orazione funebre per un sito scomparso
di Lorenzo Solida, 26 aprile 2021
È di poche settimane fa la notizia che Yahoo Answers, il portale di risposte collaborative, chiuderà definitivamente il 4 maggio: dopo tale data, infatti, non solo non sarà più possibile proporre nuove domande o rispondere a quelle già presenti, ma nemmeno accedere agli archivi. Probabilmente la notizia lascerà indifferente la maggior parte dei lettori, considerando la ridotta popolarità della piattaforma, che veniva utilizzata perlopiù dai millennials. Tuttavia, sono convinto che chi, come me, ha speso in passato un po’ del suo tempo nella community di Answers, non potrà non dedicare almeno un fugace pensiero di rimpianto, un sorriso malinconico, a questo vecchio portale che se ne va …
La decisione in sé è ben comprensibile: il calo di popolarità del servizio, soppiantato da assistenti virtuali e social network, e i problemi di moderazione, che ultimamente stavano diventando sempre più accentuati, soprattutto dopo che era stata concessa la possibilità di porre domande in forma anonima (anche prima, comunque, i profili troll abbondavano), sono elementi sufficienti a decretarne la chiusura. Anch’io, non vi nascondo, avevo abbandonato la piattaforma da anni (non ricordo con precisione quando, ma penso che i miei ultimi contributi risalgano al periodo della fine delle scuole superiori); tante le ragioni, dal minor tempo a disposizione, alla preferenza per altre forme di conoscenza collaborativa, al crollo della qualità di domande e risposte (eh sì, ognuno tende a ricordare il periodo in cui ha contribuito come il più fulgido nella storia di Answers …). Non sono quindi contrario alla chiusura, né sentirò la nostalgia di un servizio che ormai da anni non mi interessava in alcun modo, però questa vicenda mi suggerisce lo spunto per alcune riflessioni, che provo a condividere.
Impermanenza: l’anitya principio fondamentale del buddhismo, il panta rei di Eraclito, dopo secoli di filosofia dovremmo oramai aver capito che nulla può durare in eterno. Tuttavia, è insista nella specie umana una certa riluttanza al cambiamento, o perlomeno un fisiologico tempo di assestamento nei confronti delle novità, tempo che viene sempre meno rispettato nella società contemporanea: la rivoluzione digitale ha estremizzato questa tendenza, producendo in continuazione una moltitudine di “trend” e contenuti, il cui orizzonte temporale è però spesso molto breve.
Non so se sia un’abitudine comune, ma io sono un utilizzatore abbastanza compulsivo delle liste: siccome mi imbatto spesso in contenuti che ritengo interessanti, ma non ho tempo di guardarli in quel momento, oppure prevedo che mi serviranno in un periodo successivo, o ancora so già che mi piacerà riguardarli, li inserisco in una lista. Possono essere libri, visti di passaggio nella vetrina di una libreria, sfogliati sommariamente alla Feltrinelli di Milano Centrale nell’attesa tra un treno e l’altro, indicati in bibliografia da un testo precedente, suggeriti dal passaparola di un amico di cui condivido i gusti letterari: proprio perché la loro origine è varia, per poter gestire queste informazioni trovo utile centralizzarle, e uso con soddisfazione le note di Google Keep per tenerne traccia.
Uso le liste anche per archiviare video su YouTube: avete mai ritrovato quel brano musicale che vi piaceva, ma di cui non ricordate mai il titolo (talvolta nemmeno il compositore e l’esecutore, e lì la ricerca si fa ardua…)? Vi siete mai imbattuti in un podcast interessante, garbato, che ha catturato la vostra attenzione? Oppure avete un hobby, che magari non coltivate quanto vorreste, ma di cui vi piace guardare i contributi di altri appassionati? Voilà, basta un clic e tutti questi contenuti finiscono in una playlist! Anzi, perché limitarsi quando si possono creare una moltitudine di elenchi, uno per ogni tema di nostro interesse?
Ma l’ambito nel quale raggiungo l’apice della mia listo-mania sono i preferiti dei browser: la Rete è una miniera di informazioni, ma non sempre i contenuti che cerchiamo di ritrovare sono facilmente disponibili; anzi, è proprio l’abbondanza di materiale a renderli spesso introvabili come il classico ago nel pagliaio. Ecco, i preferiti servono (dovrebbero servire) a questo: alias digitale delle molliche di pane di Pollicino, ci aiutano a riavvolgere il nastro, a tornare sui cammini già percorsi, permettendoci anche di riunire e sincronizzare i contributi salvati su più dispositivi dello stesso utente in un’unica raccolta. Nel momento in cui sto scrivendo, nonostante li sfoltisca spesso, ho 1359 segnalibri nel mio browser (li ha contati lui, non io) raggruppati in un albero di circa 150 cartelle (qui vado a stima), annidate secondo lo stesso paradigma dei documenti in un file system. Come dite, sono tanti? Avevo premesso che li uso in modo abbastanza compulsivo …
Ho divagato un po’, ritorno al tema principale: se anche voi, come me, siete abituati a utilizzare questi tipi di liste, vi sarà certamente capitato di imbattervi in link non funzionanti, in contenuti rimossi. Sembra (ed è) un controsenso: depositiamo un link in un elenco di segnalibri o un video in una playlist proprio per poterlo ritrovare un domani, e quando cerchiamo di utilizzare questa informazione, il contenuto non è più disponibile!
Per ovviare a questa situazione è nata la Wayback Machine, un immenso archivio del web lanciato nel 2001 che si prefigge l’ambizioso intento di tenere traccia di tutte le modifiche apportate alla Rete, archiviando non solo tutte le pagine, ma anche le loro differenti versioni (con il relativo marker temporale) ogni qualvolta vi siano state apportate delle modifiche rilevanti. La capacità di memorizzazione necessaria per perseguire questo risultato è mostruosa: nel 2005 sui server del progetto si contavano circa 40 miliardi di pagine, nel 2020 cresciute a 514 miliardi, occupando uno spazio di storage di oltre 70 petabytes (milioni di gigabytes)! Per quanto si potrà andare avanti ad accumulare dati a questa velocità? Il problema è sfaccettato, non si tratta “solo” di soddisfare la continua domanda di nuovi supporti di memoria, ma anche di garantirne la durata nel tempo e, di conseguenza, l’integrità dei dati in essi custoditi; è inoltre sempre maggiore l’attenzione all’enorme quantità di energia necessaria a tenere sempre disponibili questi contenuti online … e poi, per chi? Sono davvero tutti necessari? Riusciremo mai a utilizzarne anche solo una parte? In più occasioni il professor Barbero, noto medievalista, ha posto l’attenzione sulla differenza tra lo studiare il mondo antico, dove una delle difficoltà maggiori è il numero limitato delle fonti disponibili, e gli stati burocratizzati nati a partire dall’Ottocento, in cui una parte considerevole del lavoro dello storico consiste nello spulciare l’immensa quantità di documenti disponibile, da cui condensare un risultato di sintesi.
È certo che oggi siamo aiutati in questo processo dall’archiviazione digitale e dai motori di ricerca, Google in testa, che hanno costruito la loro fortuna proprio sulla capacità di fornire, grazie a complessi algoritmi di indicizzazione, risultati rapidi e precisi con il minor dispendio di energie (umane) possibile. A mio parere, però, anche grazie alla crescita esponenziale della quantità di informazioni prodotta da dispositivi wearable, sensori, intelligenza distribuita, stiamo migrando sempre più da una comunicazione macchina-uomo ad una macchina-macchina, in cui una consistente parte di questo cicaleccio digitale è destinato ad essere gestito senza alcun intervento umano.
L’accessibilità dei dati pone problemi ancora maggiori se la si considera non solo nel presente, ma su orizzonti temporali medio-lunghi, coinvolgendo almeno altri due aspetti: il supporto e lo standard.
Ad una prima analisi i moderni supporti di memoria sembrano affidabili, in qualche misura anche più dei precedenti equivalenti fisici: un compact disc può essere riprodotto migliaia di volte garantendo un suono costante, mentre un disco in vinile perde progressivamente di “risoluzione” ad ogni ascolto, a causa dell’attrito tra la puntina e la superficie del disco, che provoca un’infinitesima asportazione di materiale soprattutto nei tratti con spostamenti maggiori (l’effetto si percepisce in particolare nei dischi stereofonici, in cui i due canali vengono memorizzati in modo ortogonale l’uno rispetto all’altro). Se, tuttavia, si considerano gli effetti causati dal trascorrere del tempo, la prospettiva si ribalta: i vinili sono tranquillamente riproducibili anche dopo svariati decenni, e senza particolari precauzioni di conservazione, potendo essere esposti alla luce e, entro limiti ragionevoli, all’umidità, mentre i CD risultano spesso illeggibili anche solo in 10-15 anni, soprattutto se conservati al di fuori delle custodie di protezione.
I supporti di memoria possono rappresentare un problema anche dal punto di vista dell’evoluzione nel tempo degli standard: se, infatti, dal punto di vista software il problema sembra limitato (i vecchi formati sono, nella maggior parte dei casi, ancora supportati, ad esempio il Rich Text Format, antenato del .doc, che vide la luce nel lontano 1987), altrettanto non si può dire dell’hardware. Quando ripenso alle mie interazioni con l’informatica da bambino, i miei ricordi sono indissolubilmente legati al floppy disk (lo ricordate? Quel quadrato di plastica nera rigida con la linguetta metallica, che in poco più di 9 cm di lato conteneva ben 1.44 MB di dati!). Che ne è oggi dei floppy? Nessun computer recente integra più le unità di lettura, e gli stessi lettori CD stanno diventando sempre meno comuni nei dispositivi attuali, in special modo nei notebook, in cui la compattezza e lo spessore ridotto sono caratteristiche dominanti. Dobbiamo quindi aspettarci che anche i supporti che utilizziamo ai giorni nostri, e che consideriamo talmente “naturali” da non dubitare della loro eternità, possano subire lo stesso destino, rapidamente rimpiazzati da tecnologie più innovative?
E quindi, cosa dovremmo fare? A mio avviso sarebbe sciocco voler rinunciare al progresso tecnologico, tentando di cristallizzare la situazione attuale e non cogliendo i vantaggi che l’avanzamento tecnico ha comportato e che continuerà ad apportare. Probabilmente la strategia migliore consiste nell’essere vigili, nel non accettare le novità in modo passivo, nel prendere coscienza dei nuovi problemi e nel tentare di affrontarli con un equilibrato mix di nuovi e vecchi approcci.
La chiusura di Yahoo Answers, spunto di partenza per questo breve scritto, e il problema della fragilità della memoria collettiva affidata alla Rete, mi forniscono infine l’occasione per riflettere sull’importanza del patrimonio librario della nostra nazione, testimonianza tangibile e duratura della nostra Cultura. Libri custoditi nelle tante piccole raccolte domestiche di chi tra noi ama la lettura (e se siete arrivati fino al fondo di questo articolo probabilmente vi annoverate tra questi), libri antichi ospitati negli archivi e nei monasteri, libri allineati in gran numero sugli scaffali delle 12268 biblioteche italiane, moltitudine sterminata di libri custoditi nelle Biblioteche Nazionali Centrali di Roma e Firenze.
Sit tibi terra levis, Yahoo Answers