Essenziali attributi per consiglieri di libri

di Fabrizio Rinaldi, 25 gennaio 2020

A chi sfida una qualunque platea pubblica (metropolitana, sala d’aspetto o parco pubblico che sia) col semplice gesto di aprire un libro e leggere, sarà capitato di sentirsi dire: Hai un libro da consigliarmi? Quando leggi? perché io non ho tempo per farlo. Magari il rompiscatole nel frattempo smanetta sul cellulare, gli occhi incollati allo schermo per giocare, vedere un filmato o “socializzare” con gente con cui, nella realtà, probabilmente non avrebbe voglia di bere nemmeno un caffè.

Le distrazioni mediatiche non sono lì per caso: hanno lo scopo preciso di impedire l’elaborazione di un qualunque pensiero che non sia connesso ai messaggi commerciali. Quindi chi legge sulle pagine di un libro anziché sullo schermo di uno smartphone crea disarmonia nel quadro. Suscita curiosità e inquieta anche un po’.

Ma il libro è anch’esso soggetto a leggi di mercato, le stesse che valgono per qualsiasi altra mercanzia. E queste leggi prevedono un acquisto, ovvero un esborso, non sempre (quasi mai) proporzionale al valore dei contenuti. Il problema vero nasce però dopo: se hai acquistato un libro si suppone che abbia anche desiderio di leggerlo (a meno di essere un bibliomane feticista). Ma per leggerlo è necessario dedicargli una buona disponibilità di tempo: e qui la cosa si complica, perché a differenza del lavativo qui di fianco, seduto sulla panchina col libro in mano, la gran parte dei potenziali lettori quel tempo ritengono di non averlo.

Quindi accade che in molti casi ci si limiti all’acquisto del volume desiderato, rimandandone la lettura a tempi meno zeppi di impegni, magari ad una vecchiaia da trascorrersi in panciolle, sulla sdraio. Dimenticando, o fingendo di ignorare, che il fiato del lavoro ci rimarrà sul collo fino alla fine dei nostri giorni.

Abbiamo così individuato due diverse modalità di rapporto col libro: quella del lettore e quella del compratore, che non sempre coincidono.

Le richieste di consigli di lettura rientrano nella ritualità del compratore di libri, piuttosto che in quella del lettore: si demanda infatti ad altri la scelta (sempre perché non ho tempo per sceglierli io), contando sul fatto che i testi vengano suggeriti tenendo conto delle predilezioni del richiedente. Cosa che, in realtà, difficilmente accade.

Di fronte ad una situazione del genere è difficile immaginare un ruolo per il “facilitatore di letture”. È una attività decisamente anacronistica, specie in un paese in cui leggere un quotidiano o un libro è ritenuta dai più una perdita di tempo, o un obbligo cui sottostare di malavoglia solo in età scolastica.

Una volta invece questo ruolo era importante. I primi suggeritori di letture erano naturalmente gli insegnanti e i genitori, quando andava bene (spesso no), ma poi quello più autorevole diventava il libraio di fiducia, che conoscendo i gusti e le aspettative dei suoi clienti li indirizzava verso le cose “giuste”.

Oggi, per la fauna in estinzione che prova ancora il desiderio di leggere, questo ruolo se l’è assunto Amazon. Il nostro profilo è tracciato e costantemente aggiornato nei suoi archivi digitali in funzione degli acquisti che abbiamo fatto o dei volumi che abbiamo memorizzato nei “desiderati”, e consente al famigerato algoritmo di anticipare i nostri desideri e proporre tutto ciò che potrebbe suscitare il nostro interesse.

L’unico, illusorio margine di autonomia che conserviamo è quello di visionare le recensioni scritte da altri lettori sulle riviste specializzate, su Anobii, su Amazon stesso o su siti ritenuti “intelligenti”. Sono questi i nuovi “consiglieri di libri”. Hanno assunto il ruolo che un tempo era degli amici, dei librai o degli insegnanti. Il problema è che lì troviamo per lo più delle conferme alle nostre ipotesi d’acquisto, perché anche le recensioni hanno la funzione di indurci a comprare quel libro.

È dunque necessario riabilitare la professione (gratuita e in declino) del “consigliere di libri”, la si eserciti a voce o tramite bit. E possiamo provare a farlo individuando alcune competenze e stabilendo alcune regole per un corretto esercizio.

  • Va innanzitutto tenuto presente che all’aspirante lettore, in realtà, interessa soprattutto conoscere i contenuti del libro indicato. Alla fine, probabilmente il libro non lo leggerà neppure (i consigli sono richiesti, ma difficilmente sono seguiti). È comunque opportuno saperlo presentare bene, non tanto per lo scopo che si potrebbe ottenere, ma per il semplice gusto di farlo.
  • È sempre bene suggerire i classici, tanto non li legge più nessuno. Quelli che millantano di averlo fatto, di norma si sono limitati a leggerne la trama su Wikipedia. Consigliare i libri del momento invece non è saggio: in genere il lettore che chiede suggerimenti ne sa più del consigliere, perché ha già spulciato sul web le varie recensioni (perlopiù lusinghiere).
  • Allo stesso modo, al lettore molto informato su un argomento o su un genere letterario non ha senso raccomandare testi che probabilmente conosce già. Invece è opportuno suggerirgli letture che si situino fuori dai suoi orizzonti ordinari e gliene facciano intravvedere di nuovi. È un azzardo, ma può anche creare la fama di suggeritore leggendario. E comunque, un risultato lo si ottiene: se il richiedente storce il naso ci si libera di uno scocciatore che impedisce a noi di leggere.
  • Sarà magari scorretto tranciare giudizi su ciò che legge chi chiede consiglio, ma visto che il parere – per lo più – è preteso, gratuito e alla fine non accolto, ci si può permettere di stroncare tutto ciò che consideriamo spazzatura. È anzi più che mai lecito in questo caso proporre testi che cozzano totalmente con le abitudini di lettura del richiedente: ad uno che legge Volo, consiglia Byron (magari scorgerà la luce).
  • Qualora il consigliato rimanga deluso, si deve perseverare nel parere proposto. Ai suoi fendenti di disapprovazione, è necessario rispondere con un tocco di ironia sulle lecite differenze di opinioni.
  • Come fa il medico, per esercitare la professione di suggeritore è necessario aggiornarsi continuamente: quindi leggere, leggere, leggere. Non ci sono scorciatoie. È l’unico modo per mantenere accesa la fiamma della curiosità letteraria (e non solo quella). Il paziente deve assimilare, quasi per osmosi, dalle parole del facilitatore non soltanto le coordinate del libro, ma anche l’emozione che s’è provata nel leggerlo. Anche se poi, come ogni buon malato, non seguirà le prescrizioni.
  • La responsabilità di un consigliere è grande: deve indicare la direzione di marcia verso un paradiso, letterario o utopistico che sia. Non può tradire la fiducia che gli è accordata, millantando saperi che non possiede, pena essere smascherato appena il richiedente pone delle domande intelligenti. Quindi, deve aver letto i libri che propone (sembra ovvio, ma lo è meno di quanto si creda).
  • È bene che il consigliere di percorsi letterari accetti a sua volta consigli da altri. Scendere ogni tanto dal piedistallo della conoscenza e mettersi nei panni del richiedente aiuta a conoscere altri percorsi letterari, magari inesplorati.
  • È consentito rifilare anche libri che non si sono apprezzati appieno, ma dei quali si percepiscono le possibili compatibilità col richiedente. È stuzzicante pensare che forse altri potranno gradirli. Capita un po’ come per alcune donne verso le quali si prova una rasserenante consolazione sapere che qualcun altro le possa amare.
  • L’ego smisurato del consigliere di libri a volte fraintende gli intenti di chi gli rivolge la parola, magari solo per attaccar bottone … I saputelli propinano subito un tomo sulla semiotica di Eco, quando – magari – la fanciulla cercava un approfondimento tangibile sul Kamasutra (forse questo è il sogno segreto di ogni consigliere maschio).
  • La donazione dei consigli di lettura non è vincolata a luoghi o situazioni deputati: poco importa se avviene durante una cena fra amici o attraverso un video su Youtube. L’importante è che assuma un carattere di esclusività e di originalità. Il gran maestro dei consiglieri di libri è colui che riesce a rendere la Bibbia accattivante per i suoi contenuti originali.
  • Scrivere è, oggi più che mai, un’operazione commerciale. La responsabilità della pubblicazione di cose dozzinali è da ripartire equamente tra chi scrive da cane e l’editore che gli dà voce. Ma anche chi questi testi poi li suggerisce è da denunciare per reati contro l’intelligenza. La vendetta del lettore deluso si abbatterà su questo impostore. Ma intanto ne va della credibilità dei tanti consiglieri onesti …

In sintesi: fare il promoter di letture intelligenti è un mestiere tutt’altro che remunerativo, che presuppone tuttavia molta responsabilità e coscienza. Tutte cose che qualificano chi continua a svolgere questo ruolo come un dotto o come un fesso, a seconda dell’ottica nella quale lo si inquadra. E tuttavia, non è un’attività ormai del tutto priva di senso.

Continuano ad essere ancora molti coloro che non trovano in alcun videogioco o film, sui social o nell’intrattenimento virtuale, quello stimolo ad un dialogo silenzioso e intimo che l’oggetto libro è invece ancora in grado di suscitare. Per incoraggiarli ci sarà sempre bisogno di qualcuno che li guidi in mezzo alle nebbie. Qualcuno che offra, lungo la strada, il ristoro di un Punto di vista.

Collezione di licheni bottone

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Guerra per bande

Paolo Repetto, 25 gennaio 2019

Se il buon giorno si vede dal mattino siamo messi bene. Stamane il primo telegiornale annunciava lo smantellamento di una gang di adolescenti veneziani, tutti tra i tredici e i sedici anni e tutti di “buona famiglia”, che si ritrovavano quotidianamente in punti diversi della città per progettare e mettere in atto le loro imprese: pestare un qualsiasi coetaneo di passaggio, e all’occorrenza anche chi ne prendeva le difese, derubare turisti e residenti, inscenare violente scorribande lungo le calli. Naturalmente sono stati individuati, ma non fermati e legati e bastonati per bene: saranno severamente ammoniti. È possibile che cambino zona e orari di lavoro.

Non è una novità: la settimana scorsa accadeva a Napoli, un mese fa a Milano. Nei notiziari se parla però solo in casi estremi, quando qualcuno finisce all’ospedale, perde un occhio o è storpiato per sempre, o quando va a fuoco un senzatetto. Se non si arriva a questi eccessi, se le vittime se la cavano solo con denti rotti, lividi e occhi neri, è considerata normale amministrazione. Documentata, tra l’altro, dai video che i nostri eroi diffondono orgogliosamente sui social.

A questo punto dovrebbe partire un pistolone psico-sociologico, di quelli ammanniti in tivù dai vari Galimberti o Recalcati o Morelli o altri ordinari partecipanti ai talk show, per dimostrare che quei disgraziati sono essi stessi vittime, della società, dei genitori, della scuola, della televisione, dei videogiochi, e che vanno seguiti e recuperati, perché nessuno è naturalmente malvagio. Dimenticando sempre che forse andrebbero seguiti prima quelli che della violenza sono stati vittime, le cui ferite morali non si rimargineranno mai più. Ma ve lo risparmio. Per due motivi: perché non credo in nessuna di queste balle e perché ho intenzione di trattare l’argomento da un punto di vista non conforme.

Posso farlo con cognizione di causa, perché da ragazzo sono stato io stesso un capobanda. Ma devo subito operare una distinzione, che non è solo linguistica. Una banda non è una gang. Non so quali siano in inglese le alternative a questo termine, e se ce ne siano, ma nell’uso italiano gang rimanda immediatamente ad una associazione a delinquere, mentre banda ha una gamma di possibili interpretazioni molto più vasta, che vanno dall’accezione più folkloristica (la banda musicale) a quella storico-sociale (la banda del Matese nell’800) a quella decisamente criminale (la banda della Magliana o quella della Uno bianca). Fino a ieri, quando si parlava di “bande giovanili”, o meglio ancora adolescenziali, la connotazione era decisamente ludica, al più rimandava a un termine specifico dell’antropologia. Se esistevano bande criminali composte da adolescenti si trattava comunque di organizzazioni create e controllate senza tanti scrupoli da adulti, come quella del perfido Fagin in Oliver Twist. Io parlo invece di quelle aggregazioni spontanee che col mondo adulto avevano nulla a che fare, e funzionavano secondo codici propri: ma che mai si sarebbero date come unico scopo la violenza gratuita e lo sprezzo di ogni valore. Proprio su questa differenza, sulle sue origini e sulle sue motivazioni vorrei fare qualche riflessione, partendo appunto dalla mia esperienza.

Dicendo “da ragazzo” mi riferisco al periodo a cavallo tra gli anni cinquanta e i sessanta, quando anche a Lerma arrivavano notizie delle gesta dei teddy boys inglesi, mentre sullo schermo del cinema parrocchiale sfilavano i motociclisti del “Selvaggio” e gli studenti de “Il seme della violenza”. Dietro le mie bande però non c’erano quei modelli. C’era invece tantissimo John Ford, e c’era la migliore letteratura per ragazzi che mai sia stata prodotta, da L’isola del tesoro a Capitani Coraggiosi e a Hukleberry Finn.

Il riferimento assoluto era naturalmente rappresentato da “I ragazzi della via Pàl” (ancora oggi darei chissà cosa per ritrovare la vecchia edizione Salani, per anni la mia Bibbia). Il mio campione tra i ragazzi ungheresi era Boka, un ”giusto”, come lo definisce Molnàr, un capo naturale, grande organizzatore, più maturo ed equilibrato degli altri: ma per certi versi mi riconoscevo anche in Csónakos, il campagnolo robusto, ottimo arrampicatore di alberi, che non teme nessuno e riesce a sconfiggere anche il più forte dei temibili gemelli Pásztor. Finivo persino per identificarmi con Franco Áts, il capo delle rivali camicie rosse, perché almeno dimostra di apprezzare il coraggio del povero Nemecsek e gli concede l’onore delle armi.
Non ho mai capito perché I ragazzi della via Pàl non sia da sempre un testo obbligatorio nelle scuole (così come avrebbe dovuto essere per La guerra dei bottoni. Quest’ultimo era stato edito in Italia già nel 1929, nei classici del ridere di Formiggini, tra l’altro con le illustrazioni di Gustavino, ma fino agli anni sessanta non era più ricomparso e quindi non faceva parte del nostro bagaglio). Libri come quelli conquisterebbero alla lettura un sacco di preadolescenti che trovano noiosissime le pappine politicamente corrette propinate oggi loro da educatori progressisti. Non è affatto vero che si tratti di letture datate: se un ragazzino attorno ai dieci anni non ha il cervello già centrifugato dai videogiochi o dal parcheggio continuativo davanti alla tivù li troverà divertenti e stimolanti come li abbiamo trovati noi. Gli esperimenti che ho fatto con figli e nipoti e figli di amici, ai quali ho sempre e solo regalato, oltre a quelli già citati, La freccia nera o Un capitano di quindici anni, e Salgari in ogni salsa, mi confortano in questa idea.
Ne i “I ragazzi della via Pàl” si trovavano tutti gli elementi fondamentali per la costituzione di una banda: un territorio (con tanto di capanna), il tesoro e il codice comportamentale (oggetto del giuramento). Nel caso nostro, per esigenze strategiche e perché i miei genitori in queste cose erano abbastanza tolleranti, il territorio tendeva quasi sempre a coincidere con il pratone e col bosco sottostanti la mia abitazione, dove in genere sorgeva la capanna, e che consideravamo “zona di assoluto rispetto”: l’accesso era interdetto a chiunque non conoscesse la parola d’ordine e i confini erano segnati alla maniera indiana (Renzo, il figlio del macellaio, procurò una volta delle mandibole scarnificate di maiale, che per qualche tempo sorrisero sinistramente sulle punte dei pali al limitare del bosco). C’erano poi aree “protette”, come gli orti, i frutteti o le vigne delle famiglie degli associati alla banda, nelle quali teoricamente non dovevano essere compiute scorrerie (mentre il resto del territorio era aperto alle operazioni di approvvigionamento. C’erano infine delle zone franche, come la piazzetta del castello, dove avevano luogo sotto gli occhi del viceparroco gli incontri pacifici e le partitelle di calcio, e delle vere e proprie terre di nessuno, come il bosco della Cavalla o il fiume, dove invece avvenivano gli scontri.

L’epicentro della vita di banda era naturalmente la capanna. Ciascuno doveva contribuire alla sua costruzione con materiali di recupero, ma in qualche caso più che di recuperi si trattava di vere e proprie espropriazioni, col risultato che più di una volta ci trovammo a smantellare tetti o pareti per restituire travi e lamiere a parenti o a vicini imbestialiti. Una volta attorno alla capanna erigemmo una vera e propria palizzata, un capolavoro di architettura militare rimasto a lungo nella memoria collettiva, ma che all’epoca non impedì a mio padre di chiedere la restituzione alla veloce dei pali. Oltre a quella ufficiale le bande avevano anche delle capanne “segrete”, punti di appostamento, nascondigli, o anche solo provocazioni per gli avversari, quando erano piazzate addirittura dentro il territorio nemico. Ne abbiamo disseminate un po’ dovunque, sugli alberi o dentro anfratti di roccia, nei boschi o sul greto del torrente. Un inverno costruimmo con blocchi regolari tagliati nel ghiaccio anche un igloo, al centro di un vero fortino con mura di neve pressata: lo innaffiavamo tutte le sere, e per l’eccezionale rigidità dell’inverno rimase in piedi sino all’aprile successivo. Era riuscito talmente bene che la banda delle cascine chiese l’autorizzazione a giocarvi, collaborando in compenso alla manutenzione: fu stipulata una tregua invernale, che come prevedibile venne rotta quasi subito e finì in una battaglia a palle di neve.

Ho continuato a costruire capanne a lungo, anche oltre l’adolescenza: l’ultima, eretta per mio figlio, ha resistito sino a mio nipote. Anzi, quella definitiva, riassuntiva di tutte, è proprio l’attuale “capanno”, che è stato (e rimane) la sede dei Viandanti delle Nebbie. Ho cambiato i materiali, ma la destinazione è rimasta in fondo la stessa.

Il tesoro era il nostro Graal: all’inizio era costituito solo da vecchie monete fuori corso, ma col tempo si arricchì di perle finte raccolte per strada dopo un incidente motociclistico, di banconote tedesche d’anteguerra da cinque o dieci marchi, sottratte a mia zia, di spille prese a prestito definitivo da madri o sorelle. Il tutto era custodito in un cofanetto di latta, nascosto nei luoghi più improbabili. Ogni tanto si facevano delle verifiche contabili e si cambiava nascondiglio, ma quando alla fine ci fu sottratto non riuscimmo più a recuperarlo, neppure sottoponendo alcuni indiziati alla tortura (sto parlando sul serio). Forse a furia di segretezza avevamo semplicemente dimenticato l’ultima ubicazione, e il cofanetto sta ancora là, dietro qualche pietra di un muro intonacato da decenni.

I testi sacri erano costituiti dalla formula del giuramento, dal codice cifrato e dall’elenco degli adepti: tutti naturalmente segretissimi. Ricordo che nella versione più elaborata, quella dell’ultima banda, coincidente con l’uscita dall’adolescenza, la formula faceva riferimento anche al bushido (che avevo sentito nominare ma in realtà non sapevo affatto cosa fosse) e al codice dei templari. Scrivemmo il giuramento su una carta da lettere antica, decorata da uno stemma, che avevo trovato e immediatamente requisito in una vecchia scrivania. In un paio di casi producemmo anche documenti top-secret con il resoconto delle azioni compiute, delle punizioni inflitte, di eventuali donazioni (quelle che andavano ad arricchire il tesoro).

Fondamentale era naturalmente il codice segreto. Questa era una mia specialità. Sono arrivato ad elaborare un codice alfanumerico complicatissimo, che poteva essere modificato di giorno in giorno. Essendo io invariabilmente il capo della banda, fondatore e organizzatore, ero anche l’unico detentore della chiave del codice, il che evidentemente ne rendeva impossibile l’utilizzo. D’altro canto non c’era necessità di comunicare segretamente alcunché, per cui andava bene così: l’importante era possedere una terribile arma segreta, che ci avrebbe eventualmente permesso di trasmettere dispacci vitali senza il timore che fossero intercettati.

A tutto questo si aggiungeva nelle mie bande un rituale particolare, che ne faceva qualcosa di assolutamente diverso dagli altri sodalizi giovanili spontanei dei dintorni. I nostri riti iniziatici, il giuramento e la pronuncia della formule, erano piuttosto spicci: ho sempre sofferto di un senso del ridicolo persino eccessivo, non ho mai sopportato le teatrali liturgie di tipo massonico e meno che mai quelle ipocrite di stampo mafioso o camorristico, che prevedono addirittura lo scambio di baci. Ma non ho saputo resistere al fascino della fratellanza di sangue, e non solo a quello del significato del vincolo ma anche a quello del gesto esteriore che lo sancisce. L’avevo visto fare in una delle prime strisce di Tex, e l’avevo poi ritrovato ne “La freccia insanguinata”. Praticando una piccola incisione sul polso si fa uscire qualche goccia di sangue, che va a mescolarsi con quelle del polso del tuo compagno. L’AIDS era lontano a venire, ed evidentemente eravamo corazzati anche contro il tetano o altre infezioni, perché noi l’incisione la praticavamo con un chiodo, invariabilmente arrugginito, e solo più tardi col coltello a serramanico di mio nonno, quello col manico di madreperla che ancora conservo, non molto più asettico. Il polso doveva essere rigorosamente il destro, l’incisione leggera (una volta il solito Renzo, che era un entusiasta e prendeva le cose sul serio, si beccò in pieno una vena e rischiò di dissanguarsi). Compiuta la cerimonia, applicato un po’ di fango mescolato a saliva e ad erba per cicatrizzare la ferita, si era fratelli di sangue.

Non so quanto gli altri ne fossero convinti, ma credo che in realtà il giuramento di sangue piacesse: anche perché non era allargato a tutti i membri della banda, ma univa solo quelli che avevano acquistato particolari meriti, per fedeltà al gruppo o per gesta compiute. Non era automatico, ma al tempo stesso non escludeva nessuno: sanciva un particolare stato di servizio. Rispetto agli estranei la cosa ci rendeva diversi: gli altri intuivano che tra noi esisteva un legame segreto, e fino a quando un traditore non lo rivelò continuarono ad arrovellarsi per capire cosa diavolo fosse. Dato che il sigillo cruento dura tutta la vita, sono ancora oggi fratello di sangue di molti miei coetanei: una buona parte non li ho più rivisti e altri probabilmente nemmeno se ne ricordano. Io invece lo ricordo, e penso di aver continuato sino ad oggi a comportarmi nei loro confronti di conseguenza.

Avevo introdotto questo rito pittoresco perché rispondeva a una mia precocissima passione per le sette e le società iniziatiche, ma soprattutto perché mi sembrava siglasse un rapporto speciale di fiducia e responsabilizzazione reciproca, all’insegna di una totale lealtà e franchezza. Sin da bambino ho concepito l’amicizia come un legame più forte di qualsiasi parentela. Quest’ultima te la trovi, l’amicizia te la conquisti. Mi sono anche chiesto se a muovermi fosse un’idea di possesso esclusivo, ma in tutta onestà non era così: mi piaceva allargare costantemente le mie amicizie e non ne sono mai stato geloso. Al contrario, ero mosso dal desiderio di vedere tutti vivere in una armoniosa e costruttiva concordia. Una sindrome da dio insoddisfatto di come gli è venuta la creazione, che cerca di mettere ordine, magari anche con le maniere brusche (sindrome della quale non mi sono mai liberato).

La disposizione all’apertura ha fatto paradossalmente di me anche un intollerante: in linea di principio sono sempre stato convinto che tutti meritassero la mia amicizia, e felice di ottenere la loro: ma di fatto, per guadagnarla certi requisiti mi sono sempre sembrati imprescindibili. In assenza di questi, scatta pesante l’esclusione.

All’epoca, le bande avversarie e i loro componenti facevano parte di un gioco. Le nostre battaglie erano in fondo l’equivalente di partite di calcio, senz’altro meno cruente di quelle che avremmo combattuto pochi anni dopo sui campi dei tornei a sette organizzati nel circondario. I combattimenti erano leali (quasi sempre) e c’era un limite, come nei duelli al primo sangue. Esistevano regole non scritte, ma condivise: chi non vi si fosse attenuto era fuori, messo al bando dai suoi prima ancora che dagli avversari. Non avevamo motivo per odiarci o disprezzarci a vicenda: anzi, il nostro valore era parametrato su quello dell’avversario: e comunque, al di fuori dal gioco condividevamo pacificamente le aule scolastiche e il circolo parrocchiale. Intendo dire che l’appartenenza ad una banda o all’altra dipendeva in genere da fattori del tutto contingenti, dalle parentele, dall’abitare nella parte alta o in quella bassa del paese, o nei cascinali dei dintorni. E questo faceva sì che riconoscessimo un livello superiore a quello dell’appartenenza, nel quale valeva la stima individuale, così che le amicizie veramente profonde potevano svilupparsi anche con membri delle bande avverse. In fondo, lo stesso Franco Ats va a fare visita al povero Nemecsek morente e a rendergli omaggio, e questo gli vale più di qualsiasi vittoria sul campo.

Forse ho dato l’impressione che nella mia banda regnasse un regime monocratico, ma non è esattamente così. Il principio fondante era anarchico: da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni. Che nel nostro linguaggio suonava: se sai fare meglio una cosa, la fai tu: se hai bisogno di qualcosa, ti aiutiamo noi. E tradotto ulteriormente significa: se vogliamo che la cosa funzioni, e che tutti ne traggano vantaggio, largo alle competenze. Ora, in effetti io di competenze ne avevo parecchie, sia teoriche che pratiche. Avevo letto più libri, praticamente tutto Salgari, buona parte di Verne e di Dumas e tutto Tex; ero il proiezionista del cinema parrocchiale e quindi avevo visto più film western, magari due volte, e li ricordavo a memoria, attori e regista compresi: conoscevo le regole dei duelli, l’organizzazione dei Compagnons de Jehu, le strategie dei tigrotti malesi, i codici d’onore, ecc … Sapevo poi scrivere un regolamento in bella calligrafia e nel linguaggio giusto, e da buon figlio di contadino sapevo distinguere gli alberi, scegliere il legno adatto per le spade, quello per gli archi e quello per le cerbottane. Soprattutto, da amante della noble art me la cavavo bene nelle scazzottate e nella lotta libera, e da sognatore impenitente riuscivo a dare un tocco di epicità a tutto ciò che accadeva (un po’ quello che sto cercando di fare adesso). Insomma: avevo quanto occorreva per guidare un gruppo, e mi era riconosciuto.

Questo non significa che fossi preda dell’ebbrezza del comando. Lo vivevo anzi come una enorme responsabilità: mi sentivo responsabile di tutto e per tutti. Ma proprio questo mi spingeva a rendere il più possibile democratica la guida della banda. Ho riconosciuto molto più tardi questo atteggiamento nello Swann dei “Guerrieri della notte”. Credo la si sarebbe potuta definire una democrazia rousseauiana. Volevo avere attorno gente convinta di quel che faceva, persone che avessero le loro opinioni e sapessero farle valere, non dei gregari a rimorchio. Il mio compito era di proporre delle idee e di stimolare le critiche e le proposte altrui (e in questo senso, anticipavo il Keating de “L’attimo fuggente”). Alle decisioni poi dovevano partecipare tutti, con egual peso (nell’ultima fase avevamo introdotto anche lo scrutinio segreto, con pietre bianche e nere) e tutti erano tenuti a rispettare quanto deciso dalla maggioranza.

Ora, in tutta onestà non sono proprio sicuro che le cose stessero esattamente così: così le ricordo io a sessant’anni di distanza, e comunque, se il quadro era forse meno idillico, la sostanza era quella. Non ho inventato nulla, al più ho un po’ semplificato le cose: è vero che in genere era la mia opinione a prevalere, ma questo avveniva nel rispetto delle regole di quel gioco. Sottolineo che di fatto si trattò sempre della stessa banda, rimasta in vita per almeno quattro anni: ogni anno cambiavano la denominazione e i rituali, perché nel frattempo avevamo letto nuovi libri o visto nuovi film, e ci furono degli avvicendamenti, ma lo zoccolo duro rimase sostanzialmente immutato. Chi non era d’accordo era liberissimo di andarsene, e chi lo faceva provava spesso a fondare bande sue, che si scioglievano quasi immediatamente. Veniva riaccolto a braccia aperte.

La stagione delle bande è stata entusiasmante. Almeno per me, che ero animato da un infaticabile spirito organizzativo. Come in tutte le avventure di questo tipo la fase più divertente era naturalmente quella iniziale, con la costruzione delle capanne, i rituali iniziatici, i primi scontri con gli avversari, quando c’erano avversari. In assenza di questi ultimi, e soprattutto dopo che nel cinema parrocchiale erano stati proiettati I due capitani e Passaggio a Nord-ovest, le attività della banda potevano assumere un carattere esplorativo-scientifico, e un paio di spedizioni a risalire il Piota sono rimaste memorabili. Poi subentrava la noia, veniva meno la novità, si verificavano le prime insubordinazioni, qualche volta anche tradimenti, da parte di chi riteneva di non aver ottenuto un grado e un ruolo adeguati. Di positivo c’era il fatto che, a differenza dei governi, le bande possono essere ricostituite ex novo in quattro e quattr’otto, e non hanno nemmeno bisogno del voto di fiducia, perché nascono già su quel presupposto.

La stagione si chiuse comunque un attimo prima che le cose potessero degenerare e diventare pericolose. Costruimmo l’ultima grande banda nell’estate del ‘62, l’anno del passaggio dalle medie alle superiori, e la faccenda finì con una spedizione punitiva contro tre diciottenni, rei di avere distrutto la capanna dei nostri avversari e sottratte le quattro suppellettili che l’arredavano. Si creò un’alleanza immediata, tenemmo un consiglio di guerra congiunto che neppure le SS, e scatenammo una caccia all’uomo che fece perdere il senso della misura un po’ a tutti. Quando la sera trovai un carabiniere a colloquio con mio padre capii che l’età dell’innocenza era finita, e che di lì innanzi avrei dovuto cambiare registro. Ormai avevamo messo un piede nel mondo degli adulti.

***

Ho fatto questo lungo giro per arrivare a chiedermi cosa sia successo dopo, e quando, visto che ci ritroviamo oggi a parlare non più di bande, ma di vere e proprie di gang di minorenni: il che poterebbe far temere che voglia comunque infliggere un sermone sociologico. Non è così. Magari non sembra, ma sono per le spiegazioni semplici (non semplicistiche) dei fenomeni sociali: ritengo infatti che anche quelle minuziose e complesse siano comunque parziali, dal momento che ci restituiscono delle medie, e non delle persone. Tanto vale quindi proporre anche la mia, che analizza solo uno dei tanti fattori del cambiamento, neppure quello più evidente, e che parziale lo è proprio in tutti i sensi: ma ha almeno il merito di toccare un nervo sul quale in genere si tende a glissare.

Per cominciare, partirei dal “quando”.

Io detesto costui. È malvagio. Quando viene un padre nella scuola a fare una partaccia al figlio, egli ne gode; quando uno piange, egli ride. Trema davanti a Garrone e picchia il muratorino perché è piccolo; tormenta Crossi perché ha il braccio morto; schernisce Precossi che tutti rispettano; burla persino Robetti, quello della seconda, che cammina con le stampelle per aver salvato un bambino. Provoca tutti i più deboli di lui, e quando fa a pugni, s’inferocisce e tira a far male.” Questa è la voce di Enrico, il protagonista del libro Cuore. Parla di Franti, uno che nella mia banda non sarebbe mai entrato, o ci sarebbe entrato solo dopo una buona rieducazione a dosi giornaliere di legnate. Perché i Franti esistono, ma finché esistono i Garrone sanno qual è il loro posto, e si adeguano.

l’Ordine o lo si ride dal di dentro o lo si bestemmia dal di fuori; o si finge di accettarlo per farlo esplodere, o si finge di rifiutarlo per farlo rifiorire in altre forme; o si è, come Franti ha tentato, uno scolaro che ride in scuola, o un analfabeta di avanguardia. E forse Franti, […] si apprestava in una lunga ascesi a esercitare, all’alba del nuovo secolo, sotto il nome d’arte di Gaetano Bresci.” Questa è invece la voce di Umberto (Eco), autore dell’Elogio di Franti (1963).

Che poi, dieci anni dopo (1973), rincara la dose:

“Ma la storia non si è fermata lì Nel 1966, Franti faceva una riapparizione gloriosa con la «Lettera a una professoressa» dei ragazzi di Barbiana: «Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate»… Franti capiva che non era né cattivo né stupido, e si rifaceva a una scuola a misura di subalterno, rifiutava Enrico come un Pierino oppressore e veramente diventava l’eroe positivo (ma questa volta a tutto tondo) del nuovo “Cuore”, modello – speriamo – ai ragazzi italiani di domani.

Tuttavia all’università Don Milani non c’era, e Franti tenta nuove maschere nel 1968, all’università di Torino: il discorso di chiusura dell’anno accademico viene steso da Franti su «Quaderni Piacentini» sotto il nome d’arte di Guido Viale. Meno equilibrato del discorso dei Franti di Barbiana, senz’altro meno costruttivo e più iconoclasta. Ma l’Italia trema. […]

Franti ora occupa le assemblee e impone la sua presenza. Franti ora è fuori dalla scuola. Non è morto, studia sui fogli della controinformazione.”

La data è importante. L’anno precedente Franti e i suoi nuovi compagni, ridotti in stato confusionale dallo studio, hanno “giustiziato” sparandogli alle spalle il commissario Calabresi, reo di aver fatto volare dalla finestra l’anarchico Pinelli (salvo poi risultare che al momento della tragedia il commissario non era nemmeno presente nella stanza – e a dirlo è Gerardo d’Ambrosio, magistrato definito “comunista”. Come poi ci sia volato è un altro discorso). Negli anni successivi, avendoci preso gusto, giustizieranno altre 130 persone, annullando ogni differenza di classe e spaziando da Guido Rossa a Marco Biagi.

Nel 1963, quando usciva l’Elogio di Franti, avevo già superato i limiti d’età per le bande paesane. Dieci anni dopo, quando Eco rincarava la dose, ero in fascia utile per entrare nelle bande armate. I requisiti sociali non mancavano: tra i tantissimi “rivoluzionari” che ho conosciuto nessuno era più proletario di me. C’erano anche i requisiti politici: avevo partecipato al ‘68, non come primo attore, naturalmente, ma come uomo del servizio d’ordine o come stuntmen. C’erano infine le competenze organizzative: vantavo un curriculum invidiabile di creatore di bande. Due cose però mi differenziavano dai Franti: anzi, tre. Non ero un allievo di Umberto Eco. Non potevo concepire che si ammazzasse qualcuno sparandogli alle spalle, o che si gioisse se qualcuno lo faceva. Leggevo libri di storia anziché quelli di Mao o di Guido Viale. E continuo a leggerli ancora oggi.

Ora, non vorrei che quella nei confronti di Eco apparisse una mia ossessione personale, una monomania persecutoria che me lo fa ritenere responsabile di ogni nefandezza. Non è affatto così. Diciamo che l’ho assunto a simbolo di un certo atteggiamento e di un certo modo essere, e un simbolo per essere efficace va scelto nel top della gamma. Se lo chiamo continuamente in causa è perché lo stimo molto più intelligente della media di quegli intellettuali o sedicenti tali che nell’illusione (ma per molti non esiterei a parlare di semplice vezzo da garantiti) di cambiare il mondo hanno fatto esattamente il gioco del sistema che pensavano di combattere. Era talmente intelligente da non aver mai creduto davvero in quella delirante incoscienza, dall’aver sempre frapposto alla sua adesione il filtro dell’ironia: ma a quanto sembra non era altrettanto onesto da prenderne nettamente le distanze e da raccontarla per quello che era. E questo mi irrita, perché se l’intelligenza c’è, e su quella di Eco, ripeto, non ci piove, ma si fa poi il contrario di quanto essa suggerisce, allora il sospetto è che a prevalere siano il cinismo, la presunzione, la supponenza. Non parlo di opportunismo, quello lo riservo agli squallidi guitti alla Dario Fo, o di ipocrisia, che è propria dei “cantori degli ultimi”, alla Fabrizio de André, celebrati da una sinistra da buffet che ha bisogno di santi laici a buon mercato: ma mi delude terribilmente che uno come Eco non abbia avuto la faccia di dire che gli analfabeti di avanguardia li aveva evocati proprio lui.

Purtroppo c’è anche di peggio. Nell’appello apparso sull’Espresso pochi mesi prima della morte di Calabresi, nel quale si denunciavano i “commissari torturatori”, quando ancora la fitta cortina fumogena creata dagli apparati non consentiva di valutare come realmente si fossero svolti i fatti, la prima firma era la sua. E non ho letto, nemmeno dopo, una sola sua parola che stigmatizzasse questo proclama di Lotta Continua: “È chiaro a tutti che sarà Luigi Calabresi a dover rispondere pubblicamente del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara… nessuno, e tantomeno Calabresi, può credere che quanto diciamo siano facili e velleitarie minacce. Siamo riusciti a trascinarlo in Tribunale, e questo è certamente il pericolo minore per lui, ed è solo l’inizio. Il terreno, la sede, gli strumenti della giustizia borghese, infatti, sono giustamente del tutto estranei alle nostre esperienze … Il proletariato emetterà il suo verdetto, lo comunicherà e ancora là, nelle piazze e nelle strade, lo renderà esecutivo… Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati: ma è questo, sicuramente, un momento e una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo Stato assassino.” Per uno che sulle parole ci ha campato avrebbe dovuto essere chiaro che si trattava di una vera e propria fatwa, di una istigazione ad uccidere. E il silenzio su questa infamia ha solo due spiegazioni: la complicità o la viltà.

Qui si scende però su un terreno molto pesante, e scivoloso, perché di quel silenzio e di quella rimozione si sono fatti complici nella quasi totalità gli altri settecentocinquanta firmatari dell’appello (compresi alcuni tra i nomi più illustri della nostra cultura, certamente al di sopra di ogni sospetto, da Primo Levi a Bobbio). Non voglio spingermi troppo avanti, almeno in questa sede. Qualcosa da rimproverare in proposito l’avrei anche a me stesso, qualche emozionale simpatia che non può essere giustificata e liquidata con la scusante dell’età: e forse solo l’aver conosciuto da vicino alcuni “maestri” della giustizia proletaria, alcuni tribuni degli sfrattati, e averli subito pesati “a naso”, con un po’ di buon senso contadino, mi ha impedito di andare oltre.

Voglio rimanere invece sull’Elogio di Franti. Pochi mesi prima di morire Eco ha scritto: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. Al solito, ha fotografato perfettamente ed efficacemente la situazione, anche se non era il caso di attendere il suo imprimatur per rendersene conto. D’altro canto, non c’era da aspettarsi di meno da uno che già sessant’anni fa scriveva: “Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi. Entra a contatto con le più vertiginose zone dello scibile e ne esce vergine e intatto [… ] pone grande cura nel non impressionare lo spettatore, non solo mostrandosi all’oscuro dei fatti, ma altresì decisamente intenzionato a non apprendere nulla”, cogliendo tempestivamente i segni (non a caso era un semiologo) di quale sarebbe stato il futuro del mondo governato dai nuovi media.

Ma allora perché, proprio nello stesso libro, nel Diario minimo, compare la riabilitazione di Franti, che dallo smascheramento delle ipocrisie della società e della cultura borghese scivola poi irrimediabilmente nell’irrisione e nella demolizione di ogni valore: e perché la ripresa del libro, nel decennale della prima comparsa, si fa esaltazione compiaciuta dei comportamenti sballati e ignoranti, spacciandoli per comportamenti prerivoluzionari, dando tutto sommato dell’idiota a chi in quei valori voleva continuare a crederci, e voleva semmai riappropriarsene, spogliati naturalmente di tutta la melassa e della retorica appiccicosa nelle quali la scuola li annegava, ma nella consapevolezza che quella scuola era l’unica porta d’accesso agli strumenti di “purificazione”. Non potevano certo esserlo i libretti di Mao o quelli di Guido Viale, e nemmeno gli editoriali di Lotta Continua.

E qui devo tornare mio malgrado sul terreno pesante, perché certe tacite assolutorie rimozioni proprio non le digerisco e perché l’episodio cui mi riferisco ha tragicamente toccato un amico, e l’ho pertanto sempre davanti agli occhi, mentre pare scomparso dalla labile memoria collettiva. Proprio mentre l’intelligencija auspicava un nuovo libro Cuore, che avesse a modello positivo lo scolaro che sghignazza in classe e tormenta i compagni più deboli, in perfetta coerenza Lotta Continua si faceva portavoce dei rigurgiti “autenticamente rivoluzionari” provenienti dall’universo carcerario, incitandoli ad esprimersi, a esplodere: così che un anno dopo il sciagurato ritorno sul Franti da parte di Eco venivano uccisi in una rivolta carceraria, proprio nella città di quest’ultimo, e oggi anche mia, cinque ostaggi, tra i quali un medico che con un gesto degno di Garrone si era offerto in sostituzione di una sua infermiera. Quel medico Cuore lo aveva certamente letto e, al contrario di Eco, sapeva che dei Franti non ci si può fidare: ma ha voluto rischiare lo stesso, perché evidentemente credeva nei valori che quel libro, “turpe esempio di pedagogia piccolo borghese, classista, paternalistica e sadicamente umbertina”, gli aveva comunque trasmesso: mentre i Franti, “la cui grandezza morale e le cui ragioni sentimentali e sociali emergevano a dispetto dell’acrimonia con cui l’autore e il suo piccolo diarista filisteo ce lo presentavano” freddavano vigliaccamente lui e altri quattro inermi sventurati.

Allora. Ci rendiamo conto che nessuno oggi ricorda queste cose, che nessuno se ne è mai assunto un briciolo di responsabilità, anche solo morale? Che dietro l’indubbia incompetenza e il cinismo dimostrati dalle autorità nel corso delle trattative e nell’assalto finale è stata totalmente oscurata la responsabilità delle Pantere Rosse, il nucleo che traduceva in prassi all’interno delle carceri il mandato “rivoluzionario” di Lotta Continua? Un bella riflessione su questa vicenda, magari anche una Bustina di Minerva, magari fatta anche trent’anni dopo, intitolata “Come abbiamo potuto essere così stupidi, così irresponsabili”, forse non avrebbe intaccato la fama del professore (che naturalmente da Lotta Continua, al contrario che da Franti, aveva preso per tempo le opportune – ma molto misurate – distanze).
Il 1963 si presta come data simbolica anche per un altro motivo. È l’anno in cui prese avvio la riforma della scuola media, che in teoria avrebbe dovuto aprire a tutti l’accesso ad una istruzione superiore, e in pratica, pur con tutte le confusioni e incongruenze tipiche delle riforme all’italiana, bene o male operò una rivoluzione nella scuola. Ma nel momento stesso in cui le porte finalmente si spalancavano quella scuola veniva messa alla berlina, irrisa e svalorizzata, da chi peraltro aveva goduto del privilegio di avvalersene, e a quanto pare ne aveva tratto adeguati strumenti critici per metterla in discussione. Lo stesso Eco che scriverà “Il nome della Rosa” sosteneva in quegli anni, proprio intervenendo sulla riforma: “L’ossessione del latino è una manifestazione di pigrizia culturale, o forse di forsennata invidia: voglio che anche i miei figli abbiano gli orizzonti ristretti che ho avuto io, altrimenti non potranno ubbidirmi quando comando”. La cosa ha molto il sapore di una ripulsa snobistica nei confronti di ciò che è ormai alla portata di tutti. E se anche così non fosse stata nelle intenzioni, lo diventava nel modo in cui poteva essere recepita da chi prima era tenuto a starne fuori. E dal momento che io ero tra questi, non mi piaceva affatto.

Contro la scuola nella quale ero entrato, le sue storture, le diseguaglianze, il vecchiume dei metodi e dei contenuti, ho cominciato ad agitarmi da subito anch’io: ma su tutto resisteva la coscienza che stavo godendo per una volta anch’io di un privilegio, che se fossi nato nella generazione precedente quell’occasione non mi sarebbe stata concessa, che era un mio diritto goderne ma un mio dovere approfittarne nel migliore dei modi, e che il migliore dei modi era quello di trarne tutti gli strumenti di conoscenza possibili. Non potevo attendere che mi si regalasse nulla, non è così che funziona nel mondo dal quale arrivavo, ma non dovevo mollare, perché le cose vanno guadagnate, e traggono senso e valore e danno piacere in ragione dell’impegno che ci metti. Questo ha fatto la differenza tra me (e quelli come me) e coloro che all’epoca della contestazione gridavano: “vogliamo tutto”. Io non volevo tutto, non avrei saputo che farmene, volevo quella cosa lì particolare, la conoscenza, e volevo solo che mi fossero offerte le occasioni per conquistarmela.

Ha a che fare quindi Umberto Eco (ma adesso basta con i simboli: voglio dire tutta quella “élite progressista” di cui Eco era solo il più qualificato rappresentante, quella che veste all’occasione i panni proletari e beve barbera in locanda per farsi avanguardia, ma gira in loden per congressi e beve cognac per farsi gli affari propri), con le gang di piccoli delinquenti di cui raccontava stamane la televisione o con gli imbecilli di cui appunto Eco stesso parlava? Certo che sì. Stiamo qui ad assistere a fenomeni che non sono più solo inquietanti, ma devastanti, e a commentarli sconsolati, e a dirci magari che è sempre stato così, che nel mezzo delle grandi trasformazioni culturali sempre si è rimpianto ciò che si stava perdendo, nell’incapacità o nell’impossibilità di prevedere quel che stava arrivando: e ancora non siamo stati capaci di fare i conti con l’atteggiamento tafazziano che buona parte della nostra generazione ha tenuto nei confronti di tutto l’universo di valori edificato bene o male dalla cultura occidentale. “Una risata vi seppellirà” era uno degli slogan più abusati contro la psicologia piccolo borghese. Ma per seppellire qualcosa occorre scavare buche, non aspettare che sprofondi, e per ridere sarebbe bene, paradossalmente, avere motivi seri.

Non stiamo facendo l’una cosa e non abbiamo l’altra. La rivolta contro l’educazione tradizionale non ha sostituito a quest’ultima alcuna pedagogia rivoluzionaria. Ha semplicemente demandato il compito alla televisione, oggi ai videogiochi. La contestazione della scuola piccoloborghese ha declassato la scuola tutta a parcheggio di transito tra un impegno sportivo, uno sociale e uno musicale dei ragazzi. La demonizzazione dell’autoritarismo familiare ha trasformato i genitori in avvocati difensori “a prescindere” dei loro pargoli. L’attenzione alle problematiche dell’adolescenza ha creato stuoli di psicologi che ci campano su, stilano certificazioni di bisogni educativi speciali e traducono in redditizia terapia quello che spesso un paio di ceffoni risolverebbe in un minuto (o perlomeno, sortirebbe lo stesso inutile effetto).

Ecco dunque cos’è che mi irrita. Mi irrita constatare, proprio mentre scrivo queste righe, che sto dicendo cose simili a quelle scritte sugli stessi temi da Marcello Veneziani, un altro che quanto trascorsi non ha nulla da invidiare a nessuno (ma gli riconosco la coerenza), o da gente dello stesso calibro, e questo mi inquieta e mi sgomenta: ma non ho intenzione di sottostare a ricatti morali che fungono poi in verità da alibi. Costoro stanno facendo, a modo loro e per i loro fini maligni, quanto una sinistra seria avrebbe dovuto fare in altro modo e autonomamente da un pezzo: confrontarsi con il passato, almeno a partire dal secondo dopoguerra, (ma un’occhiatina anche a prima non guasterebbe) non per liquidarlo o nasconderlo sotto il tappeto, ma per fare un po’ di pulizia, ristabilire un minimo di verità sottratta alle convenienze del momento e ricavarne qualche lezione per l’oggi. Per capire, soprattutto, le radici vere di una crisi così profonda e rapida, ma non certo inaspettata e inspiegabile.

Mi irrito perché io a questa storia della sinistra caparbiamente ci credo ancora: ma credo che essere a sinistra non significhi solo volere un mondo più giusto, ma cominciare a costruirlo partendo proprio da se stessi, esigendo da se stessi sincerità, lealtà, equità, senza attendere che qualcuno vengo a imporle o che tutti miracolosamente inizino ad apprezzarle. E penso che il peggior nemico della sinistra non siano i Marcello Veneziani o Casa Pound o i Salvini, ché quelli ci saranno sempre e vanno messi in lista come il coperto, ma quella pseudo-sinistra stessa che ha pensato a lungo ci si potesse trastullare con le parole, con le lotte, con gli slogan, con le rivoluzioni, senza accorgersi che l’età per il gioco delle bande era finita: salvo poi, una volta resasi conto di quanto quei travestimenti stavano diventando imbarazzanti, abbandonare il terreno di gioco lasciandolo ingombro di macerie, e spostarsi altrove, perdendo pezzi ad ogni trasloco.

Mi irrito perché su un terreno lasciato in quelle condizioni è diventato quasi impossibile giocare, non si capisce più nulla, e allora ti spieghi i pargoli veneziani che viaggiano senza regole, senza limiti, orfani di qualsivoglia principio di lealtà e rispetto della dignità propria e altrui: e mi freme dentro la voglia di trascinare qualcuno per le orecchie, come facemmo noi con i tre sprovveduti diciottenni che erano venuti a devastare il nostro campo, e di imporgli di ripulire tutto e di rimettere in piedi il sogno. Almeno, dopo quella rinfrescata i nostri fratelli minori hanno potuto continuare per qualche tempo a costruire capanne. Ancora una volta, Eco una cosa importante l’aveva capita, quando proprio nel Diario minimo raccomandava ai genitori di far giocare i loro figli con armi giocattolo, pistole e spade e pugnali, per consentire loro di togliersi la voglia in un’età innocua. Chi non gioca alle bande da ragazzo rischia di volerlo fare poi da adulto, con conseguenze tragiche, e chi ci gioca senza un codice, non per costruire capanne ma solo per distruggere quelle altrui, sarà per tutta la vita uno sbandato.

Quanto a lui, al povero Eco che sin qui ho vigliaccamente bistrattato (dico vigliaccamente, perché non si dovrebbe attaccare chi non è lì a difendersi: ma nel caso di Eco, lo difendono in realtà egregiamente le sue opere), al di là di ciò che ho già detto circa la sua assunzione a simbolo, voglio ristabilire la verità della mia posizione nei suoi confronti.

Allora. Penso che Eco sia stato un grandissimo saggista, forse il massimo semiologo dell’ultimo mezzo secolo, un erudito formidabile e un critico acutissimo del costume contemporaneo. Ha incarnato l’immagine del vero sapiente, onnivoro e capace di digerire tutto lo scibile e trasformarlo in materiale da costruzione, ma anche e soprattutto in oggetto di piacere. È l’autore del primo romanzo postmoderno, scritto dal computer.(non è un refuso, ho proprio scritto dal, per sottolineare che la scrittura col computer è tutt’altra cosa di quella a mano o a macchina. Del resto, è quella che sto usando io in questo momento. Non significa che le cose vengano scritte dal computer, ma che sono da esso direttamente e pesantemente condizionate, e quindi vengono scritte, e persino pensate, diversamente da come lo sarebbero alla vecchia maniera. Che l’autore sia sempre l’uomo e l’influenza del computer sia solo “strumentale” lo dimostrano del resto gli esiti, che sono ben differenti tra la scrittura di Eco e la mia). Il nome della Rosa è anche un gran bel libro, tra i più belli del Novecento, ma poi fermiamoci li, perché i tentativi letterari successivi sono andati scivolando via via verso il penoso. Per essere un grandissimo romanziere, uno ad esempio come Manzoni, gli sono mancate di quello l’umiltà e la consapevolezza. Manzoni aveva capito che quando ti riesce un’opera come I promessi sposi devi chiudere e non scrivere altro.

Quindi, sotto il profilo intellettuale, uno dei massimi del nostro tempo. Per quello umano non so, non l’ho mai neppure intravisto di persona, quindi sarebbe stupido dare qualsiasi giudizio. Di certo a dieci-dodici anni aveva già moltissime più competenze di me, ma non credo fossero quelle necessarie per diventare un capobanda. E nemmeno mi pronuncio sulla fratellanza di sangue. Le poche volte che l’ho seguito in televisione era circondato da leccaculo o intervistato da conduttori adoranti. E, per essere uno che ha lanciato molti sassi, non sempre (quasi mai) si è assunto la responsabilità di quelli che rompevano i vetri, anziché la superficie melmosa dello stagno.

Ma la verità è che avrebbe senz’altro decrittato facilmente il mio codice segreto: e questo, una banda che vuol continuare a sognare non può permetterlo.

P.S. Se nel leggere queste righe qualcuno ha avuto l’impressione del dejà vu, lo conforto subito: ha ragione. Al di là del fatto che scrivo ormai quasi sempre le stesse cose, la prima parte di questo pezzo riprende, a volte integralmente, la bozza di una racconto iniziato molti anni fa e mai portato a termine, dal quale nel tempo ho pescato vari spunti che ho sparso poi in giro. Anche le considerazioni finali non sono originali, le ho anticipate, sia pure solo per accenni, in almeno un paio degli scritti più recenti. Segno senz’altro dell’inesorabile scivolamento nelle monomanie senili, ma anche del fatto che i temi della deriva idiota o addirittura criminale delle società contemporanea, e non solo delle bande giovanili, e quello dell’inaridimento dell’amicizia mi stanno veramente a cuore.


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Breve excursus dell’esoterismo europeo

di Fabrizio Rinaldi, 30 giugno 1991

Viaggiare verso il mistero non significa conoscerlo,
ma custodirlo come mistero, assumerlo come tale.

Pietro Chiodi

Introduzione

A dispetto del continuo progresso nelle conoscenze scientifiche e dell’opinione razionalizzatrice della scuola e della cultura di massa la nostra società continua a registrare un persistente, anzi crescente interesse per l’occulto.

In questo mondo di oscuri riti ed enigmatici personaggi l’uomo comune cerca una risposta ai quesiti esistenziali che lo affliggono.

Dato che la scienza ufficiale, la filosofia e la religione non offrono risposte immediate, concrete e soddisfacenti a queste domande, l’essere umano cade spesso nelle trappole di fantomatiche sette che con l’inganno abbindolano i loro adepti facendo credere loro di godere della possibilità di accedere a poteri o a saperi misteriosi e riservati a pochi eletti.

Solamente in Italia esistono più di seicento sette ufficialmente dichiarate che praticano i più svariati culti esoterici, con gli scopi e le origini più disparati.

È indubbiamente difficile individuare tra queste quelle che possono essere classificate come associazioni religiose o sapienzali e non società a fine di lucro, ma certamente ne esistono alcune che si prefiggono il solo scopo di aiutare l’uomo nell’affrontare serenamente la vita avvalendosi delle proprie facoltà, anche se spesso vengono potenziate da antichi riti, magari celebrati in lingua sconosciuta.

Servendomi dell’aiuto di conoscitori della materia e dalla lettura di libri sull’argomento (uno di quelli che più mi hanno stimolato all’approfondimento è senza dubbio Il pendolo di Foucault di Umberto Eco), ho cercato, basandomi soprattutto sulle origini delle sette, di individuare i più importanti ordini occulti che hanno caratterizzato la storia di questo millennio e finalizzati al proseguimento di una qualche forma di conoscenza, e non a spillare denaro agli sciocchi.

I Templari

Gli odierni Templari vantano una presunta discendenza dall’ordine religioso­militare del Tempio di Gerusalemme, comunemente denominato Templari.

Erano appunto dei monaci con spada al fianco, una novità assoluta nell’organizzazione della Chiesa.

L’Ordine venne fondato da un nobile cavaliere chiamato Hugo de Payer e da altri otto compagni nel 1118 con l’approvazione del re di Gerusalemme Baldovino II, che assegnò loro anche una parte del suo castello, costruito secondo la leggenda sulle rovine del tempio di Salomone.

La loro regola si basava essenzialmente sulla povertà, castità e obbedienza. Non possedevano nulla tranne il loro mantello bianco, con sopra ricamata una croce rossa a braccia uguali, e la loro spada; anche il cavallo doveva essere diviso con un compagno, questo è testimoniato anche dal loro primo sigillo sul quale erano impressi due Templari in sella ad un solo cavallo, segno di povertà e fratellanza.

Oltre alla regola suddetta c’era quella di difendere con la spada coloro che si accingevano a visitare i Luoghi Santi della Palestina.

Essi non dovevano obbedienza a nessuno tranne al papa in persona, e divennero pertanto in Terra Santa una specie di stato autonomo senza territorio.

L’ordine ebbe uno sviluppo sorprendente; solo alla metà del 1100 erano più di millecinquecento, con immensi possedimenti e un patrimonio in oro e pietre preziose superiore a cinquemila miliardi di lire attuali.

Questa enorme ricchezza era spiegata dalle donazioni di coloro che entravano a far parte dell’Ordine e di coloro che, in cambio di protezione, offrivano ai Cavalieri del Tempio ingenti somme. Questi non potevano in nessun modo utilizzare tale tesoro, ma praticavano il prestito; divennero così abilissimi banchieri prestando somme enormi ai sovrani dell’Europa con tassi d’interesse modesti.

Non si occupavano soltanto di denaro ma, grazie ai continui contatti con la cultura giudaica e islamica, i Templari diffusero in tutta l’Europa nuove idee filosofiche e nuove scienze: tra queste anche quelle occulte derivanti dalle dottrine degli Esseni, dei Terapeuti e degli Gnostici, le cui origini si perdono nel tempo. L’Ordine del Tempio però procurava grossi problemi a quasi tutti i sovrani europei proprio per la sua influenza economica e politica, che rendeva l’Europa quasi dipendente dai Templari.

In particolare questa situazione non piaceva a Filippo IV il Bello, di Francia, anche per il fatto che i Templari avevano finito per divenire proprietari di una vasta zona meridionale della Francia (la Linguadoca), creando uno stato templare in pratica indipendente.

Ciò spronò il sovrano a trovare il modo per liberarsi di loro e ad impossessarsi delle immense ricchezze dell’Ordine.

Egli però non aveva nessuna autorità sui Templari, e quindi dovette assicurarsi la collaborazione del pontefice, al quale l’Ordine doveva obbedienza, anche se questa era diventata in realtà solo teorica, dato che anche il Vaticano aveva debiti con i Cavalieri del Tempio.

Fu così che papa Clemente V, in combutta con Filippo IV, scomunicò l’Ordine per eresia.

All’alba di venerdì 13 ottobre 1307 quasi tutti i Templari in Francia vennero arrestati e i loro beni confiscati; ma i grandi tesori che anche il re aveva visto tempo prima non vennero mai trovati, e la sorte del favoloso “tesoro dei Templari” rimane ancora oggi un mistero.

È da ricordare che tutti i Cavalieri che vennero catturati si arresero passivamente; inoltre esistono prove certe della fuga di un gruppo di Templari incaricati di far sparire il tesoro del Tempio e tutti i documenti segreti.

Molti membri dell’Ordine arrestati furono processati, molti vennero sottoposti a torture e alcuni di loro cedettero confessando tutto ciò di cui la Santa Inquisizione li aveva accusati (insultare il nome di Cristo, ripudiare la croce, adorare un diavolo chiamato Baphomet considerandolo immagine del vero Dio, praticare l’omosessualità), ma altri resistettero e furono coerenti nelle loro idee anche sotto la tortura, come il Gran Maestro dell’Ordine Jacques de Molay al quale questo coraggio non impedì di essere condannato al rogo.

Tutto questo non significa che i Templari fossero scomparsi completamente perché negli altri stati riuscirono a sopravvivere trasformandosi in una società occulta, costretta alla latitanza in quanto accusata di eresia.

L’ultimo atto storico documentato della storia dell’Ordine è il supplizio dell’ultimo Gran Maestro nel marzo del 1314.

Jacques de Molay maledisse i suoi persecutori e promise al popolo che entro l’anno sarebbero morti. Un mese dopo papa Clemente V morì, sembra per un attacco di dissenteria. A novembre morì anche Filippo IV cadendo da cavallo.

La maledizione non finì lì, era destinata a gettare un’ombra tenebrosa sull’intera stirpe reale francese: nel 1789, quando la testa di Luigi XVI cadde sotto la lama della ghigliottina, uno sconosciuto balzò sul palco, immerse la mano nel sangue del re, lo spruzzò sulla folla circostante e gridò: “Jacques de Molay, sei vendicato!”.

Alcuni Templari riuscirono a sfuggire agli artigli dell’Inquisizione e si rifugiarono in Scozia dove il potere secolare del papato era molto minore.

Dal Trecento in poi nacquero numerosi ordini che si proclamavano discendenti dei Templari, ma nessuno riuscì a produrre prove convincenti della propria autenticità.

I Rosacroce

Su cosa siano i Rosacroce esistono due correnti di pensiero: una fondamentalista e l’altra storiografica.

La prima corrente raccoglie coloro che accettano l’esistenza di una Confraternita fondata nel 1408 da Cristian Rosenckreutz, un cavaliere che aveva compiuto lunghi viaggi in Arabia, Turchia e Egitto, acquisendo conoscenze occulte nell’ambito dell’alchimia.

Tornato in Europa egli si ritirò a vita eremitica, trasmettendo la sua dottrina segreta a soli tre discepoli, i quali perpetuarono il suo insegnamento per non più di otto adepti.

Questi ultimi all’inizio del Seicento decisero che era arrivato il momento per diffondere il pensiero del fondatore.

Infatti vennero pubblicati tra il 1614 e il 1623 una serie di “Manifesti” che sarebbero diventati la base ideologica della setta, di questi ricordiamo: Fama Fraternitatis, ConfessioFraternitatis e Nozze Chimiche con Cristian Rosenckreutz.

Nel primo manifesto è narrata la vita del fondatore della setta, del suo pensiero e degli obiettivi che si prefisse l’Ordine rosacrociano. Nel ConfessioFraternitatis viene ripreso il messaggio della Fama con maggior forza descrivendo nei minimi particolari la vita di Rosenckreutz e promettendo la riforma del mondo con il rovesciamento della tirannia papale.

L’insegnamento della Confraternita si rifaceva al pensiero gnostico, il quale concepiva l’universo come un insieme di spirito e materia, e sosteneva l’ipotesi dell’esistenza di un essere divino supremo, eterno e inconoscibile.

Secondo l’opinione rosacrociana lo spirito umano è un frammento di questo “Superiore Sconosciuto” che si è distaccato diventando prigioniero della materia. Il mondo materiale non è opera del Dio supremo ma di una divinità minore.

I fini che si prefiggono i Rosacroce sono quelli di guarire i malati e di diffondere e acquisire nuove conoscenze.

Dalla metà del Seicento la Confraternita è ritornata a tramare e a diffondersi segretamente. Da allora si sono diffuse numerose sette che si ispiravano al pensiero di Rosenckreutz.

L’altra corrente sull’Ordine è quella storiografica, che respinge la tesi fondamentalista perché ritiene non esistente alcuna prova sulla effettiva presenza della Confraternita del Quattrocento fondata da Rosenckreutz, né tanto meno sulla derivazione esoterica dei Rosacroce; anzi, lo scrittore Valentin Andreae riconobbe nel 1618 che si era trattato di uno scherzo, di una burla agli intellettuali della sua epoca nel tentativo di creare un nuovo mito letterario.

Che il fondatore sia o non sia veramente vissuto non sembra essere un problema, dato che il successo che la Confraternita ha avuto, al punto da divenire un simbolo attorno al quale nascono varie correnti di pensiero che si rifanno agli ideali rosacrociani. Il movimento infatti s’innesta e spesso si confonde con associazioni affini di carattere politico-culturale, in un intreccio di non facile comprensione. Spesso coloro che si identificano come appartenenti alla Confraternita dei Rosacroce erano accusati di praticare la stregoneria o la magia nera, o di diffondere l’eresia; di conseguenza spesso si rifugiavano in stati dove la Chiesa era meno influente. Nacquero così in Inghilterra e in Olanda dei gruppi di stampo rosacrociano, come la Gran Loggia di Londra e la Libera Muratoria.

Lo scopo che ha avuto la Confraternita nella storia prescindendo dalla sua reale esistenza, è senza dubbio quello di aver costituito l’elemento catalizzante delle speranze e dei sogni di molti intellettuali del Seicento, che cercarono in essa l’ideale di fratellanza e di razionalità che poi sarebbero stati caratteri centrali dell’illuminismo.

Probabilmente la setta rispondeva ad una esigenza nuova, creata dalla nascita di stati organizzati che stavano dividendo quei popoli che durante il Medioevo avevano fatto parte dell’ecumene cristiano. Non a caso che a diverse riprese, con l’umanesimo prima e con l’illuminismo poi, sia partito dal mondo della cultura l’appello al cosmopolitismo e al superamento delle divisioni nazionali: tutto questo è nato proprio con la formazione degli stati nazionali e con il nuovo regime di guerra e di sospetto costante tra i popoli che essi comportavano.

I Rosacroce in fondo chiedevano proprio, come gli umanisti e come gli illuministi, che la cultura servisse prima di tutto a colmare i fossati che si stavano aprendo tra i popoli.

La Massoneria

Le origini più probabili risalgono alle corporazioni medioevali dei costruttori di cattedrali, alle associazioni artigiane che conservavano gelosamente i segreti del mestiere impegnando gli adepti, con riti e giuramenti solenni, alla loro scrupolosa osservanza e all’aiuto reciproco.

Fra le più antiche e meglio organizzate associazioni c’era la corporazione dei muratori che godeva di grande fama in tutta l’Europa del Medioevo. Essa sopravvisse attraverso i secoli, soprattutto in Inghilterra, dove entrarono a farne parte nobili e intellettuali attratti dai principi di fratellanza.

Vi aderirono anche nuclei esoterici, formati da alchimisti e appartenenti ai Rosacroce, i quali potevano trovare nella fratellanza una copertura e un comodo mezzo per fare riunioni e diffondere all’interno della Libera Muratoria (nome originale della Massoneria) la loro dottrina.

Col tempo queste corporazioni per il mantenimento dell’insegnamento dei maestri artigiani si trasformarono in organizzazioni esoteriche.

Nel 1717 in Inghilterra quattro di queste sette si fusero insieme dando vita alla Gran Loggia di Londra, abbandonarono definitivamente ogni carattere di associazioni di mestiere e divennero una società segreta.

Nella Massoneria, fin dalle origini, esistevano due correnti di idee: quella razionalista, ispirata ad un cristianesimo aperto e al deismo newtoniano, e quello spiritualista, la quale avrebbe trasformato le logge in circoli esoterici e alchemici.

Agli inizi del Settecento la Libera Muratoria si sviluppò in tutta l’Europa e grazie alla colonizzazione degli altri continenti si diffuse anche in India, in Africa e in America, dove ne fecero parte personaggi come George Washington e Benjamin Franklin.

Ma nel diffondersi abbandonò la razionale struttura inglese, trasformandosi in Massoneria scozzese, che si vantava della propria antichità e del possesso di verità spirituali e esoteriche appartenenti ai Templari.

Nacquero così diversi gruppi fondati da personaggi altrettanto misteriosi, che presero il nome delle loro presunte origini, ad esempio Massoneria Templare e Illuminati di Avignone.

Il Settecento fu il secolo in cui si sviluppò maggiormente la Massoneria, perché in questa si identificavano gli ideali razionali e progressisti dell’illuminismo. Molti personaggi famosi furono affascinati dalla cultura massonica. Basti ricordare nella letteratura Goethe nell’opera I dolori del giovane Werther, e nella musica Mozart nel Flauto magico e nella Musica funebre massonica.

In Italia e in genere nei paesi cattolici, la Massoneria dovette affrontare dure accuse, seguite da scomuniche della Chiesa che però non impedirono la sua diffusione, cui aderirono molti intellettuali come Goldoni e Alfieri nel Settecento, Verga e Carducci nell’Ottocento.

Dato il suo ampio proselito in tutta l’Europa, la Massoneria divenne un veicolo per l’espansione delle idee illuministe, tra cui l’atteggiamento anticlericale, che la portò ad essere accusata ingiustamente di aver fatto scoppiare la Rivoluzione Francese.

In Italia durante il Risorgimento molti appartenenti alla Carboneria e alle altre società segrete che si impegnavano nella lotta per l’indipendenza e la libertà, erano affiliati anche alla Libera Muratoria. Negli anni prossimi all’unità molti politici appartenenti al movimento democratico italiano appartenevano alla Massoneria, come Crispi e Garibaldi.

Con l’atteggiamento più tollerante attuato dalla Chiesa in questo secolo si andò attenuando il carattere battagliero massonico, sostituito da una reciproca comprensione e avvicinamento fra il mondo massone e quello cattolico. D’altra parte a partire della seconda metà dell’Ottocento le ideologie si sono divise adeguandosi alle necessità dei luoghi in cui erano esercitate.

Oggi la Massoneria mantiene le antiche divisioni in sette, fra le quali ricordiamo la Massoneria del Rito Scozzese Antico e Accettato.

Il numero degli aderenti alla Massoneria è stimato intorno a cinque milioni di adepti.

Il Priorato di Sion

L’argomento che sto per affrontare risulterà estremamente complesso nell’esposizione in quanto nel ricercare notizie le difficoltà incontrate sono state molte.

Ciò che manca sono precisamente gli “indizi” più concreti, quali ad esempio l’ufficialità dell’organizzazione, la localizzazione della stessa e i mezzi di contatto tra l’eventuale “partecipante” e la società stessa.

Più volte questi elementi vengono affermati e smentiti, quasi a testimoniare ulteriormente quanta poca chiarezza si abbia nei confronti del Priorato.

La sua esistenza è un fatto storicamente dato per accertato da studiosi che la identificano come società segreta tuttora praticante e con origini risalenti ai Templari; questi si sarebbero separati dal Priorato nel 1188.

Il presunto compito di questa setta è quello di preservare per il futuro la stirpe di Gesù. Infatti attraverso particolari studi si è giunti a fare un’ipotesi sconcertante e rivoluzionaria (se effettivamente provata) secondo cui il Salvatore non morì sulla croce (al suo posto ci andò Simone di Cirene), fuggì con Maddalena nel sud della Francia, con lei si sposò ed ebbe dei figli, i quali fondarono la stirpe di Gesù. In seguito questa si fuse con la famiglia dei Merovingi, ancora oggi protetta dal Priorato, che non appena se ne dia occasione proclamerà la propria sovranità.

Purtroppo il Priorato venne spesso associato con i famosi Protocolli di Sion, comparsi all’inizio di questo secolo e nei quali si sosteneva l’ipotesi che gli Ebrei tramassero un complotto mondiale per il dominio dell’intero mondo. I Protocolli successivamente si mostrarono invece un falso perverso e insidioso; nonostante ciò sono ancora oggi in circolazione come strumento di propaganda antisemita.

I Protocolli presentano un programma di dominazione totale basato sull’anarchia e sull’uso della Massoneria, per infiltrarsi ed assumere il controllo delle istituzioni sociali, politiche ed economiche.

Per il carattere sconcertante, ma allo stesso tempo spaventoso, vennero utilizzati dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, e poi anche dopo, per avere un motivo in più nello sterminio degli Ebrei.

Il Priorato è ufficialmente registrato in un giornale francese nel quale è pubblicato anche il carattere fondamentale degli adepti: “Il Priorato di Sion ha come scopi la perpetuazione dell’ordine tradizionalista della cavalleria, il suo insegnamento iniziatico e la mutua assistenza morale e materiale tra i suoi membri, in ogni circostanza”.

Una delle cose più sconcertanti di ciò che circonda il Priorato è la possibile appartenenza ad esso come Gran Maestri di personaggi che con l’esoterismo apparentemente non hanno avuto a che fare, come Leonardo da Vinci, Valentin Andreae, Robert Boyle, Isaac Newton, Victor Hugo e Claude Debussy. Però figurano anche uomini ignoti ai più, che magari hanno avuto una vita tutt’altro che adeguate al ruolo di Gran Maestro. Sembra che esista un solo filo conduttore tra tutti, da ricercare nel fatto che erano legati per parentela di sangue o per associazioni personali alla famiglia dei Merovingi.

Inoltre tutti avevano avuto rapporti con vari ordini o società segrete, nutrivano simpatia per il pensiero esoterico e in quasi tutti i casi c’erano stati stretti contatti fra ogni Gran Maestro, il suo predecessore e il suo successore.

La figura del Gran Maestro è quella di un re-sacerdote che “regna ma non governa”.

Nel corso della storia, la Chiesa ha sempre tentato di offuscare le prove sull’esistenza della stirpe di Gesù (successivamente ricondotta al Santo Graal), che sono invece presenti ad esempio in alcuni brani dei Vangeli e in altri documenti da sempre volutamente dimenticati.

Se veramente oggi esistesse un discendente diretto o indiretto di Gesù e se questo potesse essere provato, tramite ad esempio i misteriosi documenti scomparsi durante la disfatta dei Templari, questi soppianterebbero il potere del papa e diverrebbe egli il nuovo sovrano assoluto della cristianità. Forse non solo di questa.

Infatti, se Gesù venisse riconosciuto come un profeta mortale (pari a Maometto e a Buddha), un re-sacerdote, legittimo sovrano della stirpe di David, verrebbe riconosciuto come re anche dai Mussulmani e dagli Ebrei, riconciliando così queste tre principali religioni, guide dell’intera storia umana: cristianesimo, giudaismo e islamismo.

Il Priorato ha da sempre operato per creare un Sacro Romano Impero innovato, una sorta di Stati Uniti d’Europa alla pari delle grandi potenze come gli USA e l’URSS, fondati però su basi spirituali e non su teorie ideologiche.

Questa federazione di stati sarebbero governati da un membro della famiglia dei Merovingi. Questi non occuperebbe soltanto il trono del potere politico, ma anche quello di San Pietro.

Il compito di amministrare la potestà sarebbe affidato al Priorato di Sion assumendo la funzione di un Parlamento Europeo.

Questo fine che si prefigge la setta sembra essere una possibile soluzione al generale malcontento che attualmente regna nella nostra società, da ricercarsi in una disillusione, sull’insoddisfazione verso il sistema che regola il nostro vivere quotidiano, ma soprattutto nella mancanza di qualcosa in cui credere sinceramente.

La riunificazione degli stati appartenenti all’Europa sembra vicina; resta da attuare un rinnovamento religioso verso il quale indirizzare i nostri ideali morali.

Rimane soltanto un dubbio: l’unità politica e religiosa è opera, anche solo indiretta, del Priorato di Sion oppure è una naturale esigenza che l’uomo ha?

Gesù non è stato crocifisso, ed è per questo che i Templari rinnegano il crocifisso. La leggenda di Giuseppe d’Arimatea copre una verità più profonda: Gesù, non il Graal, sbarca in Francia presso i cabalisti in Provenza. Gesù è la metafora del Re del Mondo, del fondatore reale dei Rosacroce. E con chi si è sposato a Cana? Ma perché erano le nozze di Gesù, nozze di cui non si poteva parlare perché erano con una peccatrice pubblica, Maria Maddalena. Ecco perché da allora tutti gli illuminati da Simon Mago a Postel, vanno a cercare il principio dell’eterno femminino in un bordello. Pertanto Gesù è il fondatore della stirpe reale di Francia.
Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, Bompiani 1988

Bibliografia

Alexandrian, Sarane – Storia della filosofia occulta – Mondadori 1984

Arnold, Paul – Storia dei Rosacroce – Bompiani 1990

Baigent, Michael &Leigh, Richard &Lincoln, Henry – Il Santo Graal ­ Mondadori 1982

Bordonove, Georges – I Templari – Sugarco 1989

Eco, Umberto – Il Pendolo di Foucault – Bompiani 1989

Francovic, Carlo – voce Massoneria – Enciclopedia Europea Garzanti – vol. 7 Milano 1980

Introvigne, Massimo – Le sette cristiane – Mondadori 1989

Nardini, Bruno – Misteri e dottrine segrete – Convivio 1988

Palmi, Enrico &Bonvicini, Eugenio – Templari e Rosacroce – Atanòr 1988

Trocchi, Cecilia – Magia ed esoterismo in Italia – Mondadori 1990

Post scriptum

Queste pagine le scrissi trent’anni fa, ma paiono calzare benissimo anche in questo momento in cui sembra prevalere il desiderio di trovare trame oscure a cui attribuire ogni colpa possibile.