di Paolo Repetto, 30 dicembre 2020, introduzione a Un’etica per taglie forti, vol. VI di Opera omnia ed altri scritti, 2020
Condursi in maniera sempre eticamente coerente è cosa un po’ diversa dal professare un’etica. La prassi e la teoria viaggiano su piani diversi, stanno tra loro come la prosa e la poesia, e senz’altro la prima è meno facile, anche quando i propositi sono tutto sommato modesti. Ma soprattutto è difficile quando si è consapevoli che la coerenza è relativa a qualcosa di cui ciascuno, alla fin fine, è arbitro e responsabile in proprio. Che cioè l’imperativo di cui parla Kant lo dettiamo noi stessi, e non un sistema di valori in qualche misura trascendente.
Dal momento che l’etica ha la sua ragione d’essere solo nel rapporto con gli altri, dovremmo poter concordare su un qualche denominatore comune che renda possibile la convivenza. E quello minimo, magari non ancora sufficiente ma indispensabile, è volerlo veramente.
Ora, dubito che questa volontà valga per tutti. In altre parole, penso che non necessariamente tutti condividano quei valori che in genere sono considerati universali. Se fosse solo questione di differenze “culturali” potrei sperare che arriveranno un giorno ad essere superate: ma ho la convinzione che intervengano qui le diverse disposizioni individuali, attitudini differenti che hanno una matrice prevalentemente genetica, “naturale”. In sostanza, credo che non tutti nascano eticamente disposti, e diffido della pretesa di indicare modelli di comportamento che possano valere universalmente (questo attiene alla poesia).
Il fatto che io parli di una “disposizione naturale” non deve però indurre in inganno: non sto parlando di determinismo, sarebbe in contraddizione totale con il concetto stesso di etica, che si fonda sulla possibilità di scelta. Non è così. Noi non siamo “determinati” geneticamente al male o al bene, non almeno al punto da non poter scegliere, e neppure siamo totalmente condizionati dall’ambiente. Vale come per ogni altra “téchne”: in fondo il nostro cervello, cresciuto in maniera così abnorme, è in qualche modo una protesi artificiale. Possiamo scegliere di usarlo in positivo e in negativo: e qui vien fuori l’indole, che è un concetto estraneo alla scienza, ma ben presente alla nostra quotidiana esperienza.
Non possiamo ignorare che ci sono persone innaturalmente invidiose, innaturalmente sleali e innaturalmente vili, mosse a questa attitudine (perché tali caratteristiche negative marciano di concerto) da un egoismo innaturale, che nulla ha a che vedere con quello del gene. Dobbiamo prenderne atto. esistono, le incontriamo, le conosciamo, e sappiamo che non c’è alcuna spiegazione e tanto meno giustificazione scientifica o sociale del fenomeno.
Semplicemente, scelgono (sia pure dietro tutte le spinte che la sorte può dare) di vivere costantemente nel rancore, di sentirsi costantemente in credito. Del perché ciò accada sono state date le interpretazioni più disparate, chiamando in causa ora la natura, ora la cultura, e viaggiando spesso in direzioni diametralmente opposte. Io credo che ciò che accomuna queste letture, nella maggioranza dei casi, sia l’inconfessata (ma spesso anche conclamata) ambizione non solo di spiegare tutto, ma anche di individuare le azioni e gli strumenti per ovviare al problema: ovvero, coltivano segretamente l’utopia di una umanità perfettibile.
Per quanto mi concerne, ho smesso da un pezzo di crederlo. Il legno storto va bene da ardere, non si può pretendere di farne delle assi. Con questo non invoco roghi, solo un po’ meno ipocrita buonismo. Noi umani non siamo tutti “naturalmente buoni” (anche se Frans de Waal con questa espressione intende altro). Siamo tutti “naturalmente diversi”.
Ma allora, che fine fa l’etica?
Semplice, scende dalle nuvole e si confronta con quel che trova. Senza venire a patti, possibilmente mai, sulla base dei due più elementari principi, non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te, e fai per gli altri quel che vorresti gli altri facessero per te. Rispettati e rispetta il tuo prossimo. Ma anche, aggiungerei, per essere più chiaro, fatti rispettare. Vivi insomma oggi “come se” questi principi fossero condivisi dall’intera umanità, anche quando tutto, fuori e dentro di te, parrebbe volerti indurre a pensare il contrario. Non è impossibile. Non dico di averlo sempre fatto, ma sono stato sempre nella condizione di poterlo fare. E l’etica è una questione di scelte. Di fare possibilmente quelle giuste e di assumersi la responsabilità di quelle sbagliate.
Gli exempla di scelte di vita eticamente eccellenti, o almeno mirabilmente conseguenti, li ho già proposti in un altro volume di questa collana (Resistenze e riabilitazioni). Quelli che seguono sono semplici bozzetti, spunti autobiografici per riflessioni tutt’altro che esemplari, ma forse significative, sulla quotidianità delle scelte che siamo chiamati, il più delle volte inconsapevolmente, a compiere: e su come queste, nel loro assieme, e nella loro coerenza, siano il succo del nostro esistere.
Nel rievocare certe situazioni, certe sensazioni e certi incontri mi sono molto divertito: spero di essere stato capace di trasmettere un po’ di questo divertimento a chi si appresta a leggermi.




In tempi calamitosi (e questo ne ha tutti i requisiti) è più che mai necessario opporre allo sgomento, all’angoscia, all’assurdo che irrompe improvviso nelle nostre vite – o quantomeno si svela – una resistenza che vada al di là degli slogan e della retorica mielosa da rituale commemorativo o da salotto televisivo. Sarebbe importante opporla sempre questa resistenza, ma in genere siamo troppo indaffarati, distratti dalle false urgenze che ci tengono sospesi per aria in un circolo vizioso, come nelle centrifughe da baraccone. In questi giorni però la ruota si è fermata, e ci sentiamo smarriti, inerti di fronte all’annullamento delle prospettive più immediate, incapaci di fare conti per quelle a lungo termine. Abbiamo improvvisamente bisogno della riconferma che c’è qualcosa per cui vale davvero la pena vivere. E abbiamo bisogno che questo qualcosa già ci appartenga, senza attendere improbabili giorni del giudizio.
Bene. Mantelli è a dirci che questo qualcosa lo abbiamo già conosciuto, anche se qualche volta – troppe volte – non ce ne rammentiamo. Abbiamo conosciuto, in momenti magici della nostra vita, l’incanto della Bellezza. Alcuni, come lui, ne sono stati evidentemente segnati, non hanno mai accettato di rinunciarci e hanno mantenuto lungo tutta la loro esistenza la capacità di volgere uno sguardo stupito sul mondo: noi, altri, quell’incanto possiamo soltanto riconoscerlo, rievocarlo, se vogliamo recuperare un po’ di quel senso che sta al di là di ogni contingenza storica, del successo o del fallimento privati, del benessere o delle pandemie collettive.
Vaccinare la mente
