Confessioni di un anglomane

di Paolo Repetto, 13 dicembre 2024

Chiacchierando con Vittorio (si parlava della mini-serie sui giallisti inglesi che ha postato recentemente su questo sito), abbiamo messo a confronto i nostri rispettivi rapporti con l’Inghilterra, con la sua storia, la sua cultura e i suoi abitanti. Il risultato era scontato, siamo entrambi anglofili ferventi, anche se con approcci diversi. E non è neppure una novità: ci conosciamo da tempo. Solo, non ne avevamo mai parlato diffusamente prima.

È nata di lì quindi l’idea di trasferire sulla carta le mie impressioni: una modesta dichiarazione d’affetto per la piccola grande isola, che mi accomuna peraltro a diversi connazionali illustri, come ad esempio – si parva licet – Luigi Meneghello o Beppe Fenoglio, o a coetanei d’oltreoceano, come Bill Bryson, professatisi inglesi d’elezione.

Una dichiarazione d’affetto non è una dichiarazione d’amore. L’amore è cieco, mentre il mio è un sentimento più controllato, che permette di rilevare gli aspetti di quella cultura che non mi piacciono, e di criticarli, ma di considerarli alla fin fine meno significativi di quelli che mi attraggono. Questo dovrebbe prevenire le obiezioni: ma la Brexit, ma gli hooligans, ma questo, ma quello … Certo, lo so, e non dico che me ne freghi niente, ma qui almeno ho come contropartita qualcosa di più della pizza e della canzone napoletana (non tiriamo in ballo le rovine classiche e i tesori d’arte che i nostri antenati hanno prodotto secoli fa, sono eredità non possono essere fatte pesare nel confronto – semmai testimoniano la nostra odierna decadenza). E poi, mica intendo stilare delle classifiche di cultura o di civiltà: semplicemente vorrei spiegare a me stesso – perché agli altri giustamente interesserà ben poco – cosa mi attrae di quella cultura e di quella civiltà, sapendo che il modo migliore per fare una cosa del genere è obbligarmi a mettere il tutto per iscritto.

Mentre ne parlavamo mi è venuto comunque in mente che io quel sentimento l’ho già espresso in più occasioni, è sparso nei vari pezzi che ho scritto, e che quindi potrò cavarmela con un’antologia di stralci dalle cose postate sul sito o dalla mia corrispondenza. Non è solo questione di pigrizia (anche se, insomma …), di autoreferenzialità o di insofferenza a ripetere cose che ho già detto. Credo davvero che solo le impressioni a caldo, e così pure quelle buttate giù a margine di altri argomenti, possano rendere con la giusta immediatezza un’attrazione difficilmente traducibile in argomentazioni lucide.

Devo premettere inoltre che nel mio caso il sentimento non nasce da un’assidua frequentazione, anzi: sono stato in Inghilterra cinque o sei volte, ne conosco solo una piccolissima parte, non ho mai avuto amici inglesi, non solo non parlo correntemente, ma conosco poco anche a livello elementare, la lingua. Il perché di questa affezione lo lascio alle pagine che ho raccolto di seguito, credo lo spieghino sufficientemente. Mi limito pertanto a pochissimi dati sulla frequentazione.

Ho vissuto a Londra per poco più di un mese cinquantacinque anni fa, nel 1969. C’ero finito al seguito di un amico conosciuto all’università, che vantava conoscenze nella capitale inglese, ragazzi italiani che ci avrebbero ospitato e “introdotto”. Già il viaggio, su una scassatissima cinquecento, si era rivelato un’avventura. All’arrivo la cosa si fece anche più interessante, perché gli amici erano naturalmente dei morti di fame come noi, che si barcamenavano alla meno peggio in sistemazioni e relazioni assurde. Sbarcammo a Londra come gli emigranti italiani di fine Ottocento a Long Island, e per tutto il tempo della nostra permanenza fummo occupati a trovare un tetto per la notte e qualcosa da mettere sotto i denti durante il giorno.

Un giorno dovrò raccontare tutto questo: per ora basti sapere che ero partito con sessantamila lire in tasca, che al cambio odierno sarebbero trenta euro, ma rivalutate in base all’inflazione corrisponderebbero a cinque-seicento euro. Coi quali però dovetti sostenere anche la metà delle spese di viaggio (benzina, traghetto, forature e inconvenienti vari), per cui al netto disponevo dell’equivalente di meno di trecento euro. Insomma, nelle ultime settimane ho fatto la fame e sono tornato a casa letteralmente senza una lira in tasca, dimagrito di cinque o sei chili.

In quelle condizioni confesso che l’impressione lasciatami dalla città non fu particolarmente positiva. Forse per questo non ho più messo piede in Inghilterra fino al nuovo secolo. Preferivo continuare a conoscerla attraverso i libri e i film, rispondevano meglio all’idea che mi ero fatto e non mi costringevano a diete ipocaloriche.

L’occasione di un ritorno è arrivata quando Chiara, la maggiore delle mie due figlie, si è trasferita per lavoro sull’isola, prendendovi casa e cittadinanza. È accaduto poco più di vent’anni fa, e da allora come dicevo sono tornato quattro o cinque volte (senza mai però toccare Londra, se non per il transito aeroportuale). Ho visitato il Somerset, il Devon e la Cornovaglia a sud, la Cumbria e il Lancashire al nord, ho solo sorvolato la Scozia e le Shetland. Che significa in pratica aver visto poco o nulla. In compenso ho conosciuto i colori della natura inglese in tutte le stagioni. E quelli qualcosa mi hanno aiutato a capire.

Nel buttare giù queste cose (e rileggendo quelle che ho scritto in più occasioni precedenti) mi chiedo se nella inossidabilità della mia anglofilia non ci sia qualche motivazione più profonda, magari inconscia, o subentrata di recente, che vada al di là delle giovanili suggestioni letterarie (per quanto queste continuino a ripetersi). E credo di poter individuare questa motivazione nel fatto che vedo ormai nell’Inghilterra l’ultimo baluardo della cultura e della civiltà occidentale.

Può sembrare paradossale, per un paese che ha il numero più alto in Europa di abitanti originari di altre parti del mondo, ma è così. In altri tempi l’Inghilterra è stata salvata dalle invasioni dal suo essere un’isola: oggi le sue difese non sono più quelle naturali, ma quelle culturali. La lingua, ad esempio: la maggioranza di coloro che sono migrati in Inghilterra nell’ultimo secolo non si è scontrata con una barriera linguistica, essendo ormai l’inglese una lingua universale: e questo non li ha indotti a fare gruppo solo con i propri connazionali o correligionari, ma ha consentito loro di integrarsi con relativa facilità, di assorbire costumi e mentalità dell’isola. Al contrario di quanto accade da noi, ma anche in Francia, in Germania, in Olanda, dove si sono insediate culture diverse che tendono a preservare gelosamente le loro differenze e a sviluppare una propria autonomia, in Inghilterra diventano bene o male tutti inglesi. E questo malgrado poi ottenere la cittadinanza inglese sia tutt’altro che semplice e a buon prezzo: mia figlia, che risiede là da quasi vent’anni, parla la lingua meglio degli autoctoni, ha un lavoro stabile e una casa di proprietà, ha dovuto sborsare più di mille sterline e superare due esami, uno di lingua e uno di cultura, due prove serie e non due ridicoli pro-forma, per essere accolta.

Questo produce un ulteriore paradosso: gli inglesi, che proprio attraverso la diffusione o l’imposizione della propria lingua (e della propria cultura) a livello mondiale sono stati tra i principali artefici della globalizzazione, risultano essere oggi uno dei popoli meno “globalizzati”, almeno nel senso che sono ancora tenacemente attaccati alla loro storia e alle loro tradizioni.

Ecco, sto naturalmente semplificando al massimo, ma credo che la differenza stia proprio lì: gli inglesi hanno stabilito delle regole. Non hanno nemmeno avuto bisogno di scriverle, le hanno sempre date per scontate: volevano imporle a casa degli altri, figuriamoci nella propria: se vuoi abitare qui, devi adeguarti alle leggi e alla consuetudine locale. Per il resto sei libero di pensare, credere, vestire e mangiare come vuoi.

Queste regole sono state fatte rispettare e hanno funzionato sino ad oggi, e se non hanno necessariamente favorito l’instaurarsi di relazioni d’amicizia (la fonte informata è sempre mia figlia) tra gli immigrati e gli “indigeni”, hanno quanto meno consentito una pacifica convivenza. È possibile che per il futuro le cose si complichino, i segnali già ci sono, ma al momento l’Inghilterra sembra ancora determinata a difendere il ridotto occidentale.

Ho cercato di scegliere, tra le centinaia di pagine che ho scritto in proposito, quelle che della cultura e della civiltà britannica coglievano le sfaccettature meno scontate. Naturalmente non mancheranno le ripetizioni, giustificate comunque dal fatto che quanto ho recuperato è stato scritto in tempi e in occasioni diverse, ed era destinato a differenti interlocutori.

Sono anche consapevole che tanto ripetute manifestazioni di “affetto” possano apparire esagerate e far sorridere. Ma corro il rischio volentieri, perché nel miglior spirito anglosassone nutro la pretesa che mi legge sia anche in grado di capirmi.

da Mr. Psmith nella Grande Mela (2018)

[…] Io sono malato di anglofilia, sono a tutti gli effetti un anglomane. Ma la mia è un’anglomania “povera”, coltivata per moltissimo tempo solo a tavolino, sulle letture in traduzione dei libri di Stevenson, di Kipling, di Wilde, di Conrad e di infiniti altri. Nemmeno oggi parlo l’inglese, lo leggo e lo capisco a stento. È anche un’anglomania selettiva: non sono mai stato un fan dei Beatles o dei Rolling Stones, e meno che mai di Elton John. E non è totalmente acritica: sono convinto che gli inglesi siano affetti da una incredibile spocchia e abbiano sempre guardato al resto del mondo come se avessero qualcosa da insegnargli (tra l’altro, sempre presumendo che gli altri non fossero comunque in grado di imparare). Quindi, in realtà ci sarebbe ben poco da amare: a meno di essere convinti che abbiano ragione.

Ebbene, non posso negare che una qualche idea del genere la coltivo, a dispetto anche dell’opinione della mia prima figlia, che in Inghilterra ci vive ed è cittadina inglese e dei suoi connazionali dice peste e corna. È una convinzione che viene rafforzata da ogni breve permanenza nell’isola (e lo è ulteriormente ogni volta che ne vengo via). Vedo qual è la realtà inglese attuale, e come gli inglesi si siano ridotti, ma continuo ad amarli, con tutti i loro difetti di ieri e di oggi. Cosa che non mi succede, ad esempio, coi romani.

Forse dovrei dire piuttosto che amo la “civiltà” inglese: ma quella civiltà è appunto il prodotto di uno spirito, di uno stile, di una cultura che mi appaiono straordinari, e che appartengono (o forse appartenevano) solo a loro. Posso affermarlo con cognizione di causa perché i miei interessi, che occupano uno spettro piuttosto ampio, hanno fatto sì che li incrociassi continuamente. Dovunque mi abbia portato il mio disordinatissimo percorso culturale, li ho trovati. Magari non erano approdati per primi, ma una volta arrivati c’erano rimasti. Ora, non è questione di qualità, non penso cioè (a differenza degli inglesi stessi) che nascano in Inghilterra intelletti “superiori”. Quelli possono nascere ovunque. È invece una faccenda di quantità, e un numero eccezionale di personaggi fuori dal comune: e il numero è tale che agli inglesi tanto straordinari poi non sono mai parsi. Lo sembrano a noi, dal di fuori. A me, senz’altro.

Sul perché di questa eccezionale fioritura ho le mie teorie, fondate sulla storia e non sulla biologia, delle quali ho già parlato in Due lezioni sulla storia inglese: ma per farsene un’idea è sufficiente leggere ad esempio, in Tour de France, di Richard Cobb, il racconto dell’adolescenza e del percorso di studi di uno storico anglosassone.

da Elisa nella stanza delle meraviglie (2003)

Letterature: gli inglesi

[…] Mi accorgo solo adesso che la letteratura inglese è quella che occupa il maggior numero di ripiani. Così su due piedi non saprei dartene una spiegazione. È evidente che gli inglesi hanno scritto molto di più rispetto ai rumeni o agli estoni, proporzionalmente e in assoluto: ma qui sono rappresentati in misura doppia anche rispetto ai francesi, ai russi, ai tedeschi e agli americani. E questo non è più un rapporto proporzionalmente oggettivo, dice di preferenze e di interessi soggettivi.

La mia consuetudine con la letteratura inglese è indubbiamente remotissima, dura ormai da cinquant’anni. Come già ti dicevo i classici per la gioventù me li sono fatti tutti (tranne Peter Pan, ora che ci penso: chissà perché nessuno ha mai pensato a regalarmelo. O forse ci hanno pensato, e poi han ripensato bene?) e probabilmente la spiegazione sta proprio lì. Nessun’altra letteratura offre tanti spunti e occasioni diverse per fantasticare (e per innamorarsi quindi dei libri) ai fanciulli e agli adolescenti. Ma c’è dell’altro. Con gli inglesi sei da subito in bilico tra la letteratura giovanile e quella adulta, anzi, entri immediatamente in quest’ultima perché leggi cose scritte per adulti ma facilmente riconducibili alla misura di un ragazzo. Uno dei primi libri che ho letto si intitolava Racconti da Shakespeare, erano riduzioni a novella delle sue tragedie. I contemporanei italiani di Shakespeare si chiamano Tasso e Marino: al di là del fatto che sfido chiunque a ridurre l’Adone per i ragazzi, se mai lo si fosse fatto per la Gerusalemme liberata (e comunque sarebbe risultato altrettanto difficile) si sarebbe gridato allo scandalo. Non parliamo poi de I promessi sposi!

Confessioni di un anglomane 03Gli inglesi invece scrivono Kim e Alice nel paese delle meraviglie, che puoi leggere con eguale soddisfazione a dieci o a sessant’anni, o le storie dei cavalieri della Tavola Rotonda, o le avventure di Robinson Crusoe e di Oliver Twist. Sono libri che non ti senti in dovere di nascondere, appena accedi alla letteratura adulta, come accade invece con Salgari, perché non sono bollati come appartenenti a generi “minori” o marginali. Fanno parte integrante della letteratura di quel paese, ti accompagnano nella tua maturazione lungo un percorso ininterrotto sui sentieri della fantasia. Nelle scuole inglesi degli anni Cinquanta e sessanta i miei coetanei leggevano Kipling, Conan Doyle, Stevenson: a me, se mi trovavano sotto il banco un romanzo di Scerbanenco, mi cacciavano dalla scuola.

Vedi Elisa, torna in ballo la questione che abbiamo già affrontato a proposito della poesia: ci sono popoli che hanno saputo coltivare il piacere della cultura, del farla come del consumarla, ed altri che ne hanno invece sempre riverito e sofferto il “peso”. C’entrerà la religione, o il clima e gli inverni lunghi, non lo so: sta di fatto che l’ultimo libro di poesie di Tom Hugues ha venduto in sei mesi seicentomila copie, mentre Ossi di seppia non le ha vendute in ottant’anni.

Confessioni di un anglomane 04 Oscar WildeNei confronti della letteratura inglese non c’è stata quindi una vera e propria “scoperta”, ma un passaggio graduale e conseguente. Forse potrei far coincidere l’ingresso nella fase totalmente “adulta” del rapporto con la lettura de Il ritratto di Dorian Grey, che mi ha preso a dispetto dell’inconsistenza della storia, per puro innamoramento dello stile e dell’arte del paradosso. Non so quanto abbia retto il romanzo a questi ultimi quarant’anni: ogni tanto c’è qualche studente che me lo chiede, forse perché intrigato dalla fama di libro un po’ “scandaloso”, ma quando lo riportano non vedo brillare nei loro occhi nessuna scintilla di entusiasmo. Io ormai non lo ricordo nemmeno più, ma ricordo che lo snobismo di Wilde, il suo culto dello stile, una qualche impressione deve avermela fatta, se mi ha spinto a leggere poi con gusto anche tutto il suo teatro, nonché i saggi (tra i quali è godibilissimo, e quanto mai attuale, La decadenza della menzogna).

Questa dello stile, di vita intendo, oltre che letterario, è una fissazione comune un po’ a tutti gli autori inglesi, non solo a Wilde. E forse questa è l’altra spiegazione del primato della presenza inglese nei miei scaffali. Vedi, io ho vissuta nella fanciullezza un’intensa militanza da chierichetto, precettata da tua nonna ma anche in parte sentita. Per cinque o sei anni ho sbaragliato la concorrenza nelle classifiche a punti del servizio, per poi, quando la superiorità era ormai manifesta e schiacciante, perdere inesorabilmente la fede. Non è stato facile, non tanto resistere alle pressioni materne, quanto imparare a convivere con principi che ormai si erano radicati, ma che non avevano più nessuna giustificazione in un quadro morale ben definito. Dovevo costruirmi un’etica, non mi bastava più De Amicis e non potevo certo chiedere soccorso a Pellico o Manzoni. Quelli giusti erano Conrad e Kipling, insieme magari a London. L’etica del dovere e della solidarietà, e l’orgoglio della solitudine. Guarda che non so scherzando: probabilmente sono state più che altro delle conferme, trovavo lì la perfetta corrispondenza con ciò che sentivo, ma è indubbio che hanno contribuito a rafforzare le mie inclinazioni (e diciamo anche le mie manie: dopo aver letto Lawrence d’Arabia spegnevo i cerini e le candele con i polpastrelli delle dita, per temprarmi a resistere alla tortura).

Sono molti, in effetti, gli autori inglesi che vale la pena conoscere: praticamente tutti quelli che trovi qui, più gli altri distribuiti nelle sezioni “speciali”. Messi assieme occuperebbero un intero scaffale, da cima a fondo (ma è anche da dire che quattro o cinque come Dickens o Conrad, o come Kipling e Stevenson, per non parlare di Shakespeare, portano via da soli tre quarti dello spazio, soprattutto se si ha la pretesa di raccogliere praticamente tutto quel che è stato tradotto). Non è certo il caso che te li presenti uno ad uno: quando arriverà il momento incontrerai quelli giusti, si faranno avanti da soli. Al più posso segnalarti qualche lettura particolare, di quelle meno scontate. Ad esempio questo libretto di Kipling, Qualcosa di me, dove viene rievocata un’infanzia prima favolosa (è nato in India) e poi tristissima (è stato spedito a sei anni a studiare in Inghilterra), ma dove si capisce soprattutto perché un poeta inglese che canta l’imperialismo rimane un poeta, mentre un italiano che fa altrettanto (pensa a D’Annunzio) diventa un trombone. Anche Stevenson ha scritto cose “minori” simpaticissime: il suo Viaggio nelle Cevennes in compagnia di un asino mi aveva quasi convinto a recuperare un mulo dell’esercito per farne un compagno di escursioni. E poi c’è Jerome, Tre uomini in barca. Una volta era considerato un classico dell’umorismo, oggi, per palati educati alla comicità demenziale, potrebbe avere un sapore di stantio. Ma non è così: prova a godertelo nelle condizioni giuste, sotto un albero in aperta campagna, lontano da televisione e walkman, e riassaporerai il gusto perduto della finezza (anche qui, è questione di stile).

Confessioni di un anglomane 05 Virginia WoolfNaturalmente, le donne. Ci stavo arrivando. Nella letteratura inglese non si può prescindere dalla scrittura al femminile, nemmeno io ho il coraggio di farlo. Sono passato per la Mary Shelley, per le Bronte, per Jane Austen, per la Barrett, su su fino ad arrivare alla Mansfield e a Virginia Woolf (e poi basta, però. Le voci femminili importanti sembrano fermarsi agli anni Venti. Deve essere accaduto qualcosa alle donne inglesi). Beh, queste devi leggertele tutte, non si scappa. Magari scegliendo, Senso e sensibilità ad esempio, o Jane Eire, se vuoi farti un’idea. E per entrare in argomento puoi iniziare con Flush, della Woolf, e proseguire subito dopo con Una stanza tutta per me, che della scrittura al femminile è un po’ il manifesto.

Io non credo di essere il lettore più adatto a cogliere tutte le sfumature di una sensibilità femminile (te n’eri già accorta? Meglio così), per cui se mi chiedi cosa mi attiri veramente in queste autrici temo di darti delle spiegazioni deludenti. Ho l’impressione che tutte queste storie, anche quelle apparentemente più pacifiche della Austen, siano in realtà tese come corde di violino, giocate su un minimalismo dei fatti e un massimalismo della loro interpretazione che nella scrittura maschile sono assenti. Le storie al maschile sono più piane, più distese, anche quando sono infarcite di massacri e violenze e peregrinazioni: in quelle femminili il massacro è continuo, sottile, apparentemente incruento, la tensione non cade mai. E questo mi piace, lo capisco fino ad un certo punto, cioè capisco fino ad un certo punto come si possa vivere e pensare così, ma letterariamente mi piace.

Per questo mi piace molto anche un autore come E.M. Forster, perché ha una sensibilità molto prossima a quella femminile, ed è uno dei pochi (assieme a Flaubert e ad Henry James) in grado di rappresentare uno sguardo femminile sul mondo (se poi ci riesca davvero, ripeto, non lo so. A me pare di sì). Prova a leggere Camera con vista, tra qualche anno, e magari ne discuteremo. Ma mi rendo conto che sono le chicche quelle che aspetti. Allora, salta quei venti volumi di Conrad (nel senso non di “scàrtali”, ma di “acquistali in blocco”), mettendo magari da parte per un primo assaggio I duellanti (di là c’è anche la videocassetta del film che ne hanno tratto, può essere interessante, dopo) ed estrai quel libricino azzurro. Si, sono poesie, il titolo è Grazie nebbia, il poeta è W.H. Auden. Scegline una a caso, e prendi a metà: “Ma il Tempo, il dominio dei Fatti / richiede una Grammatica complessa / con molti Modi e Tempi / e in primo luogo l’Imperativo. / Noi siamo liberi di sceglierci la strada / ma scegliere dobbiamo, non ha importanza / dove conduca, e le storie che raccontiamo / del passato hanno da essere vere”. Hai capito? Via, non pretendiamo troppo, intendevo dire se hai capito perché mi piace: perché dice le cose più vere con le parole più semplici. Lì accanto ci sono gli altri volumi delle sue poesie La verità, vi prego, sull’amore e una raccolta antologica. Quando dovessi chiederti se esiste e cos’è la poesia, aprine uno.

Confessioni di un anglomane 06 George OrwellAuden ha combattuto in Spagna, al tempo della guerra civile, nelle Brigate Internazionali. C’era anche Orwell in quelle brigate, come militante anarchico, mentre Auden era comunista. Orwell è famoso per La fattoria degli animali, che puoi leggere anche subito, e per 1984, che ti consiglio di affrontare più in là. Ma qui ci sono anche i suoi saggi, Sul leggere, Sullo scrivere, Sul chiedere e sul non chiedere, Sul vivere e sul morire, raccolti sotto il titolo Nel ventre della balena. In realtà non sono veri e propri saggi, sono raccontini autobiografici di fattura squisita e di eccezionale sostanza etica, come l’autore, del resto.

Io in genere non riesco a fare distinzione tra l’autore e l’opera. Dicono che non è giusto, che occorre leggere senza condizionamenti biografici, che se la mettiamo così anche Leopardi era un golosone e Foscolo uno sciagurato e Salgari si perdeva se usciva da Verona: ma non è a queste stupidaggini che mi riferisco, anzi, le trovo gustose. Voglio coerenza nelle cose importanti. Se uno scrive l’Emilio e manda cinque figli a morire al brefotrofio, ho delle difficoltà a dargli credito. Se uno (come Sartre) che non ha mosso un dito per gli ebrei durante l’occupazione nazista si riscatta, dopo la guerra, con un saggio sull’antisemitismo, e dopo aver attaccato nella maniera più feroce Koestler e Camus perché antistalinisti si scopre libertario nel ‘68, quale obiettività è possibile? Si salta a piè pari. Bene, Orwell è tra quelli che dimostrano che la coerenza è possibile, e che è quindi giusto pretenderla.

Confessioni di un anglomane 07 Bruce ChatwinUn’eccezione però riesco a farla. Per Chatwin. Come uomo Chatwin doveva essere di un’antipatia unica, l’ultima persona che vorresti avere come compagno di viaggio. Ho dovuto interrompere la lettura di una sua biografia (tra l’altro, scritta da un certo Nicholas Shakespeare) per eccesso di avvilimento. Ma come scrittore, di viaggio e non, è superbo. Utz e Sulle colline nere sono due gioiellini, il secondo non sfigura accanto ai libri di Thomas Hardy. È possibile che io non sia granché obiettivo nel giudizio, ma in senso favorevole all’autore, perché c’è di mezzo anche un mio diritto di prelazione: credo di essere stato uno tra i primissimi a leggere in Italia il libro che lo ha reso famoso, In Patagonia, subito dopo l’editore e i correttori di bozze, e per qualche mese ne ho tenuto l’esclusiva. E sai quanto godo di queste cose!

Sono arrivato piuttosto tardi invece a Il signore degli anelli. Tardi, ma sempre con largo anticipo sulla cultura di sinistra, che per anni lo ha ostracizzato o ignorato e poi ne ha conteso il culto alla destra. Tardi, ma d’un fiato. Neppure tu, con le tue innate doti di pervicace rompiballe, saresti riuscita a distrarmi quando ho cominciato il viaggio con Gandalf e Frodo Baggin. Spero che l’aver visto il film non ti dissuada, come mi sembra stia accadendo ad un sacco di ragazzi. Sono millecinquecento pagine, ma quando arrivi in fondo avresti solo voglia che fossero il doppio.

Confessioni di un anglomane 08 TolkienTra l’altro, sempre a proposito di coerenza, nello scaffale opposto, dove arriveremo più tardi, c’è un librone di Humprey Carpenter, Gli Inklings. È una sorta di biografia collettiva di un gruppo di amici, tra i quali lo stesso Tolkien, C. S. Lewis, Charles Williams, tutti docenti ad Oxford negli anni Venti e Trenta, raccolti in circolo informale sotto il nome appunto di Inklings, che invece di cacciarsi le dita negli occhi a vicenda come in genere avviene nell’ambiente universitario si trovavano tutti i giovedì sera per discutere, leggere ciò che avevano scritto in settimana, farsi qualche bicchiere di Porto o di scotch. Quando uno di loro doveva tenere qualche conferenza nelle città vicine era una festa collettiva: partivano a piedi nel weekend, arrivavano a farsi anche cento chilometri, con frequentissime soste nelle osterie sul cammino, tornavano alla stessa maniera e riprendevano il loro lavoro accademico. Dove sta la coerenza? Nell’amicizia Elisa, nella capacità di non sacrificare l’amicizia alla loro professione o alla loro vocazione di scrittori. Non sapevo nulla di tutto questo quando ho letto Il signore degli anelli, ma non potevo fare a meno di accorgermi che chi scriveva conosceva davvero il valore dell’amicizia.

Gli Inklings sono diventati anche il modello per un’esperienza personale di questo tipo. Per qualche anno, poco prima che tu nascessi, è esistito un gruppo di amici che si ritrovava a cenare ritualmente, quasi ogni settimana, al nostro capanno, e tirava tardi discutendo di cinema e di politica, facendo pettegolezzi e progettando escursioni, mettendo in cantiere mostre e redigendo riviste. L’unica cosa in comune con gli Inklings era probabilmente il tasso alcolico, ma i Viandanti delle Nebbie hanno corrisposto ad uno dei periodi più autentici della mia vita. Il gruppo, come motore di iniziative, non esiste più, ma gli amici sono rimasti: e a tenerli legati è, ancora e sempre, il comune amore per la letteratura.

E adesso chiudiamo, perché bisogna pur arrivarne ad una e perché ho bisogno di una pausa per il caffè. Non prima però di averti fatto notare questo libretto di racconti di Alan Sillitoe, La solitudine del maratoneta. Negli ultimi vent’anni credo lo abbiano letto solo i miei studenti, non lo trovo citato in alcuna antologia o bibliografia sulla condizione adolescenziale. Ma è perfetto, nella sua secchezza, nella capacità di evocare il peso di una condizione carceraria senza ricorrere a trucchi granguignoleschi, nel gesto finale autolesionistico di dignità e di coerenza. Malgrado il traino di un film altrettanto bello che ne è stato tratto, qui da noi non ha avuto una grossa fortuna nemmeno negli anni della contestazione. Troppo inglese, troppo elegante, troppo aristocratica come etica, evidentemente.

Libreria Paolo 05 b&n

da: I regali di un tempo (2013)

Confessioni di un anglomane 09 FermorHo sentito la voglia di raccontarlo [ndr: Patrick Leigh Fermor] quindi per quattro ragioni, e direi che ce n’è d’avanzo: perché era un uomo coraggioso, perché era un intellettuale raffinato, perché era un grande camminatore e perché era uno snob quale solo gli inglesi sanno esserlo. Fermor appartiene alla dinastia dei Byron, George ma soprattutto Robert, quello de La via per l’Oxiana, e risalendo più in su ancora, del bucaniere Dampier, e allungando indietro lo sguardo, dei cavalieri della Tavola Rotonda. E anche di Orwell o di Auden, pronti a combattere per quella che ritengono la causa giusta, e a fermarsi appena hanno l’impressione che tanto giusta non sia, o che comunque non sia più la loro causa. Individualisti, per nulla disposti a sacrificare la loro autonomia di pensiero agli interessi di un’idea che, nel momento in cui non garantisce la massima libertà individuale, non riesce più accettabile.

Ecco, credo che stia lì la radice di tutto: crescendo nella lettura di Malory fin da ragazzino, in quella dei classici nell’adolescenza (ed è da notare che per gli inglesi i classici per eccellenza sono i greci, e non i latini, e l’autore classico più popolare e letto in assoluto è Plutarco. Col risultato che gli studenti italiani conoscono soprattutto Cicerone e Seneca, e per essi la classicità rimanda paradossalmente all’esistenza di uno stato, o comunque di una ragione esterna superiore, alla quale poi in realtà non credono perché se ne sentono vittime, e non protagonisti: mentre al contrario gli inglesi hanno il senso dello stato proprio perché esso sembra esistere apposta per garantire in primo luogo la loro libertà) e con i libri dei viaggiatori e degli esploratori, o comunque di gente che ha girato il mondo in lungo e in largo nella giovinezza (si pensi a Stevenson, a Kipling, a Conrad), se uno poco poco è permeabile si imbeve di un’idea della vita tutta particolare. Quella del mondo viene di conseguenza, ma direi che nella prospettiva inglese è secondaria. Mentre noi ci trinceriamo dietro il Fato, e ci arrendiamo senza troppe resistenze al condizionamento delle contingenze esterne, gli inglesi sono persuasi di poterle tranquillamente governare. Questo spiega perché la nostra letteratura veda come protagonisti di norma degli anti-eroi, inetti, sconfitti o annoiati, e perché il personaggio letterario che forse meglio rispecchia il nostro sentire sia Don Abbondio, mentre già un secolo prima gli anglosassoni si identificavano in Robinson Crusoe.

Fermor era un uomo libero, e questo lo iscrive di diritto nella galleria dei personaggi che vorrei contribuire a tenere in vita. In quanto libero, e intendo libero “dentro”, era di conseguenza coraggioso: al limite della temerarietà, ma non dell’incoscienza. Questo non perché dovesse provare a se stesso, o agli altri, il proprio coraggio: semplicemente, si divertiva. È un atteggiamento che non appartiene alla nostra cultura mediterranea, a dispetto della “solarità” che accampiamo e che gli stessi nordici ci attribuiscono. Noi crediamo di essere allegri, invece siamo solo poco seri e melodrammatici. Recitiamo costantemente una parte della quale non siamo convinti: e nemmeno sappiamo giocare lealmente. Gli inglesi in fondo chiamano “grande gioco” tutta la complicata vicenda che li vede contrapposti ai russi nel Medio Oriente nella seconda metà dell’Ottocento. E sono coloro che hanno inventato il concetto moderno di sport, da non confondere con quello postmoderno di industria dello sport. In sostanza, per loro la vita è una cosa seria, e appunto per questo va valorizzata: ma è anche una cosa molto breve, e appunto per questo va presa con il giusto distacco – l’ironia – e con divertimento. Il divertimento nasce solo dal gioco leale, dal concordare delle regole e poi rispettarle. Quindi, gli inglesi prendono la vita come un gioco, e qui sta il loro snobismo, ma sono seri nel gioco, e qui sta la loro forza. (Non sto tessendo il panegirico dello stile britannico, anche se di fatto risulta tale: negli intenti è un panegirico di quello stile che vorrei permeasse qualsiasi atteggiamento esistenziale. Che, chiaramente, non appartiene solo agli inglesi: ma mentre inglesi lo apprezzano, dalle nostre parti – si veda il caso di Berneri – sembra addirittura dare fastidio).

Confessioni di un anglomane 10 Fermor

da: Tom Barnaby, antropologo (2018)

I telefilm di Barnaby non hanno la pretesa di documentare una realtà sociale, e meno che mai di denunciarne il degrado, ma propongono in compenso un campionario interessantissimo di materiale antropologico. Un repertorio sterminato di costumi, di manie, di riti sociali, di istituzioni non ufficiali ma investite di autorità dalla tradizione locale: tutto ciò insomma che dovrebbe caratterizzare nel profondo l’Old England.

Provo a farne un elenco a memoria, che sarà chiaramente molto difettoso, perché in effetti ogni singolo episodio ruota attorno ad un mondo particolare, a riti e a tradizioni diversi. Si va dagli appassionati di birdwatching ai coltivatori di orchidee, dalle gare dei cori a quelle dei campanari, dai club letterari alle bande musicali con majorettes, dagli ufologi alle sette sataniche o naturistiche, dai tassidermisti dilettanti ai micologi, fino ai collezionisti di monete, di punte di frecce preistoriche, di libri antichi e d’arte; e poi via via, i club sportivi, di canottaggio, di tiro con l’arco, di cricket, di pugilato, di equitazione, i passeggiatori a piedi o in bicicletta, gli amanti del mistero e dei fantasmi, delle visite ai cimiteri o alle case stregate, fino alle associazioni di ex-combattenti e ai patiti dei giochi di guerra. A fare incontrare tutta questa gente sono soprattutto le feste paesane, tutte uguali, con le gare di lancio del ferro di cavallo o di tiro con l’arco, la musica della banda sullo sfondo e Barnaby che si aggira fingendosi moderatamente divertito (è stato trascinato lì dalla moglie o dalla figlia) tra i quattro banchetti per l’assaggio delle torte e del sidro: fino a quando il primo omicidio non gli consente di rimettersi in azione. Ai nostri occhi di inveterati sagraioli queste feste di paese inglesi possono sembrare noiose e povere, soprattutto per l’assenza di caciara: in realtà sono molto più sentite e genuine di quelle nostrane, hanno alle spalle una reale tradizione, alla quale rimangono il più possibile fedeli, e soprattutto mirano a far incontrare i paesani, non a richiamare e a spolpare i turisti (questo l’ho constatato personalmente).

I telefilm di Barnaby mostrano in definitiva un’Inghilterra rurale che forse non c’è più (ma nemmeno è del tutto scomparsa), volutamente miniaturizzata in tante oleografiche cartoline, e capace di suscitare un velo di nostalgia. Intendiamoci: è l’Inghilterra che ha votato la Brexit: anzi, è l’immagine che quella Inghilterra ha di se stessa, o aveva sin quasi alla fine del secolo scorso. E che, questo è il punto, vorrebbe conservare. Ma qui scatta un primo paradosso. In effetti la serie quella immagine gliela rimanda, ma nel suo contesto Barnaby ha il ruolo di chi alza la pietra: sotto, appena rovista un po’ più in profondità, vien fuori di tutto: antichi rancori, faide secolari, vendette, invidie, livori, meschinità, cupidigie, drammi familiari, tradimenti, perversioni, superstizioni e manie religiose, insomma, una catena di piccoli viperai. In uno dei primi episodi l’ispettore commenta: “Questo paese sembra il paradiso terrestre: ma non lo è”. Una considerazione che potrebbe essere posta in esergo ad ogni puntata.

Questo aspetto del messaggio certamente piacerà poco a Farrange e alle destre fascistoidi: ma in realtà è perfettamente funzionale a raccontare il gioco complesso e delicato di equilibri sui quali si regge la vita di contea, quelli che l’ispettore è chiamato appunto a difendere e a ripristinare, e a suggerire perché non dovrebbero essere sconvolti. Un manifesto conservatore sottile e accattivante, che mescola abilmente mezze verità e ambigue suggestioni: tanto da non farti neppure vergognare di condividerlo.

lispettorebarnaby

da: Mr Psmith nella Grande Mela (2019)

[…] L’uso che Wodehouse fa della lingua non denuncia solo uno scarto temporale. Evidenzia anche la distanza che prima della definitiva globalizzazione mediatica correva tra la cultura inglese e tutte le altre, occidentali e no. Non esiste altrove il corrispettivo di un Jerome o di un Wodehouse.

Prendiamo il caso dell’Italia. Accennavo al fatto che tra le mie letture giovanili c’era Achille Campanile (che non la pensava come Psmith, perché riteneva che “In certi casi alla stretta d’un ragionamento ineccepibile non si può rispondere che con una bastonata”). Successivamente sono arrivati altri umoristi, da Marchesi a Guareschi a Benni. Ora, la differenza rispetto ai loro colleghi d’oltremanica è palese. Gli italiani, anche quelli più raffinati, usano sempre il linguaggio in una funzione urticante o demolitoria. Scombinano le architetture, giocano sui doppi sensi. Il loro sorriso è amaro, spesso cattivo, e quando forzano la mano può tradursi in uno sghignazzo. La cosa è più evidente ancora se si guarda al cinema, da Fantozzi ai cinepanettoni. La comicità (?) nostrana nasce dalla esasperazione dei caratteri e delle situazioni, e anche quando non è apertamente volgare è comunque sempre urlata.

L’’umorismo inglese è invece contenuto e distaccato: non esaspera le situazioni, ma le legge anzi sottotono, e si esercita prima di tutto sul narratore stesso (Jerome in questo è un maestro). Non è mosso dal sentimento pirandelliano del contrario, ma da quello del bizzarro. Il contrario lo si combatte, sul bizzarro si ironizza, al più si fa del sarcasmo. Mentre da noi Garibaldi voleva impiccare tutti i preti e con le budella dell’ultimo il papa, il lord cancelliere Disraeli, a proposito del suo più accanito avversario, diceva: “Se il signor Gladstone cadesse nel Tamigi sarebbe una disgrazia, ma se qualcuno lo riportasse a riva salvo sarebbe una calamità”. Questo intendo: fossi stato Gladstone, prima di cominciare a pensare a come ribattere avrei sorriso, e probabilmente lui lo ha fatto.

Non so cosa abbia poi risposto.

Confessioni di un anglomane 11

da: Thalatta! Thalatta! (2024)

Confessioni di un anglomane 12 StevensonHo sempre nutrito una grande ammirazione per lo spirito inglese, a dispetto di quanto ne dice mia figlia, che vive sull’isola, ne è cittadina, ma non ha dei suoi connazionali una grande opinione. La mia ammirazione ha una matrice letteraria, senz’altro, perché la letteratura inglese è quella cui ho maggiormente attinto sin da ragazzo e che ha alimentato alla grande la mia fame giovanile di viaggi e di avventura. Il riferimento obbligato in questo caso è naturalmente Stevenson. “Per un ragazzo di dodici anni traversare la Manica è come cambiare cielo; per un uomo di ventiquattro traversare l’Atlantico significa appena un lieve cambiamento di alimentazione. Ma io ero ormai uscito fuori dall’ombra dell’Impero Romano, che ci ha dominato dalla culla con le rovine dei suoi monumenti, le cui leggi e la cui letteratura ci assediano da ogni parte, piene di divieti e di costrizioni.” Schmitt avrebbe visto in queste parole una conferma della sua analisi.

Confessioni di un anglomane 13 ConradNaturalmente parlo dell’Inghilterra di ieri, o perlomeno dell’immagine di sé che quel paese fino a ieri riusciva a trasmettere. Mi son fatto l’idea (e quando mi faccio un’idea rimane ben radicata) che quello inglese sia un popolo che ha saputo mediare tra la volontà di fuga e di rottura e l’attaccamento alla terra e alle convenzioni. Ha attraversato gli oceani non per dimenticare la sua isola, ma per espanderla, per portarne un pezzo altrove, e magari per rigenerarla. Credo anche che il suo rapporto col mare sia stato in gran parte determinato dalle condizioni di temperatura e di violenza di quest’ultimo. Il mare inglese, lo dico per esperienza diretta, non è fatto per starci ammollo ma per essere affrontato: le sue onde, le sue correnti e le sue maree vanno conosciute e rispettate. Conrad ne era consapevole, tanto da scrivere che “Il mare non è mai stato amico dell’uomo. Tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza”. Ma questo non implica un rifiuto, anzi: “Scoprii quanto ero uomo di mare, nel cuore, nella mente e, per così dire, nel corpo: un uomo esclusivamente di mare e di navi; il mare, l’unico mondo che contasse, e le navi, un banco di prova di virilità, di carattere, di coraggio, di fedeltà e d’amore”. Anche qui mi riconosco.

Confessioni di un anglomane 14

dai: Carteggi a Lucia Barba (2018)

[…] Sono nuovamente reduce dall’Inghilterra, dove ho trascorso le feste con la mia figlia maggiore (c’erano anche Elisa e Mara), e mi viene di buttare lì alcune considerazioni spicciole. Intanto gli inglesi sentono le feste molto più di noi. Per essere un paese protestante, non l’avrei pensato. Ma devo dirla meglio: non è che festeggino di più, “sentono” proprio di più. Non si limitano alla compulsione da shopping pre-natalizio o da saldi post-epifania: cercano davvero di credere che le feste abbiano un significato interiore, e non solo vacanziero. Quanto poi ci riescano non lo so, ma almeno ci provano. È difficile spiegare da cosa lo si percepisca, è un’aura particolare che non ricordavo più e ho invece ritrovato passeggiando nel parco di Bournemouth e nelle vie del centro, o osservando gli amici di Chiara che passavano in visita. Non capivo nulla di quello che dicevano, ma sentivo che lo dicevano bene.

Forse riesco a farmi intendere meglio raccontandoti della programmazione televisiva. Nel pomeriggio di Natale il canale principale della BBC trasmetteva Sette spose per sette fratelli, che non rivedevo da quasi sessant’anni e che è davvero il capolavoro che ricordavo. La sera un documentario sulla Lapponia di due ore, il viaggio di due donne e tre slitte trainate da renne lungo una sterminata pianura innevata, macchiata solo qua e là da qualche albero, nella penombra della giornata boreale. Il tutto filmato in tempo reale, con immagini che arrivavano alternativamente da una camera fissa puntata sulla schiena della prima donna e su una chiappa della renna e da un’altra camera puntata sulla slitta di coda, sulla quale sedeva la seconda donna. Nessun commento musicale, nessuno scambio di parole tra le due, solo un brevissimo dialogo (in làppone, che somiglia all’abbaiare di un cane) a metà, quando arriva il momento di accendere le torce per proseguire. Nel primo quarto d’ora sono rimasto esterrefatto, credevo ad uno scherzo. Poi non ho potuto cambiare canale perché Elisa va matta per queste cose e ha sequestrato il telecomando. Infine, poco a poco, tutti abbiamo cessato di mugugnare e borbottare e fare dell’ironia, siamo come saliti sulle slitte e abbiamo atteso di arrivare, sempre nel silenzio totale, o meglio, col solo rumore dei pattini sulla neve.

Non so quanto posso aver reso l’idea, ma è stato bellissimo, incredibilmente natalizio, per come intendo io il natalizio. Mi obietterai che si tratta pur sempre di televisione, e che evidentemente i programmatori inglesi sono un po’ più furbi dei nostri. Ma è proprio questo che volevo dire. I programmatori televisivi sono probabilmente furbi né più né meno dei nostri, e quindi danno al pubblico quello che pensano il pubblico si aspetti: e il pubblico inglese si aspetta quelle cose, le sette spose e il viaggio nella tundra, anziché le vacanze di De Sica sulla neve, e questo vorrà pur dire qualcosa.

Intendiamoci, non sono un esterofilo da diporto. Non credo che gli inglesi, o i francesi, o i tedeschi, presi singolarmente, come individui, siano meglio di noi. Mia figlia poi me ne fa dei quadri ben poco edificanti. E tuttavia, non posso, ogni volta che valico le Alpi, non venire via col magone, al constatare quanto poco basterebbe per essere anche noi civili, e come quel poco non ci sia verso di ottenerlo. Che c’entra questo col Natale?, mi dirai. C’entra eccome. Perché è un discorso di sensibilità. Sette spose per sette fratelli è uno spettacolo che ancora oggi può tenere unite, strette sul divano, tre generazioni. Ci fosse stato mio nipote, l’avrebbe visto anche lui, invece di rintanarsi in un angolo a giocare con lo smartphone. E magari si sarebbe divertito anche con le renne.

Qui immagino invece un cicaleccio ininterrotto di cretini a gettone, ospiti a turno in tutti i diversi studi, o la sessantesima replica annuale dei film di Totò, a fare da sfondo alla delusione per i regali inutili e pacchiani ricevuti e al rammarico per averli contraccambiati al rialzo. Stiamo smarrendo la sensibilità, e questo è un fenomeno collettivo, prima e oltre che individuale. Là almeno sembra solo individuale, e il collettivo cerca di metterci una pezza. Mi spiego meglio. Il giorno dopo siamo usciti per un giro nei dintorni: che sono una splendida sorpresa. Lasciamo andare i paesaggi naturali, le fantastiche falesie, per le quali gli inglesi non hanno alcun merito, se non quello di non aver lasciato costruire per un chilometro almeno all’interno (ed è comunque già qualcosa). Ci imbattiamo ad un certo punto nei ruderi di un antico castello normanno (il Corfe Castle): dico ruderi ma è una costruzione imponente, che abbraccia un’intera collina. Ai piedi c’è un minuscolo villaggio, nato per ospitare chi lavorava all’edificazione del castello, quindi mille anni fa, e rimasto praticamente intatto: voglio dire che le case e la chiesa e le locande, malgrado il villaggio abbia continuato ininterrottamente ad essere abitato, sono state conservate per tutto questo tempo nella loro struttura originaria. Conservate, e non restaurate da una qualche soprintendenza che odia gli intonaci, anche quelli originali, o adempiendo a una normativa che impone comunque due metri e ottanta per i soffitti, e impianti a norma, e tutte quelle cagate lì. I soffitti sono alti quanto un uomo medio, e se sei un po’ fuori misura dopo un paio di capocciate ti adegui. Lo stesso vale per le strade, a doppio senso ma larghe quanto un’auto, così non si devono neppure indicare i limiti di velocità, si impongono da soli.

A questo mi riferisco, al fatto che un po’ di regole questa gente le ha introiettate, con le buone o con le cattive, e adesso non le subisce, ma le sente sue, a dispetto della maggiore o minore credibilità di chi le ha dettate e di chi è deputato oggi a farle rispettare. Questo significa, in linea di massima e almeno per ora, sentirsi responsabilmente coinvolti.

Confessioni di un anglomane 02

dai: Carteggi a Mario Mantelli (2018)

[…] Il mio, di resoconto, te lo anticipo invece, almeno in parte, per iscritto. Sono stato nei luoghi di Wordsworth, di Coleridge, di De Quincey e di Ruskin, nel Distretto dei Laghi insomma, e a dispetto di un colpo d’aria da low coast che mi ha lasciato rigido come un busto romano per tutto il viaggio ho ammirato uno dei luoghi più belli del mondo. Talmente bello da essere alla lunga insopportabile, credo, e questo spiegherebbe perché i suoi illustri abitatori non facessero altro che camminare in lungo e in largo, anche se alcuni solo nelle pause concesse dall’oppio. Ma di questo riparleremo.

Quella che voglio invece trasmetterti a caldo è un’impressione che non ha atteso certo il viaggio per nascere, ma che dal viaggio è stata decisamente e definitivamente confermata. Siamo un paese allo sfacelo, anzi, nemmeno siamo più un paese, siamo solo lo sfacelo. Fino ad ora, a dispetto del disgusto crescente avevo in qualche modo continuato a truccare le carte, trincerandomi dietro paragoni tutt’altro che significativi (gli ultimi viaggi li avevo fatti in Grecia e in Turchia, e già rispetto a quest’ultima il passivo era pesante). Ma appena sali oltre il quarantaseiesimo parallelo la verità è lì, evidente, spietata: stai attraversando un paese, stai incontrando un popolo, sei tra gente che in maniera più o meno fredda o anche rozza ha comunque introiettato l’idea di un qualcosa che appartiene a tutti, non nel senso italiano che tutti possono rubarne un pezzo, ma in quello per cui tutti ne sono responsabili. Thackeray in Italia non avrebbe scritto “La fiera delle vanità”, ma quella delle pretese. Un paese dove tutti pretendono e nessuno è mai responsabile e disponibile (non raccontiamoci palle sul fiorire del volontariato e compagnia bella: io parlo di qualcosa di più serio, non della vanità di fare “qualcosa in più”, ma dell’umiltà di fare semplicemente ciò che va fatto, senza attendere ricompense divine o ritorni in autostima).

Tutto questo, mi dirai, come lo percepisce uno che non biascica una parola di inglese? Proprio dal paesaggio. Ti guardi attorno e constati che le cose sono state fatte come dovevano essere fatte, che nulla stona, nemmeno, per dire, le pale eoliche. Le vedi stagliarsi lì, e pensi che prima di piazzarle hanno fatto due conti, di quelli veri, e non gli studi sulla compatibilità con eventuali colonie di chirotteri, non hanno dovuto fronteggiare cariche di integralisti della wilderness a casa altrui, semplicemente hanno usato il buon senso. E le pale sono entrate allora discretamente, senza protervia, nel paesaggio, e ci stanno benissimo. Oppure gli alberghi. Prospiciente il Dove Cottage, la casa di Wordsworth (nove euro per visitarla, nessun rimpianto. Altrettanto per quella di Ruskin, ma li vale solo il giardino) è stato costruito un albergo che a prima vista pare più antico del Cottage stesso. Hanno solo ripreso il modello degli edifici di fine Settecento, e parrebbe persino le tecniche costruttive. È un falso che non disturba affatto, perché senti che non è falso (a differenza dei recuperi nei nostri centri storici). Senza offesa per la categoria, ma verrebbe da dire: beati quei paesi che non hanno bisogno di grandi e innovative scuole architettoniche. Per non parlare poi dei giardini: danno l’idea di una natura appena appena addomesticata, tanto da conviverci: non le fanno indossare una livrea che presto sarà lercia per la trascuratezza di chi dovrebbe occuparsene e la preventiva, ma anche conseguente, maleducazione di chi li frequenta. In questo caso le scuole di architettura dei giardini ci sono eccome: ma prima di liberare la creatività educano evidentemente alla disciplina, alla serietà.

Vedi, si prova una sensazione totalmente diversa rispetto a quella suscitata dai luoghi pur bellissimi che ancora esistono, a dispetto di tutto, da noi: ti accorgi che gli inglesi queste cose non le esibiscono sfacciatamente (anche se paghi persino l’aria che respiri) ma le concedono, bontà loro e con riservata sufficienza, al tuo sguardo. Tu paghi, ma non hai mai l’impressione di quella smaccata e onnipresente marchetta che ti porti dietro dalle nostre parti. Per dirne ancora un’altra, prendiamo le feste di paese: là sono fatte dai e per i paesani, se passi di lì hai diritto a una o più birre, ma poi togliti dai piedi o stattene da una parte, perché non sei tu il destinatario di quei balli e di quelle musiche.

Insomma, la mia anglofilia è nuovamente esplosa. Ho perfettamente presente la spocchia degli inglesi, non sono un affezionato da diporto alla famiglia reale, ma non mi è mai capitato di pensare “Che bello questo paese: peccato che ci siano gli inglesi”, come invece mi capita quotidianamente da noi, e come pensava Jack Nicholson dell’America in Easy Ryder. Anzi, penso che l’Inghilterra sia bella proprio perché ci sono gli inglesi, che l’hanno fatta (perché di quella originale credo ci sia quasi più nulla) così.

dai: Carteggi da Vittorio Righini (agosto 2018)

Ho letto Barnaby, con piacere. Ricordo che l’ho visto, per intero, una volta sola, per il resto quando iniziava una puntata cambiavo canale. Il motivo è presto detto: io sono stato traumatizzato da Doc Martin, e ogni volta che comincia un telefilm (una volta li chiamavamo così) che si ambienta in Inghilterra con facce, panorami e colori di ripresa totalmente inglesi, vado in paranoia. Io mi auguro tu non abbia mai visto la serie di Doc Martin, e se lo hai fatto male te ne incorrerà! Se non l’hai fatto, ti spiego di cosa si tratta: Doc Martin è un medico chirurgo inglese, che siccome soffre alla vista del sangue, con scene di panico, vomito, fughe e altro, si è trasferito in un tranquillo villaggio di mare della Cornovaglia del nord. Lui è alto, bruttissimo, con due orecchie alla Dumbo, ed è la persona più antipatica che uno possa temere di avere soprattutto come medico, ma ha indubbie capacità nel suo lavoro. Il villaggio, invece di essere bello e attraente, non lo è affatto. Gli abitanti del villaggio hanno una media neuronica, cadauno, inferiore a due. Rarissime eccezioni. L’unico poliziotto è cerebro-leso. Il piccolo basso ciccione che gestisce l’unico ristorante (dopo aver fatto malamente l’idraulico per tutta la vita), è il paziente ideale per un buon vecchio manicomio, e cucina schifezze incommensurabili. La segretaria di Doc Martin sembra scesa dal pianeta delle scimmie, mentre la farmacista sembra uscita da un romanzo dell’orrore. I bambini sono tutti cattivi, rognosi, malaticci e pieni di paturnie.

Quindi, ti chiederai: ma perché lo guardi? non lo so, l’ho guardato per una decina di puntate, poi, come con la grappa, mi sono detto basta: il primo mi rende demente, la seconda mi dà troppa acidità di stomaco. Ma la mia rinuncia (a Doc Martin, non alla grappa), si è concretizzata solo pochi mesi addietro, allora non sono ancora del tutto disintossicato. Capisco perché mentre noi (con tutto il mare di difetti che abbiamo) costruivamo il Colosseo, loro si tingevano la faccia di blu. Ho anche pensato con ammirazione a Mario Appelius… e per tirarmi fuori dalle sabbie mobili prendevo in mano Sir Patrick, Robert Byron, Dalrimple, Hopkirk, Gerald Russell, i fratelli Durrell e così via, e ristabilivo i contatti con una nazione (pardon, un Regno), che, circa una volta all’anno, mi vede curioso viaggiatore al suo interno. Mi dirai: non sono mica tutti ebeti come quelli del villaggio di Doc Martin! certo, ma una gran parte del pubblico inglese è quello che vuole vedere, i suoi simili, temo. In Fantozzi lo sfigato è lui, mica il mega direttore galattico Balambam, e nemmeno la Sig.na Silvani o il Geom. Calboni sono idioti. Noi godiamo dei casini di uno sfigato, non del villaggio intero di smidollati. E questa differenza mi fa pensare, giuro. Tu, con la tua cultura enciclopedica, potresti meglio spiegare l’arcano.

L’uomo non mangiato dallo squalo.

dai: Carteggi a Vittorio Righini (2018)

Sono stato affetto anch’io dalla sindrome meridiana di Doc Martin. Era tassativo non perderne una puntata, e ancora oggi non mi capacito del perché. È rimasto uno dei grandi interrogativi della mia vita – ti lascio immaginare gli altri –, perché francamente era difficile identificarsi nel personaggio, o sognare di vivere a Portwenn (anche se adoro la Cornovaglia). Non so, forse sotto sotto il messaggio che si recepiva è che c’è speranza per tutti, anche per i meno adatti: e la cosa funzionava perché il protagonista era immerso in un mondo dove tutti o quasi erano dei disadattati. Mia figlia, che in Inghilterra abita ormai da quindici anni ed è anche cittadina inglese, assicura che la realtà è Portwenn, non Midsomer, e che in Doc Martin se ne vede solo il lato buono. Ma non è attendibile, perché è una donna in carriera e i suoi competitor sono tutti inglesi. In effetti, però, se ripenso alle amene disavventure che mi sono occorse nell’ultimo viaggio inglese, un paio di anni fa, nel distretto dei laghi (ubriachi che si manifestano in camera, completamente nudi, alle tre di notte – colpa mia, perché ho il maledetto vizio di non chiudere mai la porta, nemmeno quando sono in giro), battellieri non perfettamente sobri che litigano via radio coi colleghi o con la moglie e invertono la rotta di colpo, ecc…), devo ammettere che un po’ di ragione ce l’ha. Ma la cosa strana è che queste cose, che in Italia e sul continente mi farebbero incazzare a morte, lì mi paiono note di colore. Potenza della letteratura. Hanno saputo vendersi molto bene, da Shakespeare in poi, e ci hanno indotto una soggezione culturale. L’esatto contrario di quanto accade con gli americani. E ti dirò di più: è una sudditanza che mi piace, come in fondo mi piaceva Doc Martin. Varrà la pena tornarci un po’ su. Al più presto.

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Bene, a questo punto penso che dell’Inghilterra, di quella mia, ne avrete sin sopra i capelli. Posso capirvi, ma questo non cambia una virgola di tutto ciò che ho proposto. Ci tenevo da un pezzo ad un’operazione del genere, e ho dovuto contenermi per non renderla ancora più pesante. Ora di questi materiali potete fare due usi differenti: dimenticarli il più rapidamente possibile o metterli a confronto col vostro sentire rispetto alla cultura inglese. Non trarrete alcuna utilità dal farlo, ma potreste anche divertirvi.

Mr. Psmith nella Grande Mela

di Paolo Repetto, 20 dicembre 2018, da sguardistorti 05 – 2018 Natale

Per un paio d’ore sono tornato indietro di mezzo secolo. Ogni tanto mi capitano questi salti temporali a ritroso, davanti a un oggetto intravisto al mercatino, un macinino da caffè o una scatola di latta per biscotti, oppure a un vecchissimo albo di fumetti: ma sono flash back che durano pochi istanti, svaniscono immediatamente lasciando in bocca il sapore dolceamaro della nostalgia. Quella di ieri è stata invece un’altra cosa: una immersione totale.

A propiziarla ha provveduto un libro di P.G. Wodehouse. (non chiedetemi cosa c’è dietro P.G.: non l’ho mai saputo, è bello così). Cinquanta e passa anni fa tra le chicche della mia nascente biblioteca c’erano quattro romanzi dell’umorista inglese, in una edizione della Bietti risalente a prima della guerra. Un paio di quei volumi li possiedo ancora, il terzo l’ho ben presente, non fosse altro per l’eccentricità del titolo (Jimmy all’opra): ma i miei ricordi di lettura sono legati essenzialmente a Psmith giornalista. All’epoca leggevo veramente di tutto, da Dostoevskji a Raymond Chandler e ad Achille Campanile, e leggevo anche Wodehouse. Non era tra i miei autori preferiti (credo di aver letto giusto quei quattro libri – ne ha scritti novanta), e tuttavia quel romanzo mi si è impresso indelebile nella memoria. Non per i pregi letterari, o per una qualche originalità della vicenda, ma solo perché vi giocava un ruolo importante un gangster di mezza tacca, torvo e scalognato, di nome Joe Repetto.

La cosa mi aveva entusiasmato: era il primo Repetto che trovavo citato nella letteratura – e a tutt’oggi, per quanto mi risulta, è rimasto l’unico. Mi chiedevo dove Wodehouse avesse pescato quel cognome, e la risposta più ovvia rimandava alla cronaca nera newyorkese dell’epoca (la vicenda si svolge in trasferta, a New York). Da ciò discendevano immediate due constatazioni:

  • qualche mio lontano parente doveva essersi illustrato ai primi del secolo scorso al di là dell’oceano per le sue gesta criminose (il che in qualche misura era elettrizzante);
  • l’esportazione di delinquenti in terra americana era iniziata ben prima della grande migrazione dal Sud, e la provenienza dei pionieri era ligure-piemontese. Con la differenza, rispetto alla seconda ondata, che i primi erano scamorze. Nel libro infatti i nomi dei capi delle diverse bande sono tutti irlandesi, e il nostro Repetto è solo una mezza figura (il che, invece, era deludente).

Quel volume era poi scomparso dalla mia biblioteca, finendo tra i tanti dati incautamente in prestito e mai più tornati. Non ne ho fatto un dramma: dal momento che le opere di Wodehouse continuano ad essere ristampate, contavo di poterne recuperarne facilmente una copia. Quando però ho cominciato a dargli la caccia in tutti i mercatini, dove in effetti circolano ancora diversi titoli di quella vecchia collana, mi sono accorto che era introvabile. Ma anche nelle edizioni più recenti non compariva affatto, e non ce n’era traccia on line. Ho cominciato persino a dubitare della mia memoria, a chiedermi se il titolo fosse proprio quello.

Fino a ieri, quando è arrivata l’intuizione. Mentre gironzolo per il mercatino di Predosa vedo occhieggiare da un cestone Le gesta di Psmith, un volumetto della TEA la cui copertina fa pensare a tutta prima ai manuali di viaggio di Severgnini. Qualcosa non mi torna: il titolo non può essere quello originale, non l’ho mai letto negli elenchi delle opere di Wodehouse (e ne ho consultati parecchi), ma soprattutto non è nello stile dell’autore. Urge una verifica: e infatti, lo apro e viene fuori che la titolazione originale è Psmith journalist, del 1915. Per forza non trovavo il libro: mi hanno cambiato il titolo, vai a capire perché (ma è un malvezzo diffuso: di uno stesso volume di storia dell’alpinismo sono uscite in cinque anni tre diverse edizioni con tre titoli differenti). C’è ora da chiedersi come avranno rititolato Jimmy all’opra.

Comunque, faccio scorrere impaziente le pagine ed ecco comparire immediatamente il “signor Repetto”. Solo non si chiama Joe, come io ricordavo, ma Jack. Anche fisicamente ne avevo una immagine diversa. Non ricordavo, ad esempio, che fosse albino: invece dalla prima descrizione che trovo, e che lo fotografa mentre è già al tappeto, vien fuori che “il guerriero caduto era albino. I suoi occhi, al momento chiusi, avevano ciglia bianche, ed erano tanto ravvicinati quanto era stato possibile ravvicinarli senza proprio metterli l’uno dentro l’altro. Il suo labbro inferiore era prominente e cascante. Guardandolo, si aveva l’istintiva certezza che nessun giudice di un concorso di bellezza avrebbe esitato un attimo di fronte a lui.

A questo punto si sarà già capito che appena a casa il libro l’ho riaperto, mi ha preso e non l’ho mollato prima dell’ultima riga. La vicenda grosso modo la ricordavo, quindi non è stata quella a intrigarmi. Mi ha invece attratto il linguaggio. Ho scoperto che Wodehouse non era forse un grande scrittore, ma sapeva scrivere mirabilmente (che non è la stessa cosa).

Quando leggo qualcosa di particolarmente divertente non scoppio a ridere. Rido dentro, mi contengo, ma mi si inumidiscono gli occhi. Da qualche parte il piacere deve pur uscire. Con Wodehouse riesce facile contenersi, il suo è un umorismo inglese che più inglese non si può, finissimo e freddo: eppure, per tutta la lettura di Psmith giornalista (preferisco mantenere il titolo originale) ho avuto gli occhi umidi, divertito non tanto dagli accadimenti narrati quanto dal linguaggio che l’autore mette in bocca al protagonista. Il quale già dal nome, con quella P che c’è ma non deve essere pronunciata, si presenta bene. Ecco un paio di esempi del suo eloquio, presi aprendo a caso.

Ad un avvocato malavitoso che viene ad intimargli di cessare la pubblicazione dei suoi articoli di denuncia, il nostro eroe si rivolge così: “Non abbiamo compreso del tutto il suo intento, mister Parker. Temo che dovremo chiederle di esporcerlo con una franchezza ancor più disarmante. Parla per puro spirito di amicizia? Ci sconsiglia di conti nuare a pubblicare questi articoli semplicemente perché teme che danneggeranno la nostra reputazione letteraria? O ci sono altre ragioni cha la spingono a desiderare l’ interruzione? Parla esclusivamente in quanto fine conoscitore letterario? È lo stile o l’ argomento a non incontrare la sua approvazione?

E quando l’altro insiste, e diventa davvero esplicito, cercando di comprare quello che non riesce ad ottenere con le minacce: “Signor Parker, temo che lei abbia consentito al mercantilismo esasperato di questa mondana città di minare il suo senso morale. È inutile sventolarci sotto gli occhi ricche bustarelle. ‘Dolci momenti’ non si imbavaglia. Lei avrà senz’altro le migliori intenzioni, secondo le sue, se mi permette, alquanto ottenebrate vedute, ma noi non siamo in vendita, se non a dieci centesimi la copia.” Non è fantastico?

Oppure, ad un amico che gli consiglia di rivolgersi alla polizia: “Abbiamo accennato alla cosa con alcuni esponenti della forza pubblica. Ci sono sembrati abbastanza interessati, ma non hanno mostrato la minima tendenza a precipitarsi freneticamente in nostro aiuto. Il poliziotto newyorchese, come tutti i grandi uomini, ha le sue peculiarità. Se vai da un poliziotto a New York e gli fai vedere che hai un occhio nero, lui lo esaminerà ed esprimerà una certa ammirazione per l’abilità del cittadino che ne risulta responsabile. Se insisti, l’argomento gli verrà rapidamente a noia, e dirà: ‘Non ti basta quello che hai già ottenuto? Fila!’ In questi casi il suo consiglio è prezioso, e andrebbe seguito.

Ed ecco la sua opinione sul mio degenere parente americano. “Conosco pochi uomini che non preferirei incontrare in un vicolo solitario piuttosto che il signor Repetto. È un manganellatore naturale. Probabilmente la cosa si è manifestata lentamente, in lui. È possibile che abbia iniziato così, solo per provare, colpendo un componente della cerchia famigliare. La tata, diciamo, o il fratellino minore. Ma, una volta iniziato, non è più stato in grado di resistere a quella brama. Per lui, è come il vino per un beone. Adesso manganella non perché gli piace, ma perché non può farne a meno.” Psmith parla così per tutto il libro, e non c’è una sua frase o una semplice interiezione che non sia perfettamente in linea con questo registro linguistico. Il che vale anche per tutti gli altri personaggi, da Bugsy Mahoney agli amici di Psmith, dai poliziotti agli avvocati. Persino quelli che non parlano, come l’ ineffabile Long Otto, hanno una loro solida espressività. Insomma, ognuno è caratterizzato da un linguaggio particolare, il che rende la cosa scoppiettante e paradossalmente realistica.

Ne risulta una architettura complessiva esilarante: perché i differenti linguaggi creano diversi piani di interpretazione della vicenda, nei quali nessuno, tranne Psmith, capisce quel che sta veramente accadendo; ed è proprio il linguaggio di Psmith a tenere le fila di tutto e a costringere gli altri ad accettarne gli sviluppi. È uno di quei casi in cui rimpiango amaramente di non poter leggere nella lingua originale, per cogliere tutte le sfumature dello slang e i giochi di parole – e anche per non trovare continuamente l’appellativo compagno. Devo muovere infatti un secondo appunto alla nuova edizione italiana, dopo quello relativo al titolo. Per tutto il libro il termine comrade, che ricorre costantemente in bocca a Psmith, è tradotto con compagno, forse per eccesso di politicamente corretto. Il che crea un effetto straniante, sembra di essere nella Russia di Stalin, e disturba parecchio.

Mentre leggevo cercavo di immaginare un volto per ognuna di quelle voci, ed erano invariabilmente volti di attori del cinema americano o inglese degli anni trenta, dei film di Frank Capra soprattutto. Ho realizzato che in Wodehouse c’era già tutto quello che mi ha sempre affascinato in quel cinema e in quella letteratura: c’erano i fratelli Marx e Philiph Marlowe, Helzapoppin e Cary Grant. E ho anche meditato sull’efficacia in termini di malignità di un eloquio forbito ed elegante. Dire a qualcuno “Ho orizzonti mentali circoscritti”, e “Lei proprio non ci rientra” è molto più sferzante che apostrofarlo con “Mi stai sulle palle” (ammesso naturalmente che il destinatario sia in grado di decodificare: ma se non lo è, parlare sarebbe inutile comunque). Quel che la gente non sopporta non è l’insulto, ormai scaduto a livello di abituale intercalare, ma l’esclusione: e il taglio risulta molto più netto se praticato col bisturi, anziché con la mannaia. Psmith stesso si qualifica come “un rispettabile fornitore di invettive generiche di qualità”.

Mi è venuta in mente infine un’altra considerazione: nel romanzo non compare una sola figura femminile, e forse proprio per questo tutto fila da cima a fondo liscio come l’olio. Non so cosa ne direbbe la psicanalisi, non conosco i gusti sessuali di P.G. Wodehouse, e non mi interessano, ma dal punto di vista dell’economia narrativa funziona perfettamente. Come nei film western più riusciti, quello di cui si parla è un mondo di soli uomini e per uomini soli.

A questo punto, dopo aver riposto il libro ed essermi asciugato gli occhi, ho cominciato a riflettere sulle vere ragioni della straordinaria e apparentemente poco giustificata emozione che avevo appena provata. Non ho dovuto spremermi molto per arrivare ad una conclusione che in fondo già conoscevo.

Al di là del tuffo nel passato, che mi ha fatto rivivere la sorpresa e il divertimento con cui gustavo all’epoca quasi tutto quello che mi capitava tra le mani, hanno agito in questo caso almeno due altri motivi, di carattere molto diverso (che spiegano tra l’altro perché un’analoga emozione non mi sia arrivata dalla ripresa di un libro di Verne, o dalle riletture di Steinbeck, autori che pure ho amato moltissimo).

Il primo potrà sembrare banale, ma come vedremo si collega comunque al secondo, quello più rilevante, e tanto vale che lo confessi subito. Io sono malato di anglofilia, sono a tutti gli effetti un anglomane. Ma la mia è un’anglomania “povera”, coltivata per moltissimo tempo solo a tavolino, sulle letture in traduzione dei libri di Stevenson, di Kipling, di Wilde, di Conrad e di infiniti altri. Nemmeno oggi parlo l’inglese, lo leggo e lo capisco a stento. È anche una anglomania selettiva: non sono mai stato un fan dei Beatles o dei Rolling Stones, e meno che mai di Elton John. E non è totalmente acritica: sono convinto che gli inglesi siano affetti da una incredibile spocchia e abbiano sempre guardato al resto del mondo come se avessero qualcosa da insegnargli (tra l’altro, sempre presumendo che gli altri non fossero comunque in grado di imparare). Quindi, in realtà ci sarebbe ben poco da amare: a meno di essere convinti che abbiano ragione.

Ebbene, non posso negare che una qualche idea del genere la coltivo, a dispetto anche dell’opinione della mia prima figlia, che in Inghilterra ci vive ed è cittadina inglese e dei suoi connazionali dice peste e corna. È una convinzione che viene rafforzata da ogni breve permanenza in Inghilterra (e lo è ulteriormente ogni volta che ne vengo via). Vedo qual è la realtà inglese attuale, e come gli inglesi si siano ridotti, ma continuo ad amarli, con tutti i loro difetti di ieri e di oggi.

Forse dovrei dire piuttosto che amo la “civiltà” inglese: ma quella civiltà è appunto il prodotto di uno spirito, di uno stile, di una cultura che mi appaiono straordinari, e che appartengono (o forse appartenevano) solo a loro. Posso affermarlo con cognizione di causa perché i miei interessi, che occupano uno spettro piuttosto ampio, hanno fatto si che li incroci continuamente. Dovunque mi abbia portato il mio disordinatissimo percorso culturale, li ho trovati. Magari non erano approdati per primi, ma una volta arrivati c’erano rimasti.

Ora, non è questione di qualità, non penso cioè (a differenza degli inglesi stessi) che nascano in Inghilterra intelletti “superiori”. Quelli possono nascere ovunque. È invece una faccenda di quantità, e un numero eccezionale di personaggi fuori dal comune: e il numero è tale che agli inglesi tanto straordinari poi non sono mai parsi. Lo sembrano a noi, dal di fuori. A me, senz’altro.

Sul perché di questa eccezionale fioritura ho le mie teorie, fondate sulla storia e non sulla biologia, delle quali ho già parlato in Due lezioni sulla storia inglese: ma per farsene un’idea è sufficiente leggere ad esempio, in Tour de France, di Richard Cobb, il racconto dell’adolescenza e del percorso di studi di uno storico anglosassone.

E questo ci porta all’altro motivo, quello più profondo, che è collegato alla funzione e al potere del linguaggio. Io non sono solo vecchio, ma proprio antico. E non sono diventato antico con l’età: lo sono sempre stato. Sono stato un bambino antico, un adolescente antico, un insegnante antico. Come tale ho sempre rimpianto intimamente un mondo che non ho fatto a tempo a conoscere, ma che mi arrivava attraverso la letteratura (soprattutto quella inglese). Questa cosa mi ha fatto sentire costantemente fuori sintonia, tanto con la mia epoca che con la mia cultura d’origine.

Il mondo che idealizzavo era caratterizzato, prima di tutto, da un uso corretto ed elegante della parola. Non deve sembrare così strana questa priorità data alla lingua: sono stato svezzato in dialetto e la padronanza di un idioma standard ha significato per me una vera conquista. Dava accesso ad una socialità più allargata, nella quale il linguaggio si spogliava degli umori e delle chiusure localistiche per esprimere una razionalità positiva e universalmente condivisa, quella che avrebbe dovuto essere terreno di mediazione e comunicazione e coesione tra gli uomini. Al tempo stesso consentiva di confrontarsi con l’immenso patrimonio di idee, di valori, di sentimenti, di passioni riversato nella letteratura del presente e del passato, e di esprimere i propri senza tema di scadere nella volgarità o nel patetismo, uscendo dalla reticenza tipicamente dialettale. In effetti, in qualche misura così è stato. Fino a quando non è arrivata, inarrestabile, la svalutazione.

Quello che mi ha colpito rileggendo Wodehouse (ma una cosa analoga mi era capitata la sera precedente, ascoltando la Rapsodia in blu di Gershwin) è in primo luogo l’enorme distanza che separa la sua dalla nostra epoca. Quanti ventenni d’oggi sorriderebbero davanti a una domanda articolata così: “Qual è esattamente la tua posizione in questo giornale? In pratica, e ben lo sappiamo, tu ne costituisci la spina dorsale, la linfa vitale. Ma qual è la tua posizione tecnica? Quando il proprietario si congratula con se stesso per essersi accaparrato l’uomo ideale per svolgere il tuo compito, qual è il compito preciso per cui può congratularsi con se stesso di essersi accaparrato l’uomo ideale? (Psmith a Billy Winsdor)”

Non la capirebbero nemmeno. Eppure è musica. Palazzeschi e Ragazzoni con queste note hanno costruito la loro poesia. Ed è anche di più. È uno scioglilingua che si esercita tutto all’interno di un costrutto razionale, e che consente all’interlocutore di partecipare al gioco in un ruolo attivo, perché deve a sua volta cogliere la pallina e rimandarla al di là della rete. L’esatto opposto di quanto fanno l’odierna comunicazione politica, o quella pubblicitaria, o la comicità demenziale.

Cosa è allora successo nel frattempo (un secolo giusto giusto)? Le date in questo caso sono significative, almeno a livello simbolico. È accaduto che nello stesso momento in cui Wodehouse scriveva Psmith giornalista, in Italia Marinetti dava alle stampe il Manifesto tecnico della letteratura futurista. Ne ho già parlato (in Osservazioni sulla morale catodica) e dal momento che non ho alcuna voglia di parafrasarmi, mi cito senza pudore: “La distruzione del linguaggio è stata da sempre la premessa per ogni ‘rifondazione’ politica e morale. E il primo atto di distruzione del linguaggio è costituito dall’eliminazione fisica dei supporti, dei documenti o addirittura dei testimoni viventi che possono perpetuarlo. Ogni regime dispotico o totalitario ha provveduto in qualche modo ad accendere roghi di libri. Tre secoli prima di Cristo l’imperatore Qin Shi Huang, per liquidare ogni possibile contestazione alla legittimità della sua investitura, ordinò la bruciatura dei libri e la sepoltura degli eruditi. Non era un’espressione metaforica: quasi mezzo migliaio di intellettuali furono allegramente sepolti vivi. Da allora i falò letterari non si contano, a partire dall’incendio della biblioteca di Alessandria sino ad arrivare alla distruzione di quella di Sarajevo, passando per roghi cristiani e musulmani, sovietici e nazisti e ancora cinesi, durante la rivoluzione culturale: ed anche gli intellettuali non hanno avuto di che stare allegri. Il rogo dei libri significa fare piazza pulita del passato, cancellare la memoria, per poter edificare un nuovo ordine il cui controllo parte proprio dal controllo dalla parola. Ma mentre in passato (e in un passato nemmeno troppo lontano) i libri venivano bruciati fisicamente, oggi questo non è più necessario: possono essere resi obsoleti con tecniche più “morbide”, e la più dolce e letale è proprio l’impoverimento della sostanza di cui sono fatti.

Ad accendere i moderni roghi virtuali ha contribuito significativamente proprio la cultura italiana. Marinetti e i Futuristi sono stati tra i primi sperimentatori dell’attacco al linguaggio come bordata d’approccio per destrutturare la democrazia. Se non avete presente il Manifesto Tecnico della letteratura futurista vi rinfresco la memoria: “Bisogna distruggere la sintassi … Si deve abolire l’aggettivo … L’aggettivo avendo in sé un carattere di sfumatura, è inconcepibile con la nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una meditazione. … Si deve abolire l’avverbio … Bisogna dunque sopprimere il come, il quale, il così, il simile a … Abolire anche la punteggiatura … Si deve usare il verbo all’infinito … bisogna fondere direttamente l’oggetto coll’immagine che esso evoca”.

Orwell avrebbe potuto benissimo copiare di qui il manuale operativo dei filologi del Ministero della Verità. E forse almeno in parte lo ha fatto. Via gli avverbi, i modi verbali, gli articoli, gli aggettivi, via tutto quello che consente la complessità, le sfumature, l’arricchimento concettuale. Solo parole-immagine, parole-rumore. Ora, la riduzione del linguaggio a mimesi onomatopeica, a suono denotativo anziché a concetto connotativo, rappresenta un salto indietro di ere, non di secoli: e questo salto è stato davvero compiuto, in pochi decenni. Al di là degli aspetti puramente provocatori e delle sparate futuriste, ciò che ha preso l’avvio in quell’attacco è proprio la riduzione della comunicazione a slogan, dei concetti a puri loghi che rimandano meccanicamente a contenuti elementari prestampati nella memoria.

I risultati che Marinetti auspicava sono esattamente gli stessi cui punta il Grande Fratello: “Poeti futuristi! lo vi ho insegnato a odiare le biblioteche e i musei, per prepararvi a odiare l’intelligenza, noi prepariamo la creazione dell’uomo meccanico dalle parti cambiabili. Noi lo libereremo dall’idea della morte, e quindi dalla morte stessa, suprema definizione dell’intelligenza logica.” Non si sta parlando di biomeccanica, di cyborg indistruttibili come Terminator: le parti cambiabili sono le schede linguistico-concettuali inserite nel cervello. E la liberazione dalla morte altro non è che la cancellazione dell’idea di futuro, quindi di ogni possibilità e responsabilità di scelta tra diverse prospettive, a favore di un eterno presente per il quale siamo ‘liberati’ da qualsiasi angoscia decisionale.

Così funzionano i roghi linguistici. Nei nuovi linguaggi, siano quello futurista o quello di Oceania, i termini sono impoveriti sino ad un significato unico, preciso, secco, che non lasci spazio a sfumature interpretative, che elimini qualsiasi complessità. In questo modo diventa impossibile concepire un pensiero critico individuale: ogni termine ‘marchia’ un significato, evoca una sola immagine, rimanda ad un unico concetto, e quindi ad un’unica realtà possibile. Un linguaggio povero non consente né dialogo né dibattito: non serve a cercare la verità, perché la verità è già implicita nel significato univoco delle parole. Il discorso si rattrappisce a slogan.”

Ecco, questa è la fotografia dell’attuale situazione. E anche se non amo particolarmente Heidegger, trovo che per una volta abbia colto il nodo della questione quando scriveva : “È nel linguaggio che si decide sempre il destino e si prepara una nuova epoca, in quanto ogni mutamento che avviene nelle parole essenziali del linguaggio determina, al tempo stesso, il mutamento del modo in cui le cose e il mondo si mostrano e sono per l’uomo.” Lasciando perdere tutto il suo cammino verso il “dire originario”, che somiglia molto ad un pellegrinaggio più giustificatorio che espiativo rispetto agli orrori cui aveva dato il suo consenso, rimane vero che è necessario preservare la forza elementare delle parole –  che non sta però in una loro rispondenza diretta e immediata alle cose (all’essere, alla verità), ma alla possibilità di essere usate come materiale da costruzione.

L’eleganza del linguaggio psimthiano non era puro “formalismo”, un gioco fine a se stesso, ma un esercizio superiore dell’intelligenza, che la vinceva su un barbaro sistema relazionale improntato alla violenza e alla prevaricazione. O almeno, questi erano i voti.

Nel periodo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale si è creata una sorta di bolla temporale all’interno della quale era ancora possibile immaginare qualsiasi futuro sviluppo. C’era consapevolezza di una realtà ingiusta e dura, e lo dimostra la crescita dei fermenti sociali, ma sopravviveva la speranza in qualcosa di completamente diverso. Dalla rivolta spontanea e incontrollabile che aveva caratterizzato almeno la prima fase della rivoluzione francese si era passati ad una organizzazione “politica” e sindacale delle rivendicazioni: il che significava in qualche modo trasferire il confronto dal piano della forza pura a quello del discorso, ad una dialettica nella quale le parole avrebbero dovuto sostituirsi ai forconi.

L’adozione di quel linguaggio avrebbe dovuto mutare “il modo in cui le cose e il mondo si mostrano e sono per l’uomo”. Si stava lavorando da secoli, da millenni per forgiare uno strumento così perfetto. Ora si trattava di renderlo disponibile a tutti, di fare si che da mezzo di dominio diventasse garanzia di libertà e di eguaglianza. Non ha funzionato, non gliene è stato dato né il modo né il tempo. Sono bastati cento anni, quelli che ci separano da Wodehouse, per “decostruirlo”, snaturarlo e volgerlo ad altri fini.

Indagare come e perché tutto questo sia avvenuto va ben oltre le ambizioni di queste righe. Adorno ne ha riassunto l’esito affermando che dopo Auschwitz non è più possibile fare poesia. La poesia (quella cui guarda caso Heidegger chiede lumi per il suo tardivo “cammino verso il linguaggio”) è scomparsa con i campi di sterminio, con le carneficine insensate di un’unica lunghissima guerra mondiale, con i funghi atomici: ma è stata sepolta soprattutto dall’onda di un trionfante analfabetismo di massa, quello che oggi è addirittura rivendicato come un valore, e che non ha nulla a che vedere con quello popolare di un tempo. Nel mondo di Wodehouse di poesia in verità non ne circolava molta, era roba per le elites, ma almeno era possibile pensarla. Oggi non lo è più.

Io volevo dire soltanto che domenica ho abitato per un paio d’ore nel mondo del mio sogno, pur essendo Psmith giornalista ambientato nei peggiori bassifondi newyorchesi: in una meta-società nella quale la parola, e tutto ciò che le sta dietro, avevano ancora un senso ed un valore, e il linguaggio era considerato un mezzo di unione e di confronto, e non di sopraffazione o di scontro. Che questa immagine fosse poco o nulla realistica lo so benissimo, e lo sapevo anche quando ho letto il libro per la prima volta. Ma io nella letteratura, nella musica, nell’arte, non ho mai cercato il racconto della realtà. Per conoscere quella odierna mi è sufficiente guardarmi attorno, ascoltare le chiacchiere del bar o quelle della televisione, camminare in mezzo al delirio di bruttura e di degrado nel quale siamo immersi. Per la realtà del passato mi affido alla storia. In un romanzo, in una poesia, in un brano musicale vorrei invece trovare indizi di un possibile mondo migliore, suggerimenti per coltivare la sensibilità alla bellezza e testimonianze del fatto che questa ancora sopravviva.

Era quanto cercavo anche allora. Pensavo le stesse cose che penso oggi: con la differenza che ancora non sapevo di essere già fuori tempo.

Appendice

L’uso che Wodehouse fa della lingua non denuncia solo uno scarto temporale. Evidenzia anche la distanza che prima della definitiva globalizzazione mediatica correva tra la cultura inglese e tutte le altre, occidentali e no. Non esiste altrove il corrispettivo di un Jerome o di un Wodehouse.

Prendiamo il caso dell’Italia. Accennavo al fatto che tra le mie letture giovanili c’era Achille Campanile (che non la pensava come Psmith, perché riteneva che “In certi casi alla stretta d’un ragionamento ineccepibile non si può rispondere che con una bastonata.”) Successivamente sono arrivati altri umoristi, da Marchesi a Guareschi a Benni. Ora, la differenza rispetto ai loro colleghi d’oltremanica è palese. Gli italiani, anche quelli più raffinati, usano sempre il linguaggio in una funzione urticante o demolitoria. Scombinano le architetture, giocano sui doppi sensi. Il loro sorriso è amaro, spesso cattivo, e quando forzano la mano può tradursi in uno sghignazzo. La cosa è più evidente ancora se si guarda al cinema, da Fantozzi ai cinepanettoni. La comicità (?) nostrana nasce dalla esasperazione dei caratteri e delle situazioni, e anche quando non è apertamente volgare è comunque sempre urlata.

L’umorismo inglese è invece contenuto e distaccato: non esaspera le situazioni, ma le legge anzi sottotono, e si esercita prima di tutto sul narratore stesso. (Jerome in questo è un maestro). Non è mosso dal sentimento pirandelliano del contrario, ma da quello del bizzarro. Il contrario lo si combatte, sul bizzarro si ironizza, al più si fa del sarcasmo. Mentre da noi Garibaldi voleva impiccare tutti i preti e con le budella dell’ultimo il papa, il lord cancelliere Disraeli, a proposito del suo più accanito avversario, diceva: “Se il signor Gladstone cadesse nel Tamigi sarebbe una disgrazia, ma se qualcuno lo riportasse a riva salvo sarebbe una calamità”. Questo intendo: fossi stato Gladstone, prima di cominciare a pensare a come ribattere avrei sorriso, e probabilmente lui lo ha fatto.

Non so cosa abbia poi risposto.



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