarla ai suoi fini, produce la seconda. Possiamo girarla come vogliamo, ma ogni tassello di cultura, ogni tentativo di dare o trovare un senso, inteso come scopo e come direzione, alla nostra esistenza, è un atto di ribellione o di dominio nei confronti della natura. E non è nemmeno il caso di discutere se questo sia un bene o un male: le cose stanno così, e siamo uomini e non oranghi proprio per il diverso rapporto che abbiamo instaurato con la natura.

In sostanza, accade che per un complicatissimo concorso di fattori intervenuti nel percorso evolutivo noi umani nasciamo inadeguati (alcuni senza dubbio più inadeguati di altri) rispetto alla condizione naturale, e dopo un breve periodo di beata incoscienza prendiamo drammaticamente atto della nostra inadeguatezza (non tutti, come ho già detto, ma la maggior parte si). Siamo fisicamente limitati, nello spazio e nel tempo, rispetto alle potenzialità e alle aspettative del nostro cervello, e dobbiamo pertanto consentirgli di correre nelle praterie sconfinate della fantasia, di costruirci vite immaginarie, esistenze parallele, surrogati di senso. Il vero paradosso è che la nostra specificità sta proprio in questo, in una debolezza di fondo che diventa l’arma vincente (almeno momentaneamente) perché produce fantasia, immaginazione, illusione. Ora, questa illusione non può essere del tutto consapevole, perché in tal caso rimane assolutamente infeconda, ma nemmeno ha da essere del tutto inconsapevole, perché in quest’altro caso, quando viene scambiata per realtà, diventa estremamente pericolosa. Soprattutto se condivisa da altri. La Storia, quella marchiata come nostro prodotto doc dalla maiuscola, è in primo luogo la vicenda della nascita e del tramonto di grandi illusioni collettive, di utopie religiose o laiche sfuggite al controllo, o peggio, finite sotto il controllo interessato e spietato di alcuni per sfruttare, sottomettere o distruggere altri.

È una storia che conosciamo. Così come conosciamo quella che ogni cultura del globo in ogni epoca ha narrato a suo modo, mettendo in campo pesciolini d’oro, geni della lampada, maghi, fate e gatti ruffiani, e che ancora oggi ci viene raccontata dalla cultura unica della globalizzazione attraverso le lotterie miliardarie, i concorsi a premi e le officine della fama televisiva. É il sogno individuale di un cambiamento improvviso nella nostra vita, della possibilità di vedere mutata la nostra condizione, esaudito ogni nostro desiderio. Con la differenza magari che un tempo il racconto dichiarava apertamente la sua funzione consolatoria, rimanendo confinato nella dimensione fantastica, mentre oggi siamo educati a crederci e a scambiarlo per realtà, a viverlo come fossimo bambini.

L’illusione è dunque fondamentale come stimolo alla creatività umana, in quanto alimenta la capacità di pensare “altro” rispetto all’esistente, e di desiderarlo. Ma è difficile da governare, perché cammina in equilibrio sempre precario su una cresta ripidissima e pericolosa: e dal momento che viaggiamo bene o male sempre in cordata, se degenera o cade rischia di trascinare anche gli altri. Pertanto, se vi regalano un gatto non fateci su troppi progetti, è improbabile che vi procuri un regno; ma nemmeno addestratelo per lanci spaziali, o più semplicemente per esperimenti di volo dal terrazzo. È un gatto, ha altre aspirazioni.

E questo ci riporta a Schrödinger. Perché anche la scienza è il prodotto di una nostra illusione collettiva, di un’utopia, senz’altro la più potente e duratura e universalmente condivisa, e per molti aspetti la più nobile: l’illusione di sottrarci al condizionamento naturale. Questa illusione ci è congenita. È la risposta alla drammatica consapevolezza del nostro essere “inadeguati”. Ma l’umanità non l’ha sempre vissuta alla stessa maniera. Un tempo, quando ancora la natura era “sacralizzata”, ogni gesto di ribellione nei suoi confronti era accompagnato da un senso di colpa, ogni intervento a modificarla era considerato una profanazione. La gran parte degli antichi rituali erano cerimonie di espiazione collettiva, di riconciliazione con l’ordine naturale o di riconsacrazione di luoghi. Magari in quella “bella età, cui la sciagura e l’atra / face del ver consunse / innanzi tempo” non funzionava proprio tutto come dice Leopardi, ma c’era senz’altro coscienza che un certo equilibrio andava salvaguardato, che certi piani dovevano essere mantenuti distinti. Non a caso lungo tutta l’età classica, e almeno fino a tutto il Rinascimento, non si parla di progresso, se non qualche volta in termini etici e morali; l’opinione diffusa era piuttosto quella di un regresso, di una decadenza. Ciò non toglie tuttavia che già si puntasse ad una qualche forma di mediazione, di condizionamento delle forze naturali, ad esempio attraverso l’elaborazione di una mitologia. In fondo anche Leopardi, quando parla delle favole antiche, racconta di illusioni, pacifiche quanto si vuole nei confronti della natura, ma pur sempre autoinganni.

Oggi le cose stanno diversamente. Dell’autoinganno nemmeno più ci accorgiamo, perché in realtà i due piani hanno finito per coincidere: traducendo la scienza in tecnologia abbiamo costruito una seconda natura e la stiamo velocemente sostituendo alla prima (o almeno, ci illudiamo di farlo: salvo poi trovarci col sedere per terra ad ogni sbadiglio della natura prima). In quanto artefici siamo convinti di avere il controllo totale su quello che abbiamo creato, e per ricaduta su quanto abbiamo trovato: e malgrado questa convinzione ultimamente abbia cominciato a traballare proseguiamo per la stessa strada, sia pure senza eccessivo entusiasmo, quasi per inerzia.

Ora, non vorrei che questa fosse scambiata per una filippica eco-integralista o animalista contro la scienza. Se scrivo su un computer invece che su una tavoletta d’argilla – cosa che peraltro, vista la pregnanza degli argomenti, sarebbe stata decisamente improbabile –, se posso curarmi i denti o un braccio rotto anziché perderli, se ho ragionevoli speranze di non morire di tubercolosi, se ho una vita tutto sommato comoda e sicura, lo devo alla scienza. Ho vissuta la prima fase della mia esistenza in una situazione di relativa precarietà e in una società quasi medioevale, e non coltivo certo nostalgie per i bei tempi in cui eravamo poveri ma felici (soprattutto poveri). Sto semplicemente seguendo il filo di un pensiero nato da un paradosso, che mi porta a chiedermi come mai, per capire come funziona il creato, dobbiamo immaginare di gasare un povero gatto. E credo che una spiegazione, sia pure molto all’ingrosso, la si possa dare.

Come ogni altra utopia, quella scientifica ha diversi possibili esiti e risvolti. Se lo studio della natura è finalizzato ad una conoscenza non dico solo contemplativa, ma almeno minimamente intrusiva, che ne indaghi le leggi e le proprietà per meglio assecondarla da un lato e per garantire alla specie le opportune difese dall’altro, l’illusione rimane sotto controllo: nel senso, ad esempio, di non pretendere per questa specie un ruolo di centralità assoluta. Se invece questo studio è volto solo a manipolare la natura, piegarla ai fini della produzione, della crescita e della perpetuazione di un supposto dominio, evidentemente non può produrre che guai. E uno tra i primi è proprio legato alla forma mentis che un atteggiamento del genere induce. Il problema è che un confine tra i due approcci è difficile da definire, e forse nemmeno esiste. Quando Bacone proclamava che “sapere è potere”, quale che fosse la sua interpretazione (che era comunque del secondo tipo) asseriva una verità indipendente dai fini, e peraltro da sempre conosciuta e temuta. Giustamente presso i pellerossa il vero nome di un guerriero doveva rimanere segreto, perché il solo conoscerlo poteva diventare un’arma nelle mani di eventuali nemici. (ma anche Ulisse si guarda bene dal rivelarlo al Ciclope, e così facendo lo frega). Per la natura vale lo stesso: conoscerne i meccanismi, disvelarne le leggi equivale a metterla alla mercé di chiunque intenda sottometterla. È l’ambiguità congenita alla scienza, che si rivela anche quando quest’ultima sembra votata alle migliori intenzioni.

Schrödinger, per esempio, non era affatto una cattiva persona. Nello stesso anno in cui Hitler saliva al potere lui riceveva il premio Nobel per la Fisica, per un’equazione che rimane a tutt’oggi un caposaldo della meccanica quantistica (datele un’occhiata, per avere un’idea di dove arrivi la capacità di astrazione simbolica dell’uomo). Dovette anche andarsene da Vienna, dopo l’anschluss, in quanto poco gradito al nazismo: e nell’immediato dopoguerra rifiutò di partecipare agli studi sulle applicazioni militari e civili del nucleare. Quindi era un uomo al di sopra di ogni sospetto. In Che cos’è la vita? (1944), un saggio di biologia molecolare nel quale da fisico cercava di spiegare, dieci anni prima della scoperta del DNA, la natura del materiale genetico, scriveva: “Il progredire, sia in larghezza che in profondità, dei molteplici rami della conoscenza ci ha messi di fronte ad uno strano dilemma. Noi percepiamo chiaramente che soltanto ora incominciamo a raccogliere materiale attendibile per saldare insieme, in un unico complesso, la somma di tutte le nostre conoscenze; ma, d’altro lato, è diventato quasi impossibile per una sola mente il dominare più di un piccolo settore specializzato di tutto ciò. Io non so vedere altra via di uscita da questo dilemma (a meno di non rinunciare per sempre al nostro scopo) all’infuori di quella che qualcuno di noi si avventuri a tentare una di fatti e teorie, pur con una conoscenza di seconda mano e incompleta di alcune di esse, e correre il rischio di farsi rider dietro”. Oltre che un uomo retto era dunque anche uno scienziato coraggioso, disposto ad assumersi dei rischi, a cominciare “a pensare al problema della vita e al come gli organismi si comportano e funzionano, chiedendo a se stesso, coscienziosamente, se egli, con ciò che ha imparato dal punto di vista della sua umile scienza relativamente semplice e chiara, possa portare un qualche notevole contributo al problema”.

In un altro saggio, nel quale si chiedeva Che cosa è reale1?, arrivava a queste conclusioni: “Se eliminiamo la metafisica, arte e scienza si riducono a miseri oggetti senz’anima, incapaci d’ogni evoluzione ulteriore. E tuttavia la metafisica è superata e minata nelle sue fondamenta. Il parere di Kant è in questo senso una sentenza inappellabile. Nella prospettiva dello scienziato il compito della filosofia post-kantiana mi sembra possa consistere nel cercare di ridurre l’influsso della metafisica sui modi di rappresentazione dei dati effettuali ritenuti veri nei vari settori specifici; al tempo stesso, però, nel conservare la metafisica attribuendo a essa valore e funzione di sostegno indispensabile delle nostre conoscenze, di quelle generali così come di quelle specifiche. Potremmo dire, con un’immagine, che dell’armata della conoscenza la metafisica è la punta, l’estremo avamposto nel territorio nemico e nell’ignoto: un’avanguardia indispensabile ma, tutti sanno, esposta a grandi pericoli. La metafisica non appartiene cioè all’edificio della conoscenza: è piuttosto il ponteggio di cui non si può assolutamente fare a meno, volendo seguirne la costruzione. È forse persino lecito affermare che la metafisica si trasforma nel corso dell’evoluzione in fisica, ma certo non come poteva apparire prima di Kant; cioè non grazie alla graduale convalida di opinioni inizialmente incerte, bensì tramite la chiarificazione e lo spostamento del punto di vista della riflessione filosofica”.

Mi sono dilungato nelle citazioni perché queste parole dimostrano come Schrödinger fosse tutt’altro che un cuore arido, e avesse anzi una chiara coscienza di quanto sia fondamentale l’immaginazione, o se vogliamo l’illusione, per aiutare a costruire la conoscenza. Proprio per questo però l’allegra disinvoltura con la quale ipotizzava, sia pure in forma paradossale, la possibilità di cacciare un micio in una scatola mortale ci dice qualcosa di inquietante. Ripeto: non vorrei essere frainteso. Non si tratta di fare le pulci alle parole. Se c’è una persona politicamente scorretta in questo senso quella sono io, che parlo tranquillamente di punizioni corporali e campi di lavoro coatto per gli studenti, e non solo per scherzo. Allo stesso modo, non sono un gattaro; anzi, non ho animali per casa, neppure pesci rossi. Mi bastano e avanzano quelli a due zampe coi quali tratto quotidianamente. E tuttavia l’immagine mi ha infastidito.

Credo che in questo caso abbia pesato molto il contesto. Il sapere ad esempio che, sia pure al culmine di una deriva folle e criminale alla quale il fisico austriaco rimase estraneo, questi esperimenti sono stati poi davvero realizzati nei campi di sterminio, e non solo in quelli nazisti, e che la loro applicazione più riuscita è quella con la quale Himmler e soci hanno pianificato l’eliminazione “scientifica” di parte dell’umanità.

Io non sono convinto che questa deriva sia inevitabile: certo è però che l’uso improprio della fantasia e dell’illusione la rendono possibile. In fondo la scienza si avvale per la sua ricerca di atrocità ben maggiori di quella ipotizzata da Schrödinger, il quale magari aveva in casa un gatto (forse proprio per questo ha pensato a lui) e coltivava sentimenti tutt’altro che sadici. E anche prescindendo dal paradosso (questo si, autentico) che lo stesso Himmler era profondamente ammirato per l’attenzione prestata dai monaci buddisti ad ogni forma di vita (“Si cingono le caviglie con campanellini per evitare agli insetti di farsi calpestare!” scriveva nel suo diario) e che Hitler era vegetariano, rimane il fatto che quando entra in ballo la scienza ogni tabù sembra cadere.

Ciò che troppo spesso viene meno in questa particolare forma di illusione (ma la cosa vale anche per quelle politiche o sociali) è la coscienza che il senso della ricerca è già implicito nel modo, nell’atteggiamento col quale la si intraprende: anzi, che il senso è la ricerca stessa, e che nessuna ricerca ha senso quando suppone altro sacrificio che non sia il proprio. Lo sterminio dei gatti, anche se certe notti lo invoco, quando il giardino si riempie di felini semiselvatici in ambasce amorose, non farà fare alcun passo innanzi all’umanità. Quelli di ebrei, zingari e disabili e di milioni di altri innocenti, che hanno costellato da sempre la storia ma che ultimamente sono stati perseguiti con rigoroso metodo scientifico, ne hanno fatti fare parecchi indietro.

Allora, come avrebbe detto Micotto, apriamo ‘sta benedetta scatola e facciamo uscire una volta per tutte la povera bestia.

1 Compreso nella raccolta La mia visione del mondo (1964)

 

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