Uno spasso infinito

di Paolo Repetto, 18 settembre 2024

A proposito di serialità (quella cui accennavo presentando le ultime recensioni di Vittorio): anche la mia sta diventando – in realtà è sempre stata – una produzione seriale. Nel caso specifico del pezzo che segue, è l’ennesima puntata della serie relativa alla mia biblioteca, con gli stessi protagonisti, io e i miei libri, e solo l’ambientazione leggermente diversa[1]. Ma in fondo io e i miei libri siamo sempre stati protagonisti di ognuno dei pezzi sin qui prodotti, quindi non di serie si dovrebbe parlare ma della composizione di un puzzle che a dispetto del numero enorme di tessere ancora da sistemare si intravvede ormai benissimo. Titolo del puzzle? A infinite jest, tanto per parafrasare qualcuno: “uno spasso infinito”, un’autobi(blio)grafia di ringraziamento per la vita che mi è stato concesso vivere e per i libri che mi è stato dato leggere.

 

P.S. Mi accorgo che stiamo tornando alle origini. Vale a dire che sul sito si torna a parlare prevalentemente di libri. Sarà un bene o sarà un male? Non lo so. So però che è un segnale, e la prima cosa che mi viene in mente è che forse di altro in questo momento non val la pena parlare, pena il rischio di dire fesserie, e che è comunque un modo per marcare la distanza da Sangiuliano e dalla cricca dei non-lettori professi della quale l’ex-ministro è un esemplare perfetto e tutt’altro che unico.

Altre stanze

L’“altra stanza” è quella cui accenno ma che non mostro mai ai visitatori occasionali. Vi accedono raramente anche gli amici e i miei stessi famigliari, con qualche eccezione per mio nipote. Non la mostro per più motivi: intanto per ragioni logistiche, perché è un po’ discosta dal corpo centrale della mia abitazione, e per raggiungerla occorre transitare per il ripostiglio-lavanderia o passare dalla scala esterna; ma soprattutto perché è un autentico bazar dove sono ammonticchiati, sopra e dentro un armadio o direttamente sul pavimento, zaini, valigie e borse di ogni foggia e dimensione, giacconi e tute invernali, imbraghi e ciaspole, tutto l’armamentario insomma, ormai purtroppo dismesso da tempo, per viaggi, escursioni e alpinismo.

La motivazione più vera sta comunque nel fatto che le scaffalature disposte lungo due pareti ospitano gran parte della mia adolescenza: i fumetti, la letteratura poliziesca e quella fantascientifica, gli “umoristi”, da Jerome e Wodehouse a Campanile e Francesco Piccolo. Mancano i libri dell’infanzia: quelli sopravvissuti sono in esilio al Capanno.

Questa disposizione separata non riflette una qualche mia scala di valori dei libri, ma risponde semplicemente a un criterio d’uso. Come ho già spiegato altrove, ho stipato nello studio e nell’ex-tinello, che ne è ormai un’appendice, tutta la saggistica, disposta secondo una collocazione che mi permette di rintracciare immediatamente ciò che serve per le mie ricerche o di individuare con un colpo d’occhio altre fonti di eventuali suggerimenti.

Narrativa e poesia di tutte le letterature mondiali le ho trasferite nel corridoio e nei locali che vi si affacciano, sono meno visibili ma sono raggiungibili con pochi passi e suppongono comunque una frequentazione più saltuaria. Ciò che riempie invece gli scaffali della stanza “segreta” lo conosco talmente bene da non aver bisogno di tenerlo a portata immediata di vista. È probabilmente l’unico settore della mia biblioteca del quale posso affermare di aver letto davvero tutto.

C’è però un’ulteriore ragione, ed è una forma di gelosia che definirei “protettiva”. Per me quei libri e quegli albi hanno significato moltissimo. Sono legati per la maggior parte a una fase particolare della mia vita (e questo, naturalmente, vale allo stesso modo da sempre per qualsiasi lettore) che ha però coinciso anche con un momento particolare della nostra storia comune, quando la lettura si è aperta a tutti, mentre la televisione ancora non c’era (in casa mia no senz’altro), e se c’era aveva un peso e un impatto trascurabili: e questo restringe alla mia generazione il tipo particolare di ricezione. Inoltre, le sequenze con le quali queste letture sono arrivate e il loro intersecarsi con esperienze di tutt’altra natura raccontano una storia che non può essere che individuale: ovviamente la mia.

Insomma, ne sono geloso perché sono certo che ad altri direbbero cose diverse da quelle che hanno detto a me – come è giusto e normale che sia – e io voglio invece lasciarle legate a quell’ordine, a quel significato e a quel ricordo.

Chiarito questo, per una volta vi lascio entrare in visita guidata nell’altra stanza, invitandovi a fare attenzione per non inciampare in un arco o in una piccozza, a non rovesciare un trespolo porta-abiti e a non prendere in testa un trolley. Sarà comunque una visita breve, limitata al settore fumetti. Della giallistica, della fantascienza e degli umoristi ho già parlato altrove, in più occasioni. Anche del fumetto, a dire il vero, ho già parlato, e forse più che degli altri generi: ma mi rimane ancora qualcosa da dire.

Ad esempio, che quasi tutte le mie raccolte hanno in realtà una storia recente. In qualche caso sono la ricostruzione sofferta e testarda di quelle originali (vale per GimToro, per il Vittorioso, per Pecos Bill, per Nat del Santa Cruz e per altre testate), costruite all’epoca pazientemente con scambi, favori, zelo di chierichetto e prestazioni d’opera per l’edicolante, ma qualche volta anche con sotterfugi e scommesse insensate e persino con estorsioni (in famiglia non era prevista alcuna voce di spesa per i fumetti): tutte quelle sono andate poi perdute per vicende varie o per stupida disaffezione al momento del passaggio dall’adolescenza alla maturità. In altri casi le raccolte sono invece il frutto di un desiderio coltivato lungo decenni per storie e personaggi che avevo avuto la ventura di conoscere ma non la possibilità di seguire, e meno che mai di acquistare. Parlo ad esempio di Tintin, di Blake e Mortimer e di Blueberry, o più in generale della scuola fumettistica franco-belga, scoperti tramite un amico monegasco che trascorreva a Lerma le vacanze e leggeva riviste leggendarie come Pilot e più tardi MétalHurlant. Questi li ho pazientemente recuperati nelle edizioni italiane, integrando spesso le collezioni con gli originali in francese (da loro, forse, le mie passioni per Magritte e per Jacques Brel). Altre collane, come quella di Corto Maltese e della Storia del West, datano ai tardi anni Sessanta, e sono quelle che mi hanno spinto a tornare a leggere i fumetti, sia pure con uno spirito nuovo; o ai settanta, quando finalmente ero anche in grado di investire nelle mie passioni un piccolo budget. Parlo di saghe importanti, come quelle di Ken Parker (figlio riconosciuto di Jeremiah Johnson, uno dei miei film di culto), di Jonathan Cartland, di Mac Coy o de I pionieri del nuovo mondo; oppure degli albi di Rino Albertarelli per serie de I protagonisti e di Dino Battaglia o di Sergio Toppi per Un uomo, un’avventura (non solo i loro, naturalmente: possiedo la serie completa). Infine, tra le cose più recenti che hanno solleticato lo spirito collezionistico ci sono le produzioni di Attilio Micheluzzi, di Vittorio Giardino e di Renzo Calegari, per le quali la caccia è ancora aperta.

Ho citato, naturalmente, solo le testate che reputo più significative, quelle che torno a sfogliare più spesso: ma ce ne sono diverse altre. La considero già una discreta collezione, soprattutto per quanto concerne il western, anche se per un amante del fumetto è il minimo sindacale. Ciò che la distingue e la rende particolare è lo spazio riservato alla produzione dei primi anni Cinquanta, perfettamente comprensibile dal momento che a quell’epoca risale la mia fascinazione per le bande disegnate. Quella fascinazione, al contrario di molte altre, non è mai venuta meno, e anzi, si ripete, sia pure esercitandosi su stati d’animo ben diversi, ogni volta che rileggo un albo. Soprattutto poi se ho in mano quelli originali. Ne possiedo ancora molti, anche se il mio tesoro, custodito un tempo dentro robuste casse da birra in legno, quelle in uso sulle navi, a prova di topo, è andato quasi totalmente disperso: conservo o ho recuperato vecchie strisce di Nat o di Gim Toro, di Akim, Miki, Blek, de Il piccolo sceriffo, di Kinowa e de Il piccolo Ranger, albi di Pecos Bill e del favoloso Oklahoma, nonché numeri de Il Monello e de L’Intrepido, del Vittorioso, del Pioniere e dell’Avventuroso. Sono diligentemente imbustati e inseriti in raccoglitori, come sacre reliquie. Ho persino scaricato da internet e poi stampato storie ormai irrintracciabili anche nei mercatini, delle quali conservavo una vaga memoria perché lette nel circolo parrocchiale, nei primissimi anni di scuola: ricordavo non le immagini, le trame o i personaggi, ma l’impressione che mi avevano prodotto. E a distanza di tutto questo tempo quell’impressione si è ripetuta, vivida, e giustificata non più dallo stupore infantile ma dalla eccezionalità delle cose che stavo ritrovando.

Mi riferisco ad esempio a certe storie comparse settant’anni fa sul Vittorioso (l’unica pubblicazione a fumetti ammessa nel circolo parrocchiale: tutto il resto era “sconsigliato” o “escluso”). Erano pensate senza dubbio per un pubblico di adolescenti, con chiaro intento didattico, ma per un ragazzino di sette o otto anni avido di racconti e di immagini rappresentavano comunque la porta d’ingresso in un’altra dimensione. Dopo aver conosciuto le storie scritte e disegnate da Franco Caprioli, quello che la scuola mi passava diventava quasi superfluo.

Ripeto, qui non si tratta solo di nostalgia. La loro rilettura mi ha lasciato stupefatto tanto per la qualità delle immagini che per la cura linguistica e la felicità inventiva. E mi ha anche illuminato sull’origine di certe mie passioni e di conoscenze che ogni tanto emergevano misteriosamente dalla mia memoria.

In Una strana avventura tre giovani amici imbarcati su un cutter finiscono alla deriva durante una tempesta che flagella il Mediterraneo e si ritrovano sbalzati su un’isoletta dove incontrano, guarda caso, un loro insegnante di storia. Guidati da costui si addentrano in una terra rimasta all’età del neolitico, e qui incontrano gli ultimi superstiti dei cacciatori nomadi vissuti in Europa all’età della pietra, che cacciano i mammut e gli uro e devono difendersi da rinoceronti bicorne. Il professore sa tutto delle diverse “razze” che hanno successivamente abitato l’Europa (Chancelade, razza di Grimaldi, Cro-magnon, ecc ), e scorta i nostri eroi in un avvincente viaggio verso l’interno, costellato di incontri straordinari con uomini e animali “primitivi”, che si rivela anche un viaggio nel tempo, dalle caverne e dalle palafitte villanoviane sino ai primordi delle civiltà storiche. Ecco lì da dove nasce la mia curiosità paleoantropologica. Non è questione di geni, ma di giornalini.

Allo stesso modo una storia western, Il segreto del pugnale, oltre ad essere avventurosissima e avvincente per gli scenari insoliti nei quali si svolge e per la bellezza delle tavole (Caprioli usava una tecnica tutta sua, quasi un pointillisme), si rivela una vera e propria lezione di etnologia, per l’accuratezza filologica negli abbigliamenti, nei rituali, negli oggetti e negli ambienti. Con quello che ne ricordavo, e col resto che avevo appreso da Il tesoro di Tahorai-Tiki-Tabù ho fatto un figurone anni dopo all’esame universitario di Civiltà precolombiane, e ho stabilito quello che ritengo essere un record mondiale di esame con esito positivo a Etnologia: un minuto e dieci secondi, cronometrati da un amico.

Per non parlare poi del linguaggio. La mia lingua madre è il dialetto, e in dialetto si svolgevano all’epoca in tutti i rapporti, in famiglia e con gli amici. A scuola ho ricevuto i rudimenti dell’italiano, ma l’ho poi parlato correntemente apprendendo non dai libri di lettura delle elementari o da I promessi sposi, ma da fumetti nei quali la storia era narrata così: “La notte cala insolitamente nera, causa una fitta cortina di nubi portate dallo scirocco”. “La terra con i suoi neri dirupi ha un aspetto sinistro e strano, da incubo”. “I tre ragazzi bordano le vele debitamente terzarolate e si accingono a salpare”. E i dialoghi: “Professore! … come mai qui?! … e perché s’è vestito in cotesto modo?” Ancora al Liceo la mia insegnante di lettere mi rimproverava l’uso nei temi di certe espressioni “vetuste”, di un linguaggio con velleità letterarie, e io ci rimanevo male, perché per me l’italiano era quello – e in qualche misura è rimasto tale.

Ora, tutto questo può odorare di stantio, della patetica nostalgia di un vecchio per i bei tempi della gioventù. E magari un po’ è anche così. Ma fatte le debite tare, al netto rimane che la cultura trasmessa da quelle tavole disegnate era ben altra cosa rispetto a quella che i ragazzini e gli adolescenti assorbono oggi sui social, e anche a quella che la generazione che li ha preceduti, i nostri figli e loro genitori, ha succhiato dalla televisione. Non è una percezione deformata del passato, è la realtà. Mi si obietterà magari che si trattava di una cultura basata su valori totalmente occidentali, che seppur declinati in maniera diversa (tra Il Vittorioso e Il Pioniere ne correva), rimanevano comunque vincolati a una concezione “imperialistica” dei rapporti con la natura e col resto dell’umanità: e che oggi tutte queste cose sarebbero bruciate sul rogo della cancel culture (cosa che vale naturalmente anche per il cinema dell’epoca, oppure per la letteratura e persino per l’infarinatura storica impartiteci a scuola). Non sarebbe difficile smontare questa obiezione – anche se, considerando da chi in genere queste accuse sono mosse, penso sarebbe del tutto inutile: ma non è questo che qui mi importa. È invece il fatto i miei fumetti alcuni valori comunque li trasmettevano, un messaggio etico lo inviavano, e chi ne è stato l’entusiasta destinatario ha poi avuto tutto il tempo e l’agio di rifletterci su, di correggerne le storture, di modificare le proprie convinzioni. Aveva una base su cui poggiare i piedi e da cui muovere. In fondo, la condizione necessaria per poter cambiare idea è averne una.

Eppure, anche prima dell’arrivo della furia cancellatrice, l’influenza del fumetto, di quei fumetti in quel particolare periodo storico, è sempre stata sottovalutata o considerata con sospetto. All’epoca era ritenuta nociva per motivi differenti, quasi opposti: distraeva e diseducava le menti e inquinava le certezze storiche. La scuola per prima lo ostracizzava, e questo naturalmente contribuiva a farcelo amare ancor più. Era un’esperienza proibita, che prometteva paradisi artificiali di carta e intanto creava adrenalina e piacere già per il fatto stesso di praticarla. Le uniche punizioni di cui ho ricordo rimediate alle elementari o alle medie erano legate agli scambi di fumetti che avvenivano sottobanco. Quando, se pur raramente, venivano scoperti, quei traffici erano implacabilmente stroncati dagli insegnanti, e giù ramanzine e comunicazioni ai genitori: ma la vera punizione era il sequestro e la distruzione dei corpi del reato. Dopo che fui obbligato a gettare nella stufa della classe due albi di Pecos Bill ho sofferto di crisi depressive per mesi.

Gli scambi non si sono mai interrotti, avvengono anche oggi, ma riguardano ben altri stupefacenti: e sono purtroppo molto più tollerati dei nostri innocenti traffici.

Da parte della cultura “alta” la diffidenza e la distanza nei confronti del fumetto sono state mantenute ben oltre gli anni Cinquanta, persino dopo che il genere aveva ricevuto una legittimazione da semiologi di fama come Eco e Morin o da artisti come Roy Lichtenstein. La riabilitazione è arrivata molto tardi. Basti pensare che la voce “fumetto” è comparsa nella Treccani solo dopo il 1978, affidata peraltro a un collaboratore qualificato come esperto di ingegneria, che infatti si limitò a compilare un lungo elenco di testate e di autori (citando solo di sfuggita Il Vittorioso e ignorando del tutto Franco Caprioli). E una volta mutato l’atteggiamento le cose sono andate solo peggio, com’era logico aspettarsi. È scattata l’omologazione, si è tentato di impiegare il fumetto a fini didattici (le strisce in latino, le Storie d’Italia, ecc…, con risultati penosi), di animarlo per una destinazione televisiva (Gulp! Fumetti in tv), di speziarlo per una fruizione morbosamente edonistica (da Barbarella a Guido Crepax e Manara) o dissacrante alla maniera “post-moderna” (Moebius e LesHumanoïdesAssociés, lo Zanardi di Andrea Pazienza), di piegarlo da ultimo al messaggio politico (Zero Calcare). Il paradosso sta nel fatto che questi in fondo non possono nemmeno essere definiti usi impropri, perché il fumetto ha avuto un senso e un ruolo culturale propositivo per un paio di generazioni, la mia e quella che l’ha preceduta (quest’ultima però con una fruizione più elitaria); poi questo ruolo lo ha esaurito, soppiantato da media meno liberi e ben più potenti, più accattivanti perché il loro consumo non richiedeva alcuno sforzo attivo. Per sopravvivere ha dovuto evolversi (ma sarebbe più corretto dire involversi), ripiegandosi su se stesso, andando sempre più a caccia di un riconoscimento artistico e culturale ufficiale, complicando le vicende e affinando le tecniche di rappresentazione. Non ha più guidato il percorso di crescita di adolescenti affamati di valori, ma ha seguito e assecondato quello di adulti disincantati e bulimici di effetti speciali.

Insomma, dobbiamo ammettere che anche gli autori che più amiamo, da Pratt a Battaglia e Toppi e a Berardi e Milazzo, al di là del fatto che possano aver coinvolto anche una parte (sempre più ristretta) delle generazioni successive, parlano essenzialmente a noi, che in effetti abbiamo continuato ad esserne i principali fruitori. E che la cultura che trasmettono, ormai in veste ufficiale e legittimata, non è più una cultura “altra”, magari infarcita di valori che troppi oggi ritengono obsoleti, ma capace di per sé, per la sua natura genuinamente underground, di aprire alla realtà e contemporaneamente al sogno menti ancora acerbe, ma è quella allineata alle più recenti mode di un pensiero davvero “debole”. I loro lettori vi cercano non la sorpresa, ma conferme di ciò che già sanno e si attendono. Non l’avventura, ma surrogati che giustifichino la loro compiaciuta pigrizia mentale.

Parliamoci chiaro: noi non abbiamo dovuto aspettare la revisione hollywoodiana del western degli anni Settanta, da Soldato blu a Balla coi lupi, o le fumisterie della New Age, e neppure Ken Parker o Cartland, per stare dalla parte degli indiani. Avevamo già letto vent’anni prima Tex e Il segreto del pugnale, e visti i film di John Ford, e avevamo appreso intuitivamente alcune rudimentali verità: che da una parte come dall’altra ci sono i buoni e i cattivi, gli onesti e i mascalzoni, che dei primi bisogna fidarsi e degli altri no, che gli uni vanno soccorsi e gli altri combattuti, indipendentemente dal colore della pelle, dai costumi e dalle credenze religiose. Quelli che non avevano appreso queste cose evidentemente leggevano di fretta (o non leggevano affatto), saltando a piè pari i cartigli e lasciando spazio nelle loro menti per imboniture e assuefazioni di ben altro genere. E infatti. Grafic novels come quelle di Zero Calcare possono piacere solo a coloro che i fumetti non li hanno letti al momento giusto o non li hanno comunque mai amati, e non possono capire che c’era più contenuto politico, e se vogliamo anche rivoluzionario, ne Il grande Blek o in Liberty Kid che in tutte la produzione “impegnata” che circola oggi nei salotti “progressisti”. E soprattutto che quelle storie avevano un senso perché rivolte a chi non voleva distrarsi, ma immergersi nella vita.

Ancora un’ultima cosa. Tra le altre accuse, negli anni Cinquanta circolava quella che il fumetto fosse diseducativo anche rispetto alla formazione di un gusto estetico: che abituasse cioè ad una percezione semplificata, a linee pesanti di contorno, a un segno approssimativo o quando andava bene “calligrafico”. Questo proprio nel momento in cui stava esplodendo l’arte astratta, si stravolgeva l’ordine delle linee e dei colori, si rifiutava sprezzantemente il figurativo. Insomma, il fumetto distoglieva dal percepire i messaggi dell’arte “autentica” (o autenticata). Ora, in casa mia quei messaggi non arrivavano: non c’erano riproduzioni di opere d’autore, al più qualche immagine di santi o di madonne, e nessuno di noi ha mai visitato un museo almeno sin dopo i vent’anni. Anche i libri e i sussidiari scolastici erano illustrati da disegni, purtroppo di autori che non sarebbero stati in grado di disegnare un fumetto. La storia dell’Arte l’ho incontrata poi, al liceo, dopo i quindici anni, quando ormai mi ero autoeducato esteticamente. Mi ero abituato presto a cogliere le differenze di segno dei diversi disegnatori o degli illustratori dei libri d’avventura, ad apprezzare o meno certe caratteristiche (per me la cartina di tornasole tra il buono e il mediocre era la rappresentazione dei cavalli, oppure quella degli scenari naturali), a capire che un tratto sbrigativo era congeniale alle storie di pura azione, mentre una tecnica più elaborata mi induceva a riflettere maggiormente, a non inseguire solo lo sviluppo serrato della vicenda.

Da allora sono rimasto seduto sulla sponda del fiume, e ho visto mano a mano passare le spoglie delle avanguardie più rivoluzionarie, arte povera, body art, minimalismo, arte mimetico-visuale, concettualismo, transavanguardia, ecc… Di tutte queste cose non ho il minimo ricordo, sono scivolate via senza lasciare traccia, rivelando la loro natura di espedienti certificati da una critica mercenaria per lo spaccio del nulla in un mercato drogato. Ultimamente ho assistito alla riesumazione della pittura figurativa, celebrata dagli stessi critici ruffiani come la novità del terzo millennio, anziché come la resa a un ruolo che era stato ovvio per millenni. Perché in effetti di una resa si tratta, non di un ritorno: credo che nemmeno di queste immagini rimarrà traccia. Dovrei provare una maligna soddisfazione, e invece ho capito che prima ancora di quello del fumetto era già venuto meno il ruolo dell’arte. L’uno e l’altra sono diventati cose diverse, e mentre il fumetto ne ha preso atto e ha già cambiato nome, per l’arte dovremmo cominciare ad inventarci una o più denominazioni sostitutive. Ma non è un problema mio: ci penseranno (?!) le generazioni future.

Quanto a me, se ogni tanto vorrò risentirne il gusto, anziché intrupparmi in quelle mostre-evento che ammanniscono sempre gli stessi piatti, come alle sagre paesane, e in confezioni predigerite, potrò sempre rifugiarmi nell’altra stanza, spostare un po’ di ingombri e tornare a stupirmi piacevolmente davanti a una tavola di Franco Caprioli.

P.S. In tutta questa tirata viene citato solo una volta, e di sfuggita, Tex, che pure è stato uno dei pilastri della mia educazione, In effetti le raccolte di Tex (non gli originali, quelli li ha fatti suoi mio figlio, assieme ai Ken Parker) sono al Capanno, perché qui avrebbero occupato troppo spazio. Ma c’è anche il fatto che Tex è stato sì importante sì nella mia formazione, ma a livello più epidermico, nel senso che ne ho appreso e mutuato, nel mio piccolo, certi atteggiamenti, un decisionismo a volte sin troppo sbrigativo, una primitiva e solida distinzione tra il bene e il male, senza sfumature; ma non mi ha certo insegnato a riflettere. Ha costituito un modello, inarrivabile come Achille, dell’azione, non del pensiero. E non essendo lui mai invecchiato in settantacinque anni, ci siamo persi di vista. Non so quanto oggi possa ancora parlare ai giovani, credo molto poco, e penso non abbia più granché da dire nemmeno agli altri. Eppure è l’unico eroe di carta della mia generazione (siamo nati lo stesso anno, ma lui è uscito già armato come Pallade Atena, e già a cavallo) che sia sopravvissuto. Probabilmente sopravviverà anche a me. Qualche motivo ci sarà. Forse davvero è cresciuto senza invecchiare, al contrario di noi che tendiamo a invecchiare senza crescere.

Dovrei andare a rileggermi anche lui.

[1]Mi riferisco a Elisa nella stanza delle meraviglie; Ritorno alla stanza delle meraviglie; Che belle figure; Cocco Bill contro i trafficanti di utopie; Il pellegrinaggio a Lucca; Incursioni nell’immaginario; Provaci ancora, Wile!

Le immagini di questo articolo sono tratte da Il Vittorioso, dalle storie disegnate da Franco Caprioli Una strana avventura, Il segreto del pugnale e L’elefante sacro.

L’inventore dei capelli a spazzola

di Paolo Repetto, 4 maggio 2020

Se Saturnino Farandola discendeva i fiumi africani in groppa ad un ippopotamo (per di più a vela) qualcuno prima di lui aveva provato a farlo a cavalcioni di un caimano. Solo che non si trattava di un personaggio letterario, ma di un tizio in carne ed ossa. Il tizio si chiamava Charles Waterton: era un aristocratico inglese discendente da una famiglia cattolica di antichissimo lignaggio, un naturalista appassionato, un burlone irriverente, un magnifico atleta (addirittura un free climber ante litteram), oltre che un personaggio incredibilmente stravagante. La metà di questi requisiti sarebbero stati sufficienti a rendermelo interessante, tutti assieme mi hanno entusiasmato.

Tra le stravaganze minori di Waterton c’era quella di portare i capelli tagliati a spazzola, in un’epoca (i primi dell’ottocento) nella quale andavano di moda le teste leonine (vedi Foscolo, Chateaubriand e Beethoven) o il taglio “Roma imperiale” (vedi Napoleone). È stata proprio questa caratteristica a farmelo conoscere. Cercavo sue notizie per un semplice riferimento trovato in nota in un libro su Humboldt, e mi sono imbattuto nel ritratto di un tale con i capelli tagliati esattamente come li porto io, cosa che nella ritrattistica del primo ottocento non avevo mai riscontrato. Mi ha incuriosito, e non c’è voluto poi molto a scoprire che questa era solo l’ultima delle sue eccentricità.

Quando è uscita in edizione italiana la biografia scritta da Julia Blackburn (Cavalcare il coccodrillo, Boringhieri 1993) ho potuto godermi per intero il racconto di un uomo e di una vita eccezionali. E ad essa dunque rinvio, per una conoscenza più approfondita, chi fosse per qualche motivo intrigato dal personaggio. Garantisco che ne vale la pena. Non sono invece mai stati tradotti (e dubito che lo saranno) i diari, le opere scientifiche e il resoconto delle sue avventure nell’America del Sud. Mi limiterò qui ad una sommaria ricostruzione della sua vita e a sottolineare alcuni aspetti particolarmente singolari (in qualche caso molto attuali) del suo modo d’essere e di pensare.

Waterton vantava nella sua ascendenza una schiera incredibile di santi, tra i quali anche Thomas More, oltre a qualche sovrano come Edoardo il confessore. Era un aristocratico dello Yorkshire, la contea della rosa bianca, nato nel 1782 (quindi coetaneo di Hugh Glass, il tizio sopravvissuto ad un incontro ravvicinato con un grizzly e reso famoso da Revenant – tanto per intenderci sulla stoffa di cui era fatta questa gente), cresciuto nella magione avita di Walton Hall, in mezzo ad una natura rigogliosissima e semiselvaggia, e libero di godersela tutta. Sin dalla giovinezza non era uomo da lasciarsi mettere i piedi addosso, anche nel clima ferocemente anticattolico che in quegli anni ancora si respirava in Inghilterra: chi lo incontrava era conquistato dal suo carattere dolcissimo e svagato, ma quando si impuntava Waterton sapeva essere testardo come un mulo e terribilmente schietto: cosa che col tempo gli alienò le simpatie di molti suoi contemporanei.

Si era fatto (e rotto, ripetutamente) le ossa cavalcando alberi e catturando animali nella campagna attorno a casa, e anche nel collegio gesuita cui fu inviato continuò seguire la sua vocazione, tanto da essere investito ufficialmente del ruolo di cacciatore di volpi e di topi. Nei confronti di questi ultimi, ma solo di quelli della specie grigia, a suo dire arrivata in Inghilterra nel 1688, con l’usurpatore protestante Guglielmo d’Orange, e in breve tempo divenuta dominante a spese della specie autoctona nera, nutriva un odio feroce. Li chiamava topi “hannoveriani” e li aveva eletti a simbolo della malvagità assoluta.

A dispetto di quanto si dice della severità delle scuole gesuitiche, Waterton trovò nel college di Stonyhurst, un ambiente libero e stimolante (non è un caso che le scuole gesuitiche migliori e più “progressiste” fossero quelle tollerate, obtorto collo, nei paesi protestanti), cosa che lo indusse a rimanere in contatto per tutta la vita con i suoi vecchi insegnanti e a far loro visita ogni anno, quando era in Inghilterra, per la gioia e il divertimento dei nuovi studenti. Ho trovato anche menzione di alcune sue bravate, come lo scalare una torre vicina all’istituto, che gli sarebbe valsa una dura punizione, ma nella biografia della Blackburn non se ne parla. Le bravate peraltro ci starebbero tutte, come dimostrò la sua vita successiva, ma certamente il rapporto con i padri gesuiti non si incrinò mai.

Nell’Inghilterra “hannoveriana” non era consentito ai cattolici frequentare gli studi universitari, e Charles si trovò prima dei vent’anni a chiedersi cosa avrebbe voluto fare da grande. In realtà il suo futuro era già deciso: come primogenito avrebbe ereditato il titolo e la tenuta di famiglia, ancora notevole a dispetto degli espropri che l’avevano mutilata a partire dallo scisma protestante in poi: ma il giovane non era tipo da rimanere con le mani in mano in attesa della successione. La sua esuberanza e la fame di natura non potevano trovare sfogo nella sola Inghilterra. Nel 1802 si trasferì quindi a Malaga per aiutare un paio di zii che erano lì in affari: ne approfittò per imparare lo spagnolo, viaggiare lungo la costa meridionale e leggere in originale il Don Chisciotte, che lo entusiasmò e rimase il libro della sua vita. L’anno successivo si trovò però in mezzo ad una terribile epidemia di febbre gialla (che solo in quella città uccise oltre la metà degli abitanti), fu contagiato e ne uscì vivo, e una volta ormai immune si prodigò ad aiutare gli ammalati (tra i quali uno degli zii, che morì in poco tempo). Riuscì poi, forzando il blocco di quarantena steso attorno alla città, a fuggire su un veliero svedese e a tornare in Inghilterra.

Vi rimase per poco. Un anno dopo, a 22 anni, si imbarcava nuovamente, e questa volta per varcare l’oceano: la meta era la Guyana britannica, dove si recava in qualità di sovrintendente di una piantagione di cotone acquistata dal padre nei pressi di Georgetown. L’ambiente coloniale lo disgustò immediatamente, a partire dalla vita pigra e annoiata e dal lusso ostentato dei proprietari fino alla condizione miserabile degli schiavi. Evitò quindi accuratamente i circoli e i salotti cittadini, mentre cominciò a girovagare sia all’interno della colonia, sia tra le isole antillane, da Grenada a Barbados. L’unica amicizia vera la maturò con uno strano personaggio, per certi versi non molto dissimile da lui, Charles Edmonstone, uno scozzese che si era ritirato nel mezzo della giungla interna, sposando la figlia di un capo nativo ed evitando i rapporti con gli altri europei, ed era diventato una sorta di protettore e rappresentante degli indigeni. Waterton tornava comunque ad intervalli quasi regolari in Inghilterra, dove aveva un mentore in sir Joseph Banks, fondatore del giardino botanico di Londra ed ex compagno di esplorazioni del leggendario Cook. E proprio sotto lo stimolo di Banks intraprese a partire dal 1812 quattro successive spedizioni esplorative all’interno del continente.

Nel 1812 si inoltrò per quattro mesi nel cuore meridionale della Guiana, sconfinando anche in Brasile, viaggiando nella stagione delle piogge, in parte in canoa e in parte a piedi (anzi, a piedi nudi: questa era un’altra delle sue eccentricità, non sopportava le calzature), senza uno scopo ben definito, se non il constatare l’inesistenza del mitico lago dell’Eldorado: in realtà a muoverlo era il puro piacere di stare a contatto con la natura nel suo stato più primordiale.

Quattro anni dopo ripartì, ancora una volta col viatico di Banks, che gli affidò il compito di raccogliere il maggior numero possibile di semi “di ogni pianta notevole per bellezza o rarità”, da donarsi ai giardini reali di Kews. La spedizione in realtà non decollò mai, un po’ per la confusione e le velleità di Waterton (inizialmente voleva risalire addirittura tutto il Rio delle Amazzoni, proseguire sul Rio Negro e arrivare alle montagne di Cristallo), un po’ per una serie di inconvenienti che lo costrinsero a cambiare più volte i piani. Dopo aver zizzagato a lungo dal Brasile al Suriname e alla Caienna, alla fine si risolse ad accantonare il progetto e a compiere la sua ricerca vagabondando in solitaria per sei mesi tra le paludi e le montagne della Guiana britannica, raccogliendo soprattutto centinaia di esemplari di uccelli che trattava personalmente con un suo specialissimo metodo tassidermico.

Tra la seconda e la terza spedizione si inserì uno stravagante siparietto. Tornato in Europa, Waterton si recò nell’autunno del 1817 a Roma, per una udienza del papa Pio VII. Voleva offrirgli un quadro realistico di come era vissuta la religiosità dagli indigeni, in base alle osservazioni che aveva potuto fare durante la sua permanenza in colonia. Ma imbattutosi, appena arrivato in città, in un vecchio compagno del collegio gesuita, ricadde nello spirito adolescenziale e con il compare si arrampicò sin sulla punta del parafulmine della cupola di san Pietro, dove lasciò infissi un paio di guanti. La bravata non piacque affatto al pontefice, che intimò ai due di andare a rimuovere i guanti e di sparire velocemente dalla circolazione.

Il richiamo della foresta si faceva comunque risentire, e Waterton sarebbe partito già l’anno seguente se non fosse rimasto vittima durante il viaggio di ritorno dall’Italia di un grave incidente, dovuto come al solito ad una delle sue acrobazie, che lo mise a rischio di perdere la funzionalità di un ginocchio. Tornò ad una forma accettabile solo dopo due anni, nel 1820, e stavolta decise di organizzare la nuova spedizione con maggiore criterio. Aveva scelto come base l’azienda ormai in abbandono del suo amico Charles Edmonstone, che era rientrato in Europa. Di qui, con una ridottissima squadra (tre compagni) partiva per incursioni nell’interno, in cerca di esemplari di fauna da imbalsamare col suo particolare metodo. Si era munito di casse apposite per trasportarli poi in Europa, e le riempì tutte.

Proprio in questa occasione compì la prodezza che doveva renderlo popolare. Voleva imbalsamare un caimano, ma un esemplare che per dimensioni non avesse eguali in Europa, e per farlo aveva bisogno di catturare l’animale senza rovinare l’integrità della pelle, quindi di conservarlo vivo fino al ritorno presso la fazenda, dove aveva installato il suo laboratorio tassidermico. Riuscì ad organizzare la cattura, fra lo sbalordimento dei compagni, facendo uscite il caimano dall’acqua, avvicinandoglisi con estrema cautela, balzandogli all’improvviso sul dorso e abbrancandone le zampe anteriori per impedire loro di toccare terra e all’animale di tornare verso il fiume. Dopo una breve cavalcata da rodeo, con il caimano che si torceva da ogni parte e dava violenti colpi di coda, i suoi compagni riuscirono finalmente ad immobilizzare la bestia. Una cosa analoga fece di lì a poco con un boa constrictor lungo quasi cinque metri.

Questa volta rimase nella foresta undici mesi, vivendo alla maniera degli indigeni, ammalandosi e curandosi poi con i loro metodi, e facendo incetta di animali. Quando le casse non furono più in grado di accoglierne altri, si ritenne soddisfatto: “Avevo raccolto alcuni insetti rari, duecentotrenta uccelli, due testuggini di terra, cinque armadilli, due grandi serpenti, un bradipo, un formichiere gigante e un caimano”. Al ritorno però l’impatto con la civiltà e la burocrazia del vecchio continente fu disarmante. Ad accoglierlo non c’era più sir Joseph Banks, morto ormai da qualche anno, e i funzionari di dogana trattennero i suoi esemplari per un sacco di tempo, col rischio di far andare a male i frutti dei suoi sforzi, e gli chiesero anche il pagamento di un pesante dazio. Waterton ne fu particolarmente urtato, e risolse che avrebbe di lì innanzi limitato al massimo i rapporti con la “cricca hannoveriana” che governava il paese, concentrandosi invece nel fare di Walton Hall una sorta di zona franca.

Il quarto viaggio americano fu dunque di natura completamente diversa, a partire già dallo scenario. Questa volta, e siamo nel 1826, la meta fu la neonata repubblica statunitense. Il viaggio nell’America del nord non fu una spedizione esplorativa, ma una sorta di pellegrinaggio. A Waterton era capitata tra le mani una copia di American Ornitology, un’opera straordinaria del naturalista e pittore scozzese Alexander Wilson, che a quasi trent’anni si era trasferito in America con l’intento di censire e descrivere, soprattutto attraverso le immagini, tutti i volatili del continente. Wilson aveva attuato il suo proposito senza poter contare su alcuna sponsorizzazione, si era mantenuto praticando i mestieri più diversi, aveva camminato per migliaia e migliaia di chilometri lungo i fiumi e dentro le foreste dell’est americano. Waterton avvertì, dietro le descrizioni e i disegni, una immediata affinità, e decise di ripercorrere almeno in parte gli itinerari del pittore, morto ormai da più di dieci anni, per condividerne appieno anche le sensazioni. Appena giunto nel nuovo continente si mise quindi in contatto con coloro che erano stati intimi di Wilson, soprattutto con lo zoologo George Ord, che ne aveva completata e valorizzata l’opera. Tra i due si instaurò una strana amicizia, stante la differenza dei caratteri, che proprio perché coltivata poi solo a distanza sarebbe durata tutta la vita.

Waterton percorse parte del cammino fatto da Wilson, non mancò di lasciarsi andare a qualche stranezza, come quella di andare a curarsi una slogatura mettendo la gamba sotto il getto delle cascate del Niagara, (pare impossibile, ma sembra l’abbia fatto davvero), ma soprattutto rimase affascinato dal paese e dalla gente libera e schietta che lo abitava. È interessante in tal senso confrontare le sue impressioni con quelle di Tocqueville, che visitò le stesse zone sette anni dopo, e con quelle di Dickens, che lo fece quasi vent’anni dopo, traendone impressioni ben diverse. Per Waterton paradossalmente era l’immagine di una certa arretratezza a conferire fascino alle terre americane: “Mi sembra rappresentare ciò che deve essere stata l’Inghilterra cinquant’anni fa. Si sente parlare molto raramente di criminalità, e tutto il paese sembra unito e in pace con se stesso”. Anche se non mancava di rilevare che “in queste vaste regioni la natura sta perdendo rapidamente il suo antico aspetto e indossa vesti nuove. La maggior parte degli imponenti alberi da legname sono stati asportati: migliaia di alberi giacciono al suolo esanimi; mentre prati, campi di cereali, villaggi e pascoli sorgono di continuo davanti agli occhi del viaggiatore che percorre i tratti di bosco superstiti”.

Il momento negativo di questo viaggio fu invece costituito dall’incontro con John James Audubon, un altro pittore naturalista impegnato in un’opera simile a quella di Wilson e destinato ad oscurare la fama di quest’ultimo. I due non avevano in effetti, a parte l’interesse per gli uccelli – che si manifestava però in modo opposto: Audubon era un cacciatore quasi feroce – nulla che li accomunasse. Il francese era un uomo di spettacolo, che coltivava accuratamente la propria immagine di scorridore della frontiera: lunga chioma arricciata e ingrassata, abiti in pelle di lupo indossati anche nei ricevimenti eleganti, fucile in spalla o imbracciato in tutti i ritratti. Waterton non era certo il tipo da farsi impressionare da queste cose, ed era parecchio infastidito nel constatare come l’opera di Audubon stesse surclassando quella di Wilson nel gradimento del pubblico. Per questo motivo, negli articoli di scienze naturali che pubblicò in Inghilterra durante gli anni successivi si dedicò con sottile piacere a smontare pezzo per pezzo le osservazioni naturalistiche e i racconti avventurosi di Audubon, facendo intendere in pratica che erano quasi tutte panzane, o cose scopiazzate da altre fonti. Il che naturalmente gli attirò i fulmini degli ammiratori (e degli editori) del francese, che ribaltarono la faccenda: “Mentre il signor Audubon è esposto a pericoli o privazioni, e deve attendersi sostegno e ricompensa solo dal patrocinio del pubblico, il signor Waterton se ne sta tranquillamente insediato nella sua magnifica residenza nella campagna inglese, nel mezzo dei suoi possedimenti ancestrali”. (Magazine of natural History, 1833)

Nulla di più falso, intanto perché Waterton, quanto a pericoli e privazioni sofferti, non era certo secondo a nessuno, meno che mai ad Audubon, e poi perché il nostro se ne stava tutt’altro che tranquillamente insediato nei suoi possedimenti, a vivere di rendita. Nelle pause tra un viaggio e l’altro Waterton aveva infatti già cominciato a risistemare Walton Hall secondo un piano e in vista di un fine ben determinati. Aveva fatto costruire attorno al parco che circondava la magione un muro lungo oltre cinque chilometri e alto in alcuni punti quasi cinque metri, opera che mise a dura prova le sue finanze. Il muro doveva costituire una barriera contro i bracconieri e contro i grossi mammiferi predatori (volpi, tassi), per offrire rifugio ad ogni altra specie avicola o terrestre (comprese gazze, corvi, cornacchie, gheppi, allodole, puzzole e donnole, ed esclusi naturalmente i ratti grigi, a liquidare quali concorrevano in effetti tutte le altre specie). All’interno della recinzione erano bandite trappole e tagliole di ogni tipo, nessun animale poteva essere cacciato e anche gli alberi morti e caduti non dovevano essere rimossi. Per alcuni animali, ad esempio per i ricci, Waterton pagava addirittura una piccola taglia ai contadini che glieli portavano vivi. Versava loro anche una sorta di cauzione annua perché non sparassero agli stormi di oche che si fermavano in zona, soprattutto sulle rive del suo laghetto, durante le migrazioni. Le piante cadute diventavano base per la crescita selvaggia dell’edera o si trasformavano lentamente in fertilizzante, mentre nei tronchi cavi, spesso opportunamente chiusi con piccoli interventi in muratura, trovavano dimora le innumerevoli specie che animavano il suo piccolo e selvaggi paradiso terrestre.

In effetti, aveva creato il primo parco naturalistico al mondo, e continuò poi a difenderlo per tutta la vita. Stanti le devastazioni che la rivoluzione industriale stava producendo in tutta l’Inghilterra, e segnatamente in quella del nord-ovest, Walton Hall divenne una sorta di piccolissima oasi dove si conservava la natura di un tempo. Una battaglia legale contro un fabbricante di sapone che aveva piazzato i suoi impianti ai confini delle terre di Waterton e che con gli scarichi e le emissioni delle sue ciminiere inquinava aria, acque e terreni per un ampio raggio circostante, durò cinque anni, e si risolse con una vittoria più simbolica che reale per Waterton: il saponificio fu spostato più in là, ma venticinque anni dopo, e solo una decina dopo la scomparsa di Waterton, l’intera Walton Hall passò nelle mani del figlio di quel fabbricante, che si affrettò a consumare una postuma vendetta stravolgendo tutto il lavoro del naturalista.

Chi andava a visitare Walton Hall, come fece ad esempio lo stesso Charles Darwin dopo il ritorno dal viaggio con la Beagle (ma conosceva Waterton già da prima), non poteva non essere conquistato dal candore del proprietario e dalla giustezza del suo assunto, anche quando magari ne condivideva solo in parte il radicalismo e il modo di vivere. Tra i visitatori famosi ci fu probabilmente anche Dickens, che senz’altro conobbe Waterton personalmente: ma di questa visita non rimane testimonianza, perché la gran parte dell’epistolario di Waterton è andata perduta in un malaugurato incendio. D’altro canto lo “squire” non sembrava dare molta importanza alle differenze di estrazione o di fama dei visitatori: il parco era gratuitamente aperto a tutti, senza distinzioni, nobili, borghesi e popolani, operai e braccianti, e persino ai pazzi internati in un vicino manicomio. Il proprietario li accoglieva sempre conciato alla stessa maniera, nella sua “divisa da lavoro”, di solito a piedi scalzi, e li trascinava senza tanti convenevoli ad ammirare le meraviglie naturali, gli alberi secolari, gli aironi del lago, ecc… Si esibiva magari anche nei suoi numeri di arrampicata, per andare a prendere un nido, farlo ammirare e riportarlo al suo posto. I pazzi, probabilmente, si sentivano molto a proprio agio.

Poi li conduceva alla magione, dove già nell’ingresso e lungo le scale i visitatori erano accolti dai suoi capolavori di tassidermia, dai suoi inquietanti ibridi, nonché da una vera e propria galleria di quadri, disegni, oggetti e armi primitive, ed erano accompagnati dai suoi racconti e dalle sue spiegazioni. A fare gli onori di casa c’erano anche un pappagallo e un enorme gatto selvatico che Waterton si era portato appresso dalla Guinea, e che provvedeva a scongiurare la presenza degli odiati ratti grigi. Insomma, le visite a Walton Hall tutto dovevano essere, tranne che noiose.

Ma cosa trovavano i visitatori nel feudo di Waterton? Sin dall’ingresso avevano la sensazione di entrare in un altro mondo e in un’altra era. L’arco d’accesso era ridotto ad un rudere ed era interamente ricoperto dall’edera, un paio di torrette diroccate erano state trasformate in rifugi per gli storni o per i rapaci, ai lati del viale era tutta un’esplosione di vegetazione liberamente cresciuta, una sorta di giungla tenuta a bada solo con interventi minimi. La dimora di famiglia sorgeva su un’isoletta naturale, situata all’estremità di un lago di dieci e passa ettari di superficie, dalla forma molto allungata, che tagliava a metà la proprietà. L’isola era collegata alla sponda da un piccolo ponte di ghisa. Sulla terrazza antistante la facciata della casa era piazzato un grosso cannocchiale, che consentiva di esplorare tutta la superfice del lago e di ammirare la fauna avicola stanziale e quella di passaggio. Attorno al lago, che era al centro di una vallata ondulata, correva uno stretto sentiero, ma gli spostamenti erano molto più agevoli muovendosi sull’acqua con una piccola imbarcazione. Aggirandosi per la tenuta il visitatore coglieva immagini che parevano tratte dai paradisi terrestri dipinti da Jan Brueghel, fatti salvi le pecore e i leoni. Gli alberi secolari, le querce e gli olmi, coabitavano con i tassi e gli agrifogli piantati appositamente per favorire la nidificazione. Walton Hall era infatti un paradiso soprattutto per gli uccelli. A metà del secolo, nel suo pieno rigoglio, arrivò ad ospitare dai tre ai cinquemila volatili acquatici nella stagione estiva, e aveva colonie residenti di centinaia di aironi, di corvi, di cornacchie, di gheppi e di rapaci di ogni genere, tutti animali ai quali al di là del muro era data una caccia spietata. Ma c’erano anche i ricci, le donnole, le vipere (“le vipere sono numerosissime dentro le mura del parco, dove le attiro per proteggerle”), insomma, tutti i “nocivi” che altrove venivano sterminati.

Alcuni testimoni raccontano che Waterton si muoveva in mezzo a questo eden primordiale come Adamo prima della cacciata. Gli animali erano così abituati alla sua presenza discreta da accorrere a mangiare dalle sue mani, o da accompagnarlo nelle sue passeggiate. Mentre fuori l’aspetto del territorio stava diventando sempre più irriconoscibile, a Walton Hall il tempo sembrava essersi fermato, e anzi, essere tornato indietro.

Nel frattempo Waterton non si era chiuso al mondo. Non solo riceveva visitatori, ma lui stesso si muoveva frequentemente, magari evitando con cura i convegni e i congressi ufficiali, ma correndo ad esempio a esaminare ogni animale esotico nuovo che approdasse in Inghilterra, in genere come attrazione da fiera (e ne opzionava poi le salme da imbalsamare, sapendo benissimo che non sarebbero sopravvissuti a lungo), oppure studiando in loco le nidificazioni di cormorani e gabbiani nelle scogliere a picco sul mare dello Yorkshire, lungo le quali si calava e risaliva con la tecnica alpinistica della corda doppia.

Per un certo periodo partecipò inoltre con articoli e piccoli saggi, spesso violentemente polemici, al dibattito naturalistico, che già prima dello “scandalo” creato da Darwin era accesissimo (non ho notizia invece di come abbia accolto la teoria evoluzionistica. Da cattolico fervente senz’altro non ne fu entusiasta, ma propendo a credere che all’epoca quella battaglia fosse ormai lontana dai suoi interessi). I suoi interventi erano soprattutto volti a denunciare la distruzione progressiva della fauna e del paesaggio inglese, o a sfatare leggende e credenze sugli animali esotici o sui selvatici di casa. In coerenza con la sua posizione “fissista” si ostinò a negare in qualche caso (come in quello dei gorilla esibiti dall’esploratore Paul du Chaillu) l’esistenza di nuove specie, e arrivò ad architettare, come vedremo, vere e proprie burle per screditare i suoi colleghi naturalisti, finendo invece per minare la propria credibilità: ma rimaneva pur sempre l’uomo che aveva cavalcato un coccodrillo e che prendeva i serpenti per la coda. E su questo faceva sotto sotto leva, soprattutto quando prendeva di mira gli studiosi da tavolino, coloro che presumevano di poter descrivere il mondo senza averlo mai percorso. In questo c’era anche una punta di acredine nei confronti di chi, invece di produrre esperienze sul campo, faceva aggio su quei titoli accademici che a lui erano stati negati. “Gli errori del professor Rennie si possono spiegare solo col fatto che il professore, come tanti altri naturalisti di chiara fama, ha più pratica di manuali che pratica manuale. È da deplorare che non si sia abbastanza sporcato le mani, perché da un tale esercizio i suoi scritti ornitologici avrebbero tratto grande giovamento”.

In un campo poi non ammetteva rivali, quello dello studio dei veleni. Si era portato dall’Amazzonia una notevole quantità di curaro, e non ebbe difficoltà a distribuirlo a tutti gli studiosi che gliene facevano richiesta, a testarne personalmente gli effetti con esperimenti sugli animali e a ipotizzarne possibili usi terapeutici.

La sua militanza polemica si interruppe però a metà degli anni trenta, dopo una violenta diatriba che gli aveva procurato attacchi da ogni parte dell’establishment scientifico e accuse di essere un bugiardo. Per reazione, nello stesso periodo decise di aprire definitivamente il suo parco al pubblico, quasi a tradurre in gesti concreti quella divulgazione di conoscenza naturalistica che sulle riviste gli era contestata. In qualche modo fu un gesto molto elegante di disprezzo nei confronti dei suoi avversari.

A Waterton si poneva però un altro problema. Approdato ormai alla piena maturità non aveva ancora un erede. Quando decise di provvedere sposò, quarantasettenne, una ragazza di trent’anni più giovane, Anne, figlia del suo vecchio amico Charles Edmonstone, della quale era stato anche padrino di battesimo. e nelle cui vene scorreva sangue indiano e scozzese. Per quanto comprensibilmente un po’ intimidita dalla stranezza del personaggio e dalla differenza d’età, sembra che la giovane non abbia affatto sofferto il matrimonio come una costrizione o un sacrificio. Dopo in rientro in patria lei e le sorelle, tutte belle ragazze ma recanti palesemente nei tratti e nel colore della pelle l’impronta del meticciato, avevano vissuto un isolamento dettato dal pregiudizio razziale che le circondava. Walton Hall era in fondo un ambiente a metà strada tra quello in cui erano cresciute e quello col quale si trovavano ora, molto spaesate, a confrontarsi.

Un anno dopo le nozze Anne diede alla luce un figlio, Edmund, ma a poche settimane dal parto morì. Charles non seppe mai darsi pace. Quasi ad espiare una colpa, dopo la morte della moglie scelse di dormire sempre sul pavimento di una vecchia soffitta piena di spifferi, avvolto in un mantello e con un pezzo di legno per cuscino.

La paternità fu forse il più grosso infortunio della sua vita. Il figlio crebbe con le sorelle della madre, che Waterton aveva chiamato a vivere a Walton Hall, ed è presumibile che queste lo viziassero molto. Inoltre il rapporto con un padre del genere, che pure almeno durante la giovinezza gli fu sempre molto accanto, non poteva che essere complicato. Era difficile seguirne le orme, ma lo era altrettanto prenderne serenamente le distanze. Edmund non fece né l’una né l’altra cosa. Divenne una persona inconcludente, avida e perennemente indebitata, che inseguiva le onorificenze quanto il padre le aveva snobbate, e che non essendo in grado di imitarla si vergognava di quella figura così stravagante. Alla fine si ridusse come dicevo a vendere la proprietà, ormai onerata di debiti e di ipoteche, proprio a chi era stato il più caparbio nemico del padre, contravvenendo anche alle clausole testamentarie che quest’ultimo aveva disposto, proprio nella coscienza della debolezza del figlio, e che lasciavano eredi le due cognate (le quali, naturalmente, di fronte alle pretese del nipote cedettero).

L’inclinazione del figlio alla vita scioperata amareggiò molto l’ultima parte della vita di Waterton, ma non ne cambiò affatto le abitudini. Subito dopo la morte della moglie aveva intrapreso una serie di viaggi “turistici” in Europa, con le cognate e con Edmund al seguito, rimanendo spesso lontano da Walton Hall per periodi molto lunghi. Ne approfittò per ampliare le sue competenze naturalistiche e incontrare i suoi corrispondenti scientifici, per verificare i metodi di conservazione degli esemplari adottati nei musei di storia naturale o per battere i mercati degli uccelli, ma anche per rendere omaggio alle espressioni più superstiziose della sua fede, dal miracolo di san Gennaro alle processioni delle salme mummificate per le vie di Palermo. Sceglieva di preferenza le mete dei suoi soggiorni nei paesi cattolici, in Belgio, in Italia o in Austria, nei quali riusciva a trovare tutto entusiasmante, persino le abitudini meno nobili. Dalla metà degli anni quaranta iniziò però a fare vita molto più ritirata, per dedicarsi anima e corpo al suo parco.

Waterton era nel frattempo diventato, nell’immaginario popolare, una sorta di macchietta, una singolare sopravvivenza di un passato pre-industriale, cui si attribuivano le parole e i comportamenti più bizzarri e si concedeva una dubbia attendibilità. E Walton Hall si era trasformato quasi in una meta turistica, della quale il proprietario era una delle attrazioni.

Negli ultimissimi anni della sua esistenza ebbe però almeno una consolazione. Un giorno si recò a trovarlo, arrivando a piedi da Manchester, un sedicenne lavoratore che frequentava studi serali di scienze naturali, e che sarebbe poi diventato uno dei più famosi medici d’Inghilterra (fu anche il medico curante di Darwin). Il giovane si chiamava Norman Moore, e la sua passione per le conoscenze naturalistiche conquistò immediatamente Waterton. A sua volta il ragazzo fu affascinato dall’anziano ma arzillo signore, che lo associò immediatamente alle sue ronde attraverso il parco per visitare e riparare i vari rifugi degli animali o per verificare la presenza di uova nei nidi, oppure alle sue traversate in barca per vedere gli stormi degli uccelli migratori, e persino ai tentativi di imbalsamazione di vari animali, tra i quali un enorme gorilla. Le annotazioni di Moore, nella loro semplicità e innocenza, danno probabilmente l’immagine più vera dei modi e del carattere di Waterton. Quando lo conobbe rilevò che “è un vecchio di media statura. Ha i capelli bianchi, ma i suoi sensi sono più acuti di quelli di un uomo molto più giovane, e non è affatto curvo”. All’epoca Waterton aveva già superato gli ottant’anni. Durante le visite successive (furono otto, e in alcuni casi si prolungarono per diverse settimane) descrisse l’ambiente, la casa, il museo, il parco, ma soprattutto colse momenti come questi: “Siamo andati all’albero cavo presso il bordo dell’acqua. Stavamo per tirarne fuori degli stecchi quando sono volati via due bei gufi bianchi. […] più tardi dai rovi è uscita in volo un’oca canadese. Su un salice vicino al canale dei pesci abbiamo visto una coppia di cince dalla lunga coda. Abbiamo visto anche un picchio bianco e nero, al quale mi sono avvicinato […] abbiamo visto anche alcuni aironi, colombelle, corvi neri, gheppi e diversi altri uccelli” Oppure: “Stamane alle due io e il signor Waterton stavamo sulla scalinata. Scrutavamo in giro per vedere se fosse rimasto qualche uccello acquatico. La luna risplendeva sul ghiaccio, ma a parte l’oca canadese non vedemmo nulla di nulla”. E ancora: “Alle sei e un quarto sono salito alla stanza di Waterton, e l’ho trovato seduto accanto al fuoco che leggeva il Don Chisciotte. Mi ha mostrato un bel fungo a cui stava lavorando e un grosso rospo di Bahia che stava colorando”. Nei giorni di pioggia i due trascorrevano interi pomeriggi a parlare vicino al fuoco, nella grotta naturale in prossimità del lago, seminascosta dagli alberi di tasso, che Waterton aveva fatto adattare a ricovero e a luogo di svago per le comitive.

Le immagini di questo anziano signore e del ragazzo seduti nel cuore della notte sulla scalinata a guardare la luna riflettersi sul ghiaccio, o a parlare per ore accanto al fuoco di alberi, di uccelli e di avventure alla Guiana sono toccanti. È quanto Waterton aveva probabilmente sempre sperato di fare con il figlio, e quanto Moore aveva magari sognato di poter fare con il proprio padre, che invece non conobbe mai. E senza dubbio l’incontro con Waterton fu determinante per i futuri successi del giovane

Moore era a Walton Hall anche al momento della morte dell’anziano amico, e ce ne ha lasciata la cronaca. Durante una escursione Waterton cadde malamente su un ceppo d’albero, ma fu in grado di tornare a casa sulle sue gambe. Era tuttavia consapevole che questa volta non se la sarebbe cavata, come aveva fatto per tutta la vita, con un semplice salasso, e infatti morì la notte successiva, non prima di aver dato con molta calma istruzioni alle cognate e a tutta la servitù, e di aver salutato Norman Moore. Il quale scrisse: “Morì mentre i corvi cominciarono a gracchiare e le rondini a garrire. È morto come aveva sempre previsto: ritto a sedere e lucido fino alla fine”. Era uscito di scena allo modo in cui vi aveva vissuto: dignitosamente, e senza procurare problemi a nessuno.

Proprio la testimonianza fresca ed ingenua di Moore mi autorizza a tentare una sintetica rilettura della figura di Waterton, che ridimensioni un poco la patente di eccentricità della quale fu insignito e per la quale ancora oggi è conosciuto.

Leggendo la biografia della Blackburn, scritta con tutta la simpatia possibile, ma mantenendo una corretta attinenza ai fatti documentati, balza evidente che Waterton era fuori registro persino per gli standard inglesi, che quanto ad originalità sono già di per sé decisamente alti. E in tal senso definirlo bizzarro è persino riduttivo. Eppure questa bizzarria non disturba affatto il quadro. Voglio dire che Waterton riuscì a fare ciò che fece, e non mi riferisco alle sue imprese ma alla costruzione e alla difesa di Walton Hall, proprio in ragione della sua eccentricità. Tutto il resto è contorno. Non che facesse parte di una qualche messinscena: Waterton si comportava come gli sembrava e gli riusciva naturale, e semmai la sua differenza sta nel fatto che non conosceva o non accettava alcun limite dettato dalle convenzioni sociali. Si potrebbe parlare di una forma di infantilismo, anche se l’impressione è che in qualche misura ci marciasse consapevolmente. Era infantile in certi comportamenti e in certe reazioni, ma aveva anche capito che la sua fama ormai consolidata di bizzarro gli consentiva di fare cose che nessun altro nella sua posizione avrebbe osato fare, pena perdere ogni reputazione sociale. Waterton ad un certo punto non aveva nessuna reputazione da perdere: la fama del suo coraggio e della sua incoscienza lo avevano fatto comunque amare dal grande pubblico, e ci si aspettava da lui che fosse coerente. Cosa che non gli era difficile: non doveva interpretare un personaggio, ma solo essere se stesso.

È dunque pensabile che dietro le sue bravate, dalla scalata a san Pietro alle innumerevoli altre di cui la sua vita fu costellata, ci fosse anche una componente di esibizionismo. Ma nel caso di Waterton non credo si possa ridurre tutto ad una infantilistica ostentazione di sé. C’era invece, ad esempio, lo scotto dell’appartenenza ad una minoranza fortemente discriminata, ciò che obbliga ad essere sempre un po’ al di sopra delle righe, per cercare una rivalsa che riequilibri il rapporto: e c’era anche la volontà, legata alla stessa condizione, di cimentarsi costantemente con se stesso per darsi sicurezza. Queste pressioni ambientali e psicologiche, quando trovano la materia prima adatta, finiscono per forgiare caratteri forti e anticonformisti, a volte sin troppo, e non maschere di convenienza. Nel caso di Waterton lo dimostra il fatto che, secondo le testimonianze di coloro che gli furono più vicini, certi comportamenti non li riservava agli ospiti, con i quali anzi cercava di mantenersi il più “normale” possibile, ma li teneva soprattutto quando era libero di dare sfogo alla sua natura. Fino ad ottanta anni suonati continuò ad arrampicare sugli alberi più alti del suo parco per osservare la vita e la salute delle nidiate di uccelli che li affollavano.

Se alla luce di certi suoi exploit Waterton potrebbe sembrare un totale incosciente (in effetti lo era, e anche parecchio), si trattava però di una incoscienza senz’altro genuina, mai esibita per dare spettacolo o per crearsi un personaggio. Era convinto di ciò che faceva, e questo da un lato perché aveva una grossa consapevolezza delle sue risorse fisiche, dall’altro perché era fiducioso nel fatto che gli animali, persino i più feroci, non attaccano se non sono minacciati. Riteneva, evidentemente a ragione, visto che arrivò incolume alla tarda età, di poter stabilire con la natura un rapporto di perfetta parità, senza sentirsi né un dominatore né una vittima. Per questo camminava a piedi nudi nelle foreste, o cacciava il braccio in una cassa contenente una decina di serpenti a sonagli per trasferirli ad uno ad uno in un altro contenitore.

Una identica fiducia, a quanto pare, riusciva a trasmetterla anche ai suoi interlocutori non umani. Ecco come descrive l’incontro con un orango, avvenuto nel 1851, in una fiera inglese. La povera bestia era rinchiusa in una gabbia, e secondo il dottor Hobson, che per un lungo periodo fu un amico di Waterton (ma che dopo una violenta rottura ne scrisse una biografia piena di astio), era furibonda. Waterton evidentemente la vedeva invece tranquilla, tanto che si fece aprire la gabbia ed entrò. “Mentre mi avvicinavo all’orango questi mi venne incontro a mezza strada e ci accingemmo subito ad un esame delle rispettive persone. Ciò che mi colpì più vivamente fu la non comune morbidezza dell’interno delle sue mani. Quelle di una delicata signora non avrebbero potuto essere di una grana più fine. Egli si impossessò del mio polso e scorse con le dita le vene azzurrine che vi si trovavano; io per parte mia, mi ero perso nella contemplazione della sua enorme bocca prominente. Con la massima cortesia egli lasciò che gliela aprissi, cosicché potei esaminare a mio bell’agio le sue magnifiche file di denti. Poi ci mettemmo l’un l’altro una mano intorno al collo, restando per un po’ in questa posizione […] sarebbe tempo perso mettersi a riferire tutte le cerimonie che si svolsero tra di noi […] gli spettatori che ci attorniavano parevano estremamente divertiti alla solenne pantomima cui assistevano”.

Una scena simile si ripeté un’altra volta con un leopardo: Waterton entrò nella gabbia, e i due rimasero a studiarsi a lungo. Ad un certo punto l’animale si ritirò per distendersi nel suo angolo, con un grande sbadiglio. La stessa fiducia Waterton la concedeva persino alla specie da sempre considerata la nemica più subdola dell’uomo, quella dei rettili velenosi. “Il serpente labari è molto velenoso, ma io mi ci sono spesso avvicinato a meno di due metri senza timore. Ho avuto cura di muovermi con gran delicatezza e cautela, tenendo immobili le braccia, e lui ha sempre consentito che lo osserva a mio bell’agio, senza mostrare la minima intenzione di balzarmi addosso. Pareva che tenesse fissi gli occhi su di me con fare sospettoso, ma questo era tutto”. E a proposito della storia dei serpenti a sonagli, testimoniata dallo stesso dottor Hobson, che ne era stato coprotagonista, scriveva: «Consapevole del fatto che non c’era pericolo a patto che conservassi la mia presenza di spirito, infilai con la massima calma la mano nella cassa e misi con precisione due dita su un lato e su un altro del collo del rettile, in prossimità della testa. Con questo semplice procedimento trasferii tutti i serpenti dalle casse di legno alla mia cassa di vetro. Quei furbacchioni fecero tintinnare per tutto il tempo i loro sonagli, quasi per dirmi: “Non farci del male, o ci ribelleremo”». Va bene l’understatement tipico inglese, in questo caso davvero sottilmente ostentato, ma insomma, si sta parlando di serpenti a sonagli e di un gesto che ci riesce istintivamente repulsivo anche con quelli più innocui.

A questo punto potrebbe apparire contraddittoria la professione di amore per gli animali da parte di Waterton con la sua pratica della tassidermia. Dobbiamo però calarci nel contesto dell’epoca. Waterton si confrontava con una passione per la caccia, particolarmente diffusa in Inghilterra, che si traduceva in stragi insensate e stava portando all’estinzione sul suolo inglese di intere specie. Dietro questo furore distruttivo stava una sorta di rivendicazione sociale: la caccia era rimasta per secoli un privilegio distintivo della nobiltà, ed il suo esercizio era diventato recentemente uno dei simboli del nuovo status che gli acquirenti borghesi delle antiche proprietà nobiliari volevano esibire. Non solo: per i contadini e i piccoli proprietari costituiva una sorta di rivincita nei confronti di un sistema che a lungo aveva protetto la fauna, sia pure in funzione venatoria, a discapito dei raccolti e quasi in dispregio della povertà e della fame diffuse. Per questo motivo veniva praticata indiscriminatamente, a volte col pretesto di eliminare animali nocivi, ma più spesso per un malinteso spirito sportivo, o per puro sadismo revanscista. Nei diari e negli appunti di Waterton ricorrono costantemente le denunce di questa pratica, le annotazioni dei momenti in cui erano stati abbattuti gli ultimi esemplari di particolari specie. “Comitive di cacciatori da ogni angolo del regno visitano Flamborough (la località sulla costa dello Yorkshire nella quale andava ad osservare i nidi arrampicando sulla scogliera) e i dintorni nei mesi estivi, spargendo attorno a se una cupa devastazione. La carneficina non ha nessun utile, gli sventurati uccelli servono semplicemente da bersaglio e vengono in genere abbandonati sul luogo in cui cadono”. Oppure: “Nel 1813 ho visto per l’ultima volta una poiana. Nella primavera di quell’anno se ne andò per non fare più ritorno e, pressappoco nella stessa epoca, il nostro ultimo corvo imperiale fu abbattuto nel suo nido da un mio vicino”. È comprensibile che si fidasse molto più degli animali che degli uomini. Ma, da par suo, non si limitava a deplorare. Intraprese nel suo piccolo anche delle campagne di stampa, che raccolsero consensi e sfociarono più tardi in una parziale modifica delle leggi inglesi sulla caccia.

E la tassidermia? Anche questa va considerata in rapporto all’epoca. L’unico modo per far “toccare con mano” agli europei la fauna esotica, per consentire al grande pubblico di conoscerne le reali fattezze e dimensioni e i colori, al di là delle descrizioni fantasiose dei viaggiatori e delle raffigurazioni in genere molto stilizzate, miranti all’effetto artistico piuttosto che a quello realistico, prodotte dai pittori-naturalisti, era l’esibizione di esemplari imbalsamati o impagliati. Waterton normalmente, in patria, esercitava la sua perizia su animali trovati già morti nel suo parco o sulle salme delle povere bastie importate per essere esibite nelle fiere e negli spettacoli, che avevano una vita molto breve. Così racconta l’ultimo incontro con una femmina di gorilla tenuta segregata in una squallida topaia: «“Addio, povera piccola prigioniera, – le dissi – ho paura che questa nostra fredda e cupa atmosfera abbrevierà i tuoi giorni”. Jenny scosse la testa come per dire: “Non c’è nulla qui che sia fatto per me: la stanza è piccola e surriscaldata; gli abiti che mi costringono a indossare sono del tutto insopportabili, mentre il cibo che mi danno non è quello di cui ero solita cibarmi quando ero sana e libera nelle mie foreste natie”». Il fatto poi che il corpo della povera Jenny lo abbia personalmente imbalsamato non toglie credibilità alla sua sincera compassione e indignazione: rientrava nel ruolo del quale si era investito, quello del naturalista.

Anche nella storia delle “burle” si possono cogliere le particolari e apparentemente ambigue sfumature dell’infantilismo di Waterton. La vicenda ebbe un ruolo importante nella sua vita e va ricordata. Durante il viaggio di ritorno dalla quarta spedizione americana Waterton aveva fatto una capatina nelle regioni meridionali da lui in precedenza esplorate, e ne era ripartito portandosi dietro alcuni esemplari di scimmie urlatrici già trattati col suo metodo tassidermico. Uno degli esemplari era però il frutto di una ingegnosa manipolazione, attraverso la quale con i quarti posteriori di una scimmia erano stati creati il volto e il busto di un essere a metà strada tra l’uomo e gli altri primati. Una sorta di “anello mancante”. Aveva mostrato il risultato già a Georgetown, suscitando l’ilarità dell’intera colonia e mantenendo la cosa nei confini dello scherzo. Ma al ritorno in Inghilterra fu tentato di strafare, e presentò il suo mostro accompagnandolo con una descrizione avventurosa delle modalità della scoperta e con una breve descrizione “scientifica”. L’errore fu quello di inserire questo scherzo in coda al volume dei Wanderings in South America, nel quale aveva raccolto i suoi diari delle esplorazioni, col risultato di far dubitare della veridicità di tutto il resto, che già in alcuni punti rasentava l’incredibile. L’opera stessa andava per molti aspetti contro i canoni della letteratura naturalistica corrente, e di questo Waterton era ben consapevole, ed anzi, ne rivendicava l’originalità: “Il mio unico obiettivo era di esortare il lettore a recarsi ad esplorare quelle remote regioni. Avrei potuto fornire il nome scientifico e quello indiano di tutti gli uccelli e gli altri animali, ma me ne sono guardato accuratamente. Ho dato al mondo un resoconto scientifico originale, buttato giù a matita sera dopo sera, non deturpato da caricature né mistificato da chiose da naturalista di laboratorio”. Il pubblico apprezzò, i suoi colleghi naturalisti molto meno.

Le motivazioni ad una trovata del genere erano diverse. C’era senz’altro da un lato, come molla occasionale, il desiderio di giocare uno scherzo al “consesso dei primari naturalisti del momento”, e di ridicolizzali (in tal senso si inseriva in una tradizione che aveva precedenti illustri, non ultimo quello del fantomatico verme di Spallanzani, e che sarebbe proseguita con falsi clamorosi come quello dell’uomo di Piltdown). Questo perché in fondo Waterton si considerò per tutta la vita, a dispetto della mancanza di titoli e di riconoscimenti accademici, uno scienziato, depositario di conoscenze molto concrete, maturate sul campo: e gli pesava senz’altro, al di là delle sue professioni di indifferenza, di essere escluso da quel “consesso”, o quanto meno che le sue conoscenze non fossero tenute nella dovuta considerazione. A modo suo in effetti uno scienziato lo era, e diede contributi non indifferenti al sapere naturalistico: ma gli mancò quella scoperta, quel guizzo che avrebbe potuto giustificare senza riserve questa sua ambizione, anche perché ostacolato da una profonda ortodossia religiosa, che lo portava a guardare con sospetto ad ogni novità e a non tirare le fila di indizi che magari aveva intuito, ma che spingevano verso direzioni pericolose.

Dall’altro lato c’era la volontà di dimostrare la sua eccezionale bravura come tassidermista (su questo non aveva dubbi: si considerava il miglior tassidermista del mondo, e si arrabbiava moltissimo se qualcuno definiva i suoi esemplari “animali impagliati”), ma anche un gusto particolare, e un po’ macabro, per le figure bizzarre; l’Inclassificato – così aveva nominato la sua creazione più famosa – non fu infatti l’unico esemplare da lui trattato in quel modo.

Io credo tuttavia che alla fine a prevalere, a fargli compiere il passo sbagliato che avrebbe compromesso per sempre la sua credibilità, sia stata la voglia pura e semplice di divertirsi. Qualsiasi calcolo d’altro tipo avrebbe dovuto indurlo infatti a lasciar perdere. Ma forse non era altrettanto bravo nel prevedere le reazioni umane che nel sentire gli umori degli animali.

Tutto sommato, rimango convinto che la vicenda delle burle abbia impresso una svolta positiva alla sua vita. Intuendo che il suo maldestro sberleffo alla comunità scientifica non gli sarebbe stato mai perdonato, Waterton si concentrò su quello che gli piaceva davvero e in cui riusciva meglio, la cura del suo parco. Il che gli consentì di vivere il resto della sua esistenza scalzo, trascurato nel vestire, monastico negli orari e incredibilmente frugale nell’alimentazione, ma soprattutto sincero, e libero di scegliere i suoi interlocutori e di organizzare in perfetta autonomia le proprie giornate. Ciò che, a pensarci bene, non è poco.

Aggiungo, infine, un paio di notazioni molto personali. La prima concerne il suo aspetto. Anche i capelli a spazzola, così come l’abbigliamento trasandato e assolutamente fuori moda, non rappresentavano una ricerca di originalità a tutti i costi, ma rispondevano ad un bisogno di praticità. Le parrucche erano ormai desuete, tranne che nelle conventicole aristocratiche più reazionarie, e le nuove acconciature maschili mal si addicevano a un uomo che amava muoversi in ambienti pieni di insetti e di parassiti di vario genere. Nella camera-soffitta in cui Waterton dormì per più di trent’anni non c’erano specchi: l’unico suo autocompiacimento fisico riguardava la propria straordinaria agilità e la incredibile resistenza fisica. Non voleva piacere agli altri, ma aveva rispetto per se stesso.

Un’altra notazione riguarda il culto di Don Chisciotte, che Moore testimonia essere rimasto vivo sino alla fine. Essendo stato io stesso fin dalla giovinezza un cultore del cavaliere dalla trista figura, non ho potuto che salutare una ulteriore consonanza. Credo che l’amore per l’eroe di Cervantes, intendo l’amore di pelle e di sangue, non quello puramente letterario, la dica lunga su una particolare disposizione nei confronti della vita e sul senso che si vorrebbe darle. Caratterizza una particolare tipologia umana, e Waterton di quella tipologia incarna senz’altro uno degli esemplari più significativi.

Infine, l’unica cosa che nella vita di Waterton non ho trovato è un incontro, o almeno una qualche corrispondenza, con Alexander von Humboldt. Sembra quasi impossibile che i due non si siano mai incrociati. Erano contemporanei, hanno esplorato la stessa area sudamericana pressappoco negli stessi anni, hanno sperimentato gli stessi veleni, hanno continuato entrambi per tutta la vita a vestire contro ogni canone, erano famosi entrambi. Mi aspettavo di trovare qualche menzione l’uno dell’altro, magari anche in negativo. Invece nulla. Non mi resta che sperare nella pubblicazione dell’epistolario completo di Humboldt, annunciata da un pezzo in Germania. Pare che occupi una ventina di volumi, quindi avrò da divertirmi per quel che mi resta da vivere.

Non sarà certamente come cintare Walton Hall, ma la possibilità di chiudere un cerchio entro il quale mi sto aggirando da anni è già un buon motivo per tirare avanti.

Chi volesse leggersi in lingua originale (in italiano non sono mai state tradotte) le opere di Waterton può trovare:
Charles Waterton – Wanderings in South America – CreateSpace Independent Publishing Platform 2015 London
Charles Waterton – Essays on Natural History – Forgotten Books 2012

Per le opere su di lui, naturalmente, e unica, la biografia scritta da:
Julia Blackburn – Cavalcare il coccodrillo – Bollati Boringhieri 1993

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