Il libro degli abbracci

Comincia così …

(da: Cinque buoni motivi per essere scorretto)

di Paolo Repetto, 12 gennaio 2020

Scendendo a passo d’uomo verso Genova, tra gallerie che cadono a pezzi e viadotti semoventi, ascolto per radio un’intervista a Marco Bonini. Non lo conoscevo, scopro che è attore, ballerino, sceneggiatore cinematografico e anche scrittore. Credenziali sufficienti a indurmi subito a cambiare stazione, tanto più che l’intervista, condotta da una tizia in evidente trance estatica, si annuncia come uno spot promozionale dell’ultimo romanzo scritto dal nostro, Se ami qualcuno dillo (così, senza la virgola). Il dito è dunque già sul tasto, quando viene fermato da una citazione buttata lì a mo’ di apertura dalla conduttrice. “Mio padre è la chiave di volta di tutta la mia vita. Mio padre è il modo in cui guardo mia madre, il modo in cui gioco con mio figlio, il tono con cui mi rivolgo alla madre dei miei figli. Mio padre è il sorriso che rivolgo a una donna. La leggerezza con cui scherzo con i miei amici. Mio padre è il sottotesto di tutti i personaggi che interpreto come attore, è il giudice incontrastato della mia intera infanzia” (non l’ho memorizzata a caldo, l’ho ritrovata poi la sera su Google; e intanto ho anche capito perché l’intervistatrice fosse così estasiata). Rimango sintonizzato. La prima frase mi piace, il resto mi fa capire che quando parliamo di padri io e Bonini stiamo parlando di cose diverse. Ma tant’è, continuo a seguire la trasmissione, e ho conferma che non leggendo il libro non mi perderò nulla.

Bonini racconta di un padre (confessa di aver preso a modello il proprio) che è un maschilista della più bell’acqua, e che arrivato ad una certa età, dopo un infarto che lo spedisce in coma per parecchie settimane, si sveglia completamente diverso. Ha perso la memoria, e ha quindi cancellato quell’imprinting ambientale che ne aveva condizionato tutta la precedente esistenza e che aveva cercato di trasmettere anche al figlio. Lui, prima così serio, freddo, distaccato, quasi anaffettivo, ora si comporta come un bambino: balla, ride, scherza, trasmette, dice Bonini, la gioia genuina di vivere. Manca solo che racconti anche le barzellette. Benissimo: sono contento per entrambi, ma più l’autore approfondisce e generalizza il tema (che è il rapporto tra padri e figli, ma non solo) più scivola nella melassa appiccicosa della psicologia da salotto televisivo. Adesso, mentre scrivo, ho già naturalmente dimenticato tutto il resto, ma un paio di cose mi sono rimaste in mente, proprio perché le ho trovate particolarmente irritanti.

Cominciamo da un’altra citazione (piovevano a raffica, la copia del libro dell’intervistatrice deve essere tutta evidenziata e piene di orecchiette o di post-it). “Ogni abbraccio che oggi io do a mio figlio è un abbraccio che avrei voluto ricevere ieri da mio padre, e che mio padre forse avrebbe voluto ricevere dal suo.” Forse. Non è detto. Da che ne ho memoria mio padre non mi ha mai abbracciato. Può darsi l’abbia fatto prima, ma ne dubito. Mi sarebbe rimasta la sensazione di un’assenza. Invece non l’ho mai provata. Non avevo bisogno che mi abbracciasse per sentirlo vicino, mi sarebbe anzi parsa una situazione ridicola. Non era quello che mi aspettavo da lui. Ora questo, secondo Bonini e secondo tutto lo psicologismo del piagnucolio che imperversa tanto nei comparti alti della cultura come nelle vite in diretta e nelle anticamere dei dentisti, sarebbe frutto di una educazione patriarcale che voleva il maschio tetragono ai sentimenti e refrattario alle manifestazioni d’affetto. E di tale corazza dobbiamo liberarci, dando libero sfogo al nostro versante emotivo sinora represso, agli abbracci, alle lacrime, ai sentimenti esibiti senza falsi pudori. Tutto ciò ci renderà più liberi e spontanei, più realizzati ed umani, più felici e aperti alle relazioni.

Infatti, si vede. Non c’è mai stata tanta gente impegnata a baciare ed abbracciare ed esternare e piangere come oggi, e mai sono circolati tanta rabbia e livore e risentimento e ipocrisia. In piazza trovi adolescenti strafatti di canne, probabilmente figli di padri già liberati da un pezzo e molto affettuosi, che si salutano ad ogni incontro con un abbraccio, maschi con maschi, maschi con femmine, femmine e femmine, e poi si piazzano su una panchina ciascuno incollato al suo smartphone e non scambiano una parola per ore. Per i mussulmani e gli slavi i baci e gli abbracci di saluto sono addirittura rituali, ma non mi risulta che giovani e adulti siano poi, anche tra di loro, particolarmente pacifici e affidabili.

Un tempo, quando mi ritrovavo con gli amici ci scambiavamo un ehi!, una pacca sulla spalla se li prendevo di sorpresa, e poi si trascorrevano intere mattinate o pomeriggi o sere a discutere, a scherzare, a litigare più o meno seriamente. A volte trascinavamo la notte fino alle ore piccole, senza birre in mano, bruciando qualche sigaretta, continuando ininterrottamente a dialogare. Niente manifestazioni di affetto rituali, nessun contatto fisico: ma saremmo stati pronti a giocarci la pelle l’uno per l’altro.

Magari parrà che io stia parlando di un’altra cosa rispetto a ciò di cui narra Bonini, ma vi assicuro che una relazione c’è.

Quando pranzavo o cenavo con mio padre, la sera attorno al tavolo o in campagna nelle pause del lavoro, pendevo dalle sue labbra, ridevo delle sue battute, apprezzavo e invidiavo la costante ironia con la quale sapeva prendere la vita, mi preoccupavo se lo vedevo a volte (rarissime) troppo stanco per poter essere brillante. Davvero guardavo il mondo e gli altri anche con i suoi occhi, ma questo non mi ha mai impedito di mantenere e di manifestare una mia indipendenza di giudizio, e di capire che sotto sotto era apprezzata. Non volevo il suo abbraccio, non avrei saputo che farmene. Volevo la sua stima, e sapevo che per meritarla era sufficiente fare bene le cose che stavo facendo.

Anche gli abbracci di mia madre erano rarissimi (confesso che non ne ricordo uno, ma sono certo che ci siano stati), e neppure di quelli comunque ho mai sentito la mancanza. Non era necessario che mi dimostrasse con le coccole quanto mi amava: ogni altro suo gesto lo dichiarava, e io lo capivo benissimo. Se questa era freddezza “culturalmente assimilata”, se sono stato per tutta la vita inconsciamente un represso, giuro di non essermene accorto. E sarò magari un po’ lento a capire, ma garantisco che mi sta bene così. Mi auguro di non finire in coma, ma soprattutto, nel caso, di non risvegliarmi diverso.

Da dove nasce tutto questo improvviso bisogno di riscoprire e rivalutare la fisicità affettiva (ma “riscoprire” cosa? Non c’è mai stata, come caratteristica della specie: per trovarla occorre risalire sin oltre la speciazione, ai nostri cugini bonobo)? Ho l’impressione che voglia solo nascondere la perdita delle “parole per dirlo”, tanto per riagganciarci al titolo di Bonini. Che sia cioè l’ennesimo inquietante sintomo di un malessere molto più profondo, nel quale una idea maldigerita di libertà si mescola alla sfiducia nelle potenzialità positive della parola e della cultura che esprime, e ci spinge a regredire verso le manifestazioni più animalesche del nostro carattere. È accaduto che quando “la gente” ha finalmente avuto accesso al pulpito si è accorta di non aver nulla da dire, e che non lo avrebbe comunque saputo dire. Ha scoperto che “parlare” è diverso dal bofonchiare o dal ripetere slogan e frasi fatte, che il dominio della parola comporta fatica e lavoro, e che se non padroneggi il linguaggio non produci nemmeno pensiero. Di affrontare l’ultima salita, lo sforzo gratificante ma al tempo stesso responsabilizzante per dotarsi di questa strumentazione e passare dall’essere “gente” a essere “persone”, nemmeno a pensarci: tanto più in presenza di uno stuolo di intellettuali pentiti (o forse solo annoiati) che ne predicavano l’inutilità e l’ipocrisia. E allora la “gente” ha deciso (ma non è questo il verbo giusto, perché decidere significa pensare autonomamente: diciamo che è stata indotta a credere, e non ha opposto alcuna resistenza) che il pensiero e il linguaggio sono solo subdoli strumenti di dominio nelle mani delle lobby, e che queste vanno combattute rivendicando una genuina ignoranza e il ritorno ad una comunicazione non mediata dei sentimenti, di tutti, dall’amore e dall’affetto fino al rancore e all’odio.

Ho detto sopra di aver seguito tutto il resto della trasmissione. Non è vero. Ho cambiato stazione dopo aver sentito dire dall’attore-scrittore che anche di fronte ad una mancanza, ad un errore commesso dal figlio, tutto si può risolvere con un abbraccio. “Non rimproverate, non punite i vostri figli. Abbracciateli, e capiranno.” Mi si sono rizzati i capelli pensando a quel povero ragazzo. Spero sia uno che di stupidaggini ne fa poche, altrimenti sai che rottura di palle, con un padre che ti abbraccia continuamente: e sai che disastro, quando i problemi li avrà con altri, insegnanti e amici prima, fidanzate e mogli e colleghi dopo, che magari non saranno altrettanto disponibili a risolvere tutto con un abbraccio. L’abbraccio non è una mediazione, è un’amnistia. E le amnistie troppo ripetute non possono portare che alla perdita di credibilità e di efficacia delle regole, quindi al caos, come sa bene chi vive in questo paese.

Infatti. I sentimenti “liberati” dalle pastoie della lingua e della cultura sono immediatamente sfuggiti al controllo. Ma non sono andati molto lontano. Non avevano più gambe né fiato. Ci aveva già pensato il circuito produzione-consumo-consenso a sfiancarli, e quando li ha riportati nel recinto ce li ha restituiti in forma di omogeneizzato. I sentimenti che rivendicano oggi i loro diritti sono solo pappine prive di sostanza e infarcite di coloranti, sono solo risentimenti, alimenti ideali per l’egoismo e il menefreghismo più sfrenati, per il disprezzo di ogni diritto altrui, per lo spaccio della beceraggine come genuinità. Nutrita di questi surrogati “la gente” è diventata incapace di accettare le sconfitte, di mettere in conto le delusioni (di qui femminicidi e reazioni comunque esasperate a qualsiasi contrarietà), di digerire l’idea che ogni conquista trova giustificazione e senso nello sforzo. Tutto intanto si risolverà con un pianto (possibilmente in tivù), con un tweet o con un abbraccio. Da non crederci: con infinite altre possibili e passabilmente dignitose catastrofi, il mondo perirà soffocato dagli abbracci.

Non è nemmeno questo però il vero nocciolo della questione. Bonini il nocciolo lo aveva toccato già prima, quando ha continuato ad insistere sul fatto che l’anaffettività del padre fosse frutto di una educazione maschilista, che induceva ad una rappresentazione di sé monolitica e improntata al controllo. Non che mi abbia sconvolto con questa rivelazione: stava semplicemente ripetendo la vulgata corrente, ma lo faceva mentre viaggiavo a cinque chilometri l’ora, e chiedevo alla radio almeno un po’ di conforto. Ora, io il libro non l’ho letto (e nemmeno ho intenzione di farlo in futuro), quindi è possibile che l’immagine del padre che ne viene fuori, quella evidentemente che Bonini stesso aveva recepito, giustifichi questa spiegazione. Credo ci sia in effetti un sacco di gente che tiene atteggiamenti del genere. Ma mi infastidisce la generalizzazione che l’autore ne ha fatto durante l’intervista, come a dire che la responsabilità è tutta di un certo modello sociale, e naturalmente del tipo di cultura che a quel modello ha dato l’impronta.

Con buona pace di Bonini, non è così. La società è fatta di individui, e gli individui rispondono anche al loro singolo patrimonio genetico (che brutta parola, e rivelatrice! deriva guarda caso da pater). In altri termini, hanno chi più chi meno un carattere, e ciò che dovrebbe distinguerli dagli altri animali è che, volendo, sono anche in grado di disciplinarlo per farlo convivere in maniera non conflittuale con quelli dei loro simili. Ne sono, o almeno dovrebbero esserne, responsabili. Probabilmente Bonini è stato sfortunato, ha beccato uno che il carattere lo aveva inamidato forse sin troppo: ma non sono così sicuro che ora, col padre risvegliatosi ilare e affettuoso, le cose andranno molto meglio. Poteva andargli peggio, anziché un padre freddo poteva capitargliene uno violento o irascibile: ma poteva anche, al contrario, trovarsi accanto una persona capace di applicare in positivo le regole e di farne comprendere attraverso l’esempio il valore. Accade anche questo. A dimostrazione del fatto che l’educazione direttamente o indirettamente ricevuta, l’imprinting ambientale, ha senz’altro un grosso peso, ma poi a decidere che persona vuol essere, in che misura e in che direzione vuole esercitare il controllo, è sempre l’individuo. Come diceva il mio amico Remo, e lo diceva in senso positivo, non per vanto ma a sprone degli eterni recriminanti: “Sono nato ch’ero una sega, e ora ho il cinquantotto di spalle. E mi rispetto”.

PS: Ho fatto a tempo comunque a riascoltare il ritornello che è ormai d’obbligo, quasi una costante musica di fondo, sulla necessità di far riemergere la componente femminile che c’è in tutti noi, quella appunto emozionale, affettiva. Ora, io non dubito che in tutti noi maschietti ci sia una componente femminile, così come ce n’è una maschile nelle femmine. Mi sembra persino stupido sottolinearlo, come fosse una folgorante e recentissima scoperta. Che siamo fatti dello stesso impasto lo diceva già la Bibbia tremila anni fa, anche se poi assegnava ai maschi il ruolo di lievito madre. Dubito invece, proprio per questo motivo, che la “componente femminile” possa essere ricondotta tout court alla libera esternazione degli affetti e delle emozioni. Mi pare una lettura fuorviante, schematica e soprattutto molto riduttiva.

Mettiamola in questo modo. Le differenze di genere esistono, e non riguardano solo l’anatomia e i ruoli nel processo riproduttivo. Riguardano anche il funzionamento cerebrale, proprio in ragione di quelle anatomie e di quei ruoli. Se noi maschi ci portiamo dietro un retaggio di “autorappresentazione virile”, che poi si esprime poi in maniere differenti nelle diverse società e nelle diverse epoche, non è per una qualche deriva antinaturalistica innescata dalla cultura: è anzi funzionale alla naturale competizione per perpetuare i propri geni che sta alla base della vita animale (e anche di quella vegetale). Accade in tutte le specie, segnatamente in quelle a noi più prossime ma anche negli uccelli o nei pesci. La differenza consiste semmai nel fatto che nella nostra specie la cultura è intervenuta a smussare, a mitigare, qualcuno dice anche a stravolgere, le ferree leggi della selezione, quelle che premiavano solo i maschi dominanti. E mi pare che tutto sommato sia andata bene così. Noi abbiamo preso un’altra strada, la selezione umana è molto più soft (forse anche troppo, tanto che tra poco saremo dieci miliardi: ma per il momento, anche se un po’ stretti, perché qualcuno occupa e divora troppo spazio, ci stiamo tutti). Non sono più gli artigli e i denti a fare premio, ma il cervello: o almeno così dovrebbe essere. E il cervello umano femminile si è specializzato, nel corso di milioni anni, a riconoscere il funzionamento (o meno) di quello maschile, e a scegliere di chi fidarsi per un progetto riproduttivo. Certo, messa così può sembrare una faccenda molto arida e meccanica, ma lo si voglia o meno è quella per la quale possiamo stare qui a parlarne. Poi c’è dell’altro, non possiamo (forse sarebbe meglio dire: non vogliamo) ridurre il senso della nostra esistenza solo a questo, ma nemmeno possiamo prescinderne e fingere di ignorare che il motore è quello.

Pertanto: van bene gli affetti e van bene i sentimenti e le emozioni, ma non raccontiamoci che l’esternarli, soprattutto nei modi suggeriti da Bonini ma anche da tutti gli psicologismi e gli esotismi e i postmodernismi imperanti, sia un atteggiamento meno teatrale dell’autorap-presentazione virile. E soprattutto non dimentichiamo che la rimozione totale delle inibizioni è autodistruttiva per qualsiasi specie, di quelle naturali per tutte le altre, ma per la nostra anche di quelle culturali, perché la cultura è entrata a far parte della nostra natura. Per quanto poi concerne il recupero di una edenica naturalezza, soffocata negli ultimi millenni dai corsetti e dalle cravatte della civiltà (soprattutto di quella occidentale, naturalmente), teniamo a mente che tra i nostri parenti più prossimi non ci sono solo i bonobo, che si spulciano vicendevolmente e fanno sesso tutto il giorno, ma anche gli scimpanzé, che si scannano tra loro con un’aggressività e una ferocia che non ha pari in tutto il mondo animale. Con questi ultimi abbiamo in comune più del novantotto per cento del DNA. Val la pena rifletterci.

E allora, per il momento, mi raccomando: se mi incontrate, anche dopo molto tempo, non abbracciatemi. Se proprio mi parrà il caso, lo farò io.

⇒ … e finisce così.

London, o della fisicità

di Paolo Repetto, 2014

Mi ha molto colpito l’episodio della fustigazione del bambino zingaro e di sua madre raccontato ne “La strada”. Ho provato una terribile rabbia e mi sono chiesto come avrei reagito in una situazione del genere. Istintivamente, conoscendomi, penso che avrei rischiato, che non avrei potuto reggere a un simile strazio, pena portarmene appresso il rimorso per tutta la vita. Poi però, riflettendoci, devo convenire che London non era certo il tipo da tirarsi indietro, al contrario, e che se ha resistito, magari facendosi schifo, è perché la situazione non gli lasciava alternative. Mi è capitato di intervenire un paio di volte per scongiurare violenze nei confronti di un bambino e di una donna: ma erano situazioni nelle quali, come Borrow, me la giocavo alla pari, e avevo almeno la sensazione che al peggio avrei risparmiato alle vittime qualcosa. Per la cronaca, in quelle occasioni le cose non finirono poi male, nel senso che l’atteggiamento deciso fu sufficiente a scoraggiare i potenziali “carnefici”, senza la necessità di sbatterli troppo o di subire la violenza a mia volta. Ma, ripeto, anche se al momento non mi sono certo fermato a fare calcoli, un margine di probabilità di buon esito c’era. Cosa sarebbe invece accaduto a London?

Proprio questo interrogativo e questi ricordi, il fatto stesso cioè che le vicende si siano risolte senza fosse necessario arrivare alla violenza, mi hanno portato a riflettere su quanto una particolare fisicità possa incidere sulle esperienze che si fanno e sull’atteggiamento psicologico col quale tali esperienze si vivono.

Vorrei chiarire subito che non sto parlando di coraggio: esistono diverse possibili manifestazioni e interpretazioni del coraggio, e per la gran parte non hanno nulla a che vedere con la fisicità. Il coraggio è una virtù morale: attiene alla forza d’animo, non alla potenza dei bicipiti. I miei personalissimi supereroi sono Piero Gobetti e Camillo Berneri, che fisicamente erano l’esatta antitesi di Schwarzenegger, e che a dispetto di questo erano anche fisicamente coraggiosissimi. Il vero coraggio è quello di essere se stessi, di dire la verità, a volte quello stesso di vivere. Per converso, anche quello che può sembrare coraggio fisico spesso non è altro che spericolatezza, incoscienza di fronte al pericolo, in alcuni casi esaltazione. Non sto quindi cercando di stabilire una correlazione tra prestanza fisica e ardimento.

Il mio discorso non ha nemmeno a che fare con l’eroismo: anche qui, siamo di fronte a qualcosa che con la fisicità non ha alcun vincolo. Insomma, non voglio scomodare i valori, ma solo parlare di una condizione psicologica. Naturalmente, i termini che posso usare sono quelli: se uno non si tira indietro, posso girarci attorno quanto voglio, ma devo dire alla fine che è coraggioso. E se non si tira indietro in nome di un giusto principio, e rischia anche la pelle per difenderlo, non posso che chiamarlo eroe.

Infine, non voglio neppure limitarmi a ribadire quanto importante sia il sentirsi in pace con se stessi. È evidente che una giusta consapevolezza di sé, limiti compresi, è la base necessaria per una positiva interazione con gli altri. Qui però sto parlando ancora d’altro, di un’impressione che ho maturato con gli anni, che magari sarà del tutto immotivata, o condizionata dalla mia storia personale, e che concerne una declinazione particolare di questa consapevolezza. Mi riferisco al fatto di aver spesso constatato come un buon rapporto con la propria fisicità, e un buon rapporto non può che essere che un rapporto di intelligente confidenza, non aiuti solo a sopravvivere, ma costituisca anche un incentivo a prendersi cura degli altri, a mantenere nei loro confronti un atteggiamento di benevolenza: e come questo sia in parte un riflesso animale, ma abbia poi anche un risvolto profondamente umano.

Credo insomma che l’argomento di cui vado confusamente a parlare abbia a che fare piuttosto con la paura, o meglio, con l’assenza di una paura particolare, quella degli altri (il che non esclude che si possano poi avere paure d’altro genere, a volte persino infantili).

I protagonisti di queste pagine hanno in comune una notevole prestanza fisica. Gorkij sottolinea in più occasioni questo aspetto: quando, diciassettenne, appena arrivato a Krasnovidivo, comincia a scaricare le merci dal battello, il bracciante Kukuskin commenta così il suo lavoro:” Di forza ce n’è, si può dire, più del necessario”. Romas lo guarda ammirato: Ma ne avete di forza! e lo stesso Izuv, un vero atleta, che pure lo ha battuto in una sfida di sollevamento, lo consola: Non prendertela, sei davvero forte.

È anche coraggioso e testardo nel non rifiutare lo scontro: “I giovani erano gradassi ma cordiali: due o tre avevano tentato di battermi, sorprendendomi di notte per la strada, ma non vi erano riusciti”. Gli piace stabilire subito le regole, e da quella posizione pensa di poter entrare in amicizia coi suoi coetanei. D’altro canto, fin da ragazzino si era sempre comportato così, con le bande di quartiere a Nižnij Novgorod, poi con i ragazzi che lo aspettavano fuori quando era ospite dai suoi parenti del laboratorio di disegno, e lui usciva tutte le sere immancabilmente a battersi, a rischio poi di prenderle un’altra volta appena rientrato con il volto pesto, ma assicurandosi un nome e un rispetto. Ne “Il mio compagno di viaggio” racconta di aver preso sotto la sua protezione, ancora adolescente, un altro vagabondo, più anziano di lui, e di averlo accompagnato in salvo sino in Armenia. (dove, anziché essere ricompensato dal tizio, che vantava di essere un principe, viene piantato in asso: ma non importa, è stata una bella avventura).

Anche le figure di riferimento più importanti della sua adolescenza sono personaggi di quella fatta. Pensiamo all’immagine del cuoco che lo sottrae ai due camerieri ubriachi sul battello: “Smurri mi strappò dalle mani di Serghej e di Maksim, li afferrò per i capelli e, sbattute le loro teste una contro l’altra, li scaraventò via, facendoli cadere entrambi”.

Hamsun si presenta subito, già in Fame, come un colosso, magari asciugato e un po’ spiritato dai digiuni, ma pur sempre alto e robusto: “Io ero forte come un gigante, potevo fermare una carrozza con una spallata”. E i suoi “eroi” sono sempre personaggi che non si tirano indietro, sin da ragazzi: quando, all’inizio di Vagabondi, un girovago comincia a picchiare il suo compagno mezzo cieco “Edoardo (Edevart), un ragazzotto sui tredici anni, biondo e lentigginoso, si fece avanti mentre i suoi occhi mandavano lampi per l’eccitazione. Dimentico di tutto, avrebbe messo a repentaglio fors’anche la vita […] Fece in modo che l’altro cadesse. Il giovane soffiava come un mantice, sua madre lo chiamava perché venisse via, ma egli non si mosse”. E lo stesso Edoardo di lì a poco interviene quando il comandante di un battello da pesca cerca di approfittate della ragazzina di cui egli stesso è timidamente invaghito, e che è estremamente maliziosa: “Edoardo non era avvezzo a pensare se non con chiarezza. Non valeva molto quando si trattava di leggere o fare di conto, ma aveva i pugni sodi e, quando si riscaldava, un notevole ardimento fisico”. In un’altra occasione: “No, Edoardo non aveva ceduto: non era che un giovanotto semplice, ma in quanto a coraggio, ne aveva da vendere” Più tardi si trova a doversi difendere dal marito geloso di una donna della quale si è di nuovo sfortunatamente innamorato: “Seguì una baruffa molto breve: senza molte parole si lanciarono come due pazzi l’uno contro l’altro, e l’ira sfrenata di Edoardo fu decisiva: non ci fu neanche bisogno di una spinta, bastò il trucco dello sgambetto e un colpo sotto l’orecchio del suo giovane pugno […]”.

Ma la fisicità può avere anche una dimensione meno turbolenta, imporsi per la sua calma, la sua sicurezza, la sua resistenza. Quando nelle prime righe de “Il risveglio della terra”, presenta il suo protagonista Izaak, lo pone già al di là delle baruffe: è un uomo che si è conquistato con la sua forza il diritto di stare al mondo, e ora si accinge a conquistarsi un suo mondo: “È robusto e rude; ha la barba rossa e incolta; cicatrici sul viso e sulle mani testimoniano il lavoro o la guerra”. Un uomo che ama la fatica, perché nemmeno gli sembra fatica: “Un portatore nato, una macchina lanciata attraverso la foresta, ecco che cos’era, ormai; camminare molto, portar molto, questo era il suo ideale; recar sul dorso gravi carichi era nulla per lui: la sua fatica gli pareva una ben pigra bisogna”. Che è poi la sensazione provata da Gorkij quando lavora assieme a Romas, opposta a quella provata in altre occasioni.

Per London forza muscolare e coraggio fisico sono un vero e proprio mito. Il suo superuomo non è tale solo eticamente, ma anche fisicamente. Ne “Il tallone di ferro” propone attraverso Ernest un proprio autoritratto, la percezione che immaginava si avesse di lui in quei circoli intellettuali nei quali interveniva a surriscaldare il dibattito: “Aveva il collo tozzo di un pugilatore. Guarda qua, dissi subito tra me, che specie di filosofo sociale, ex maniscalco, ha scoperto mio padre: certo che con questi muscoli e con questo torace ha il ‘phisique du role”. In Martin Eden rappresenta se stesso al momento della prima visita a casa di Amalia Lockarth, nella versione ancora selvatica: “Le ampie sale erano troppo anguste per il suo modo di camminare, ed aveva l’impressione che le sue larghe spalle dovessero cozzare contro gli stipiti delle porte o mandare in frantumi i ninnoli delle mensole”. I suoi libri sono zeppi di eroi, possibilmente biondi e possenti, che si fanno strada a pugni nell’arena della sopravvivenza. Lupo Larsen, il protagonista de Il lupo dei mari, e Helam Harnish, quello di Radiosa Aurora, sono dei veri colossi. Il primo “era di quel tipo asciutto, nodoso, tutto nervi, che usiamo attribuire a certi individui molto magri, ma che in lui, per effetto della sua pesante struttura ossea, ricordava assai più quella del gorilla […] Era una di quelle forze che non si possono associare che a cose primordiali, a bestie selvagge, ai nostri prototipi che vivevano sugli alberi”. Il secondo stronca a braccio di ferro e allunga nella neve gli uomini più formidabili del grande Nord. “Egli era fatto così. I suoi muscoli erano potenti esplosivi. Le leve del suo corpo scattavano al momento adatto come le morse di una trappola d’acciaio. Ed oltre a tutto ciò, la sua era quella forza sconfinata che è il retaggio di uno su un milione di uomini… una forza che dipendeva non dal volume ma dalla proporzione, un grande pregio organico che dipendeva dalla qualità dei muscoli stessi”. London è evidentemente condizionato da questo aspetto molto più degli altri due, come testimonia anche il suo interesse per il mondo della boxe (che condivide con Borrow e con Clare), la rappresentazione simbolica per lui più efficace della lotta per la sopravvivenza.

Questi supereroi sono prima di tutto degli individui, che anche quando si votano alla causa delle masse rimangono qualcosa di distinto dalla massa. Di Ernest dice: “Era un aristocratico per natura, che si trovava a combattere in campo avverso. Era il superuomo, la bestia bionda di Nietzche, con un’anima di democratico”. Anche ne “Il popolo dell’abisso” sottolinea questo ruolo: “Gli uomini forti, pieni di coraggio, iniziativa, ambizione si sono spostati nelle parti più spaziose e libere del globo per costruire nuove terre e nazioni. Gli altri, i poveri di coraggio e capacità, come i malati e i disperati, sono rimasti a perpetuare la specie”. E anche quanto in questo ruolo conti la prestanza fisica. Da un giovane militante socialista, che definisce “un eroe”, perché ha affrontato più volte durante i comizi degli avversari inferociti, si sente dire: “Invidio quelli forti come te. Un mingherlino come me, non è in condizioni favorevoli per battersi”. E deplora il fatto che anche coloro che la natura ha privilegiato fisicamente siano destinati a sciupare questo dono: “ Ho visto nelle palestre di ginnastica uomini ben nati, e di buona educazione, spogliarsi nudi. Ne ho incontrati pochi che potessero mostrare un corpo così perfetto come questo straccione, quando la sera si spogliò di fronte a me per sdraiarsi sul pagliericcio. Eppure questo giovanotto era condannato, tra quattro o cinque anni, a una rapida e completa decadenza” scrive ne “Il popolo dell’abisso”.

Se si nutrisse qualche dubbio circa l’enorme influenza esercitata da London sulla cultura americana, sarebbe sufficiente riandare alla sfilza di eredi di Radiosa Aurora che la letteratura, i fumetti e soprattutto il cinema statunitense hanno proposto nell’ultimo secolo, da Capitan Audax ai personaggi di Stallone e di Swarzenegger, o a coloro che come Hemingway oltre a raccontarli hanno anche tentato di interpretarli. E non solo agli ipermuscolati, a quei personaggi che come Lupo Larsen sembrano uscire direttamente dalla preistoria, ma a coloro che come Humprey van Weiden, l’antagonista de Il lupo dei mari, cresciuti nella bambagia e nella mollizie moderne, messi a confronto con un mondo feroce e primordiale riescono ad adattarsi, ne accettano le regole, si irrobustiscono e alla fine trionfano. Tanto il soggetto di Rambo quanto quello di Cane di Paglia avrebbero potuto benissimo essere scritti da Jack London. Tuttavia, questa eccessiva insistenza sulla fisicità, questa correlazione quasi obbligata tra coraggio e forza, ai fini del discorso che intendevo fare, assume come vedremo un valore opposto.

La prestanza fisica e l’ardimento hanno dunque un enorme ruolo nelle esistenze e nelle esperienze dei nostri tre autori, sia pure con sfumature diverse. Intanto, sono sopravvissuti alle loro difficili infanzie proprio perché erano fisicamente forti: sono un frutto della selezione naturale, avrebbe detto London. Ne sono consapevoli, e tutti e tre ne sono fieri nella misura giusta, da un lato ringraziando la natura per averli fatti così, dall’altro non mancando di rimarcare che la natura è stata aiutata dalla loro forza di volontà.

La prima caratteristica comune che ne consegue è che non si sentono in credito: nei confronti della natura non hanno nulla da recriminare, il che implica che nei confronti degli altri possano mantenere un atteggiamento più aperto e rilassato. Non potrebbe esserci disposizione migliore: grati ed orgogliosi ad un tempo, e impegnati semmai ad evitare con ogni mezzo che altri debbano ripetere le loro esperienze. Questo atteggiamento li distingue, perché non è affatto così diffuso, e non solo tra chi ha vissuto infanzie da incubo.

Sarà infatti una mia impressione, ma in molte delle persone più combattive che ho conosciute, e intendo combattive in senso buono, schierate a difendere buone cause, ho sentito forte l’odore acido della rivincita e della riscossa personale. Mi sono parse impegnate a sanare attraverso il riscatto collettivo una ingiustizia che sentivano prima di tutto come rivolta a loro personalmente. E questo, che è uno spunto naturale, quando non si stempera sufficientemente in una coscienza più generale induce ad un integralismo cieco nella rivendicazione, all’incapacità di comprendere e in qualche caso anche di accettare le ragioni altrui. Salvo poi, una volta raggiunto lo scopo o constatata l’impossibilità di raggiungerlo, scaricare su quelli che avrebbero dovuto essere riscattati la propria delusione, la responsabilità della sconfitta, o la colpa di non corrispondere adeguatamente al risultato raggiunto. A dirla proprio tutta, ho l’impressione che gran parte della storia, o almeno di quella manifesta, sia stata mossa in primo luogo dal livore, e che questo abbia in qualche misura a che vedere con una frustrazione fisica.

Cerco di spiegarmi: non sto sostenendo che i mingherlini o gli svantaggiati vivano in uno stato di frustrazione costante, e che questo determini un atteggiamento negativo nei confronti del loro prossimo. Sto dicendo che molti vivono male la loro fisicità, fossero anche Maciste, perché in realtà non hanno in essa confidenza. E che questa confidenza non nasce solo dall’interno, da una particolare attitudine caratteriale, ma è alimentata da una sorta di automatico rispetto che gli altri mostrano per quella fisicità. Non è questione di chili, di centimetri e di masse muscolari: ho parlato di rispetto, non di paura. I muscoli possono indurre timore, ma il rispetto, che è una forma intelligente di ammirazione, nasce da altro. Nasce dalla percezione di una sicurezza. E la sicurezza ha a che vedere con una disposizione “fiduciosa” nei confronti degli altri, che a sua volta ha origine dalla convinzione che gli altri, anche volendo, non potrebbero nuocere più di tanto. Dall’idea cioè che se gli altri sono d’accordo, bene, se non lo sono, va bene lo stesso, si va comunque avanti.

Mi rendo conto che è una percezione difficile da trasmettere, per cui, come sempre, ricorro all’autobiografismo. Una volta vidi mio padre bloccare, sibilando una mezza parola, due vicini che stavano litigando armati di zappe. Uno di questi era un energumeno prepotente e manesco, ma lo vidi gelarsi in un attimo. Quando lo raccontai a mio zio, un altro bello tosto di suo, mi disse: “Per forza. Non sapevano cosa avrebbe fatto, ma sapevano che senz’altro lo avrebbe fatto”. A questo mi riferivo.

Mio padre aveva perso una gamba nell’adolescenza, gli mancava proprio, dall’anca in giù: ma quello che per altri sarebbe stato un handicap in lui sembrava aver centuplicato le energie. Affrontava la vita come se avesse sempre quattro punti di vantaggio. A dispetto della gamba aveva una fisicità esuberante, ma non era solo questo a renderlo speciale. Da ragazzino pensavo a volte che fosse persino un po’ incosciente, poi ho capito. Non aveva tempo a commiserarsi: all’epoca l’aveva scampata per un pelo e ora aveva davanti tutta un’esistenza “in più”, che dipendeva da lui riempire di significato. Era un uomo libero, libero dalla paura, e sapeva trasmettere bene il messaggio. La sua determinazione suonava come deterrente per chi aveva di fronte e come una trasfusione di sicurezza per chi gli stava a fianco. Come diceva Gorkij del caposquadra Ossip: “So questo: accanto a lui andrei dovunque: attraverserei ancora il fiume col ghiaccio che mi scivola sotto i piedi”.

Come Gorkij, come London, come Hamsun, mio padre era un sopravvissuto. In un senso diametralmente opposto a quello che normalmente si dà al termine. Viveva al di sopra e a dispetto di quel che la vita su un piano prettamente naturale avrebbe potuto offrirgli. Non aveva nulla da perdere, quella vita era un regalo, e quindi poteva disporne, giocarsela senza troppi rimpianti. Soprattutto, lo faceva senza alcuna esibizione, facendo apparire normale e scontato un comportamento che, nelle sue condizioni, non era affatto tale. E non voleva imporla a nessuno: non doveva sforzarsi di dimostrare alcunché, era già la dimostrazione vivente che vale comunque la pena di stare al mondo in pace e in armonia con il mondo stesso, con quello degli uomini, che lo adoravano, e con quello della natura, in mezzo alla quale sguazzava come un pesce. Fidandosi di sé, gli era automatico fidarsi degli altri, e questo faceva si che gli altri si sentissero impegnati a non deluderlo. E si fidava anche del buon senso della natura: quando io guardavo preoccupato il cielo nero durante la vendemmia, e gli altri contadini raggruppati sotto il porticato lamentavano i tempi grami che ci attendevano, lui stava già studiando come girare a nostro favore la situazione.

Gorkij non lo avrebbe mai preso sotto la sua protezione, perché non ne aveva bisogno. Si sarebbe sentito piuttosto onorato della sua amicizia. London lo avrebbe raccontato in termini epici. Hamsun avrebbe riconosciuto in lui l’autentico Izac.

Credo che persino lo zingaro avrebbe avuto un ripensamento.