La via per il cavagno colmo

diario di una giornata tra funghi e piccole filosofie boschive

di Fabrizio Rinaldi, 14 settembre 2025

Quando lo propongo a mia figlia, lei accetta ad una condizione: “solo se viene anche il nonno”. Una formula che dice tutto: la fiducia riposta in me vacilla, mentre la figura del vecchio resta intatta, nonostante gli ottant’anni passati e un’autorevolezza che neppure gli acciacchi scalfiscono.

Dunque, non ho più scampo: “Andiamo a funghi?”. Ecco di che si tratta: cercare il più prezioso frutto del bosco. Mio padre non ci va da tempo perché consapevole delle sue diminuite capacità fisiche; d’altra parte, non trovo mai il tempo neppure io: il lavoro, la famiglia, le scuse pronte che giustificano l’inerzia. È però scontato che accetterà la proposta: un po’ perché non riuscirebbe a negarsi al “ti prego, ti prego” di mia figlia, un po’ perché – lo leggo dai suoi occhi – ha una voglia matta di andarci, specie da quando ha intuito che quest’anno ce ne dovrebbero essere.

Perché il fungo, lo sappiamo, non si concede facilmente: pioggia al momento giusto, umidità calibrata, terreno adatto (“terra rossa chiama cocone[1]”), distinte specie boschive (castagni, rovere, faggi, …), arbusti di brugo, erba stciapoia[2] e rovi. Un’alchimia rara in un tempo sospeso e incerto, rapido e aleatorio, dove l’attesa, la delusione e la sorpresa, fanno parte dell’esperienza. Cercare funghi è quindi un inno all’imprevedibilità e alla contingenza di un’infinità di condizioni di cui, spesso, non siamo consapevoli, ma che percepiamo quasi istintivamente. A chi li cerca capita di pensare che intorno ad un determinato cespuglio o albero ci saranno sicuramente, mentre nove volte su dieci non c’è nulla; oppure, inaspettatamente, eccoli dove non avresti immaginato.

Appuntamento fissato: sabato, ore sei zero zero, sotto casa dei miei. Missione impossibile: riempire il cavagno d’anveriöi[3].

Metto la sveglia alle 5:20 solo per mia figlia; io non ne avrei bisogno, visto che mi sveglio sempre molto presto (tanto “molto”: 3:30-4:00). A quell’ora neppure i cani si muovono dal loro giaciglio. Il caffè diventa allora il gradito rituale che mi concedo davanti al portatile, nel tentativo — prima del quotidiano andare al lavoro o del frastuono femminile familiare — di ritagliarmi un po’ di tempo per leggere, scrivere o sistemare il sito. A proposito: sto creando le singole pagine dei molti autori che stanno contribuendo al nostro inutile ma caparbio contributo di idee.

Mettiamo nello zaino la borraccia, due felpe e i guanti. Non prendiamo neppure il cavagno, certi che ci penserà mio padre: e comunque non ci facciamo grandi illusioni sul bottino che ci aspetta. Alle sei recuperiamo il nonno. Iris mugugna per la levataccia, ma so che sotto sotto è contenta. E non è la sola.

Destinazione: boh! Il fungo è il Santo Graal del bosco: la geografia dei “posti buoni” si tramanda di generazione in generazione ed esige un’adeguata iniziazione, che prevede ruzzolate fra i rovi e imprecazioni quando non si trova il posto che ci si era prefissati. Oppure si va a casaccio, come è capitato molte volte a mio padre e a me. Posso solo dire che siamo dalle parti del Monte Colma, a Tagliolo Monferrato, ma su quale versante, lungo quale canalone ve li scordate. Altrimenti poi dovrei uccidervi.

Dopo una po’ di chilometri in auto, su strada prima asfaltata e poi sterrata, arriviamo ad uno slargo da cui anni fa eravamo partiti per una ricerca che aveva riservato misere soddisfazioni, pur essendo buone le premesse: boschi di castagno e rovere e sufficiente umidità.

Attraversiamo un prato e ci infiliamo nel bosco. Sono le 6:40, buio pesto. “A chi è venuto in mente di uscire così presto?”, mi chiedo, pur conoscendo la mia responsabilità. Iris si ostina a tenere la torcia del cellulare accesa, mentre noi procediamo a lume di fiducia.

Continuiamo fra i rami e tronchi fino a raggiungere e attraversare un ruscello e, sempre nel semibuio, cominciamo a salire. Già, perché la ricerca del fungo è sempre in salita: nell’attraversare il bosco in quel modo lo sguardo va sempre dal basso verso l’alto, così da intravvedere meglio l’eventuale e ambito gambo. Difficilmente si trovano percorrendo la discesa, accade solo se ce ne sono davvero parecchi. D’altra parte, la salita non si affronta mai in verticale seguendo un sentiero o facendo la diretta (vedi Tobbio), ma in diagonale: si prosegue con piccoli zig zag a salire, passando attorno all’albero, all’arbusto, alle foglie smosse.

“Eccone uno!”, esplode Iris. Ma no, dai è impossibile: è buio, li cerca a casaccio e con la torcia! Invece sì, ha scovato il primo porcino della giornata. La fortuna della principiante … È un po’ mangiucchiato dalle lumache, ma tant’è l’ha trovato.

La logica impone di sminuire i ritrovamenti altrui, così da non intaccare la smania di chi resta a mani vuote. Ma subito dopo, ecco che anche mio padre ne trova due. Io niente. Porca miseria.

Errore madornale da evitare sempre: non parlare ad alta voce se non vuoi che altri fungau arrivino come mosche, ma a quest’ora siamo i soli a cercarli. Più tardi ronzeranno fastidiosi.

L’incontro fra escursionisti nei boschi è normalmente, piacevole e accompagnato da un cordiale saluto, riconosci nell’altro la stessa passione nel camminare e – fra l’altro – l’inconfessato desiderio di esser ricordato qualora ti smarrissi; la persona incontrata potrebbe dare ai soccorritori le indicazioni giuste per il ritrovamento, possibilmente in vita.

In stagione di funghi, invece, il diffidente fungaiolo vede l’altro come invasore del proprio “posto buono”. Il saluto si riduce a un mugugno, seguito dalla menzognera svalutazione del proprio bottino: “poca roba e camulöi[4]; siamo saliti da questo versante e ci spostiamo di là”. Ovviamente non c’è da credere alle indicazioni ricevute. In tali circostanze emerge la gelosa preservazione dei “posti buoni”, anche se la raccolta è stata infruttuosa. Non sia mai che altri scovino l’agognato bottino.

La logica dell’esclusiva appropriazione ricorda i redivivi nazionalismi, la difesa ossessiva delle risorse e della propria (o presunta tale) identità cultura e sociale. Le comunità serrano i confini e pochi individui accumulano privilegi a discapito della moltitudine. Il patrimonio pubblico sottratto al benessere comune, come la giusta posizione della fungaia celata alle attenzioni degli altri, dei foresti. Il micelio, lui che condivide tutto, se fosse in grado di giudicare, riderebbe della nostra meschina avidità.

Tornando allo stare nel bosco di notte, a nessuno è venuto in mente che eravamo i soli nel bosco fitto e praticamente buio. Un aspetto che, in situazioni differenti, avrebbe sicuramente spaventato mia figlia. Sarà la sicurezza nei gesti del nonno, sarà il procedere con tranquillità nella boscaglia, sarà l’obiettivo ben chiaro, ma nessuno è stato sfiorato dal timore di inoltrarci in un territorio sconosciuto e senza la possibilità di chiedere aiuto in caso di difficoltà, tantomeno Iris. È il potere che conferisce l’avere la finalità da perseguire ben chiara e la motivazione alta. E, non ultimo, il piacere di cominciare a trovarli. Pure io!

La luce lentamente rischiara e finalmente Iris ripone il cellulare che usava come torcia per immergersi nella ricerca del porcino, il quale si mimetizza fra le foglie meglio dei Navy SEAL.

Iris finalmente la smette di commentare ogni cespuglio e tace: pure lei è in modalità fungaiola. E ne trova, anzi ne troviamo tutti. Dopo i primi, s’innesca la caccia insaziabile che fa macinare chilometri senza sentire la stanchezza. La voglia è compulsiva; scatta la febbre dell’accumulo, pure di quelli divorati da lumache o altri animali. L’appagamento non si placa neppure quando il cavagno è pieno. Mi tocca tirar fuori la borsa di fortuna che avevo portato per scaramanzia.

Tutti e tre proseguiamo salendo in quello stato di quasi trance che s’innesca quando si comincia a scovarne un po’: si prosegue guardinghi; si passa da una parte e dall’altra dell’albero; si alzano piano le foglie; si segue l’odore come un segugio; si interpreta l’ombra e la lama di luce che supera la barriera della chioma per raggiungere proprio quel rigonfiamento che cela, forse, l’agognato porcino; in sintesi, si segue l’istinto (per chi ce l’ha).

Interpretare il bosco, comprenderne gli infiniti gradienti e segnali, ha bisogno di osservazione acuta e di propensione al dettaglio minimale. Le certezze qui evaporano mettendo in evidenza la nostra infinita insignificanza rispetto al processo evolutivo, morfologico e sotterraneo in atto mentre lo attraversiamo. A pensarci bene piegare la schiena e l’orgoglio (inchinarsi) per cercare funghi è un gesto necessario ma anche altamente simbolico, è il riconoscere la nostra insignificanza al cospetto di un processo che ci supera in tutto. Possiamo cogliere solamente alcuni aspetti di questa infinita complessità, che regalano, a volte, l’agognato fungo. E, per questo, dobbiamo ritenerci fortunati, perché avremmo potuto tornare a casa man scrullanda, senza sapere neppure il perché. Il bosco, per definizione, è l’antitesi della razionalità umana: è un intreccio fitto di vita e di decomposizione, di crescita e di morte. Chi vi cammina attraverso ha una mappa del territorio solo abbozzata, con qualche intuizione ed indizio frutto dell’esperienza e degli studi, ma sicuramente incompleta.

Tra l’altro, si sa, il vero fungo è nel sottosuolo ed è in simbiosi con specifiche piante in una correlazione complessa di interscambio di informazioni e nutrimenti. Ciò che vediamo e apprezziamo è solo il corpo fruttifero, la punta di un sistema sotterraneo sterminato, il micelio, appunto, che è, per lo più, invisibile e inafferrabile, come le ragioni profonde che reggono la nostra esistenza. Noi, eterni abitanti della superficie, viviamo di queste apparizioni temporanee, senza padroneggiarne mai davvero il senso.

Altra piccola disgressione. La ricerca delle fungaie acquisisce significato – prima ancora dell’assaporarne il frutto – se accompagnata dalla sua narrazione, subita da parenti e amici in casa, al bar o sui social, dove i dettagli sono sviscerati (tranne ovviamente i luoghi dei ritrovamenti) e spesso le quantità si moltiplicano. La condivisione del porcino ancora nel bosco è stata una caduta anche per me: non sono riuscito a resistere dal mandare qualche foto al gruppo whatsapp “Family” …

Sono ormai le dieci passate e siamo nel pieno della ricerca, ma cominciano ad arrivare gli usurpatori del nostro territorio. Maledetti! Per segnalarci i ritrovamenti ci scambiamo fischi, versi gutturali e il “Mapo” di mia figlia — unico, o almeno così mi illudo — che dovrebbe risultare indecifrabile agli invasori. Ogni porcino stanato genera speranza in altri ritrovamenti; la si potrebbe chiamare avidità, se solo volessimo riconoscerla, ma al momento siamo immersi nella nostra spasmodica caccia.

Quella che era divenuta per noi una pratica quasi meditativa — cullati dall’attenzione al dettaglio, scandita dal passo lento, e consapevoli della limitatezza del nostro gesto — si è trasformata in un cercare compulsivo. Anche la borsa di riserva, dentro la quale avevo messo una scatola di cartone per non schiacciare i delicati esemplari (i veri fungaioli mi lincerebbero se lo sapessero), è ormai piena. A malincuore dobbiamo tornare indietro: non sappiamo più dove infilare i funghi e rischiamo di rovinarli se scivolassimo.

Scendere si rivela un’impresa non facile: il terreno è esposto e friabile. Tocca spostarsi a sinistra e risalire un tratto per cercare un canalone meno scosceso o una strada. Iris comincia a brontolare, lamentando la sua stanchezza e sostenendo che ci siamo persi. Finito l’entusiasmo del cercare e trovare funghi, le gambe protestano. E non è la sola. Mio padre è dolorante per una piccola storta ed io sono sfinito.

Non posso ammettere a mia figlia che una guida naturalistica e uno che va a funghi da quando era bambino non sanno ritrovare la strada del ritorno. Per fortuna non è così: sappiamo esattamente dove siamo (???). Infatti raggiungiamo la traccia di una strada usata per portare via la legna e la percorriamo per un po’. Iris ed io arranchiamo con i cavagni colmi; mio padre ci precede sorreggendosi al bastone. Si vede che è dolorante per la caviglia, ma non demorde e avanza dritto. Nonostante la prospettiva di ore di cammino e la certezza delle sgridate delle rispettive mogli, pare (la certezza non c’è mai) felice. Vengono in mente i versi di Primo Levi presenti ne L’approdo:

Felice l’uomo che ha raggiunto il porto,
che lascia dietro di sé mari e tempeste,
i cui sogni sono morti o mai nati,
e siede a bere all’osteria di Brema,
presso al camino, ed ha buona pace.
Felice l’uomo come una fiamma spenta,
felice l’uomo come sabbia d’estuario,
che ha deposto il carico e si è tersa la fronte,
e riposa al margine del cammino.
Non teme né spera né aspetta,
ma guarda fisso il sole che tramonta.

Raggiungiamo poi due cascine perfettamente ristrutturate; non le ricordavo così, ma sicuramente sono state sistemate di recente. Alla fine della strada ci troviamo davanti a un cancello chiuso: siamo entrati in una proprietà privata — o, più probabilmente, in uno di quegli abusi che nascono quando chi vive nel bosco vuole proteggersi da malintenzionati chiudendo un’antica mulattiera che dovrebbe rimanere di passaggio per chiunque. Ma lasciamo perdere, non posso permettermi di polemizzare con la vecchia e rancorosa proprietaria che ci sta sbraitando contro. Chiediamo scusa e questa ci apre il cancello nel momento fortuito in cui passa un conoscente di mio padre, anche lui qui per funghi.

Per mezzogiorno siamo di ritorno all’auto: poi, arriviamo da mia madre, cui affidiamo il bottino. Il cercare funghi non necessariamente è correlato ad un equivalente piacere nel mangiarli. Mio padre li vorrebbe pure a colazione, mentre per me il fungo è più simbolo che piatto: il frutto proibito del bosco, che appare solo a chi ha la pazienza di cercare. Gli champignon in vaschetta del supermercato non danno emozione né nel trovarli né nel gustarli; il porcino, invece, è un’apparizione che ci ha regalato una giornata che rimarrà nella mente di tutti noi. Mia figlia, lo so, quando leggerà questo pezzo mi rimprovererà per qualche omissione o per aver dimenticato qualche dettaglio. Fa parte del gioco della memoria e della condivisione: la fungaia diventa subito racconto, e il racconto si moltiplica in narrazioni ogni volta più suggestive, omettendo, naturalmente, di nominare il “posto buono” delle fungaie.

Arrivato a casa, ho riguardato due libri che mi sono cari: la Guida pratica ai funghi in Italia a cura di Hans Haas (Selezione dal Reader’s Digest, 1983), un classico fondamentale per gli estimatori, e La via del bosco di Long Litt Woon (Iperborea, 2019). Questo ultimo non è solo un manuale di micologia, né soltanto un percorso di redenzione: è il resoconto di un attraversamento dell’autrice, alla quale è mancato l’amato compagno, verso una differente visione della propria intimità. Leggendolo m’è tornata l’idea che la ricerca — qui quella dei funghi, ma estensibile a molti aspetti della vita — non è riducibile al possesso, bensì alla capacità di tollerare la perdita. Imparare a vivere con l’assenza è già un obiettivo di tutto rispetto.

Ora però bisogna inventarsi altro per riuscire a stornare l’attenzione delle figlie dal cellulare … la prossima volta si va a pesca!


NOTE

[1] Ovolo (Amanita caesarea).

[2] Molinia caerulea.

[3] Termine dialettale ovadese per definire i funghi porcini.

[4] Le camole dei funghi sono dei minuscoli insetti detti “ditteri” ed appartengono al genere Diptera ed alla famiglia dei Mycetophilidae

 

Darwin disperso sulla Colma

di Paolo Repetto, 1975 e 2010

Più di quaranta anni fa (mi pare fosse il sessantasette o il sessantotto) i boschi che coprono la schiena del monte Colma conobbero una breve ed improvvisa celebrità. Nel decennio precedente il boom e la fuga verso la città li avevano completamente spopolati, riportandoli alla condizione medioevale di selva oscura. Poi, di colpo, quell’estate cominciarono ad affluire gruppi di ragazzi e ragazze giovanissimi, che occupavano i cascinali deserti, praticavano un convinto naturismo e sperimentavano i primi acidi, d’importazione o fatti in casa, aprendo la strada alla strinatura cerebrale di un’intera generazione. Quella torma di sbandati sarebbe poi stata raccontata nelle immancabili rievocazioni anniversarie come la più grande comune hippie italiana.

Io ricordo solo una massa di cittadini sprovveduti, che dopo qualche settimana erano inebetiti dalla fame più che dai fumi e straparlavano di ritorno alla terra e alla natura senza saper distinguere una pigna da un carciofo. In una delle cascine seminarono il quintale di patate che avevo procurato loro di sfrodo in un fazzoletto di terra sassosa lungo il fiume, che non ne avrebbe potuti ricevere dieci chili e non ne avrebbe restituiti nemmeno cinque (ma il problema non si pose, perché per fortuna le disseppellirono pochi giorni dopo per mangiarle). La comune fu dissolta in un batter d’occhio dai primi freddi di metà ottobre e dai carabinieri sguinzagliati dalle famiglie. Delle quasi settecento persone che si erano insediate nella valle del Piota rimasero solo una dozzina di irriducibili: ma questa è una storia, tra l’altro anche avventurosa, che merita di essere raccontata a parte.

L’aneddoto da cui intendo prendere le mosse si riferisce invece all’antefatto. Quell’invasione ebbe infatti le sue avanguardie, piccoli gruppi pittoreschi che erano comparsi l’estate precedente, suscitando perplessità e inquietudine in paese. Avendo già letto Kerouack, ed essendo curioso per natura di ogni esperienza “alternativa”, non potevo non farmi coinvolgere: finì quindi che mi trovai una sera di settembre a cenare, assieme ad un paio di amici, con i componenti del nucleo originario, se non erro alla cascina Binella. Cenare è un eufemismo, perché mangiammo quel poco di pane e di salame che uno dei miei soci aveva sottratto in casa, e bevemmo il vino che avevo portato io. In compenso ci offrirono il thè, dentro vecchi barattoli da conserva che a quanto pare costituivano le uniche stoviglie in dotazione, ma non per questo erano tenute e lavate con particolare cura.

Si trattava di quattro ragazzi e tre ragazze; si spacciarono per appartenenti ad una formazione musicale che faceva capo a Mario Schifano. O forse ricordo male, forse era un gruppo di artisti, perché non mi risulta che Schifano fosse anche musicista. Comunque, poco importa: io avevo giusto vent’anni, dell’arte mi fregava poco (non sapevo affatto chi fosse Schifano) ed ero intrigato invece dalle implicazioni o complicazioni sessuali della vita di comunità: finii dunque per far scivolare il discorso sulle combinazioni relazionali interne al gruppo. Il primo ragazzo mi disse che stava con la ragazza x, il secondo con la ragazza y e il terzo con la ragazza z. Mi rivolsi allora con un po’ d’imbarazzo all’ultimo, il quale mi confidò, serafico: io studio filosofia indiana.

La risposta mi mise in agitazione. In quel periodo ero iscritto a Lettere, con pencolamenti verso Filosofia, ma più ancora verso un qualsiasi lavoro che mi consentisse di sbarcare il lunario. Inoltre, a dispetto di un innegabile impegno la mia educazione sentimentale lasciava molto a desiderare: ero un romanticone immaturo, di quelli che aspirano all’infinito e incontrano sempre cose, e non avevo neppure la consolazione della sapienza orientale. Quella serata non fece che consolidare la personalissima interpretazione delle matrici della cultura che stavo elaborando e che mi ha poi accompagnato a lungo, nella quale applicavo confusamente il poco di Freud e il quasi nulla di Darwin che avevo letto per dovere, senza affatto digerirli, alle altrettanto confuse esperienze di competizione maturate nel gioco dello struscio paesano, nelle sale da ballo o nelle aule scolastiche.

La teoria era molto semplice: in sostanza, pensavo, la cultura è un frutto spurio dell’evoluzione naturale, il prodotto della sublimazione di chi viene escluso dal gioco sessual-riproduttivo. Postulavo l’esistenza di due percorsi distinti nella storia della specie umana, uno naturale-riproduttivo, l’altro innaturale-creativo. Del primo vedevo protagonisti gli individui che possiedono doti più spiccate di prepotenza, di affermazione di sé, di capacità di spettacolarizzarsi, ecc… : quelli che secondo parametri etici dovremmo definire pessimi. Il secondo raccoglieva i timidi, gli schivi, quelli dotati di sensibilità più acuta, che creano disturbo con la loro sola esistenza perché incarnano la possibilità di un modello umano diverso. Costoro avevano ben poche chanches nell’agone sessuale (che io preferivo leggere come “sentimentale”) a dispetto di un potenziale affettivo enorme: e finivano per riversare questa energia, sotto forme diverse di cultura, sull’umanità intera. Tra l’altro, questo spiegava anche molto bene il superiore apporto culturale degli omosessuali, che si autoescludono dal primo percorso.

Magari, pensavo, non tutta la cultura è prodotta dagli esclusi, così come non tutti gli esclusi producono cultura, e l’esclusione non è condizione né necessaria né sufficiente: ma le eccezioni mi sembravano pochine, se guardavo al significato “alto” del termine. Vuoi per scelta, vuoi per costrizione, di norma coloro che avevano dato un grosso contributo culturale non avevano conosciuto un altrettale successo riproduttivo. Va tenuto presente che i miei riferimenti ideali erano all’epoca (e per tanti versi sono rimasti) Leopardi, Spinoza, ed Evariste Galois, tutta gente che per un motivo o per l’altro non ha diffuso geni, ma conoscenza.

Il fatto che ciò nonostante, nonostante cioè prevalga la trasmissione dei geni dei più incolti, la cultura abbia continuato ad esistere, e ad evolversi, favorendo nel contempo le condizioni di successo riproduttivo dell’intera specie, lo spiegavo col ripetersi in ogni generazione del medesimo fenomeno di esclusione dalla competizione riproduttiva dei più miti e dei più sensibili, ai quali non era stato difficile sintonizzarsi sulla sensibilità dei colti precedenti e continuarne l’opera. Inoltre nelle società del passato, sino agli albori dell’era contemporanea, la cultura aveva escogitato un suo stratagemma di regolazione, che bene o male assicurava un certo margine di potenzialità riproduttiva anche ai “miti”. Questo stratagemma era costituito dalla consuetudine contrattuale del matrimonio, dall’usanza diffusa nella maggior parte delle società di combinare matrimoni a tavolino, già al momento della nascita dei futuri coniugi. Ciò aveva messo fuori gioco, almeno in parte, i fattori di “prepotenza genetica” di cui sopra, e assicurato in qualche modo un equilibrio, all’interno del quale anche coloro che sarebbero rimasti esclusi in un gioco normale finivano per avere delle chances. Anziché rivelarsi negativo, questo correttivo della tendenza naturale aveva garantito una maggiore varietà nei caratteri genetici delle successive generazioni.

Con l’introduzione del libero mercato matrimoniale, della scelta cioè sulla base della pura attrazione individuale, l’equilibrio era stato decisamente sconvolto. I miti, i timidi, gli alieni dalla spettacolarizzazione di sé erano stati esclusi automaticamente dalla corsa riproduttiva e nessun meccanismo correttivo poteva più rimetterli in gioco. Un grandissimo patrimonio genetico di bontà, di serietà, di intelligenza veniva disperso, sacrificato alla legge della discoteca. I peggiori, i più villani, gli ignoranti potevano prevalere e trasmettere geni negativi, destinati ad incattivirsi ulteriormente nell’agone riproduttivo aperto. Nel giro di due o tre generazioni la percentuale degli idioti era andata visibilmente aumentando, e aveva imposto modelli sociali e culturali che sempre più spostavano a margine la razionalità, la tolleranza, la mitezza. La crescita appariva esponenziale, e nulla lasciava presagire che potesse un giorno fermarsi. Tutto questo lo interpretavo come una vendetta della natura, o meglio, come un intervento riequilibratore; la natura che correggeva un errore commesso nella selezione, qualche milione di anni fa, quando aveva consentita la crescita e la perpetuazione di un animale intelligente.

Mi sembra doveroso precisare, prima di procedere oltre, che la mia teoria raccontava solo in parte di me. A vent’anni avevo già vinta, almeno in superficie, la timidezza innata, mi ero forgiato una discreta faccia tosta e avevo spalle abbastanza larghe da permettermi di non subire prepotenze da nessuno: non mi stavo costruendo una filosofia ad personam, e solidarizzavo con Leopardi non perché lo sentissi come un compagno di sventura, ma perché ne ammiravo il coraggio di guardare dritta in faccia la verità. Semmai la mia solidarietà andava a tutti coloro che sapevo, perché c’ero passato vicino, vivere una ricchissima vita interiore ed essere poco o niente considerati esteriormente. Da Saffo al giovane Holden, tutta la letteratura di cui ero imbevuto raccontava la stessa storia.

C’era poi anche un’altra motivazione, questa si personalissima: sapevo che il matrimonio dei miei nonni materni era stato combinato, come quasi tutti nel mondo contadino fino a metà novecento, e mi chiedevo quali chanches avrebbe avuto diversamente mio nonno, che era un uomo buono ed estremamente schivo: con ogni probabilità non sarei mai nato.

Devo confessare infine che tutto ciò che avete letto sin qui l’ho ripreso pari pari da un pezzo buttato giù in epoca molto vicina ai fatti raccontati. Per questo ho ancora così chiare le mie convinzioni di quel tempo. Ho solo coniugato i verbi al passato, il che non significa prendere le distanze, ma “storicizzare”.

Ci torno su infatti, a un quarto di secolo di distanza, perché mi accorgo che malgrado abbia risciacquato le idee nel darwinismo ortodosso e nel neo-darwinismo, qualcosa di quella interpretazione mi è rimasto appiccicato. Sarà che i modelli hanno continuato ad essere gli stessi o quasi, e che distinguo tra l’ “altruismo culturale” e la genialità, che è invece quasi sempre legata ad un egoismo feroce: sta di fatto che continuo a pensare che la cultura vera sia quella creata dagli “esclusi” (o almeno dagli “autoesclusi”, da chi non si esibisce nel circo mediatico), da chi lavora nell’ombra e si sforza di mantenere moralmente pulito e vivibile quel pezzettino di mondo che gli è toccato di abitare. Penso di poter dire che è cambiato l’ordine dei fattori, e forse il tipo stesso di operazione, ma il prodotto finale è rimasto grosso modo lo stesso.

Vediamo dunque di ricostruirlo quest’ordine. Ci sono tre aspetti in particolare della teoria evoluzionistica che contrastano con i miei assunti giovanili. Uno è darwiniano doc, e concerne i modi della selezione sessuale. L’altro riguarda il problema dell’altruismo, ed è darwiniano solo a livello di intuizione. L’ultimo è uno sviluppo più recente della teoria, e riguarda l’interpretazione della cultura come “coda di pavone”, strategia competitiva ai fini della riproduzione.

La teoria espressa ne “L’origine dell’uomo e la selezione sessuale” provocò a suo tempo (nel 1872) un enorme scandalo, superiore anche a quello creato da “L’origine della specie”. Lo stesso Darwin ebbe molte titubanze ad enunciarla, ma poi, in nome di quel rigore intellettuale che ne ha contraddistinto tutta la vita e l’opera, decise di uscire allo scoperto. In pratica, ponendosi il problema del persistere di caratteri che non paiono affatto adattivi, nel senso che risultano addirittura un ostacolo nella lotta per la sopravvivenza (la famosa coda del pavone, che era diventata quasi un’ossessione. Diceva: “La vista di una piuma della coda di un pavone, ogni volta che la guardo, mi fa star male”), Darwin spostò l’attenzione da quest’ultima alla competizione riproduttiva. Pur senza avere alcuna idea della trasmissione genetica, intuì che la selezione non va interpretata in termini di successo individuale, ma di continuità della specie. Gli individui non competono semplicemente per sopravvivere, per esercitare il potere, per affermarsi economicamente. Fanno tutto questo per assicurare spazio alla propria discendenza. Un maggiore successo riproduttivo garantisce una maggiore diffusione dei propri caratteri: e se questi sono “evolutivi”, garantisce la continuità e il successo della intera specie. Fin qui a dire il vero c’ero arrivato; non fosse che, per come la pensavo io, il successo arride in realtà ai peggiori, e quindi l’evoluzione si ha a dispetto di questo tipo di selezione.

Le cose però – avrebbe ribattuto Darwin – non stanno proprio così. In primo luogo che siano i peggiori lo diciamo noi, in base a nostre personalissime scale di valori: e se anche utilizzassimo un criterio universalmente condiviso dagli umani (cosa che non è), sempre di una scala umana si tratterebbe, e non naturale. Ma su questo torneremo. In secondo luogo, quando si parla di sopravvivenza del più adatto, concetto che peraltro Darwin non ha mai formulato, almeno in questi termini, non ci si riferisce all’esito di una guerra aperta ed esplicita di tutti contro tutti. Il successo riproduttivo è senz’altro legato alla prestanza fisica: ma questo non significa che il ruolo attivo sia assegnato ai maschi che riescono ad imporsi ai rivali con la violenza (il maschio dominante della gran parte dei gruppi di mammiferi, dai gorilla ai lupi) o comunque con la prestanza fisica (quello dal piumaggio o dai colori più brillanti e quello da discoteca del sabato sera): il maschio lotta o si esibisce, ma la scelta è operata dalle femmine, ed è motivata da ragioni solo apparentemente “estetiche”.

È questo il vero nodo, e non a caso fu questo tra i lettori di Darwin il vero motivo di scandalo: l’idea che sia il gentil sesso a condurre il gioco, e che le sue scelte vengano effettuate sulla base non delle pure apparenze, ma di solidi criteri pratici. In pratica, la coda del pavone non lo agevola certamente quando deve sfuggire alla volpe; ma l’individuo dotato di una coda vistosa e capace malgrado questo di arrivare sino all’età riproduttiva dimostra di non essere uno sprovveduto, e garantisce quindi geni robusti e intelligenti alla prole. Questi criteri pratici che guidano la scelta femminile si ricollegano, sia chiaro, alla scala naturale dei valori, e non a quella culturale. Ma solo sino ad un certo punto, come vedremo.

Tutto ciò sferra un primo huppercut alla mia teoria, anche se ancora non la manda al tappeto. In fondo sempre di esibizionismo, attivo o passivo, si parla, e anche ammettendo che si tratti di una competizione naturale, nella quale i valori morali non c’entrano, come si spiega che possa esserci stato un qualsivoglia avanzamento proprio nel campo etico, se l’etica non è evolutivamente remunerativa?

All’epoca non avevo presente che Darwin, da bravo inglese, aveva letto Hobbes. Anzi, a dire il vero non avevo proprio in mente Hobbes, perché da buon liceale italiano avevo studiato solo la formuletta dell’homo homini lupus, e non avevo collegato. Adesso che Hobbes l’ho letto capisco invece da dove arriva la teoria darwiniana.

Gli uomini, dice Hobbes, saranno anche lupi, ma non sono cretini: e quando capiscono che a viver come lupi, cioè secondo la pura legge naturale, non c’è una gran convenienza (e lo capiscono proprio perché chi più chi meno “evolvono”, si differenziano dagli animali, si umanizzano, cioè producono cultura) preferiscono sacrificare un po’ della loro libertà ad una condizione di maggiore sicurezza, diciamo di giustizia. Sviluppano un ethos “sociale”, ovvero “altruistico”, che si contrappone o si sovrappone all’istinto naturale. Questo è quanto dice Hobbes, sulla base naturalmente di un approccio solo meccanicistico. Alla sua epoca era impossibile andare più in là.

Con la teoria della selezione naturale Darwin accetta in sostanza la visione di Hobbes, ma risale più addietro, a prima dello sviluppo di quelle facoltà logiche sulle quali può fondarsi una presunta eticità (Darwin la chiama “moralità”, perché la considera come una funzione di gruppo, piuttosto che individuale). Considera i comportamenti cooperativi come frutto di un “istinto sociale” che non appartiene originariamente alla specie, ma si acquisisce attraverso la selezione naturale, e si diffonde a livello di comunità. La cooperazione produce un vantaggio per il gruppo, quest’ultimo risulta più attrezzato alla sopravvivenza rispetto ad altri nei quali non si coopera. La selezione naturale fa il suo corso.

Questo per quanto concerne la competizione tra gruppi: ma all’interno del gruppo, la domanda gli si pone negli stessi termini in cui me la ponevo io, alla cascina sulla Colma o nella biblioteca universitaria, quando non trovavo il coraggio di agganciare una ragazza che mi interessava. Se gli individui più generosi, proprio perché altruisti, si riproducono meno, com’è che la selezione non spazza via il carattere cooperativo?

Darwin in realtà una risposta a questa domanda non la fornisce, e preferisce insistere sull’“istinto sociale”. Tentativi di spiegazione sono invece stati avanzati nel secolo scorso, applicando la genetica dei comportamenti e quella delle popolazioni. In pratica oggi la soluzione più accreditata è quella fornita dai genetisti della “grande sintesi”: l’altruismo è un allele, il risultato di una mutazione genetica, che si diffonde perché la perdita di competitività riproduttiva individuale è largamente compensata a livello di gruppo. Del gruppo parentale, naturalmente; anche se poi, al sesto grado, siamo tutti parenti.

Darwin e i suoi innumerevoli esegeti ritengono insomma che per qualsiasi specie l’assunzione di un comportamento “cooperativo” sia remunerativa, e che quindi lo sia anche per la nostra già al momento dell’ominazione; anzi, lo è da prima ancora della speciazione che ci stacca dai nostri cugini antropomorfi e tanto più lo diventa nella fase successiva, quella dell’elaborazione di “attitudini culturali”, che si possono riassumere nella capacità di insegnare e di imparare.

Dove ci porta tutto questo? Intanto al fatto che la “progressione etica”, se così vogliamo chiamarla, c’è per via di questo modo di selezione e non, come ritenevo io, a suo dispetto: e poi al fatto appunto che non di un miglioramento (che ha in sé una valenza qualitativa), ma di una progressione (che ha una valenza solo quantitativa) si tratta. Per quanto riguarda inoltre la scelta sessuale operata dal sesso “debole”, il criterio sul quale questa scelta si basa non è soltanto quello della trasmissione di “buoni geni”, ma anche quello della loro salvaguardia: cioè della garanzia di una cura parentale, ergo di un atteggiamento altruistico-cooperativo da parte del maschio.

In sostanza, non sono poi quelli più bulli ad essere scelti, ma quelli che offrono migliori garanzie di saper poi proteggere un investimento riproduttivo che per la femmina ha limiti ben più stretti e costi ben più alti che per un maschio. Queste “garanzie” per le altre specie animali possono essere fornite dal controllo di un territorio di caccia, da una attitudine alla monogamia, ecc: per la nostra vengono in genere esibite attraverso il successo economico, il potere, ecc… Ma possono anche trovare altre strade. E qui entra in scena il terzo elemento di critica alla mia teoria.

Una ventina d’anni fa le interpretazioni relative alle strategie riproduttive e ai criteri di scelta femminile cominciarono a moltiplicarsi. In sostanza, si estendeva il concetto di strategia riproduttiva dalle armi naturali a quelle culturali. Oggi sembra persino banale, ma prima degli anni ottanta non lo era affatto (e questo almeno in parte giustifica la rozzezza della mia interpretazione). È stato necessario liberarsi dell’indigestione di Freud per poter rileggere a mente sgombra Darwin. Freud in fondo dava ragione a me: la cultura è libido repressa e incanalata al di fuori della lotta, della competizione. E invece, è esattamente l’opposto. Oggi biologi, psicologi e paleontologi ribaltano il rapporto e dimostrano che la cultura, in una prospettiva evolutiva, può essere considerata una mutazione come un’altra, uno strumento volto prioritariamente ad acquisire vantaggi nell’agone riproduttivo: in qualunque forma si manifesti e si concretizzi, da quella economica a quella politica a quella religiosa, da quella letteraria a quella artistica. Anche in queste ultime due espressioni, in quella declinazione “umanistica” che parrebbe la più lontana da finalità utilitaristiche (e che ha sempre rivendicata una sua speciale “purezza”), la cultura è una particolare coda di pavone, che al contrario di quella originale non comporta un handicap per la sopravvivenza, ma solo vantaggi. Naturalmente, trattandosi di una mutazione molto particolare ha finito per autonomizzarsi, per emanciparsi dai meccanismi di selezione naturale e creare un suo sistema autoconservativo che risponde ad altri criteri che non quelli della selezione. Ed è questa la parte che rimane in vista, come negli iceberg: quella che risponde al dettame naturale non la vediamo, la diamo in qualche modo per scontata o la rinneghiamo.

Di nuovo, questo dove ci porta? Ci porta a prendere atto da un lato che la spettacolarizzazione non è solo quella del modello da discoteca, e che la prepotenza genetica può essere esercitata anche attraverso armi non fisiche. Quindi che la cultura non è prodotta solo dagli esclusi, ma anzi, è prodotta dai competitori. E non è detto che sia volta al “miglioramento” collettivo: magari questo miglioramento c’è stato, e non mi sembra il caso di negare che quanto ad aspettativa di vita dei singoli e a condizioni generali le cose vadano meglio per noi che per i Cro-Magnon. Ma anche questa è una nostra percezione, voglio dire una percezione “culturale”, e soprattutto è una percezione della porzione occidentale, minoritaria, dell’umanità. Per i bambini del Darfour l’aspettativa di vita è forse minore che per i loro antenati di trentamila anni fa.

Dall’altro lato, questa cultura bene o male qualcosa di particolare, rispetto alla nostra specie, lo ha fatto. L’impressione è però che oggi stia ristagnando: che la spettacolarizzazione da discoteca stia prevalendo su quella magari da palcoscenico, ma comunque sorretta da qualche abilità. A dispetto degli stupefacenti successi della scienza e delle strabilianti innovazioni tecnologiche, si direbbe che sia in corso un imbarbarimento di ritorno. Ragion per cui qualche ragione l’avevo anch’io, quando pensavo che fosse in atto un processo reversivo di rincoglionimento generale, e che andassero difesi alcuni “correttivi” culturali.

Al di là della puntualizzazione sui meccanismi della selezione naturale, rispetto ai quali comunque la confusione, non solo mia, è ancora grande, qualcosa credo di aver imparato davvero in questi venticinque anni. Credo di aver capito che non era un problema di risposte sbagliate che mi davo, ma di domande sbagliate che mi ponevo. La mia domanda “perché sono i peggiori a prevalere?” in effetti non aveva senso. In natura non ci sono peggiori: ci sono adatti e meno adatti, e anche i primi non ci mettono molto a passare nel numero dei secondi. Non c’è uno scopo, una finalità che retrospettivamente spieghi e giustifichi tutto: queste sono interpretazioni religiose, il male necessario del cristianesimo, o teleologie laiche, le astuzie della storia di Hegel, con tutto quello che ne consegue in termini di giustificazione delle brutalità e delle sofferenze della storia. No, in natura non c’è finalità, quindi non c’è alcuna giustificazione che tenga. C’è solo cambiamento, mutazione. È vera però senz’altro la faccenda dello sbaglio, almeno sul breve termine: la natura ha consentito lo scatenamento di un meccanismo, quello culturale, che apparentemente sfugge al suo controllo, si sottrae. Ma ripeto, questo avviene solo sul breve termine, in rapporto ai tempi nostri. La natura ha altri tempi, anzi, in natura il tempo non esiste.

E questo sembrerebbe liquidare il problema: siamo noi a presumere, in base a parametri “culturali” e non naturali, che le cose debbano andare in una certa direzione, e ad incavolarci se poi non vanno così. È sbagliata la nostra prospettiva.

Ma, una volta capito questo, non è che almeno sul breve termine possiamo decidere di sforzarci perché vadano davvero come vorremmo? Non è che anche sapendo che si tratta di una domanda sbagliata dobbiamo comunque assumerci la responsabilità di quell’incredibile potenziale che per qualche gioco del caso ci è capitato addosso?

Per questo dicevo che qualcosa di quei convincimenti giovanili resiste. Ho fatto un giro molto largo, mi sono dato spiegazioni diverse, molto più serie e con qualche base scientifica, e sono arrivato alla conclusione che è stupido addossare responsabilità alla natura per qualcosa che non ha che fare con scelte o fini. Sono arrivato esattamente alle conclusioni dell’islandese delle Operette Morali, ovvero là da dove ero partito. Ma con una diversa serenità. Non è un problema se le cose non vanno come vorrei, ma ho la responsabilità, nei confronti miei, degli altri, di sforzarmi comunque perché vadano per il meglio: per me, per il mio prossimo, ovvero per i miei contemporanei, per la specie, ovvero per coloro che verranno. E per coloro che prima di me ci hanno creduto, e hanno creato le condizioni perché anch’io potessi capire e crederci.

Quindi: tanta filosofia, e direi meglio se occidentale piuttosto che indiana.

Per la cronaca, sono poi rimasto a Lettere ed ho avuto tre figli. Evidentemente non ero abbastanza mite.

 

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