Il libro degli abbracci

Comincia così …

(da: Cinque buoni motivi per essere scorretto)

di Paolo Repetto, 12 gennaio 2020

Scendendo a passo d’uomo verso Genova, tra gallerie che cadono a pezzi e viadotti semoventi, ascolto per radio un’intervista a Marco Bonini. Non lo conoscevo, scopro che è attore, ballerino, sceneggiatore cinematografico e anche scrittore. Credenziali sufficienti a indurmi subito a cambiare stazione, tanto più che l’intervista, condotta da una tizia in evidente trance estatica, si annuncia come uno spot promozionale dell’ultimo romanzo scritto dal nostro, Se ami qualcuno dillo (così, senza la virgola). Il dito è dunque già sul tasto, quando viene fermato da una citazione buttata lì a mo’ di apertura dalla conduttrice. “Mio padre è la chiave di volta di tutta la mia vita. Mio padre è il modo in cui guardo mia madre, il modo in cui gioco con mio figlio, il tono con cui mi rivolgo alla madre dei miei figli. Mio padre è il sorriso che rivolgo a una donna. La leggerezza con cui scherzo con i miei amici. Mio padre è il sottotesto di tutti i personaggi che interpreto come attore, è il giudice incontrastato della mia intera infanzia” (non l’ho memorizzata a caldo, l’ho ritrovata poi la sera su Google; e intanto ho anche capito perché l’intervistatrice fosse così estasiata). Rimango sintonizzato. La prima frase mi piace, il resto mi fa capire che quando parliamo di padri io e Bonini stiamo parlando di cose diverse. Ma tant’è, continuo a seguire la trasmissione, e ho conferma che non leggendo il libro non mi perderò nulla.

Bonini racconta di un padre (confessa di aver preso a modello il proprio) che è un maschilista della più bell’acqua, e che arrivato ad una certa età, dopo un infarto che lo spedisce in coma per parecchie settimane, si sveglia completamente diverso. Ha perso la memoria, e ha quindi cancellato quell’imprinting ambientale che ne aveva condizionato tutta la precedente esistenza e che aveva cercato di trasmettere anche al figlio. Lui, prima così serio, freddo, distaccato, quasi anaffettivo, ora si comporta come un bambino: balla, ride, scherza, trasmette, dice Bonini, la gioia genuina di vivere. Manca solo che racconti anche le barzellette. Benissimo: sono contento per entrambi, ma più l’autore approfondisce e generalizza il tema (che è il rapporto tra padri e figli, ma non solo) più scivola nella melassa appiccicosa della psicologia da salotto televisivo. Adesso, mentre scrivo, ho già naturalmente dimenticato tutto il resto, ma un paio di cose mi sono rimaste in mente, proprio perché le ho trovate particolarmente irritanti.

Cominciamo da un’altra citazione (piovevano a raffica, la copia del libro dell’intervistatrice deve essere tutta evidenziata e piene di orecchiette o di post-it). “Ogni abbraccio che oggi io do a mio figlio è un abbraccio che avrei voluto ricevere ieri da mio padre, e che mio padre forse avrebbe voluto ricevere dal suo.” Forse. Non è detto. Da che ne ho memoria mio padre non mi ha mai abbracciato. Può darsi l’abbia fatto prima, ma ne dubito. Mi sarebbe rimasta la sensazione di un’assenza. Invece non l’ho mai provata. Non avevo bisogno che mi abbracciasse per sentirlo vicino, mi sarebbe anzi parsa una situazione ridicola. Non era quello che mi aspettavo da lui. Ora questo, secondo Bonini e secondo tutto lo psicologismo del piagnucolio che imperversa tanto nei comparti alti della cultura come nelle vite in diretta e nelle anticamere dei dentisti, sarebbe frutto di una educazione patriarcale che voleva il maschio tetragono ai sentimenti e refrattario alle manifestazioni d’affetto. E di tale corazza dobbiamo liberarci, dando libero sfogo al nostro versante emotivo sinora represso, agli abbracci, alle lacrime, ai sentimenti esibiti senza falsi pudori. Tutto ciò ci renderà più liberi e spontanei, più realizzati ed umani, più felici e aperti alle relazioni.

Infatti, si vede. Non c’è mai stata tanta gente impegnata a baciare ed abbracciare ed esternare e piangere come oggi, e mai sono circolati tanta rabbia e livore e risentimento e ipocrisia. In piazza trovi adolescenti strafatti di canne, probabilmente figli di padri già liberati da un pezzo e molto affettuosi, che si salutano ad ogni incontro con un abbraccio, maschi con maschi, maschi con femmine, femmine e femmine, e poi si piazzano su una panchina ciascuno incollato al suo smartphone e non scambiano una parola per ore. Per i mussulmani e gli slavi i baci e gli abbracci di saluto sono addirittura rituali, ma non mi risulta che giovani e adulti siano poi, anche tra di loro, particolarmente pacifici e affidabili.

Un tempo, quando mi ritrovavo con gli amici ci scambiavamo un ehi!, una pacca sulla spalla se li prendevo di sorpresa, e poi si trascorrevano intere mattinate o pomeriggi o sere a discutere, a scherzare, a litigare più o meno seriamente. A volte trascinavamo la notte fino alle ore piccole, senza birre in mano, bruciando qualche sigaretta, continuando ininterrottamente a dialogare. Niente manifestazioni di affetto rituali, nessun contatto fisico: ma saremmo stati pronti a giocarci la pelle l’uno per l’altro.

Magari parrà che io stia parlando di un’altra cosa rispetto a ciò di cui narra Bonini, ma vi assicuro che una relazione c’è.

Quando pranzavo o cenavo con mio padre, la sera attorno al tavolo o in campagna nelle pause del lavoro, pendevo dalle sue labbra, ridevo delle sue battute, apprezzavo e invidiavo la costante ironia con la quale sapeva prendere la vita, mi preoccupavo se lo vedevo a volte (rarissime) troppo stanco per poter essere brillante. Davvero guardavo il mondo e gli altri anche con i suoi occhi, ma questo non mi ha mai impedito di mantenere e di manifestare una mia indipendenza di giudizio, e di capire che sotto sotto era apprezzata. Non volevo il suo abbraccio, non avrei saputo che farmene. Volevo la sua stima, e sapevo che per meritarla era sufficiente fare bene le cose che stavo facendo.

Anche gli abbracci di mia madre erano rarissimi (confesso che non ne ricordo uno, ma sono certo che ci siano stati), e neppure di quelli comunque ho mai sentito la mancanza. Non era necessario che mi dimostrasse con le coccole quanto mi amava: ogni altro suo gesto lo dichiarava, e io lo capivo benissimo. Se questa era freddezza “culturalmente assimilata”, se sono stato per tutta la vita inconsciamente un represso, giuro di non essermene accorto. E sarò magari un po’ lento a capire, ma garantisco che mi sta bene così. Mi auguro di non finire in coma, ma soprattutto, nel caso, di non risvegliarmi diverso.

Da dove nasce tutto questo improvviso bisogno di riscoprire e rivalutare la fisicità affettiva (ma “riscoprire” cosa? Non c’è mai stata, come caratteristica della specie: per trovarla occorre risalire sin oltre la speciazione, ai nostri cugini bonobo)? Ho l’impressione che voglia solo nascondere la perdita delle “parole per dirlo”, tanto per riagganciarci al titolo di Bonini. Che sia cioè l’ennesimo inquietante sintomo di un malessere molto più profondo, nel quale una idea maldigerita di libertà si mescola alla sfiducia nelle potenzialità positive della parola e della cultura che esprime, e ci spinge a regredire verso le manifestazioni più animalesche del nostro carattere. È accaduto che quando “la gente” ha finalmente avuto accesso al pulpito si è accorta di non aver nulla da dire, e che non lo avrebbe comunque saputo dire. Ha scoperto che “parlare” è diverso dal bofonchiare o dal ripetere slogan e frasi fatte, che il dominio della parola comporta fatica e lavoro, e che se non padroneggi il linguaggio non produci nemmeno pensiero. Di affrontare l’ultima salita, lo sforzo gratificante ma al tempo stesso responsabilizzante per dotarsi di questa strumentazione e passare dall’essere “gente” a essere “persone”, nemmeno a pensarci: tanto più in presenza di uno stuolo di intellettuali pentiti (o forse solo annoiati) che ne predicavano l’inutilità e l’ipocrisia. E allora la “gente” ha deciso (ma non è questo il verbo giusto, perché decidere significa pensare autonomamente: diciamo che è stata indotta a credere, e non ha opposto alcuna resistenza) che il pensiero e il linguaggio sono solo subdoli strumenti di dominio nelle mani delle lobby, e che queste vanno combattute rivendicando una genuina ignoranza e il ritorno ad una comunicazione non mediata dei sentimenti, di tutti, dall’amore e dall’affetto fino al rancore e all’odio.

Ho detto sopra di aver seguito tutto il resto della trasmissione. Non è vero. Ho cambiato stazione dopo aver sentito dire dall’attore-scrittore che anche di fronte ad una mancanza, ad un errore commesso dal figlio, tutto si può risolvere con un abbraccio. “Non rimproverate, non punite i vostri figli. Abbracciateli, e capiranno.” Mi si sono rizzati i capelli pensando a quel povero ragazzo. Spero sia uno che di stupidaggini ne fa poche, altrimenti sai che rottura di palle, con un padre che ti abbraccia continuamente: e sai che disastro, quando i problemi li avrà con altri, insegnanti e amici prima, fidanzate e mogli e colleghi dopo, che magari non saranno altrettanto disponibili a risolvere tutto con un abbraccio. L’abbraccio non è una mediazione, è un’amnistia. E le amnistie troppo ripetute non possono portare che alla perdita di credibilità e di efficacia delle regole, quindi al caos, come sa bene chi vive in questo paese.

Infatti. I sentimenti “liberati” dalle pastoie della lingua e della cultura sono immediatamente sfuggiti al controllo. Ma non sono andati molto lontano. Non avevano più gambe né fiato. Ci aveva già pensato il circuito produzione-consumo-consenso a sfiancarli, e quando li ha riportati nel recinto ce li ha restituiti in forma di omogeneizzato. I sentimenti che rivendicano oggi i loro diritti sono solo pappine prive di sostanza e infarcite di coloranti, sono solo risentimenti, alimenti ideali per l’egoismo e il menefreghismo più sfrenati, per il disprezzo di ogni diritto altrui, per lo spaccio della beceraggine come genuinità. Nutrita di questi surrogati “la gente” è diventata incapace di accettare le sconfitte, di mettere in conto le delusioni (di qui femminicidi e reazioni comunque esasperate a qualsiasi contrarietà), di digerire l’idea che ogni conquista trova giustificazione e senso nello sforzo. Tutto intanto si risolverà con un pianto (possibilmente in tivù), con un tweet o con un abbraccio. Da non crederci: con infinite altre possibili e passabilmente dignitose catastrofi, il mondo perirà soffocato dagli abbracci.

Non è nemmeno questo però il vero nocciolo della questione. Bonini il nocciolo lo aveva toccato già prima, quando ha continuato ad insistere sul fatto che l’anaffettività del padre fosse frutto di una educazione maschilista, che induceva ad una rappresentazione di sé monolitica e improntata al controllo. Non che mi abbia sconvolto con questa rivelazione: stava semplicemente ripetendo la vulgata corrente, ma lo faceva mentre viaggiavo a cinque chilometri l’ora, e chiedevo alla radio almeno un po’ di conforto. Ora, io il libro non l’ho letto (e nemmeno ho intenzione di farlo in futuro), quindi è possibile che l’immagine del padre che ne viene fuori, quella evidentemente che Bonini stesso aveva recepito, giustifichi questa spiegazione. Credo ci sia in effetti un sacco di gente che tiene atteggiamenti del genere. Ma mi infastidisce la generalizzazione che l’autore ne ha fatto durante l’intervista, come a dire che la responsabilità è tutta di un certo modello sociale, e naturalmente del tipo di cultura che a quel modello ha dato l’impronta.

Con buona pace di Bonini, non è così. La società è fatta di individui, e gli individui rispondono anche al loro singolo patrimonio genetico (che brutta parola, e rivelatrice! deriva guarda caso da pater). In altri termini, hanno chi più chi meno un carattere, e ciò che dovrebbe distinguerli dagli altri animali è che, volendo, sono anche in grado di disciplinarlo per farlo convivere in maniera non conflittuale con quelli dei loro simili. Ne sono, o almeno dovrebbero esserne, responsabili. Probabilmente Bonini è stato sfortunato, ha beccato uno che il carattere lo aveva inamidato forse sin troppo: ma non sono così sicuro che ora, col padre risvegliatosi ilare e affettuoso, le cose andranno molto meglio. Poteva andargli peggio, anziché un padre freddo poteva capitargliene uno violento o irascibile: ma poteva anche, al contrario, trovarsi accanto una persona capace di applicare in positivo le regole e di farne comprendere attraverso l’esempio il valore. Accade anche questo. A dimostrazione del fatto che l’educazione direttamente o indirettamente ricevuta, l’imprinting ambientale, ha senz’altro un grosso peso, ma poi a decidere che persona vuol essere, in che misura e in che direzione vuole esercitare il controllo, è sempre l’individuo. Come diceva il mio amico Remo, e lo diceva in senso positivo, non per vanto ma a sprone degli eterni recriminanti: “Sono nato ch’ero una sega, e ora ho il cinquantotto di spalle. E mi rispetto”.

PS: Ho fatto a tempo comunque a riascoltare il ritornello che è ormai d’obbligo, quasi una costante musica di fondo, sulla necessità di far riemergere la componente femminile che c’è in tutti noi, quella appunto emozionale, affettiva. Ora, io non dubito che in tutti noi maschietti ci sia una componente femminile, così come ce n’è una maschile nelle femmine. Mi sembra persino stupido sottolinearlo, come fosse una folgorante e recentissima scoperta. Che siamo fatti dello stesso impasto lo diceva già la Bibbia tremila anni fa, anche se poi assegnava ai maschi il ruolo di lievito madre. Dubito invece, proprio per questo motivo, che la “componente femminile” possa essere ricondotta tout court alla libera esternazione degli affetti e delle emozioni. Mi pare una lettura fuorviante, schematica e soprattutto molto riduttiva.

Mettiamola in questo modo. Le differenze di genere esistono, e non riguardano solo l’anatomia e i ruoli nel processo riproduttivo. Riguardano anche il funzionamento cerebrale, proprio in ragione di quelle anatomie e di quei ruoli. Se noi maschi ci portiamo dietro un retaggio di “autorappresentazione virile”, che poi si esprime poi in maniere differenti nelle diverse società e nelle diverse epoche, non è per una qualche deriva antinaturalistica innescata dalla cultura: è anzi funzionale alla naturale competizione per perpetuare i propri geni che sta alla base della vita animale (e anche di quella vegetale). Accade in tutte le specie, segnatamente in quelle a noi più prossime ma anche negli uccelli o nei pesci. La differenza consiste semmai nel fatto che nella nostra specie la cultura è intervenuta a smussare, a mitigare, qualcuno dice anche a stravolgere, le ferree leggi della selezione, quelle che premiavano solo i maschi dominanti. E mi pare che tutto sommato sia andata bene così. Noi abbiamo preso un’altra strada, la selezione umana è molto più soft (forse anche troppo, tanto che tra poco saremo dieci miliardi: ma per il momento, anche se un po’ stretti, perché qualcuno occupa e divora troppo spazio, ci stiamo tutti). Non sono più gli artigli e i denti a fare premio, ma il cervello: o almeno così dovrebbe essere. E il cervello umano femminile si è specializzato, nel corso di milioni anni, a riconoscere il funzionamento (o meno) di quello maschile, e a scegliere di chi fidarsi per un progetto riproduttivo. Certo, messa così può sembrare una faccenda molto arida e meccanica, ma lo si voglia o meno è quella per la quale possiamo stare qui a parlarne. Poi c’è dell’altro, non possiamo (forse sarebbe meglio dire: non vogliamo) ridurre il senso della nostra esistenza solo a questo, ma nemmeno possiamo prescinderne e fingere di ignorare che il motore è quello.

Pertanto: van bene gli affetti e van bene i sentimenti e le emozioni, ma non raccontiamoci che l’esternarli, soprattutto nei modi suggeriti da Bonini ma anche da tutti gli psicologismi e gli esotismi e i postmodernismi imperanti, sia un atteggiamento meno teatrale dell’autorap-presentazione virile. E soprattutto non dimentichiamo che la rimozione totale delle inibizioni è autodistruttiva per qualsiasi specie, di quelle naturali per tutte le altre, ma per la nostra anche di quelle culturali, perché la cultura è entrata a far parte della nostra natura. Per quanto poi concerne il recupero di una edenica naturalezza, soffocata negli ultimi millenni dai corsetti e dalle cravatte della civiltà (soprattutto di quella occidentale, naturalmente), teniamo a mente che tra i nostri parenti più prossimi non ci sono solo i bonobo, che si spulciano vicendevolmente e fanno sesso tutto il giorno, ma anche gli scimpanzé, che si scannano tra loro con un’aggressività e una ferocia che non ha pari in tutto il mondo animale. Con questi ultimi abbiamo in comune più del novantotto per cento del DNA. Val la pena rifletterci.

E allora, per il momento, mi raccomando: se mi incontrate, anche dopo molto tempo, non abbracciatemi. Se proprio mi parrà il caso, lo farò io.

⇒ … e finisce così.