di Paolo Repetto, febbraio 2018, da sguardistorti n. 02 – aprile 2018
La pubblicazione nelle Edizioni dei Viandanti di alcune raccolte poetiche ha suscitato perplessità. Nulla di personale contro la poesia, – ha detto un’amica – ma se non volete ridurre le edizioni del sodalizio a una vetrina per gli adepti, e testimoniare invece una particolare “militanza”, trovo che l’intimismo di questi versi sia poco in linea con gli intenti che dichiarate. O quanto meno, mi riesce difficile capire con che criterio vengono scelte le cose da pubblicare.
Ha ragione, almeno per quanto concerne i criteri. Ufficialmente non ce ne sono, e sarei quasi tentato di dire che questo è il bello delle edizioni dei Viandanti, l’assoluta indipendenza delle scelte da qualsiasi calcolo di mercato o vincolo ideologico, che per una volta non è solo professata, ma reale. Ma le cose, in effetti, sono un po’ più complesse. Non-dipendenza non significa non-senso, perché altrimenti le nostre edizioni diverrebbero davvero un contenitore dell’indifferenziato: mentre un senso ce l’hanno, ed è quello che già l’amica indicava, ma anche qualcosa di più. Che credo di dover chiarire.
La presenza di testi poetici nelle nostre edizioni non va certamente giustificata, perché il rapporto del Viandante con la poesia è scontato. Il ritmo del verso, diceva Wordsworth, è dettato direttamente da quello del cuore e disciplinato da quello delle gambe. E Steiner scrive: “Nella metrica e nelle convenzioni poetiche occidentali, il piede, il battito, l’enjambement tra i versi o le stanze ci ricordano l’intimità tra il corpo umano che cammina sulla terra e le arti dell’immaginazione”. Piuttosto ritengo utile dare ragione di quelle particolarissime scelte, e questo riesce meno semplice, perché le scelte in realtà sono state istintive, e quindi io stesso mi sono posto la domanda solo a posteriori. È stato comunque un esercizio utile: mi ha costretto ad ammettere che quando ci si riferisce ad atteggiamenti culturali, come la passione per un particolare autore o la predilezione per un genere, non si dovrebbe parlare di istinto, perché in realtà si tratta di una reazione acquisita e, appunto, “culturalmente” motivata.
Al solito, per dare una spiegazione all’amica, e prima di tutto a me stesso, sono risalito sino alle distinzioni più elementari: è nel mio carattere, non riesco a dare nulla per scontato. Ma direi che in un periodo di confusione come questo anche ribadire ciò che sembra ovvio è tutt’altro che inutile. Provo quindi a ricostruire il ragionamento che ho fatto, partendo dalle mie personalissime preferenze e idiosincrasie. In questo modo allungo di parecchio il percorso, ma prendo al balzo l’occasione per riflettere con calma su un argomento che mi sta a cuore da un pezzo.
Non ho mai scritto poesie (non è del tutto vero: ne ho scritta una a sei anni, sull’autunno, ma credo che non conti). Non lo faccio perché non so mai dove dovrebbe finire il verso, fosse per me andrei avanti sin oltre il termine della riga. Nemmeno nei compiti in classe rispettavo i margini del protocollo, mi sembrava uno spreco, e ancora oggi soffro dello stesso horror vacui, così che quando scrivo al computer uso la spaziatura più ridotta possibile.
La scrittura poetica non è evidentemente nelle mie corde. E tuttavia provo una reverente ammirazione per chi sa distillare le parole, rompere le sequenze logiche e sintattiche e andare a capo prima che il margine lo imponga. Il che significa che la mia formazione scolastica molto tradizionale mi fa identificare un discrimine formale tra poesia e prosa; e questo discrimine è segnato dalla scelta dei termini e del metro, dall’organizzazione dei versi e persino dalla resa grafica. Isolare una parola sulla pagina bianca, invertire il rapporto tra pieni e vuoti, significa praticare una diversa modalità espressiva e suggerirne una di lettura. È una distinzione semplicistica e scontata, ma da qualcosa bisogna pur partire se si vuol definire un terreno comune di interpretazione e di confronto.
Nella sostanza sto dicendo questo: la poesia non nasce in automatico dall’attivazione di sensori particolari. Presuppone naturalmente una sensibilità acuta nel cogliere il mondo (è il ritmo del cuore), ma questo vale (o dovrebbe valere) allo stesso modo per ogni forma di letteratura, per la musica, per la pittura, ecc. Anche in tutti questi altri ambiti la sensibilità è una condizione necessaria: ma non è sufficiente. A fare la differenza è la capacità di tradurre la sensibilità secondo le convenzioni di un particolare codice (è la disciplina delle gambe): suoni, segni, parole possono essere diversamente usati e posizionati nel tempo o nello spazio, per dire cose diverse o per dire le stesse cose in maniera differente. Ma persino le rotture, le scelte, per intenderci, “di avanguardia”, suppongono un codice da infrangere.
L’importanza del codice è nel segnale che invia al lettore, allo spettatore o all’ascoltatore: gli suggerisce in pratica quale atteggiamento assumere di fronte ad un testo, a un’opera, a una composizione. Poi naturalmente ciascuno legge, vede o ascolta come vuole, ma se apre I promessi Sposi è chiaro che deve cercare un rapporto con la lettura diverso da chi sfoglia i Canti di Leopardi. Allo stesso modo, come autore posso decidere di andare a ruota libera, senza alcun metro, senza punteggiatura, scrivendo i versi da destra a sinistra o dal basso all’alto, oppure seguendo i bordi della pagina come Palazzeschi (e lo stesso vale per i segni sulla tela, o per le note sullo spartito): ma quello che poi chiedo al lettore è di non aspettarsi comunque Guerra e Pace, di leggermi con una disposizione diversa. Volenti o no, l’idea che quando parliamo di poesia (non uso “scrittura in versi” perché il codice contemporaneo non prevede necessariamente la versificazione) parliamo di qualcosa di distinto dalla prosa, indipendentemente dal fatto che certe pagine di prosa siano cento volte più poetiche di molte composizioni in versi, questa idea, dicevo, c’è.
Dalla poesia ci attendiamo di conseguenza non una narrazione ma una evocazione, non una dimostrazione filosofica o una informazione scientifica ma un innesco per la nostra immaginazione, per le nostre emozioni e magari per le nostre riflessioni (il discorso varrebbe in realtà solo per la poesia contemporanea, non certo per Omero o Lucrezio o Foscolo: ma questo ci porterebbe a rileggere la storia della letteratura dalle origini ad oggi, e non è proprio il caso). Magari tale disposizione non varrà per tutti, ma credo che la maggioranza dei lettori (e degli autori) intenda la poesia in questo modo e vi cerchi questi stimoli: e per una volta mi trovo in sintonia con la maggioranza. La poesia dunque (qui uso il termine nella sua accezione più generica, che si estende ad ogni modalità di espressione artistica) è frutto di una sensibilità particolare per le cose, ma vede la luce solo quando passa per strumenti adeguati a rappresentare quella sensibilità, ovvero a farne partecipi gli altri.
Nel caso specifico della scrittura quegli strumenti sono le parole (ma anche gli spazi). Le parole sono un materiale da costruzione che assume, a seconda dell’ambiente e dell’uso che si intende farne, diversa forma e sostanza: possono diventare mattoni, pietre, tavole di legno, blocchi di ghiaccio, ed essere assemblate in modo da costruire edifici completamente diversi, castelli, grattacieli, palazzi, ville o condomini popolari, o anche tende, capanne ed igloo. Si può farlo con varie tecniche: in prima persona, fingendo la voce di un terzo o di un gruppo, oppure assemblando a casaccio, tipo flusso di coscienza, per cui il risultato finale sarà un po’ sbilenco e approssimativo: ma la sostanza rimane quella. Ora, quando il risultato del disegno “architettonico” è una compiuta costruzione, e le parole messe in fila in un ordine più o meno preciso e dettagliato raccontano un fatto, una storia, parliamo di scrittura in prosa.
Le parole possono però essere usate anche in maniera diversa. Possono evocare, anziché narrare. Scegliendo i materiali giusti e distribuendoli in un certo modo, tale magari da abbozzare un semplice perimetro, come per certe rovine classiche, si può rappresentare alla fantasia una casa (ma anche un villaggio, una città). Non è necessario darne l’esatta configurazione, quante camere, quante porte, com’è il tetto. È sufficiente suggerire che lì c’è una dimora, quindi una famiglia, quindi una vita o più vite con le loro storie. Se il lettore avesse tutte le informazioni dettagliate, di storie potrebbe ricostruirne solo una: con tutte le variabili che vogliamo, ma solo quella. Ma con la poesia non ha bisogno di conoscere nulla di preciso. Non gli interessano gli ambienti, ma la funzione, l’atmosfera. Se è una casa che si vuole evocare, deve poter essere intesa come propria da chiunque, da un esquimese come da un bantu o da uno svizzero. Non solo: la poesia annulla le distanze spaziali, tra culture diverse, ma anche quelle temporali, tra diverse epoche. Per cui riconosciamo in Archiloco o nel commiato di Ettore gli stessi sentimenti che nutriamo noi (o almeno, alcuni di noi).
La cosa vale in linea di massima per tutta la letteratura (come per l’arte, e per la musica), ma nel caso della poesia, proprio perché quest’ultima richiama sentimenti, emozioni, e non narra vicende situate in un preciso contesto storico o geografico o politico, vale in assoluto. Sto banalizzando la poetica dell’indefinito di Leopardi, ma grosso modo credo che proprio così vada interpretata.
Quindi: la poesia suppone che le parole mi rappresentino con immediatezza quasi musicale un’immagine, mi trasmettano già col semplice loro suono un’emozione, o mi suggeriscano un’idea; non siano cioè incise solo sul bianco della pagina, ma arrivino direttamente nel mio animo. Che passino attraverso esso per commuovere anche la mente. La prosa le usa invece in maniera tale che, ricevute attraverso la mente, arrivino poi ad emozionare l’animo.
Non vado oltre perché rischio di offendere davvero l’intelligenza del lettore. Volevo solo dire che credo nell’esistenza della poesia, penso che si manifesti sotto spoglie diverse, ma sia comunque riconoscibile, e sono convinto che incontrarla sia una delle esperienze migliori che ci possano capitare. Per questo parlavo più sopra di reverente ammirazione: potrei aggiungere anche gratitudine, perché si tratta di una delle conquiste più pure dell’uomo, non ha controindicazioni e non produce effetti collaterali (se non in animi già malinconicamente predisposti).
Reverente non significa però incondizionata. E qui veniamo al dunque. Non bastano la dichiarazione d’intenti dell’autore (in genere molto esplicita, e demandata già al titolo o al sottotitolo, che è appunto “Poesie”) o l’attribuzione del bollino doc della critica patentata per farmi scattare in piedi. Credo si debba avere chiara in mente la distinzione tra ciò che entra nell’empireo poetico e ciò che ne rimane fuori, sia pure con un ruolo importante nella storia della letteratura. Quindi, per limitarci all’ultimo secolo, in presenza di Saba o del primo Montale avverto, come si diceva una volta, il respiro della Musa, mentre davanti a D’Annunzio mi tolgo tanto di cappello, ne ammiro la perizia pirotecnica, ma rinuncio a pretendere che i suoi versi mi commuovano. Di lì in avanti poi, soprattutto quando si entra nella contemporaneità, e a meno che il poeta si chiami Caproni, le cose diventano un po’ più complicate. All’emozione si sostituisce troppo spesso lo sconcerto, accompagnato dalla sgradevole sensazione che lo scopo del poeta fosse proprio questo. Il che imporrebbe di rivedere tutti i criteri, di adeguarli alla nuova situazione.
Ora, non mi sono imbarcato in questo chiarimento per discettare di poesia e non poesia. Volevo solo parlare del mio rapporto con la scrittura in versi, segnatamente con quella più recente, per motivare le scelte “editoriali”. La mia è dunque una personalissima versione dei fatti, fondata non su una critica storica o testuale per la quale non possiedo gli strumenti, ma sulla immediatezza delle impressioni da lettore. Certo, non posso fingere di non aver insegnato per anni letteratura: ma assicuro che in quella veste ce l’ho messa tutta per mantenere, nei limiti del possibile, un approccio “oggettivo”. Ritengo anche che nel ventesimo secolo la scrittura in versi, un tempo di uso ordinario, sia diventata una scelta felicemente anacronistica, nel senso che si sottrae ai condizionamenti del tempo e delle mode culturali. Ma questo accade solo quando il gioco è leale.
Mi sono trovato, nello svolgere il mio lavoro, a confrontarmi con esperienze letterarie recenti (non solo in versi) validate dalla critica, e come tali già assunte nel pantheon delle antologie scolastiche, che in realtà non mi convincevano affatto. Avrei potuto tranquillamente scansarle, dal momento che il programma di letteratura dell’ultimo anno era vastissimo e consentiva molta discrezionalità: in genere si faticava persino ad arrivare ai poeti “laureati” della prima metà del Novecento. Ma non mi andava di scegliere le soluzioni di comodo.
Ho le mie fisime, e una era quella di fornire una informazione il più possibile completa, perché si trattava comunque di documenti, di segnali di tendenza, l’altra quella di non imporre i miei gusti agli allievi: ma confesso che in questo caso c’era anche un intento maligno, perché pensavo che quelle cose potessero rappresentare un’utile vaccinazione. Non c’era bisogno di forzarle. Mi limitavo a presentare certi testi premettendo che di fronte alla poesia contemporanea bisogna inforcare occhiali diversi, così come si fa davanti a un quadro di Rotcho o a una “scultura” di Palladino, e cercando di suggerire quali caratteristiche dovessero presentare le lenti. Qualcuno mi seguiva perplesso, i più capivano che il meno convinto ero proprio io.
Che cosa non mi convinceva? Dovrei spendere un altro sacco di parole per spiegarlo, e credo quindi che a questo punto sia più efficace proporre un esempio. Prendiamo un poeta che la critica ha consacrato come un maestro del secondo novecento: Andrea Zanzotto. Scelgo quasi a caso da “La beltà” (dico “quasi” perché il caso Zanzotto è esploso veramente, in una mia classe, complice un allievo sin troppo affascinato dalla poesia):
“Chiamarlo giro o andatura rettilinea,
a che sé dicenti scienze e patti e convenzioni far capo?
Perché tutte queste iperbellezze
ipereternità sono
tutte sanissime e strette in solido
ma vagamente trasverse perverse
indicano spunti di lievi o grosse per-tras-versioni
madrinature ognuna fantastizzanti
seduzioni censure o altri innesti clivaggi,
il loro afrore in stagione o fuori stagione
abbacina allergizza – e poi eritemi sfavillanti. (….)”
Mi fermo qui perché è il primo punto che trovo. Ma va avanti così per un’altra cinquantina di versi. Non ho saltato né aggiunto niente. E giuro che questa non l’ho mai propinata ai miei allievi, anche se sentivo che avrei dovuto farlo, per chiarire un po’ le cose (non certo il senso) e cancellare certe sudditanze. Avrei potuto comunque essere anche più sadico: avrei potuto trascrivere per il lettore un paio di strofe da “Pasqua di maggio”, oppure scegliere a caso, senza quasi, da Sanguineti.
Dunque, se qualcuno mi sa decrittare o “contestualizzare” questi versi si faccia avanti. Non per sparare stupidaggini sulla grammatica originaria del significante, ma per spiegarmi molto semplicemente di che cavolo Zanzotto sta parlando e perché lo fa in questo modo. E comunque, se anche quel qualcuno ci fosse, che senso avrebbe? Perché un libro di poesie dovrebbe essere venduto assieme a una confezione di aspirine? O letto come una rivista per enigmisti esperti? Cosa si vuole dimostrare? Che “componendo o scomponendo incessantemente se stessa, la parola sembra instaurare nel testo infiniti punti di fuga che la rilanciano continuamente, pur mantenendola ferma in tutta la sua pienezza e plasticità, anche se incrinata o infranta, in un al di là senza fondo di senso” come ci erudisce il prefatore alla raccolta, Stefano Agosti? E allora? I nostri figli o nipoti hanno provveduto senza tante scene, e senza aver mai letto un libro di poesie, a triturare il linguaggio, liofilizzarlo, farlo deflagrare, privarlo di ogni peso. E adesso?
“Un al di là senza fondo di senso”! No: qui c’è puzza di imbroglio. Prendetela un po’ come volete ma di fronte a
“Di tante coperte, ti prego,
Di lane aiutami sapori fiutati fumi
E là egli fa le previsioni-luna idoleggia pasqueggia
Col riconoscitivo incantarsi di tutto
In rosa in sé
Incastrarsi”
sono convinto che nessuno tranne Stefano Agosti possa trovare un senso, e meno che mai provare un piacere. E se nessuno lo ammette non è per reverenziale rispetto, ma solo per timore di apparire blasfemo.
Tutto questo non va affatto a difesa della poesia. Anzi, è il motivo per cui in fondo nel nostro paese nessuno, se non i critici e gli aspiranti poeti in cerca di un modello, ne legge più. In genere incolpiamo di questa disaffezione la tivù, oggi anche gli smartphone: ma tutto sommato la narrativa e la saggistica continuano ad essere lette. Non solo: in Inghilterra un volume postumo di poesie di Ted Hughes, il marito di Silvia Plath, ha venduto pochi anni orsono seicentomila copie. Sarei curioso di sapere quante ne ha vendute il Meridiano di Zanzotto, anche se non è il numero di copie vendute a decretare la qualità di un’opera: alla fine però qualcosa vorrà dire.
Vuol dire che noi italiani abbiamo un problema con la poesia. Ne abbiamo un po’ con tutto ciò che concerne la bellezza, forse la natura e la storia ce ne hanno concessa troppa, ma nei confronti della poesia il problema sembra essere particolarmente accentuato. Certo, ci si può appellare a profonde ragioni storiche, non ultimo il fatto che con una popolazione che un secolo fa contava ancora l’ottanta per cento di analfabeti la poesia, soprattutto quella da leggersi in privato, è sempre stata riservata a piccole élites. Per la stragrande maggioranza degli italiani (al contrario di quanto accadeva nei paesi nordici o protestanti, dove saper leggere, e quindi accedere direttamente alle Scritture, è stata precocemente una condizione imprescindibile per l’ appartenenza religiosa e per quella civica) l’alfabetizzazione è arrivata tardi, imposta quasi come una pratica coloniale, assieme alla leva militare obbligatoria. E a lungo è stata disertata: a dispetto dell’obbligo formale mio padre frequentava la scuola un paio di mesi l’anno, quelli stretti tra la sospensione e la ripresa dei lavori agricoli e le nevicate invernali. Ci siamo alfabetizzati in fondo solo con la televisione, ovvero proprio attraverso il primo di quegli strumenti “comunicativi” che l’alfabetizzazione nella sostanza la negano.
C’è però anche una responsabilità oggettiva dei nostri intellettuali, che entro il loro confino elitario si sono spesso e volentieri crogiolati. Anche qui, certo, si possono accampare alcune motivazioni oggettive: la smania futurista di modernizzare un paese arretrato partendo da una rivoluzione del linguaggio, o la prudenza ermetica imposta dalla censura fascista, che hanno spinto in una direzione sempre più lontana dal linguaggio corrente. Ma il problema vero nasce dal fatto che una volta usciti dalla porta la gran parte dei nostri poeti non sono più rientrati. Hanno fatto conventicola e se la sono raccontata tra loro, ammiccando e giocando a chi sapeva celare meglio l’indizio, la chiave di lettura, in un circolo vizioso all’interno del quale nessuno in realtà ascoltava l’altro, ma tutti si congratulavano vicendevolmente, e i critici pascolavano.
Il risultato è evidente: mentre da Kipling e Wilde fino a Yeats, a Austen, e persino ad Eliot, che scrivevano nella prospettiva di un’utenza trasversale di milioni di persone, i poeti inglesi erano indotti più o meno consapevolmente a cercare di farsi capire da tutti, per Gatto o Sinisgalli era molto più importante dimostrare di appartenere alla schiera iniziatica che si scambiava messaggi cifrati. Non ne siamo più usciti: la distanza creata da una generazione di ermetici e da un’altra di de-costruttori non è stata recuperata, e meno che mai lo sarà oggi, con la barbarie mediatica che già ha fatto irruzione.
È una lettura semplicistica, ma me ne assumo la responsabilità: è comunque quanto una militanza assidua di lettore e di insegnante mi ha fatto capire. Dire che il problema, sempre che un problema lo si voglia considerare, è molto più complesso, è solo un modo per evitarlo o addirittura negarlo.
Questo ci riporta finalmente al punto dal quale eravamo partiti. Ovvero: perché ritengo fosse doveroso dare una dignità “editoriale” alle poesie di Mario Mantelli e di Tonino Repetto (non diciamo farle conoscere, perché le edizioni dei Viandanti non hanno questa presunzione).
La dignità editoriale si configura semplicemente nel disporre queste poesie in un certo ordine, con una certa uniformità di caratteri, scolpite in nero su pagine bianche così che nella loro compattezza e similitudine e insieme diversità creino alla fine un racconto, nella loro apparente estemporaneità offrano un quadro d’assieme. Non aggiunge nulla alla dignità poetica e civile che hanno già in sé, ma in qualche modo la certifica. È una attestazione di merito. E allora vediamo quali sono ai nostri occhi i meriti.
Se volessimo tenerci stretti al simbolo del viandante potremmo dire che in entrambi il filo portante è il viaggio. Nelle ultime due raccolte Mantelli si muove per l’Italia in esplorazioni il cui raggio si allarga di mano in mano, dalle vie alessandrine alle piazze toscane, guidato dall’ininterrotto stupore per l’incantesimo della bellezza (e dal rammarico per le sue contaminazioni). Repetto viaggia invece da fermo, interrogandosi nella clausura della sua camera sulle mete dei passanti frettolosi sotto la pioggia o sui passeggeri degli autobus intravisti dietro i finestrini appannati, o guardando dalla banchina della stazione i viaggiatori che scendono a incontrare il buio della notte. Il tema è senz’altro pertinente, anche se viene declinato in modalità così diverse (e anche se, in effetti, il viaggio costituisce solo un involucro, e i contenuti sono ben altri).
Sappiamo benissimo però che il criterio non è questo. Una traccia, una metafora di viaggio possiamo trovarla in qualsiasi composizione poetica (forse persino in Zanzotto). Il criterio vero è quello del linguaggio. Riguarda la capacità di esprimere queste cose, quali che siano, abbiano o meno attinenza tra loro, nella maniera più diretta. Di ridare cioè peso al linguaggio, di costruire con il linguaggio, anziché farlo deflagrare. In entrambi i casi la scelta di una modalità espressiva non semplice, ma di semplice eleganza, è un atto di estrema urbanità. Sottintende il desiderio di incontrare il lettore su un piano immediato, empatico, ma non puramente emozionale: e il piano non può essere quello terra, disturbato dai rumori della strada, e nemmeno il trentesimo, raggiungibile solo con gli ascensori manovrati dalla critica (mi appare per un attimo Stefano Agosti come liftboy). Deve essere raggiungibile da chiunque con le proprie gambe, perché l’empatia viaggia solo su un binario bidirezionale. Leggo le poesie di Mario, avverto qualcosa che mi coinvolge, mi metto a pensare. Quando scrive:
e all’improvviso
aspettando al semaforo mi accorgo
(con dispiacere; ma già, che mi credevo?)
che tutto questo è il mondo
e la sua spiegazione.
mi rimanda a tutti i semafori rossi che mi hanno imposto o consentito di riflettere un attimo, ogni volta trasmettendomi la stessa sua mesta sorpresa, e lo fa con i termini e con le immagini essenziali. Soprattutto, si fa capire. Eccome.
Allo stesso modo quando Tonino dice:
Non cela segreti la superficie
dei giorni inerti opachi uguali
oppure
la luce, quando arriva,
ferisce gli occhi partorisce
le immagini di sempre
e ancora
una porta si apre
dove il giorno è qualsiasi
riconosco una urgenza interiore di senso che è esattamente la mia, e che viene puntualmente disattesa da ciò che sta fuori.
Ma poi:
Padrona delle forze, più allettante
del muretto di un viottolo campestre
la primavera mi ridà la corda.
Le cose prendono lo statuto di persone
e tutto si ricompone.
constata l’uno, e l’altro:
Si svegliano pallidi i giorni
nel vecchio paesaggio,
camminano scalzi,
riprendono il viaggio.
Semaforo verde.
C’è molto di più in queste poesie, ma sarà oggetto, lo spero, di altre riletture. Qui mi importava solo rispondere alla domanda più immediata e impegnativa: perché. Il perché è questo. Credo che la riabilitazione del linguaggio, sia in senso proprio che in senso figurato, sia l’intervento più urgente da operarsi per la nostra cultura malata, per la nostra socialità agonizzante. È un intervento inderogabile, preliminare ad ogni altra scelta. Per fare diagnosi, per prescrivere terapie e medicamenti c’è bisogno di gente che parli chiaro, che attribuisca alle parole il giusto peso, che sappia allinearle nella maniera più semplice senza impoverire la gamma delle sfumature, che le pronunci senza ammiccare o alludere, e senza intimorire.
Dicevo che in queste poesie c’è eleganza: è l’esatto contrario della volgarità. C’è sostanza, che è l’esatto contrario della vacuità. C’è voglia di mettersi in gioco, e non di esibirsi, che è pudore. Ci sono esattamente tutte le qualità di cui avvertiamo lancinante l’assenza nel quotidiano. Queste poesie ci rinnovano la speranza che qualcuno continui a resistere all’abbrutimento, e offrono un esempio semplice, praticabile, immediato di come è possibile farlo. In linea con quello che il sito vorrebbe trasmettere.
Sono cose che non pesano nel bagaglio del viandante, perché si reggono da sole: anzi, aiutano il viandante a reggersi.