Un filo di resistenza

da un’escursione autunnale con HANS MAGNUS ENZENSBERGER

di Paolo Repetto, 1991 e da Sottotiro review n. 3, maggio 1993

P.     Allora, le piace qui, dottor Enzensberger?

H.M.         Certo. È veramente un bel posto. E poi queste colline, questa na­tura, sono molto diversi rispetto al paesaggio italiano cui sono abituato. Io co­nosco bene so­prat­tutto la Toscana, come tutti i tedeschi, d’altra parte.

P.    Già, è così. Comunque, con tutto il rispetto, credo ci siano molti al­tri volti dell’Italia che lei non conosce. Confesso che mi è piaciuto molto il quadro che Lei ne ha dato in “Ah! Europa”, perché è più che veritiero: ma non è com­pleto. Per questo ci tenevo tanto ad incontrarla, e tra l’altro, ad incontrarla proprio qui.

H.M.         L’avevo capito dalla sua lettera: e ho accettato per la stessa ra­gione. Mi cor­regga se sbaglio, ma ho l’impressione che Lei voglia mo­strar­mi la “faccia seria” di questo paese.

P.    Direi piuttosto la faccia “in ombra”, quella che non è sempre sotto i riflet­tori, che non invade i teleschermi, le sale dei congressi e le riviste più o meno pati­nate. Badi bene, niente a che vedere con l’Italia dei misteri, anzi. Que­sto anche Lei lo ha sottoli­neato, in Italia non ci sono misteri, tutti sanno tutto, fingono di non sa­perlo ma lasciano capire che lo sanno, e le prime e seconde e terze pagine sono piene dei reso­conti di atti­vità che paradossal­mente vengono definite occulte. No, semplicemente mi pre­meva farle con­statare che anche in un paese come il nostro, zeppo di pa­rassiti e cialtroni, c’è gente che lavora e resiste in silenzio. Anche se sta diventando sempre più difficile. In fondo è la stessa gente di cui Lei parla ne “In difesa della norma­lità”: magari meno “maggioranza silen­ziosa”, perché qui la maggioranza è piuttosto di casinisti, ma in­somma, c’è anche gente seria.

H.M.         Non ne dubitavo. Mi sembra naturale che dietro la mandria di idioti che ap­paiono in tivù, accendono fuochi nei boschi e si pe­stano negli stadi, ci deb­bano es­sere anche persone normali e responsa­bili. Anche se, a dire il vero, non ho avuto molte occa­sioni di incontrarle. Sa, col mio la­voro finisco per fre­quentare soprattutto convegni cul­turali. Resta il fatto che il fenomeno di italia­nizzazione dell’Europa di cui parlo nel sag­gio da Lei citato fa riferimento soprat­tutto al mo­dello “eccessivo” italiano. Tra l’altro, da allora (era l’87) sono matu­rate altre situa­zioni che rendono a mio parere ancor più valida la prospettiva di una esportazione del modello italiano. Mi riferisco alla crisi di legitti­mità del sistema partitico. Quello che in apparenza sembra un pro­dotto dell’arretratezza politica italiana è in realtà l’anticipazione di una tendenza che a breve interes­serà tutta l’Europa (e quella parte del mondo in cui esi­stono istituti politici ba­sati sui partiti). In­tendo dire che il sistema capitali­stico, dopo aver avuto biso­gno della democrazia parti­tica, dei partiti poli­tici (e mi riferisco a tutti i partiti, di governo e forse ancor più di oppo­si­zione, con tutti gli annessi e connessi, tipo sindacati, ecc.) quali cinghie di trasmis­sione per far digerire alle popolazioni i mutamenti economici, culturali e sociali degli ultimi due secoli, oggi può farne tran­quillamente a meno. Il sistema-capitale aderisce ormai al nostro corpo come una se­conda pelle, si propone come una se­conda natura. Nel corso di cinque o sei genera­zioni ci siamo abituati a con­siderare “naturale” ogni sua manife­sta­zione, dal lavoro parcellizzato alla cementifi­cazione a tappeto, dal gui­dare l’automobile al rimbam­birci davanti alla televisione. Non è stata una rieduca­zione indolore: i partiti politici hanno funzio­nato da anestetico. Ri­corda Guic­ciardini, a proposito di Ferdinando il Catto­lico? “Quando vo­lea fare impresa nuova o delibe­razione di grande impor­tanza, procedeva spesso di sorte che, innanzi si sapesse la mente sua, già tutta la corte e i po­poli desidera­vano ed escla­mavano: el re dovrebbe fare questo, ecc.”  Perfetto. A questo sono serviti i partiti, a far si che la gente si convincesse di aver chiesto quel che le ve­niva impo­sto. Ora non è più necessario, come dicevo, ormai il filo è di­retto.

P.    Il filo diretto passerebbe in Italia attraverso la guaina del leghismo? Non mi sem­bra di aver colto un’analisi di questo tipo nel suo ultimo libro, “La grande mi­gra­zione”.

H.M.         In effetti “La grande migrazione” è solo un excursus molto ge­nerale su un fenomeno che tutti sembrano scoprire solo adesso, con i “barbari” alle porte, ma che in realtà ha caratterizzato da sempre la storia dell’umanità. Quanto al leghi­smo, si, penso che in qualche modo si pro­pon­ga come modello di decisionismo di­retto, non mediato: l’illusione di sce­gliere “di persona”, senza più deleghe, quando in verità tutte le scelte sono già state fatte e le decisioni sono già state prese. Comunque, il filo non ha nem­meno più bisogno di guaine meta­foriche. Esi­ste già material­mente, cor­re via etere, e magari oggi anche via mo­dem, si dispiega sempre più invisi­bile e solido e veloce fino a tessere “la grande rete” nella quale ci stiamo in­gabbiando, nar­cotizzati dal sogno della democrazia telematica.

P.    Credo che Lei prefigurasse qualcosa del genere ne “Gli installa­tori del po­tere”.

H.M.         Già, pressappoco. Ma le confesserò che quel “prefigurasse” mi dà un po’ fa­stidio. Preferisco pensare di avere gli occhi aperti sul pre­sente piuttosto che lo sguardo lungo sul futuro. Per come la vedo io, poi, finirei per passare per un profeta di sventure.

P.    Capisco. Ma resta il fatto che a Lei riesce di anticipare sistematica­mente i tempi ri­spetto alle grandi tematiche, e di affrontare i risvolti di un problema prima che il grosso dell’armata intellettuale abbia avuto anche solo la perce­zione del pro­blema stesso. Nelle poesie di “In difesa dei lupi”, ed erano l’opera di un gio­vane, c’era già la presa per i fondelli di quella puzza al naso “di sinistra” che ha caratte­rizzato le “avan­guardie” poli­tiche e intellettuali degli anni ses­santa. In “Politica e terrore”, e siamo prima del ‘68, è puntigliosamente dimo­strata la so­stanziale equi­va­lenza e complemen­tarità tra l’azione politica del sistema e l’azione poli­tica di chi lo combatte col terrori­smo. In “Palaver”, e siamo ai primi anni set­tanta, si colgono le ambiguità di un ecolo­gismo “integra­lista”, nonché la sua pre­disposizione ad es­sere strumenta­lizzato. Tra i saggi di “Sulla piccola borghesia” ho trovato final­mente un discorso sincero e pulito ri­spetto agli esotismi terzomondi­sti, quello di Eurocentri­smo con­trovo­glia”. E lo stesso vale per l’analisi spie­tata de “Il mas­simo stadio del sot­tosvi­luppo”, sul sociali­smo reale e la sua fine in­combente, pro­dotta negli anni set­tanta. Certo, non parliamo di doti profetiche, ma è senza dubbio frutto di una stu­pefacente lungimiranza.

H.M.         Insomma, non un profeta ma uno scout. Mah, non mi ci vedo a caval­care un po’ avanti alla truppa, a leggere le tracce sul terreno e a spi­are i pol­veroni lontani. No, torniamo a terra. Mettiamola così: è evi­dente che scrivo perché credo di aver qual­cosa da dire, magari anche di vedere qual­cosa che gli altri non vedono, o fingono di non ve­dere. Niente lungi­miran­za, se mi permette: solo onestà intellet­tuale. E già così non mi sem­bra di peccare di eccessiva mode­stia. Se c’è una cosa che mi irrita è il con­statare come la stragrande maggio­ranza, tra coloro che formano l’intellighentia, ri­fiuti ostina­tamente di guardarsi attorno, o, quando lo fa, di pren­dere atto di quanto vede. Ricorda quella poesia, “Sulle difficoltà della rieduca­zione”? “Quando è il momento della libe­razione dell’umanità/ corrono dal barbie­re…/ In­vece che per la giusta causa/ lottano con le vene varicose e il mor­billo. / Eh sì, se non ci fosse la gente/ tutto si ag­giusterebbe in un baleno”. Certo che si aggiu­ste­rebbe! C’è solo il piccolo dettaglio che l’opera di ag­giustaggio viene intrapresa, negli in­tenti, in nome, alla testa, per il bene del­la gente”. Quando dico “prendere atto” non intendo che una volta realizza­to come la “gente” non voglia quello che vuoi tu, la si debba lasciar cuocere nel suo brodo, o peggio, che si debbano rincor­rere i suoi gusti per non esse­re cacciati dalla cucina: no, intendo dire che non si può costruire un abito ideale, senza prendere le misure, avendo in mente magari il ca­none di Poli­cleto, e poi arrab­biarsi se quelli cui è destinato hanno la pancia, o le gambe corte. Ecco, se uno si guarda in giro, o ha il coraggio di guardarsi allo spec­chio, vede che la “gente” ha la pancia, le gambe corte, le spalle strette o il sedere sporgente. Cosa fa, li elimina tutti? Non è più sensato cucire abiti meno attillati, un po’ più informi e goffi, ecco, oggi si dice “casuals”, che si adattino a tutti? Fuor di metafora, se dà un’occhiata proprio all’abbiglia­mento moderno, vedrà che il si­stema questo l’ha già capito da un pezzo. In­somma, giriamo giriamo, ma stiamo parlando sempli­cemente di buon senso.

P.    Ecco, ci siamo arrivati: buon senso, ovvero razionalità. Assieme a Cal­vino, e in qualche modo anche ad Eco, Lei per me rappresenta la persi­stenza e la vali­dità dell’atteggiamento illuministico. Il più simpatico tra i personaggi dei suoi “Dialo­ghi tra immortali, morti e viventi” risulta Di­derot. Forse perché è un ironico auto­ri­tratto. Le piace essere considerato un epigono dell’Illuminismo?

H.M.         Mah, intanto aggiungerei al gruppetto anche Böll, così siamo giusti per lo scopone. Quanto all’Illuminismo, dopo il contropelo di Adorno e Horkei­mer c’è da chiedersi se non sia un insulto. Comunque, se­riamente, rifiuto di con­side­rarmi un epi­gono, perché questo connoterebbe l’Illumini­smo come una moda culturale, men­tre è un atteggiamento, una disposizione di spirito. In que­sto senso sì, allora lo consi­dero un compli­mento: se illumi­nismo significa difesa del buon senso, che non sem­pre si identi­fica col sen­so comune, ma qualche volta sì, ebbene, sono un illumi­nista. Riguardo a Diderot, poi, c’è senz’altro un po’ di me, anzi, c’è pa­recchio: ma l’intento era piuttosto quello di evidenziare una certa “bana­lità”, aspetti, la precedo, una “nor­malità” attra­verso la quale lo spirito, di­ciamo l’intelligenza, riesce ad ope­rare in posi­tivo. Niente ascetismi, niente eroismi: la storia va avanti attraverso il tran tran, e si accompagna alle grettezze e meschi­nità di perso­ne che comunque lavorano seria­mente e con pas­sione. Qualcosa di simile, anche se colto in chiave più ironica, a quel che ho cer­cato di dire nelle poe­sie di “Mausoleum”.

P.    È vero. “Mausoleum” mostra l’altra faccia di tante medaglie, quelle che re­cano da un lato l’effigie dei protagonisti della vicenda del “progresso”. Quel che più mi piace, in questa Spoon River del villaggio del­la conoscenza, è l’assenza di qual­siasi volontà dissacratoria. C’è un clima di mestizia, piuttosto: sono presentati i costi, a fronte dei ricavi. E qualche vol­ta è dubbio che ci sia stato per l’umanità un utile netto.

H.M.         Già. Credo sia andata proprio così: le grandi scelte scientifi­che, o in senso più lato culturali, sono state fatte tutte in buona fede, da gente convinta di es­sere nel giusto, di operare per il bene comune. I risul­tati non sempre hanno corri­spo­sto. Quanto al dissacrare, credo che pre­supponga qualcosa di sacro: nell’epoca nostra è quasi un gioco di società. Una volta che è caduto, tutti vo­gliono portarsi a casa un pezzetto del muro di Berlino. Ci sono bancarelle che li vendono, e sospetto che or­mai questi detriti arrivi­no addirittura dall’Italia.

P.    È probabile. Ma in definitiva, banalizzando, lei ritiene di avere un’attitudine otti­mi­sta o pessimista rispetto alla storia dell’umanità, quindi al passato, o rispetto ai suoi sogni, quindi al futuro?

H.M.         Dovendo proprio rispondere direi ottimista, ma non lo so, di­pende dall’accezione che si vuol dare al termine. C’è chi crede che la sto­ria dimostri come l’umanità abbia comunque sempre progredito, malgrado At­tila e Hitler e tutti gli altri, e che in pratica è in moto un processo di per­fe­zionamento. Chiaro che questo non è es­sere ottimisti, ma idioti. Cinque mi­liardi di persone che muoiono per fame, malat­tie e vio­lenze, e tutti gli altri miliardi che sono morte allo stesso modo e per le stesse ragioni nel corso degli ultimi cento secoli stanno a dimostrare il contrario, e avreb­bero qual­che obiezione a questa idea. Nemmeno credo valga l’ipotesi di una raziona­lità che si è af­fermata, o che comunque si è ritagliata un suo spazio, e non lo perderà più. Basta accen­dere per cinque minuti un appa­recchio televisivo per avere la dimo­stra­zione del contra­rio.

P.    In effetti in “Mediocrità e follia” Lei esprime molti dubbi in propo­sito. E an­che nelle poesie di “La furia della caducità” non sembra nutrire speranze in una nuova primavera dei Lumi.

H.M.         Beh, è chiaro che ultimamente è un po’ difficile coltivare entu­sia­smi. Qual­cuno potrebbe dire: per fortuna. Ma spero che da nessuna delle due opere da Lei citate giunga la sensazione di una mia posizione “apocalit­tica”, un annuncio della fine dei tempi. Per carità, i grandi pessi­misti, tipo Cioran, o il vostro Cero­netti, mi danno sui nervi. Volgarità tri­onfante, bar­barie incombente, suicidio col­lettivo, eh, santo Iddio! Toc­chiamo ferro. O almeno, sia un po’ come vuole, questo signi­fica forse che io debba rinunciare al rispetto di me stesso, e quindi al dovere di ca­pire e di aiutare, per quel che posso, anche gli altri a ca­pire? E magari tentare qual­cosa, con gli altri, per evitare lo sfascio?

P.    Mi par di potere desumere, allora, che Lei, arrivato a sessant’anni, con alle spalle un quarantennio di attività come letterato e polemista, non dia segni di cedi­mento. Dica la verità, non la sfiora ogni tanto l’idea di met­tersi in pen­sione?

H.M.         Oh, altroché. A volte penso che dovrei davvero staccare. Ho i miei amici, i miei affetti, i miei libri: magari in ordine inverso. Ma vede, è più facile smet­tere di fu­mare che di impicciarsi. Io non riesco a liberarmi né dell’uno né dell’altro vizio.

P.    Ma non prova mai una impressione di inutilità, la sensazione di pre­di­care nel de­serto, di dire cose che alla fin fine vengono ascoltate da quattro gatti, ma delle quali i più sembrano poter fare tranquillamente a meno?

H.M.         No, no. O meglio, si, è naturale che a volte uno ne abbia le sca­tole piene e si chieda: ma cosa sto facendo, perché, e per chi? E più an­cora quando ti accorgi di es­sere travisato, che non quando sei ignorato. Si, capi­ta. Ma poi? Voglio dire, il senso che do al mio impegno, per quel che vale, non è senz’altro quello di fare adepti. Per quelle cose lì ci sono altre strade: si predica, come il reverendo Moon, o si fa lo scemo in tele­visione, come il vostro Sgarbi. Ne ab­biamo già par­lato: se ti proponi di essere una voce criti­ca non puoi certo preten­dere gli applausi. Ritorniamo al discorso delle “avanguar­die” e della pretesa che ad ogni presunta provocazione il pubblico reagisca, ma nello stesso tempo con­senta. Se il pubblico, come sempre più spesso accade, in­cassa imper­turbabile, non significa che non ha capito nien­te, ma che non aveva senso la provoca­zione. Comunque, tornando a me: Lei ed io siamo qui, Lei ha vent’anni meno di me, si pone gli stessi problemi, do­mani risponderà ad altri che Le porranno le stesse domande. È un filo di “resi­stenza”, come Lei stesso lo ha chia­mato, che val la pena continuare a tessere. Direi che, al limite, è sufficiente questo a giustificare qua­rant’anni di impegno: o le sem­bra poco?

P.    No, certo. E anzi, la ringrazio, a nome mio e di tutti coloro che con­ti­nue­ranno ad attaccarsi a quel filo. E ora andiamo, signor Enzensber­ger: ar­riveremo a quella chie­setta lassù, sul monte lì di fronte, il Tobbio. È un po’ il nostro Bro­ken. La vede?

H.M.         Uhm, si direbbe piuttosto lontana. Pensa che possa farcela?

P.    Ce la farà senz’altro. Lei è ancora capace di salire molto in alto. Garan­tito.

 

Torna indietro

Il messaggio è stato inviato

Attenzione
Attenzione
Attenzione
Attenzione

Attenzione!

Segnali di fumo dal parco

di Paolo Repetto, da Contro n. 8/9, 1980

Dalla fine dell’agosto scorso i nostri polmoni possono contare su di un nuovo parco naturale, quello delle Capanne di Marcarolo. Intendiamoci, un parco provincialotto, un po’ sottotono rispetto ai dettami della cultura telefilmica su riserve, parchi e affini. Niente a che vedere con Yellowstone (quello dell’orso Yoghi) o col Kenia. Non ci sono i rangers con l’aereo né i loro aiutanti indiani o neri, e neppure i figli dei rangers col cane o con la foca intelligente. L’animale più feroce che vi è dato di incontrare è l’uomo, nelle sottospecie del bracconiere o del gitante maleducato; per il resto mucche, pecore, scoiattoli, ramarri e qualche cinghiale spaventato. È in realtà una striscia di terra esigua (circa 10000 ettari, un fronte di 10 chilometri per lato), che si è ristretta come un panno bagnato nei confronti del progetto iniziale, sotto una pioggia di critiche, di opposizioni e di manovre di disturbo di ogni genere.

Con tutto questo, rimane un angolino bello, pulito e tranquillo, dove vale la pena di camminare, respirare e guardarsi attorno. Purtroppo per il momento questo angolino è “parco” solo sulla carta, in quanto esiste giuridicamente ma non è dotato di alcuno strumento di salvaguardia o di valorizzazione. Nulla, anzi, potrebbe farne sospettare l’esistenza al pellegrino di passaggio che non fosse tra i lettori assidui del Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte (la legge istitutiva è apparsa sul numero dell’11/9/1979).

Agli indigeni, comunque, anche a quelli non abbonati al bollettino regionale, è stato dato modo di accorgersi subito della sua istituzione: perché dopo una settimana i boschi hanno cominciato a bruciare, ad intervalli regolari, come in ogni parco che si rispetti, e in ciò almeno il nostro è all’altezza di quelli dei telefilm (con la differenza che là l’incendiario inciampa, si sloga una caviglia e se non arrivassero il cane e il figlio del ranger farebbe la fine del sorcio, così che lo portano via mezzo abbrustolito, mentre qui non accade, e non lo vede mai nessuno, e dopo una settimana ricomincia tale e quale).

La regolare combustione del nostro parco è alimentata da un ampio consesso di malevolenze. Vi ha senza dubbio la sua parte una componente di negligenza e di antipatia diffusa in tutto il paese nei confronti dei pubblici beni, tanto più se sono naturali. Ma il parco di Marcarolo di antipatie se ne è create parecchie anche per conto proprio, “personali”. E forse vale la pena di ripercorrerne a grandi linee la storia, per capire cosa brucia dietro questi incendi, e per trarne qualche considerazione.

Il progetto di attuare un parco appenninico aveva già trovato voce in seno alla prima amministrazione regionale, democristiana. Esso era inserito in un più vasto piano di “sistemazione” del territorio regionale, che prevedeva anche altre quattro aree di salvaguardia strategicamente dislocate in Piemonte. Il parco non è nato quindi in risposta a specifiche istanze locali, ad una particolare sensibilità ecologica o a scelte di sviluppo alternativo della popolazione: è piuttosto il frutto di una volontà politica di vertice. Ora, da queste parti è un po’ difficile credere ad una qualsiasi volontà politica democristiana finalizzata al bene collettivo. Una rapida occhiata in giro, a quello che tale volontà ci ha combinato in trenta e passa anni, porta a concludere che essa è al di sopra di ogni sospetto, non le è dato indirizzarsi al bene neanche per sbaglio. Viene quindi spontaneo domandarsi a cosa diavolo mirasse questa pianificazione (i più malevoli pensano a selvagge lottizzazioni nelle adiacenze del parco, o addirittura, stanti le voci che circolavano insistentemente, a raffinerie e a strutture retroportuali sloggiate dall’hinterland genovese, col parco a fare da contrappeso e a chiudere la bocca ai più riottosi) e ringraziare il cielo che non abbia avuto modo di “sistemare” ulteriormente il territorio, e noi con esso.

Il passaggio delle consegne amministrative regionali non affossa il progetto del parco: la giunta di sinistra lo fa proprio e lo rilancia, impegnandosi anche seriamente in vista di una concreta realizzazione. Questa volta è concesso sperare in una volontà politica meno sospetta ed ambigua: ma bisogna per contro rilevare una notevole mancanza di tatto. Arrivano infatti i funzionari regionali e annunciano: qui faremo un parco. I limitrofi, che già sentivano puzzo di raffineria, sono sollevati; meno tranquilli appaiono invece ii residenti nel territorio destinato al vincolo. Cristo, dicono, è una fregatura. Questi residenti, beati loro, sono poco appassionati di telefilm, e quindi la parola parco non evoca per essi automaticamente immagini di rangers o di foche intelligenti, ma suscita piuttosto il timore di avere tra i piedi degli esperti che non distinguono un salice da un abete e che spiegano come e quando e dove si deve tagliare la legna, o pascolare la mucca. Anzi, probabilmente non hanno neppure atteso di sapere cosa si volesse “fare” per pronunciarsi in proposito. Potevano dir loro facciamo un aeroporto, un bordello, una scuola per palombari, e la reazione sarebbe stata la stessa. Il fatto è che se vedono pochi telefilm hanno in compenso fatta tanta, troppa esperienza di interventi governativi, regionali, provinciali, mercato comunitari ecc…, e questa esperienza li ha indotti subito a pensare, per riflesso condizionato, alla fregatura.

I problemi maggiori non sono venuti però dai residenti. C’è voluto un po’ di tempo per superare la loro giustificata diffidenza e per spiegare i vantaggi connessi alla “sistemazione”, ma oggi il buon senso sembra avere prevalso. Chi invece non l’ha digerita proprio sono coloro che nella zona non vivono, ma vi coltivano interessi di grosso calibro, assolutamente inconciliabili con i vincoli di tutela di un parco. I proprietari di riserve venatorie, ad esempio, o le società “milanesi” (qui tutte le società fantasma e i soldi investiti in operazioni di cui a prima vista riesce difficile scorgere i vantaggi finiscono per essere “milanesi”, salvo poi rivelarsi molto meno esotiche) che hanno fatto incetta di cascinali abbandonati all’epoca della grande fuga verso la città, avendo in mente tanti bei “villaggi” (piscina, tennis, villette plurigemellari con fazzoletto di giardino all’inglese per i bisogni del cane). O i grossi speculatori immobiliari attratti dall’arrivo dell’autostrada, che fa dell’ovadese il polmone di Genova, e dalle prospettive di un arretramento trans-appenninico delle strutture inquinanti del genovese.

A tutti costoro la prospettiva del parco ha provocato un mezzo infarto, ed è comprensibile che appena ripreso fiato abbiano cominciato ad agitarsi, a brigare, ad aggrapparsi a destra e a sinistra per scongiurarla. Bisogna riconoscere che sono stati in grado di strumentalizzare sapientemente le perplessità dei residenti, fatti oggetto di una straordinaria campagna di “solidarietà “, e l’egoismo al solito ottuso dei cacciatori, facendo così muovere in prima linea una “opposizione popolare” che per una giunta di sinistra non poteva non costituire un grave problema.

La stessa giunta, dal canto suo, è riuscita a complicare ulteriormente la faccenda muovendosi in maniera un po’ confusa ed intempestiva. Ha infatti affidato alla Comunità Montana Alta Val Lemme e Alto Ovadese (i cui comuni sono in gran parte interessati territorialmente al Parco) il compito di preparare il terreno presso la popolazione, di informare, di sondare e di redigere infine un regolamento del parco che, basandosi sullo schema delle norme istitutive vigenti a livello nazionale, tenesse in considerazione le esigenze specifiche della zona e i problemi dei suoi abitanti: e questa sarebbe stata la soluzione ottimale, se all’interno di tale organismo esistesse un’unanime compattezza di intenti. Purtroppo la realtà è diversa, e la Comunità Montana finisce per riprodurre in miniatura gli stessi scontri politici e di interesse presenti a tutti gli altri livelli. Si sono così moltiplicati in seno alla commissione per il parco gli incontri, gli scontri e i ripensamenti, mentre all’opera di persuasione esterna si affiancava una neanche troppo sotterranea propaganda in direzione opposta. Soltanto dopo più di un anno tutta questa attività ha cominciato a dare frutti positivi. Sennonché, al momento in cui gli esausti rappresentanti della C.M. si accingono a tirare le somme e a presentare alla Regione una bozza di normativa vincolistica, ti arriva da Torino la comunicazione che la legge istitutiva è già stata varata, che alla Regione si sono spazientiti ed hanno deciso di darci un taglio.

Col risultato che il giorno in cui si dà inizio alla palinatura di delimitazione la Regione si trova isolata, ed hanno buon gioco le truppe dei cacciatori e dei residenti incazzati che spianano le paline, sotto l’occhio compiaciuto della tivù privata locale; mentre gli esterrefatti rappresentanti della Comunità Montana, con un diavolo per capello, mandano in mona regione e tutto il resto. In pratica è tutto da rifare. La regione deve prorogare l’entrata in vigore della legge istitutiva, subordinandola nuovamente alla revisione della C.M., soprassedere alla delimitazione dei confini del Parco, ecc… Il tutto fino a quest’anno, quando, come si è visto, bene o male la legge passa. E i boschi cominciano a bruciare.

Questi i fatti. Ora, in margine alla vicenda e in attesa di vedere se con l’arrivo della primavera si ricomincerà a sentire odore di fumo, alcune brevi considerazioni.

Un parco è, etimologicamente, una zona di rispetto, di salvaguardia. La sua stessa esistenza costituisce di per sé una denuncia: se deve essere creata una zona di rispetto ‚ perché il rispetto non esiste a livello di coscienza collettiva. Il concetto di parco non è quindi intrinsecamente positivo: esso nasce dal presupposto che il rapporto quotidiano e normale con la natura sia per forza di cose improntato allo stravolgimento e alla distruzione, e che non esistano alternative di reale simbiosi, ma soltanto esigenze di riequilibrio e di compensazione. La creazione di oasi strategiche, conservate sotto vetro e artificiosamente riservate alla “contemplazione”, risponde perfettamente alla logica del capitale, quella stessa cui fanno capo le divisioni lavoro – tempo libero, zona residenziale – zona industriale ecc… I parchi, il verde pubblico, l’urbanistica “a misura d’uomo”, non sono che uno dei tanti volti nuovi di un capitale che all’uomo ha preso appunto le misure, come un becchino, per chiuderlo in una cassa climatizzata, o come un sarto, per cucirglisi addosso come una seconda pelle. Fanno parte di una immensa ragnatela di assistenza-dipendenza che progressivamente ci avviluppa, sempre più elastica, sempre più trasparente, sempre più impermeabile, come un preservativo. Dalle mutue al sistema pensionistico, dagli asili agli ospizi per i vecchi, dalla televisione all’auto, alla scuola, alla droga, tutto diventa secrezione del capitale, filamento appiccicoso dal quale è sempre meno facile districarsi.

Su queste cose è urgente aprire gli occhi, lasciando perdere le religiose reverenze. Tra le due pulsioni di fondo entro cui si muove, quella dello sfruttamento incondizionato e selvaggio e quello della propria sopravvivenza e perpetuazione (anche qui Eros e Thanatos si confondono e si contrappongono) il capitale ha ormai privilegiata decisamente quest’ultima. Razionalizzandosi mira a garantirsi da un lato contro l’esasperazione dei soggetti, dall’altro contro il suo stesso impulso alla fagocitazione distruttiva di ogni risorsa, umana e naturale. Un parco, e con esso tutta la promozione ecologica degli ultimi tempi, entra a far parte automaticamente di questo disegno. Di ciò occorre essere coscienti, proprio mentre ci si muove a loro sostegno: sono concessioni, non conquiste. Quindi vanno accettate, anzi promosse e difese: ma solo nell’ottica di trasformarle in un reale possesso e in un trampolino per ben altre mete. Brecht avrebbe detto: beati i popoli che non hanno bisogno di parchi.

 

Torna indietro

Il messaggio è stato inviato

Attenzione
Attenzione
Attenzione
Attenzione

Attenzione!