Fuochi d’autunno (introduzione)

di Paolo Repetto, 1 dicembre 2024, dal Quaderno I fuochi d’autunno

Non sono un piromane, anzi, mal sopporto chi col fuoco ci scherza, e non solo metaforicamente: ma questo proprio perché col fuoco ho maturato in gioventù una certa consuetudine, e ho imparato a rispettarlo.

In casa fu installato il primo impianto di riscaldamento quando già avevo superato i venticinque anni: fino ad allora avevo trafficato d’estate con ceppi ed accette e d’inverno con stufe e caminetti di ogni sorta, impratichendomi in accensioni rapide e nella regolazione del tiraggio dei tubi. Ho acquisito persino una certa insensibilità delle mani al calore, cosa che a volte gioca anche brutti scherzi.

Al di là delle stufe, però, ho anche avuto dimestichezza con le fiamme libere, non solo coi fuochi di bivacco durante le escursioni ma anche in alcune occasioni eccezionali (ero nella squadra antincendio locale, creata a Lerma molto prima dell’istituzione della Protezione Civile) e in altre quasi rituali.

Le motivazioni per accendere un fuoco erano legate in quest’ultimo caso alle attività contadine: i falò degli sfalci e dei rami secchi in autunno e quelli dei residui della potatura in primavera, il calderone dell’acqua per strinare le setole del maiale macellato nei primi giorni dell’anno, e sempre a gennaio il grande falò di sant’Antonio, residuato di antiche celebrazioni pagane. Durante alcuni inverni eccezionalmente rigidi il fuoco doveva essere mantenuto acceso anche contro il muro della casa, nei punti dove salivano le tubazioni dell’acqua.

I fuochi che ricordo meglio, e con più nostalgia, sono senz’altro quelli autunnali. In primavera c’era sempre il rischio che sfuggissero al controllo e si propagassero, mentre a ottobre o a novembre la ramaglia inumidita bruciava lentamente e le scintille non trovavano esca tutt’attorno. Il fumo si raccoglieva al vertice del mucchio e saliva in genere dritto, quasi come nelle carbonaie: e mentre la combustione procedeva tranquilla potevi fare altro. In genere però mi dedicavo a questa incombenza verso la metà del pomeriggio, quando le attività più pressanti erano terminate, e allora sedevo lì vicino, a fumare o a immergermi nei miei pensieri, che accompagnavano il fumo nel suo cammino verso l’alto e si disperdevano poi assieme ad esso. Erano momenti malinconicamente meravigliosi, spesso cadevo in trance e mi riscuotevo mentre già scendevano le ombre della sera. Una volta, quando il mucchio era ormai quasi consumato, mi divertii per mezz’ora a disegnare segnali di fumo con una vecchia coperta, provando a trasmettere nell’alfabeto morse e scrutando le colline attorno in attesa che qualcuno mi rispondesse. Naturalmente non accadde, ma non rimasi deluso: il mio lavoro l’avevo fatto, i segnali li avevo mandati, ero in pace con me stesso.

Ecco, volevo una metafora che in qualche modo sintetizzasse (e magari anche un po’ giustificasse) i contenuti di questo volumetto, e forse l’ho centrata. Fumo, malinconie, pensieri disordinati, voglia di comunicare, coscienza della difficoltà di farlo e ammirazione per chi ci riesce con naturalezza. Soprattutto, poi, la conferma che indipendentemente dagli esiti riesco ancora a divertirmi. Direi che è più che sufficiente.

Il surreale inferno di Leon Spilliaert

di Fabrizio Rinaldi, 29 gennaio 2023 – dall’Album “Il surreale inferno di Leon Spilliaert

Il surreale inferno di Leon Spilliaert copertinaSono in libreria, in cerca di regali per Natale, quando l’occhio viene attratto da una raffinatissima copertina della Biblioteca Adelphi, nella quale la linea nera scontorna un paesaggio solitario, reso con colori tenui e linee quasi geometriche.

Leon Spilliaert 06Il libro è Dall’inferno, di Giorgio Manganelli, e si rivelerà anche interessante. Ma a catturarmi è stata la copertina e non è certo la prima volta. Ormai le librerie sono diventate delle gallerie d’arte. Le copertine – oserei dire soprattutto quelle dei piccoli editori – sono davvero belle e accattivanti (non sempre si può dire altrettanto dei contenuti) e offrono occasioni di inediti incontri con il mondo delle immagini, mentre i grafici hanno affinato la conoscenza delle diverse capacità attrattive dei colori e dei font. Non sono cose banali: ricordo con un fastidio anche tattile la moda in voga negli anni Novanta, che imponeva titoli dai caratteri enormi, colori fosforescenti e, in particolare, i caratteri in rilievo. Facendo scorrere le dita su certi Oscar Mondadori avevi già la certezza che il contenuto poteva essere evitato.

Leon Spilliaert 03Tornando al libro di Manganelli, nel risvolto leggo che il quadro riprodotto in copertina è di Leon Spilliaert (1881-1946), un pittore belga che raffigurava per lo più paesaggi di campagna e spiagge del mare del Nord, creando atmosfere piuttosto cupe.

Spilliaert non arrivava da studi accademici, era praticamente un autodidatta, ciò che non gli impedì di trovare una sua personalissima forma stilistica. Continuò tuttavia a covare per tutta la vita l’insoddisfazione per non vedersi valorizzato dalla critica dell’epoca.

In effetti visse ai margini della cultura belga, conducendo nella nativa Ostenda un’esistenza abitudinaria e isolata, assieme alla moglie e ad una figlia. Nella scarsa considerazione che gli fu riservata in vita come pittore c’entra senz’altro il fatto che la sua attività ufficiale e prevalente, quella che dava da vivere a lui e alla sua famiglia, era di illustrare di romanzi per adulti, peraltro in un’epoca nella quale l’illustrazione faceva tutt’uno con il testo. E questa pratica la si riconosce pienamente anche nelle scelte stilistiche e cromatiche della sua pittura. Era poi tormentato da diversi problemi fisici che gli producevano una costante irrequietezza e una insonnia cronica, sedate con lunghe e solitarie camminate notturne fino all’alba, lungo la spiaggia del suo paese. Traeva ispirazione da ciò che vedeva non allo spuntare del sole, ma negli attimi appena antecedenti, quelli in cui il cielo comincia a mutare colore, passando dalle sfumature più scure alle tonalità meno cupe: e questo spiega le tele intrise di solitudine e le atmosfere surreali, oniriche e misteriose.

Vi compaiono in genere figure umane che camminano su spiagge deserte, lungo sentieri che si perdono in lontananza: o in altri casi vagano nella notte, fra edifici scuri appena abbozzati dalla luce dei lampioni, unico appiglio cui aggrapparsi per uscire dall’incubo.

Come si può immaginare, Spilliaert amava sia la letteratura onirica di Edgar Allan Poe (di cui aveva illustrato alcuni testi) che la filosofia eversiva di Friedrich Nietzsche. E nei suoi dipinti sono rintracciabili riferimenti ai paesaggi romantici di Caspar David Friedrich e a quelli inquietanti di Edvard Munch e di Vilhelm Hammershøi, mentre l’uso marcato di giochi prospettici anticipa i lavori di Giorgio De Chirico.

Leon Spilliaert 02L’impiego di pochi colori e la predominanza del nero accentuano la tensione introspettiva; al tempo stesso l’uso di tinte terrose e marine, dalle quali emerge uno sprazzo di luce gialla o bianca, crea l’impressione che l’osservatore emerga dalle tenebre. Un lampo di speranza che squarcia l’atmosfera tetra. Le sue insicurezze e i suoi dubbi tornano poi nei giochi di specchi che caratterizzano gli autoritratti.

A dispetto di tutto e di tutti Spilliaert ha creduto fino in fondo nella propria poetica ed è considerato oggi uno dei massimi esponenti dell’Espressionismo belga.

Leon Spilliaert 04

L’immagine della copertina, come dicevo, mi ha molto colpito. Ma evidentemente sono un po’ strano, perché – a differenza dei molti che sono andato a consultare – non trovo i suoi dipinti così inquietanti, tetri e intrisi di solitudine. Li considero invece piacevoli e rilassanti, quasi rassicuranti, come mi accade per molte opere di Mark Rothko. La semplicità con cui suddivide gli spazi, i colori tenui, mai urlati, hanno un ché di pacato e meditativo.

Ci vedo comunque una speranza, una luce che s’intravvede nelle tribolazioni quotidiane. Dunque, sono proprio strano …

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Collezione di licheni bottone

I colori di Vilhelm Hammershøi

di Paolo Repetto, 11 dicembre 2018

I colori di Vilhelm Hammershoi copertinaLa vita e la pittura di Vilhelm Hammershøi (1864 –1916) sono state definite una “Sinfonia in Grigio”. Non accade niente nell’una come non è accaduto nell’altra. Ha studiato. Si è sposato. Ha abitato in un appartamento. Lo ha dipinto. Si è spostato in un altro. Dipinto anche quello. E questo è tutto.

Niente bambini. Nessuna guerra. Niente avventure. Le sue immagini raccontano silenzi senza fine e una sorvegliatissima malinconia (o forse disperazione), della quale non ci è dato conoscere alcuna ragione reale.

Il pittore sembra trascorrere il tempo a fissare tristemente le sue quattro mura danesi, riposizionando all’infinito i suoi riferimenti – il divano, il pianoforte, il vaso, la moglie. Quest’ultima è ritratta quasi sempre di spalle, nella quotidianità delle occupazioni domestiche o mentre guarda dalla finestra in lontananza. È forse un modo per esorcizzare lo scorrere del tempo, che all’interno di quella casa pare in effetti essersi fermato.

Il risultato è claustrofobico, ma troppo educato ed elegante, troppo sorprendentemente chiaro e preciso per essere drammatico. È invece sconcertante. E bellissimo.

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Le Sinfonie in Grigio di Hammershøi

di Paolo Repetto, 11 dicembre 2018 – vedi Album I colori di Vilhelm Hammershoi

I colori di Vilhelm Hammershoi copertinaLa vita e la pittura di Vilhelm Hammershøi (1864 –1916) sono state definite una “Sinfonia in Grigio”. Non accade niente nell’una come non è accaduto nell’altra. Ha studiato. Si è sposato. Ha abitato in un appartamento. Lo ha dipinto. Si è spostato in un altro. Dipinto anche quello. E questo è tutto.

Niente bambini. Nessuna guerra. Niente avventure. Le sue immagini raccontano silenzi senza fine e una sorvegliatissima malinconia (o forse disperazione), della quale non ci è dato conoscere alcuna ragione reale.

Il pittore sembra trascorrere il tempo a fissare tristemente le sue quattro mura danesi, riposizionando all’infinito i suoi riferimenti – il divano, il pianoforte, il vaso, la moglie. Quest’ultima è ritratta quasi sempre di spalle, nella quotidianità delle occupazioni domestiche o mentre guarda dalla finestra in lontananza. È forse un modo per esorcizzare lo scorrere del tempo, che all’interno di quella casa pare in effetti essersi fermato.

Il risultato è claustrofobico, ma troppo educato ed elegante, troppo sorprendentemente chiaro e preciso per essere drammatico. È invece sconcertante. E bellissimo.



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